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Autore: EsterElle    02/12/2014    3 recensioni
Esiste a Celles, in Belgio, un luogo abbandonato e bello, misterioso; ogni crepa è una storia, ogni vetro rotto un racconto sussurrato all'orecchio. Le persone si incontrano, sia odiano, si amano a Château Miranda ; tre vite si intrecciano, tre voci ci racconteranno la loro storia. Basta solo sedersi, trovare un posto comodo, in poltrona, magari; tre storie ci porteranno in un mondo che non esiste più. Un mondo in rovina.
(Prima classificata al contest "Left behind: storie di ruggine e abbandono" indetto da Ino;Chan e Tsunade sul forum di Efp)
Genere: Malinconico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Notte fonda
 



 
15 gennaio 1944
Alba
 
La notte bussa alla finestra: è troppo presto, non dovrei essere sveglia.
Il russare ritmico alle mie spalle culla questi attimi di dormiveglia, di inquietudine. Mi volto e nascondo il viso nel cuscino, tra la federa usurata e le lenzuola vecchie di anni.
C’è tanta pace nelle ore che precedono l’alba e questo mi piace. Non importa se il tenente Serge continua a venire qui, nella mia stanza, non importa che è inverno e le mie scarpe sono bucate, non importa nulla.
Nulla di nulla.
Ho quasi voglia di canticchiare il motivetto, quella nenia che la mamma mormorava a bocca chiusa quando cuciva in veranda.
Ci provo.
Non ci riesco.
Pazienza.
Basta, non posso restare un minuto ancora accanto a quest’uomo.
Mi alzo, mi vesto, infilo pure i suoi calzettoni, per proteggere i miei piedi dal freddo pavimento di pietra; cerco a tentoni lo scialle e lo  trovo per terra, abbandonato in un angolo. È pieno di polvere, che sale su per il naso mentre me lo getto sulle spalle.
Mi siedo al tavolino di toeletta, proprio davanti allo specchio, e guardo dritto davanti a me senza paura. Il riflesso è opaco, pallido per il freddo, buio; non posso accendere la candela. Pettino alla buona i capelli, che so essere colore del grano, li fisso alla nuca col pettinino di mia madre, oro e zaffiri; so che manca una pietra. Passo le dita gelate sugli zigomi, sempre più sporgenti, sulle guance, sempre più incavate, sotto gli occhi, cerchiati; quando arriverà il giorno in cui mi vedranno brutta?
Scendere per la grande, bella, scalinata fino al piano terra non è difficile, Estelle ha già acceso i lumi. Quando passo davanti alla porta del comandante sento un mormorio sommesso; il lavoro comincia di primo mattino, a Château Miranda.
La cucina brulica di movimento, profuma di caldo, sa di famiglia.
Estelle è piegata sul pianale di legno mentre lavora il pane, con la coda dell’occhio controlla il fuoco e il forno; Tomas si sfila gli stivali, sporchi di terra e brina, un sacco vuoto ai suoi piedi; Cyrill ammassa un mucchio di chiodi, un martello vecchio, sul lungo tavolo.
La notte bussa alle finestre; è ora di mettersi all’opera.
“Buongiorno, ma petite! Ti trovo bene, stamattina” sorride dolcissima Estelle quando alza gli occhi e mi vede.
“Mathilde, cara bambina, siediti qui” mi offre la sedia Tomas, vecchio sdentato dal cuore d’oro.
Sorrido a tutti, stretta nel mio scialle di lana.
“Sono esausto” commenta Cyrill, cadendo sullo sgabello accanto a me. “Non sono ancora le sei e il capitano mi ha mandato a chiamare già tre volte” continua, spostando con entrambe le mani la sua rigida gamba di legno.
Ricordo di guerra.
“Parli tu, parli! Non sono ancora le sei, mio bel giovincello? Sono due ore che mi affanno in cucina tutta sola. E mai che nessuno pensa ad un aiuto per me!”
“Finiscila Estelle”.
“Qualcuno dovrà ascoltarmi un giorno o l’altro. Eh si, mi farò sentire; è mai possibile che una donna sola debba pensare ai pasti di una truppa intera? Mi sentirà eccome, il capitano!”
“Il capitano ti manderà per strada a calci in culo”
“Cyrill! Ricorda che ci sono delle signore in questa stanza!”
“Sta di fatto che al capitano, delle beghe di noi domestici, non importa un fico secco”.
La zuppa ha un sapore strano, amaro; le voci care della mia famiglia mi piacciono, ma l’odore della cena del giorno prima ancora aleggia nella stanza. Disgustoso.
Non mangiavo mai in cucina prima della guerra, ricordo.
Il cucchiaio tintinna sulle pareti della scodella, ma nessuno fa caso a me. Estelle sbatte davanti a Cyrill la colazione, piuttosto indignata; lui mi fa l’occhiolino.
Abbiamo quasi la stessa età, io e lui; quando papà l’ha raccolto da quella bettola in città, non avevo idea di quanto la vita si sarebbe presa gioco di noi. Eravamo bambini, giocavamo insieme, c’era anche Charles. Poi la guerra è arrivata, papà è andato via, la mamma anche, persino il mio fratellino. Mentre Cyrill, lui è tornato, dopo pochi mesi; con una gamba in meno e gli incubi di notte.
Ed io?
Nessuno è ancora arrivato a portarmi via da questa bettola.
“Ma, dico io, perché non posso andare in città e scegliere una brava ragazza da portare con me, una brava sguattera, una donna per bene?”
“La signorina Mathilde è la migliore che conosciamo, la signorina meglio educata, più gentile di tutto il Belgio”
“Smettile di farle quei sorrisi languidi, Tomas, vecchio rimbambito! Lei ha già le sue gatte da pelare, e grazie tante”.
“Povera cara, chi ha mai parlato di lei? No, bambina, non preoccuparti, non ho intenzione di inzaccherare le tue belle mani con la fuliggine dei caminetti”.
Sorrido.
La mia ancora di salvezza, la mia nuova famiglia.
“Una bella giovane robusta, forte, ecco quello che ci vuole. Magari anche due; sarebbe un sogno!”.
“E poi sarei io il rimbambito. Ma quanto sei sciocca, donna?”
“Io sono vecchia, signori. Vecchia! Ho bisogno di aiuto”.
Finalmente anche Estelle è seduta al tavolo, una mano sulla schiena curva, dolorante, la cuffia di sghimbescio. Lei c’è da sempre, a quanto ricordo; quando la mamma e il papà sono stati cacciati, e Charles con loro, mi è sembrato naturale che lei rimanesse con me.
Siamo rimasti solo noi, della vecchia vita.
“Su, mia cara, fa presto; sai che il capitano vuole che sia tu a portargli la colazione”.
“E non solo quella”
Cyrill è cupo, scuro in volto, ma non oserà alzare un dito, sono sicura; sa che questi sono affari che riguardano solo me.
“Tomas, ti prego, tappa la bocca di quel ragazzaccio con un paio dei suoi chiodi, una volta per tutte”.
Mi viene da ridere mentre guardo Cyrill ingozzarsi di zuppa, un cucchiaio dopo l’altro.
Pilucco un po’ del pane, qualche chicco della melagrana che Estelle ha preparato per me; un sapore acido, forte, mi chiude lo stomaco.
Con gran stridore di legno e pietra, mi alzo in piedi, di scatto; il chiacchiericcio vago termina subito e tutti gli sguardi si puntano su me. Lo scialle mi scivola dalle spalle mentre corro via, lo sento, ma non posso fermarmi. Spalanco la porta sul retro e l’alba rossa di quella mattina d’inverno mi accoglie; tra la terra smossa dell’orto, dico addio alla colazione, vomitando tutto quello che ero riuscita a mangiare.
Accucciata sulla terra dura, nera, le mani sulla testa e sul collo, provo solo schifo.
Schifo e vergogna.
Bruciante, pungente vergogna.
Un respiro affannato dietro di me: “Mathilde, tesoro, cosa succede?”
Non posso voltarmi, non posso guardarla negli occhi, non ora.
Dove troverò il coraggio per sconvolgere ed accettare di nuovo la mia vita?
“Tieni, bambina, indossa il tuo scialle”.
Come una ruvida carezza, sento un peso sulle spalle ed una mano gentile che mi carezza i capelli.
So che i miei occhi sono lucidi di lacrime quando li punto sul volto rugoso e preoccupato di Estelle. Vorrei saper trovare le parole, sono mesi che ci provo. Quando non riesco, lascio che parlino gli occhi, ingannatori.
Ed allora, Estelle cerca le mie mani, mi aiuta, mi solleva in piedi, si stringe a me.
“Tesoro, mi dispiace così tanto” inizia a mormorare, il suo respiro caldo sul mio collo.
“Mi dispiace infinitamente, mia cara. Sono stata una stupida, e sono stati stupidi tutti quei discordi, a colazione. Come se non sapessi cosa ti succede tutte le notti, ogni singolo giorno; come se non sapessi perché non ti hanno lasciata andar via con la tua famiglia, col signor conte”.
Adesso posso sentire le sue lacrime sulla mia pelle, mentre stringo più forte a me questa donna piccola, fortissima.
“Nessun’altra ragazza verrà qui, te lo giuro. A nessun’altra povera sventurata accadrà ciò che non abbiamo potuto evitare per te”.
E, ancora rossa in volto, mi accarezza il viso, lo sguardo di una madre negli occhi.
Quanto vorrei che avesse indovinato i miei pensieri, le mie preoccupazioni; vorrei i dolori semplici per cui Estelle mi compatisce.
“Scusaci”
Annuisco.
“Vuoi stare un po’ sola?”
Annuisco ancora.
“Va bene, allora. Copriti bene e torna tra mezz’ora, in tempo per la colazione del capitano”
Mi chino un poco, un momento, giusto il tempo di stamparle un frettoloso bacio sulla guancia. Il suo sorriso è davvero bello quando è diretto a me.
I pensieri cupi, la fredda disperazione, mi seguono mentre mi allontano dalle mura del castello. La natura si sveglia pian piano in quest’alba rossa e viola, la ghiaia ghiacciata dalla notte scricchiola sotto le mie scarpe bucate, la brina ricopre l’erba e gli alberi spogli. Scelgo la mia panchina preferita per godere di questo momento tranquillo e mi siedo, raccogliendo le gambe, cercando di catturare tutto il calore che posso.
La testa pesa, e un sapore disgustoso mi infesta la bocca; chiudo gli occhi e scelgo un gioco solo per me.“Facciamo che”.
Facciamo che è primavera, e le rose e i tigli in fiore spargono il loro profumo dappertutto.
Facciamo che indosso il vestito verde, quello che papà mi ha appena portato da Parigi.
Facciamo che Charles è seduto qui, vicino a me, e gioca con la sua fionda.
Facciamo che sorrido.
Facciamo che sono sola.
Facciamo che ho diciassette anni per davvero, non solo per finta.
Facciamo che non ho fame.
Facciamo che non sono sporca, dentro e fuori.
Facciamo che la mamma sta camminando verso di me.
Facciamo che posso sentire il suo lieve odore di verbena.
Facciamo che la vita è bella.
“Signorina, non può stare qui”.
Un soldato, intabarrato fino al naso, ha appena poggiato la sua mano sulla mia spalla.
Signorina, che pessima scelta di parole!
Mi limito a guardare le mie vecchie scarpe, desiderando ardentemente che se ne vada, che sparisca lui, che ha interrotto il mio sogno, che spariscano i suoi compagni, il suo comandante.
“Signorina avete sentito?”
La sua voce è attutita dalle numerose sciarpe, il suo viso coperto dal pelo del pastrano; i soldati di ronda intorno al castello sono tutti uguali, tante marionette mosse da fili invisibili.
Me ne ero dimenticata, qui seduta, persa tra le mie fantasticherie.
Se ne andrà, prima o poi.
“Prenderete un raffreddore, il vento soffia forte da questo lato della casa”.
Insulsa preoccupazione da aguzzino, menzogna gratuita, ipocrisia.
“Capisco, non vi interessa” continua, la voce dimessa.
Mi volto a guardarlo, sorpresa; mette l’arma a tracollo e si guarda intorno.
“Se permettete, vorrei sedermi un momento accanto a voi” dice, senza abbandonare l’aria guardinga.
Se permetto?
Lo guardo meglio, cercando di ricordare il suo volto, per quel poco che riesco a vedere. No, non è uno degli abituali, no. Non è tra quelli violenti, nemmeno. E neanche tra gli assidui frequentatori della mia stanza, come il tenente Serge; odio chi invade il mio spazio personale.
Quindi, chi sei?
So bene che lo sto fissando da troppi secondi, vedo il suo disagio ma non me ne curo.
Si schiarisce la gola e poi: “Se ve lo state chiedendo, siamo stati insieme una volta, tre mesi fa, nel mio dormitorio”.
È un sorriso assurdamente sarcastico quello che sento sulle mie labbra? Ma da dove viene quest’uomo, questo soldato che mi legge nel pensiero?
Sarà rossore di vergogna quello che vedo dipingersi sulle sue gote?
Assurdo.
Non ho memorie nitide dei miei giorni a Château Miranda dopo che la mia famiglia ne è stata allontanata; che senso avrebbe conservare il ricordo della violenza che ormai fa parte di me? Come pretende, quest’uomo, che io mi ricordi di lui? Lui, poi altri due, cinque minuti di pausa, ed ecco il terzo; uno scenario abituale, l’unico possibile.
Annuisco.
“Posso sedermi, signora?” ripete, per l’ennesima volta, sgranando leggermente occhi di un verde lievissimo.
Ma perché?
È vero, non capisco, ma so che, in un modo o nell’altro, otterrà ciò che desidera. Non ho nulla da perdere, nulla da guadagnare.
Annuisco.
Sembra impaurito, timoroso, mentre lancia un’ultima occhiata in giro; infine si siede, distante da me. Stringo forte le frange del mio scialle tra le dita e domino le emozioni sul mio volto.
“Sono giorni che vorrei parlare con voi ma, prima di oggi, non sono mai riuscito a trovare il coraggio necessario” inizia.
È visibilmente agitato, me ne accorgo subito.
L’apatia sale veloce, cresce nella mia mente insieme al silenzio; non tutti i soldati sono rudi e sfacciati e, anzi, i timidi e gentili spesso si rivelano le bestie del peggior tipo.
Che fine ha fatto mai, il mio sentire della tenerezza?
“Si, ecco, poco fa vi ho vista, quando siete scappata fuori dalla cucina. Ero di ronda, lo sapete, e non ho potuto fare a meno di fermarmi ad osservare”.
Quest’uomo mi disorienta.
“E vi ho vista anche ieri pomeriggio, nel bagno del comandante. Ero lì per recapitare una lettera e voi avevate lasciato la porta aperta. Vi ho osservata, in queste ultime settimane, e credo di aver capito cosa vi affligge”.
Oltre alla vita che la guerra mi ha imposto? Davvero lo sai?
Non solleva lo sguardo dalle sue mani, ma ha liberato il volto dalle sciarpe e dal bavero del pastrano; vedo le due guancie rosse, ben rasate, la mascella squadrata, i grandi occhi chiari.
È giovane, poco più vecchio di me.
Si schiarisce la voce ancora una volta: “Volete che continui?”
Mi piace fingermi una statua di marmo quando la gente mi mette alle strette. Possono avere tutto di me, non è un segreto; i pensieri, però, le emozioni, quelle lasciatele a me.
Gli occhi del giovane diventano tristi a guardarmi.
“Ebbene, io penso che voi… ecco, non so come dire. Non sono cose da uomini, io… Mia madre era levatrice, sapete? Molte donne chiedevano il suo aiuto, a casa nostra. Si, non vi interessa, capisco. Ma era per farvi capire che… che so che aspettate un bambino” riuscì a balbettare, evitando scrupolosamente il mio sguardo.
Io non distolgo lo sguardo; lui, lentamente, trova il coraggio per voltarsi verso di me, di incrociare i miei occhi scuri e leggere la mia accusa muta.
Annuisco e non so perché.
È la prima volta che la sento pronunciare, questa parola: bambino.
La mia mente è vuota, un foglio bianco, e l’affanno cresce nel mio petto, quasi a volermi soffocare. Perché ne ha voluto parlare, perché non si è voltato dall’altra parte, perché è venuto da me?
Perché mi ha impedito di continuare a fare finta di niente?
Tutto l’amore del mondo, pur di essere lasciata in pace.
Si torce le mani, lui, e rimane al suo posto.
Troppi pensieri si affollano dietro la linea della fronte, non mi sento lucida, non mi sento bene.
Che dirà, ora?
Si morde un labbro, rosso per il freddo: “Non mi sono mai presentato, vogliate scusarmi; sono stato rude, e insensibile, come tutti gli altri. Sono uomini onesti, ve lo giuro; lavoratori come me. Ma siamo stati tanto spietati con voi da non essere degni del nome di uomini, ora lo so. Non è questo che mi è stato insegnato, sapete? Non è così che io voglio vivere la mia vita. Voglio avere cura degli altri, non approfittarmene; voglio ricevere amore, non rubarlo; voglio portare la pace, senza pretenderla da nessuno. Non riesco a togliermi dalla testa ciò che vi ho fatto, il pensiero della vostra creatura mi tormenta; questa guerra ha portato troppo dolore per continuare a tenere gli occhi chiusi. Se le parole potessero aiutarmi, ecco, io non so trovarne di adatte. Sappiate solo che Julian Böhm da questo momento in poi è al vostro servizio”.
“Voglio aiutarvi, lo giuro. Lo voglio con tutto me stesso”.
Quante parole! Troppe parole!
Un fiume che non capisco, che non voglio sentire. Mi alzerei, lo prenderei a schiaffi, gli caverei quegli occhi sorprendentemente verdi dalle orbite.
Vede in me la sua redenzione?
Vorrei saper ridere dell’ironia della vita, vorrei che la mia educazione mi permettesse di mandarlo all’inferno in gran stile.
Ma resto una signora, fino in fondo; mi alzo di scatto, furiosa, senza alcuna intenzione di addolcire le pene, di alleviare i tormenti di chi ha riservato solo scherno e dolore per me.
E grazie tante!
“Pensateci, vi prego. Io posso trovare una vita migliore per voi e il vostro bambino”.
Non lo degno di uno sguardo e proseguo per la mia via, le spalle dritte, la testa eretta, fiera.
“Vi aspetto, Mathilde”, l’ultimo sussurro.
 
 
 
 
Maggio 1944
Sole alto
 
Malvarosa
Credo sia il suo fiore preferito.
Oppure il colore di un abito che aveva quando abitava qui. O, chissà, potrebbe simboleggiare una speranza, un futuro, una prospettiva. Sta di fatto che ha detto proprio “malvarosa”. Con quella sua voce incantevole.
Eravamo sulla panca nascosta sotto il salice, ieri notte. Le stavo raccontando della mia casa, in Boemia, e lei mi ha interrotto, sfiorandomi una mano. Ha detto solo: “Malvarosa”.
Vorrei cantasse, vorrei urlasse, vorrei mi parlasse: vorrei fosse felice, vorrei portarla via. E invece mi accontento di una parola al giorno, rubata al suo silenzio, rubata al suo mutismo. Io ricordo di quando urlava e piangeva e supplicava. E forse era meglio allora; chissà cosa c’è sotto questa improvvisa assenza, questo muro edificato in una notte, questo silenzio.
Pian piano imparerò a scalfirlo, lo giuro.
 
Camminare
 
Mamma,
ha detto, sfilandosi dai capelli un pettinino di zaffiri. Ora lo stringo io, tra le mie mani macchiate di sangue, sporche di colpe, e non mi sembra giusto. Lei dorme, piccola cara, ed io non trovo la forza di andare via. Vorrei carezzarle i capelli, una guancia, ma non oso.
Forse è per il suo bimbo, questo dono. Questo gioiello, questo tesoro sbiadito. Forse la mamma è lei, che sta per diventarlo, così giovane, così triste. Mamma di chi? Di un piccolo tedesco con troppi padri, nato dalla violenza e destinato a morire qui, nel castello di suo nonno, perché d’intralcio alla guerra. Forse figlio mio, o di Hans, di Ezra, di Merten. Del comandante.
Di certo, figlio suo.
 
Ciliegie
 
Polvere
 
Grazie
Non lo merito. Non doveva sprecare la sua unica parola, far cantare la sua bella voce così. 
Sono stato talmente ipocrita!
Boris Serge era mio amico. Questa notte voleva lei, così com’è, bella e morbida, col bambino di tutti che le cresce dentro contro la sua volontà. E io non l’ho permesso.
Chi sono, per giudicare gli altri, quando per primo ho approfittato di lei senza un perché, senza pietà? Non merito nulla, se non disprezzo, da questa piccola, incredibile donna.
Ma non potevo permetterlo. Non più.
 
Sorriso
Non so come dirlo. Giuro, non so come esprimere la gioia che sento. Oggi, Mathilde mi ha sorriso. Sorriso. La cosa buffa è che non ricordo cosa ho fatto, cosa ho detto. Eravamo entrambi nella vecchia sala da pranzo; io dovevo parlare col comandante, lei gli stava servendo il pranzo.
E poi, così dal nulla, ha sorriso. Nella mia direzione.
Non pensavo che questo giorno sarebbe mai arrivato.
Oggi, tutto sembra più bello.
 
Seggiola
 
Piove
È tutta la sera che ci penso. Su questo furgoncino traballante, diretto chissà dove, con una sacca piena di ordini e lettere, io penso a lei.
La luce del sole era lieve, nascosta dalla strana nebbia di maggio, fredda senza un perché, questa mattina. Lei era avvolta nel suo scialle di lana, consunto e tanto vecchio, quando si è affacciata dalla porta della cucina. Ha detto solo: “piove” e poi è sparita di nuovo. Fuori dal castello, scrosci di pioggia inzuppavano l’uniforme dei compagni; ma io penso solo a lei e quel suo viso triste.
Perché non riesco a liberarmi la mente da questa idea folle?
Quel sussurro, quell’avvertimento: senza di me, la sua vita è pioggia.
 
Mathis
È il nome del bambino, lo so. Mi ha guardato dritto negli occhi e non ho avuto possibilità di scelta. Sono stato lontano venti giorni e lei ora stringe tra le braccia un batuffolo di carne, rosso in faccia, con le guance chiazzate. Al castello nessuno ne fa parola; io so perché.
Lei mi ha scelto, io l’ho scelta.
Non c’è via di scampo.
 
Si
Non ho baciato la mia sposa, non ho potuto.
Io non sarò mai libero dalla mia colpa, lei sarà per sempre schiava dei suoi incubi.
Non l’avevo mai sentita così sicura, così decisa. “Si” ha detto, forte, dura. Ed è diventata mia moglie. Non sapevo di desiderarlo, di volerla con me nonostante tutto: lei, e quel bambino.
Siamo lontani dal castello, ora, lontani da quella prigione. Non ci torneremo, lo giuro.
Oggi mi sento completo.
 
 
 
 
3 febbraio 1945
Tramonto
 
Se sentissi il mio corpo, se avessi la minima idea della mia mano, del mio braccio, delle dita.
Se trovassi il mio diario, una penna e un po’ d’inchiostro.
Se ci fosse un po’ di luce e la mia mente fosse lucida.
Se potessi aprire gli occhi, alzarmi in piedi, se potessi respirare.
Se.
Se non fossi tanto debole, spezzato, rintronato.
Se potessi sentire l’aria del mattino.
Se potessi sentire la sua voce, il riso del bambino.
Se.
Se potessi fare tutto ciò, scriverei.
Se potessi fare tutto ciò, scriverei qual è stata la sua ultima parola, la mia ultima parola.
Amore.
 
 
 
 
26 Novembre 2007
Notte fonda
 
Capita, a volte, che la storia si prenda gioco di noi.
Il tempo è subdolo e lento a passare; i vecchi dimenticano, i giovani non sanno, anche i più forti cadono a pezzi.
 
Quand’ero bambino ero orfano.
Si, solo allora lo fui; da vecchi tendiamo a non pensare mai ai nostri genitori come tali. Più anziani di noi, sono un peso, una tenerezza, delle fragilità. Ma non sono più, per davvero, papà e mamma.  È talmente naturale vederli morire che dimentichiamo di soffrire.
Io sono vecchio, ora.
Quand’ero bambino ero orfano e senza un solo parente in questo vasto mondo.
Ora non più.
In quel tempo lontano, mia madre sia chiamava Mathilde ed era una principessa: vestiva di sete azzurre e verdi e cullava neonati all’ombra della sera, con un dolce sorriso dipinto sul volto.
In quel tempo lontano, mio padre era un eroe, biondo e valoroso, di quelli che ammiravo nei libri, nei racconti della vecchia Anne.
Ora non più.
Cinque mesi fa, mia moglie, Céline, è morta.
Due mesi fa scrissi una lettera a Philadelphia, diretta ad un vecchio zio che non credevo sarebbe mai esistito.
Per giorni ho ignorato i miei figli, chiuso la porta ai nipoti, ed ho scavato nella polvere del passato fino a quando non l’ho trovata.
L’ho trovata e ho pianto.
Ho sessantacinque anni e posso contare un matrimonio felice, un lavoro duro ma semplice, tre meravigliosi ragazzi tutti miei, una bella casa e qualche comodità. A sessantacinque anni, mi ritrovo all’ombra della mia infanzia, all’ombra di questa torre, e mi sento un bambino.
Mi ha mai amato?
Lei, così sola, così torturata, ha potuto, per un solo momento della sua breve vita, volermi bene?
Piango ancora.
Chi sono io? Frutto della guerra, della violenza, figlio maledetto di una ragazza stuprata.
La storia si prende gioco di me.
Chateau Noisy è casa, nella mia mente: è pace, calore, amore.
Chateau Miranda è stata la sua prigione.
Avevo quattordici anni quando, per la prima volta, portai Elodie su, al quarto piano. Da poco avevo scoperto una stanzetta tanto intima e bella che sembrava fatta proprio per noi. Fu un bacio, il primo bacio di un ragazzino felice, nonostante tutto.
Lei, Elodie, frugava nei cassetti del vecchio tavolo da toeletta abbandonato, esaminando una vecchia spazzola, una scatoletta di legno ed un antico pettinino con piccole pietre blu. Elodie ha conservato quel pettinino per mesi, poi, per anni.
Settimana scorsa sono andato a trovarla, nella sua bella casa: ha due gatti e un marito così vecchio da sembrare fatto di carta di zucchero. È stato bello parlare ancora con lei, non più orfana, proprio come me.
Mi ha dato il pettinino, dopo aver ascoltato la mia storia.                                          
Mamma cara, non sapevo fosse tuo.
Giuro, non sapevo fosse l’ultimo segno di un passato glorioso. Del nostro passato glorioso.
Ma, vedi, adesso è qui con me e non lo lascio più. Mi ricorda di te, che mi hai lasciato troppo presto ed in mezzo a troppi misteri. Voglio donarlo a Corinne, mia nipote, ti va?
Ho tante domande per te, mamma mia.
Perché non iniziamo dalla più facile? Vuol dire molto per me.
Mi chiamo Mathis Böhm, perché?
Chi è Julian, da qui prendo il nome? Non ho padre, questo lo so: ma  perché non posso sapere quest’uomo chi è, questo marito, questo sposo novello morto con te?
So di un soldato che si arruolò coi tedeschi e venne stanziato qui, a Celles. Credo sia lui eppure ancora non capisco cosa c’entra con me.
Lo saprò mai? Credo di no.
Allora conservo geloso quest’ultimo dono ritrovato, questo gioiello che scoprii da bambino e che ora porto con me, tra le rughe e gli occhi annacquati di questa mia età.
Voglio illudermi, si, che tu mi abbia amato.
Giusto un po’, quel tanto che basta per trovare il coraggio di fuggire da qui con me tra le braccia, di arrivare a Parigi e viveri lì, dove crebbi per i miei primi anni.
Sei morta in città, questo lo so; le bombe che cadono, la guerra che incombe.
Eri felice, laggiù?
Io spero di si.
La storia si prende gioco di me.
Mi prendo un minuto per guardare quel che resta di quella mia infanzia, di quel tuo dolore.
La facciata è grande e imponente e cade in rovina.
È così triste guardare da fuori; la piazza e la fontana, la grande torre, tutte quelle finestre. Un refolo del vento d’autunno passa ed accarezza l’intonaco scrostato, i vetri rotti, le lacrime d’umidità che scendono lungo le crepe. Questa brezza è come una carezza ai malati; delicata, per non ferire, dolce, per confortare.
Chateau Noisy soffre di un morbo per cui non esiste cura; ed io resto a guardare la mia casa che vien giù, pezzo dopo pezzo.
Chissà in che stato pietoso si trova l’interno. Se chiudo gli occhi posso ancora vedere: i soffitti blu, i vetri smerigliati alle porte, i fiori di campo sugli scrittoi. E i bambini, tanti bambini. Nella grande camerata, su al secondo piano, eravamo in venti; un gruppetto di scalmanati, che fuggivano in punta di piedi nel cuore della notte per correre al fiume, poco distante. E quel mascalzone di Philippe, che si ostinava a fumare sotto le coperte, la notte, col rischio di dar fuoco all’intero castello!
Sento che sto sorridendo, e non so il perché.
Che vecchio idiota sto diventando!
Adesso quella stanza sarà un cumulo di macerie.
Mamma, ti prego, perdona questo tuo figlio, questa sua dolce malinconia.
“Tornerò, un giorno, lo giuro”, dissi quando andai via, la sacca in spalla e speranza in tasca.
Eccomi qui, cara dimora.
Solo, adesso mi sembri più cupa, più triste, più mia.
Mi hai accolto tra queste pareti di pietra quando son nato e mi hai dato protezione quando ne ho avuto bisogno; perché con lei non hai fatto altrettanto?
 
Capita, a volte, che la storia si prenda gioco di noi.
 
 
 
 

Note
È la prima volta che scrivo una storia di questo tipo; storia che non ha nessuna pretesa di verità storica, storia che aspira solo ad un po’ di verosimiglianza. Ringrazio Ino; Chan e Tsunade che, con il loro bel contest “Left behind; storie di ruggine ed abbandono” sul forum di Efp, mi hanno ispirata e spinta a creare qualcosa di nuovo, a cimentarmi in un genere a me estraneo. Spero di non aver completamente fallito questo esperimento ;)
Disseminati lungo tutto il testo, un occhio attento può cogliere piccoli riferimenti a diverse opere; il mio pensiero era lì mentre scrivevo!
Accetto con molto piacere pareri e opinioni di tutti i tipi!!
Grazie,
EsterElle
 
  
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