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Autore: Flora    31/01/2005    6 recensioni
Naoussa, Macedonia. Ricordi, memorie, voci dal passato, e le tracce di un fuoco che brucia troppo alto. I giorni possono essere infiniti a Mieza per Alessandro ed Efestione.
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“Perché mi permetti di farti questo?”
Alessandro incurvò le labbra in un sorriso sottile. “Perché mi piace vedere questo sguardo nei tuoi occhi. Questo sguardo lo conosco solo io. Non voglio che guardi nessun altro al mondo così. Ti uccido se lo fai. Preferisco saperti morto, che pensare di venire secondo nella tua vita.”

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Questa storia fa parte del mio ciclo di racconti su Alessandro il Grande.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità, Antichità greco/romana
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Nota dell’autrice: Questo racconto è ispirato a fatti e personaggi storici. La ricostruzione degli eventi e della cronologia, così come la caratterizzazione dei personaggi, è basata sulle relative fonti storiche accreditate. Nel delineare la figura di Alessandro il Grande di Macedonia e dei suoi contemporanei, mi sono rifatta ad Arriano, Plutarco e Curzio Rufo. Nel delineare il personaggio di Efestione, ho tenuto conto di alcune teorie che gli attribuirebbero probabili origini ateniesi, anziché macedoni. La ricostruzione della sua vita precedentemente all’incontro con Alessandro è tuttavia di mia invenzione, dato che Efestione appare nelle fonti solo successivamente.



Il tocco del fuoco





Capitolo 1.








L’estate era finalmente arrivata a Mieza, in un glorioso tripudio di colori e odori.
L’aria, ancora fresca per il tardo inizio di stagione, era andata saturandosi di una vibrante energia segreta, trasformando il cielo in una colata d’argento liquido sopra la scura macchia dei boschi. Nascosti tra i fili d’erba, i narcisi selvatici aprivano i pallidi petali bianchi e spandevano un profumo leggero, mentre nei prati il grano cresceva alto, le spighe un’onda dorata increspata dal vento.
Aristotele camminava lungo il corridoio in penombra, respirando le fragranze speziate del mirto e degli olivi nei primi aliti d’estate. Sembrava assorto in una sua nascosta voluttà, concentrato sul sapore di quegli aromi così familiari eppure capaci d’inebriarlo come li sentisse per la prima volta.
Raggiunse una finestra inondata dal caldo sole pomeridiano e lasciò che il piacevole tepore gli riscaldasse il corpo intorpidito dalle fredde mura della biblioteca. Poi, si stiracchiò pigramente.
Non avrebbe mancato di rispetto a se stesso definendosi vecchio, ma aveva notato come, negli ultimi tempi, le sue ossa ci mettessero un’eternità a rinvigorirsi dopo un periodo di riposo. Le stanze della vecchia palazzina di caccia che ospitava gli studenti della sua scuola erano perennemente gelide.
Guardò in basso, verso il giardino invaso dai cespugli, e non si stupì di trovarlo deserto.
Aveva concesso ai suoi studenti un pomeriggio di libertà; li aveva incaricati di cercare le piante e gli arbusti illustrati loro quella stessa mattina a lezione, ma sapeva bene dove avrebbe potuto trovare gran parte di quei ragazzi, se solo li avesse cercati.
Un sorriso obliquo gli incurvò le labbra. Dovevano essere in giro per i boschi a dare la caccia a qualche volpe, o più probabilmente al laghetto delle ninfee a fare il bagno e a rinfrescarsi dell’improvvisa calura estiva.
Tutti, eccetto un paio.
Scrutò il prato sottostante, ed ecco infatti poco più in là, sotto l’ombra di un vecchio faggio, le due figure sedute e intente a leggere un libro che uno dei ragazzi teneva aperto sulle ginocchia.
Alessandro, principe ereditario di Macedonia, teneva la testa dorata leggermente reclinata sul lato e gesticolava infervorato in una qualche discussione, mentre il ragazzo seduto accanto a lui lo ascoltava assorto, annuendo appena.
Aristotele conosceva il libro, avendolo egli stesso donato al principe il giorno in cui si erano incontrati a Pella. Non avrebbe tuttavia mai pensato che potesse esercitare un fascino così potente su un ragazzo tanto giovane sebbene, in verità, non fosse la prima volta che Alessandro aveva saputo coglierlo di sorpresa.
Aveva portato da Atene una pregevole edizione dello scritto di Senofonte, la storia di Ciro, Grande Re di Persia che più di duecento anni prima aveva sottomesso le popolazioni di medi e persiani quand’erano ancora poco più che barbare tribù in lotta tra loro. Era avanzato inarrestabile attraverso quelle terre e aveva dato i natali all’immenso impero che si estendeva a est dell’Ellesponto, fino ai confini del mondo.
I greci conoscevano bene quell’impero.
Gli Dei sapevano quante e quali offese erano state arrecate ai figli dell’Ellade da quei barbari empii e potenti, il nome di Serse maledetto dai figli dei figli, e solo gli Dei
potevano sapere quando sarebbe venuto il giorno della giusta vendetta.
Ma adesso, rifletté Aristotele, la Grecia aveva altro a cui pensare.
Scrutò la figuretta del principe, così intento nella sua discussione che sembrava crepitare di una vitalità nascosta, e si stupì ancora una volta di notare quanto assomigliasse a suo padre.
Non nell’aspetto fisico – o comunque non così tanto da balzare all’occhio – ma nei piccoli particolari a prima vista insignificanti, come la forza improvvisa con cui serrava la mascella, la scintilla che gli si accendeva negli occhi grigi quando si accalorava in un’argomentazione e, più di tutto, l’energia incontenibile che sembrava emanare ogni fibra del suo corpo.
Aveva incontrato Filippo solo alcuni mesi prima, ma non c’era nessuno in Grecia che non sapesse chi era.
Aristotele strinse gli occhi mentre un reticolo di rughe appariva ai lati del suo viso.
I vecchi, molli demagoghi ateniesi avevano definito Filippo un barbaro, il Re di una sperduta provincia che, al momento della sua ascesa al trono dopo l’ennesima, sanguinosa lotta di successione, sembrava ancora immersa nell’età arcaica. L’avevano schernito nel suo desiderio e nei suoi tentativi di darsi una parvenza di quella grecità di cui tanto andavano fieri e che lui, invece, non aveva potuto avere per diritto di nascita.
L’avevano chiamato barbaro, buffone, vergogna dell’Ellade.
Ma adesso quel barbaro, quel buffone, li teneva tutti nel suo pugno di ferro.
I suoi rozzi soldati e i suoi generali – il suo esercito di uomini che parlavano l’orribile dialetto dorico che non poteva neanche essere definito greco – erano avanzati inarrestabili e avevano stritolato la Grecia nell’inerte flaccidità in cui era ormai versata in una via senza ritorno.
A nulla erano serviti tutti i discorsi e gli intrighi di quegli inetti politicanti che affollavano Atene e il pollaio che era ormai diventata l’agorà. A niente erano servite le farneticanti invettive di quel pavone di Demostene – che un rozzo macedone non aveva il diritto, non poteva ergersi a supremo comandante e guida della sacra Ellade. Filippo li aveva lasciati parlare.
E poi aveva agito, fulmineo come un rapace.
Aristotele sorrise, mentre un’espressione crudele gli si dipingeva in viso.
La sua storia d’amore con Atene era finita da un pezzo; da quando, dopo la morte di Platone, gli era stata preferita quella vecchia gallina grassa di Speusippo alla guida dell’Accademia, alla quale tanti anni della sua vita aveva dedicato.
Era stato un affronto intollerabile ma aveva imparato a conviverci. Non si era stupito quando il Re era venuto a cercarlo.
Aristotele ricordava bene Filippo.
Era ben conosciuto per l’incontinenza dei suoi costumi, il suo amore esagerato per il vino (ma quale macedone non eccedeva nei piaceri di Dioniso?), la facilità dei suoi accessi d’ira e il libertinaggio a cui spesso e volentieri si lasciava andare; tuttavia, rifletté Aristotele, l’uomo non era privo di una sua attrattiva.
Aveva tentato di ripulirsi del puzzo di barbarismo, aveva convocato a Pella artisti, letterati, tutte le figure più in vista di Grecia e aveva fatto istruire i figli dei suoi nobili e dei suoi generali dai più stimati maestri ateniesi. Il palazzo reale di Archelao, a Pella, non aveva nulla da invidiare alle più belle architetture di cui la Grecia stessa era così orgogliosa.
Aveva persino tentato di imparare a parlare il greco con il dolce accento ionico dell’Attica e invero – Aristotele doveva riconoscerglielo – i risultati erano stati notevoli.
Era come se Filippo volesse dimostrare a tutti i costi di essere un degno sposo per l’amante che aveva voluto prendere con la violenza.
L’amante l’aveva ripudiato, rifiutato, si era fatta beffe di lui.
Filippo l’amava ancora ma non aveva più nulla da dimostrare e lo sapeva. La sposa era ormai sua, per diritto di forza.
Il Re era stato richiamato a nord, da una violenta rivolta di alcune tribù della Tracia, e aveva dovuto accantonare i suoi feroci dissidi con Atene, ma presto sarebbe ritornato.
Aristotele era conscio che la battaglia decisiva per la supremazia era ormai prossima e sapeva bene su quale lato si sarebbe fatto trovare, quando fosse venuto il momento.
Osservò di nuovo il principe: la sua testa e quella del ragazzo accanto a lui erano reclinate l’una verso l’altra e si toccavano, mentre procedevano nella lettura. La luce pomeridiana faceva risplendere i loro capelli di riflessi bronzei. Erano immobili come due statue auree abbandonate nell’erba.
Aristotele era figlio del medico che aveva avuto in cura Aminta, padre di Filippo, e Filippo stesso fin dalla tenera età. Conosceva bene la Macedonia, tuttavia sapeva che non era stato quello il solo motivo per cui il Re era venuto a cercarlo fino a Mitilene, dove si era ritirato per dedicarsi ai suoi studi e alle sue ricerche naturalistiche.
Filippo voleva che suo figlio venisse educato come un elleno. Voleva che fosse un discendente perfetto per quella Grecia che non poteva, non voleva accettarlo, e che probabilmente non l’avrebbe mai fatto – per quanti sforzi o doni egli le avesse portato, o per quanto sangue avesse versato.
Alessandro sarebbe stato diverso, avrebbe avuto tutto quello che lui non aveva potuto avere.
Di nuovo il sorriso crudele gli accese gli occhi.
Non si era venduto per poco, era ben consapevole del suo valore.
Stagira, la sua città natale, piccola perla della Calcide, era stata distrutta dallo stesso Filippo proprio alcuni anni prima, molti dei suoi abitanti venduti come schiavi.
Stagira era stata il suo prezzo. Filippo l’avrebbe ricostruita, non avrebbe accettato nulla di meno e il Re non aveva battuto ciglio.
Naturalmente non si era trattato solo di Stagira.
Gli occhi gli balenarono; la tentazione di avere una parte così grande in tutto questo, e in ciò che sarebbe venuto, era stata allettante come un tempo solevano esserlo le sfide logiche nelle quali si imbarcava con i suoi colleghi dell’Accademia.
Gli era stato chiesto di educare un ragazzo.
Avrebbe formato un re.
Un sovrano che un giorno avrebbe governato tutta la Grecia riunita – un re elleno, per una nuova Ellade.
A poco sarebbero valsi gli sforzi dei pusillanimi politicanti ateniesi; la Grecia era ormai caduta nella morsa di Filippo, non occorreva sforzarsi troppo per vederlo, e un giorno Alessandro l’avrebbe reclamata, anche se adesso era poco più di un bambino.
Aristotele si definiva un uomo pragmatico.
Atene l’aveva umiliato, gli aveva preferito un altro, e lui vi sarebbe tornato, avrebbe mostrato loro che era stato capace di condurre con sé qualcuno in grado di guidare la loro amata ormai allo sbando. Sapeva bene di essere all’altezza del compito.
Sarebbe stata una dolce vendetta. Oh,sì.
Filippo non aveva badato a spese. Aveva convenuto, sotto suo consiglio, che sarebbe stato meglio educare Alessandro lontano dal clima teso di Pella, dagli intrighi e i maneggi di una corte che, sebbene fosse reticente ad ammetterlo, rimaneva ancora rozza e incolta come le terre montuose a nord della capitale.
Filippo aveva fatto rimettere a nuovo una grande palazzina campestre in una valle incantevole a circa mezza giornata di cavallo da Pella. L’aveva fatta dipingere dai più dotati affrescatori, vi aveva fatto arrivare servi, mobilia e suppellettili e ne aveva rifornito la biblioteca.
E così Aristotele si era trasferito a Mieza con il giovane principe e i figli dei nobili più in vista di Macedonia, ragazzi che un giorno sarebbero stati i compagni d’arme e il seguito di Alessandro.
Il luogo, considerato sacro alle ninfe, si era rivelato una fonte inestimabile per i suoi studi, Aristotele ne era estasiato. I boschi e la campagna circostante pullulavano di vita, ed egli stava cercando di catalogare e raccogliere campioni del più alto numero possibile di specie animali e vegetali. Il suo soggiorno a Mieza avrebbe portato benefici inquantificabili ai suoi studi botanici e zoologici.
Proprio il giorno prima, passeggiando nei giardini di Mida, (e quale nome più appropriato per il paradiso nel quale si trovava?) aveva scorto una specie di roditore che ancora non conosceva.
Avrebbe mandato qualcuno dei suoi ragazzi a catturarne uno per lui, stava diventando troppo vecchio per rischiare di rompersi qualche osso strisciando tra i cespugli come soleva fare un tempo.
Il pensiero lo fece sorridere ma sentì una stretta al petto.
Il tempo era passato, eppure la vita continuava a essere bella e piena di allettanti misteri per lui. Una sola esistenza non gli sarebbe mai bastata, ma gli Dei hanno strani modi per prendersi gioco degli uomini.
Abbassò di nuovo gli occhi. Alessandro sembrava ancora perso nel suo Senofonte.
A poco sarebbe valso dirgli che molto probabilmente il grande Ciro aveva avuto poco o nulla a che fare con l’illuminato monarca descritto nel libro; Senofonte aveva tracciato il ritratto del re ideale e gli aveva dato il nome di Ciro.
Alessandro non gli avrebbe creduto ma a che scopo dirglielo? Il ragazzo sapeva essere testardo nelle sue argomentazioni.
Aveva scelto il libro per il suo fine didattico, questo sarebbe dovuto bastare; tuttavia si era stupito della passione che Alessandro aveva messo nel leggerlo e delle domande, invero sagaci e affatto scontate, che gli aveva posto e che continuava a porgli.
Sembrava non essere mai pago di discutere del singolare modo in cui Ciro aveva scelto di governare l’immenso impero che aveva creato, e spesso le discussioni avevano degenerato, suo malgrado.
Aristotele sapeva della passione di Alessandro per Omero e, del resto, la sua epica eroica e imbevuta di hubris era popolare tra i ragazzi di quell’età.
Più degno di nota era stato il suo innamoramento di Ciro.
Era indubbiamente positivo che un futuro monarca si interessasse del modo di gestire un regno, ma c’erano volte in cui Aristotele si trovava a corto di parole.
Alessandro sembrava più interessato a conoscere l’esatto numero dei soldati che Ciro aveva avuto nella sua armata, o la rete stradale che collegava le varie capitali dell’impero – e che, a detta sua, doveva essere immensa – che non l’intima meccanica dell’arte di governare.
A volte il ragazzo sapeva essere impossibile.
Era stato, in verità, bene educato. Il suo primo tutore era stato un certo Leonida, un parente della madre, ferreo sostenitore dei durissimi metodi educativi di derivazione spartana.
Fin dalla più tenera età era stato addestrato alla privazione e al controllo delle sue più elementari necessità. Aristotele aveva sentito alcune storie a riguardo che avrebbe giudicato ridicole, se non avesse potuto vedere il ragazzo con i suoi occhi.
Leonida l’aveva educato a fare a meno di tutto, l’aveva affamato, si diceva, sfiancato con l’esercizio fisico e addirittura privato delle coperte di lana e del mantello nei duri inverni di Pella.
Il risultato era che il ragazzo sapeva sopportare qualunque privazione come e forse meglio di un soldato adulto, ma era più cocciuto di un mulo.
Sapeva parlare il greco e anche piuttosto bene, ma lo faceva solo quando voleva lui, nei suoi tempi e nei suoi modi e non una volta sola gli aveva rivolto alcuni insulti nel macedone volgare dei soldati (senza dubbio l’aveva udito nelle baracche degli uomini, quando ancora viveva nella tana di Pella, lasciato a se stesso come un cucciolo selvatico), guardandolo con aria di sfida.
Questo, forse più di tutto, gli urtava i nervi. Sembrava che il principe lo mettesse costantemente alla prova, se non fosse stato ridicolo pensarlo di un ragazzino di appena quindici anni.
Ma era così.
Non poteva negare che fosse intelligente. Teneva il passo delle sue lezioni con una speditezza che gli altri ragazzi potevano solo sognare, commentava Omero con una proprietà di linguaggio impensabile, mentre gli altri arrancavano ancora sulle facili edizioni didascaliche. Era certo di essere riuscito a solleticare la sua ardente curiosità, sebbene il ragazzo fosse reticente ad ammetterlo.
Doveva avere odiato il vecchio Leonida.
Un giorno gli aveva posto un quesito tramite un sillogismo astratto. L’avrebbe potuto risolvere solo attraverso la logica, ma il ragazzo l’aveva guardato disgustato e gli aveva offerto invece un’inaspettata e, bisognava ammetterlo, alquanto sagace soluzione pratica.
Scosse la testa; Alessandro aveva sangue di razza ma era difficile da gestire. Tuttavia, i loro rapporti stavano migliorando.
Lasciò scivolare lo sguardo sul viso accanto a quello del principe, e si ritrovò a fissare i lineamenti seri e composti dell’altro giovane.
Ricordava il giorno in cui aveva condotto una lezione sull’amicizia: come l’amicizia fosse, per un uomo, il bene più grande, la ricchezza inestimabile del trovare fuori di sé un altro sé, una stessa anima condivisa in due corpi.
Si era trovato spesso in disaccordo con Platone in passato, ma su questo non aveva mai nutrito alcuna obiezione.
Aveva parlato ai ragazzi di come l’amicizia sia virtù in se stessa, cui fine ultimo è proteggere e amare la virtù nell’altro – di come per ogni uomo esista un unico e solo amico perfetto, e quanto grande sia il dono degli Dei se decidono di rendere possibile il riconoscimento.
I perfetti amici condividono tutto: la gioia e la felicità, ma anche le privazioni. Condividono le proprie visioni e i propri obiettivi. I sogni dell’uno sono i sogni dell’altro.
Achille e Patroclo, fino alla morte.
Gli altri ragazzi avevano ridacchiato alla menzione; in fin dei conti erano ben noti i pettegolezzi da taverna sul presunto rapporto che aveva unito i due eroi. Erano tutti molto giovani e Aristotele sapeva che le schermaglie amorose e i moti di un corpo che stava cambiando, erano inevitabili a quell’età. Chiudeva un occhio perché ciò non offendeva la sua morale, né era in contrasto con quella macedone, tuttavia aveva volutamente lasciato fuori la fugace sfera di Eros, che abbaglia e rende ciechi, qualcosa che, a suo parere, toglieva invece di aggiungere.
L’amicizia di cui parlava lui era una comunione di anime.
Alessandro non aveva riso, i suoi occhi avevano scintillato mentre lo ascoltava parlare.
Forse, una delle sue lezioni era riuscita a fare breccia nel cuore del giovane.
I due ragazzi erano stati inseparabili ben prima del loro arrivo a Mieza. Dovevano essersi conosciuti precedentemente ma, fin dai primi giorni alla scuola, era stato palese quanto fossero legati.
Efestione, così si chiamava l’altro, era figlio di uno dei generali più vicini a Filippo, uno dei suoi eteri, i compagni del più alto rango di cavalleria. Aveva persino intravisto l’uomo, un giorno in cui era venuto a far visita ai due figli che si trovavano a Mieza – una figura imponente, in un certo qual modo diversa dal comune, rude soldato macedone, e che incuteva innegabilmente un certo rispetto.
Amintore – Aristotele ricordava ancora il nome – sembrava avere modi stranamente gentili, persino raffinati se comparato ai rozzi e chiassosi uomini della sua terra, e non si stupiva che Filippo lo tenesse in così alta considerazione. Persino il suo greco era notevole, come di chi avesse frequentato Atene con assiduità.
Quello del ragazzo, invece, era perfetto. Efestione era sicuramente cresciuto ad Atene, forse il figlio di una qualche concubina locale.
Aristotele non aveva approfondito questo aspetto e il ragazzo sembrava molto reticente a parlare dei suoi trascorsi, ma non c’era alcun dubbio: l’accento pulito, il dolce suono della pronuncia attica, una delizia per le sue orecchie, erano inconfondibili e troppo perfetti perché potessero essere stati meramente appresi.
Aristotele si era stupito di trovare in lui un allievo così attento e brillante. La maggior parte dei ragazzi che si trovavano lì vi erano stati spinti dai padri, che certo speravano di ricavare un vantaggio futuro dal fatto che i figli fossero stati i compagni di scuola del principe e suoi amici fin dalla tenera età. L’avere un posto a Mieza doveva essere stato qualcosa di molto ambito da più d’uno di quegli ambiziosi genitori.
Purtroppo, ciò non era stato un vantaggio per Aristotele, che si trovava spesso a parlare a una classe disinteressata e distratta, e questo si era rivelato frustrante oltre ogni dire.
Efestione, al contrario, era una fonte di continua soddisfazione per lui.
Il ragazzo era l’unico che riusciva a tenere il passo di Alessandro nello studio, aveva una mente vivace e curiosa, e spesso le sue fulminee intuizioni erano disarmanti persino per lui.
Dimostrava una logica ferrea, unita a una sensibilità profonda, rarissima in un ragazzo così giovane.
Aveva diciassette anni ma spesso, guardando il suo viso serio e concentrato, Aristotele pensava che fosse difficile dargli un’età.
Non aveva la sfrontatezza irrequieta e il gusto per la sfida che caratterizzavano il giovane principe; era invece tranquillo, spesso riservato, sebbene si potesse intuire un flusso continuo di emozioni scorrergli profondamente, sottopelle.
Un movimento in basso riscosse Aristotele dalle sue riflessioni. I due ragazzi si erano alzati; Efestione teneva il libro sotto braccio e camminava accanto ad Alessandro, che procedeva spedito – entrambi diretti verso il bosco subito al di là del giardino.
Alla fine dovevano aver deciso di unirsi agli altri, pensò Aristotele non senza un moto di divertimento. La giornata si era fatta afosa e il richiamo allettante del lago doveva essere stato irresistibile anche per loro.
Li seguì con gli occhi finché non scomparvero nella boscaglia, tra le ombre e i cespugli di rosa canina, poi alzò il volto verso il cielo terso, il sole di una luminosità abbacinante.
Sorrise mentre si schermava gli occhi con una mano. Gli Dei erano stati generosi, sarebbe stata un’estate perfetta e ogni cosa a Mieza ne stava già mostrando i segni.
Aristotele voltò le spalle e scomparve nella fresca penombra del corridoio.







  
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