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Autore: LaMicheCoria    08/12/2014    1 recensioni
«Da quanto tempo sei qui?»
«Dacché io ricordi.»
«Quanti anni hai?»
«Non lo ricordo con certezza.»
«Il tuo nome. Questo lo ricordi?»
«Steven.»
«Io sono Tony. Ora Steven, se me lo permetti, sarebbe mia intenzione svenire sul pavimento.»

[ Dark-Rapunzel!AU] [Steve/Tony]
Genere: Angst, Dark, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Cause Nobody Wants To Be The Last One There :.'
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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono
Ma sono di proprietà di chi ne detiene i diritti.

 

 

 

 

 

 

Stuck In The Same Place
I've Always Been

 

[ Parte I di II ]

 

01. Prologue

 

C’era una volta e forse c’è ancora, ogni buona storia per bambini comincia così.
Le avranno raccontate anche a voi, no? Stretti stretti in un copriletto gonfio di cento coperte, la luce soffusa di una abat-jour dal paralume conico, un peluche morbido al tocco e delicato alla vista, l’orsetto che la notte si muta nel paladino senza paura, il prode guerriero che si batte contro gli incubi e i brutti pensieri, sguaina spada e scudo, battaglia e clangore di ferro contro ferro, sbattere di ali da pipistrello, murmure di zolfo e ruggito di draghi…!
Vorrei poter dire che la mia infanzia è stata identica a questa. Un tripudio di zucchero e ninnoli, canditi e dolci abbracci. Sventuratamente, nella mia vita c’è sempre stata una certa carenza di saccarosio, chincaglieria, bon-bon e contatto fisico.
Non che io mi stia lamentando, per carità. Sto solo esponendo i fatti.
Inoltre, parliamo di un periodo che nessuna storia per bambini sarebbe mai felice di narrare: la Guerra. La Guerra con la “Gi” maiuscola, un conflitto a fuoco e gas che impuzzolentisce l’aria e insozza l’umane genti, colora il cielo di rosso e la terra di nero lutto.
Schifosamente poetico? Ve lo concedo.
Per quanto mi ricordo la Guerra non è mai finita. Virulenta e pestilenziale, si è ammosciata per alcuni periodi al solo scopo di saltare di nuovo alla gola del mondo, più feroce e straziante di prima. Come una belva in attesa, un mostro in agguato.
E non c’era nessun peluche, a difendere noi bambini dagli incubi della notte. Non un soldato che fosse abbastanza per fare da spada e scudo agli adulti.
Una volta c’era.
Esisteva un eroe senza pari, un Soldato col coraggio di un leone ed il cuore puro, una Leggenda Vivente il cui sangue, si diceva, curava ogni ferita e faceva retrocedere persino la vecchiaia. Mio padre l’ha conosciuto e dacché ho memoria non ha mai smesso di parlarmi di lui –Almeno fino a quando un incidente d’auto non s’è portato via il vecchio e mia madre.
Addio feste in famiglia, riunioni con i grandi capi dell’esercito, marchingegni ed invenzioni.
Ho impiegato parecchio tempo per distinguermi dalla massa di spostati che proponeva le proprie idee annienta-crucchi: mio padre fabbricava armi e io ho sviluppato e rivoluzionato il suo talento al punto da trasformarlo in puro genio –E me stesso in un ordigno senza precedenti.
In tutto quel periodo, lo confesso a voi e a voi soltanto, non ho mai smesso di pensare alle storie di mio padre, all’eroe leggendario con la stella appuntata sul petto. A lui e alla filastrocca scema che apriva ogni fiaba, spalancando le porte della mente ad un Universo di speranza e luce del sole.

C’era una volta e forse c’è ancora…

 

 

02. When Will My Life Begin?

 

Perdersi nella Foresta Nera non era consigliato: innanzitutto perché era un territorio vasto, sconfinato e privo di qualsivoglia punto di riferimento utile. Secondariamente, perché “Nera” era anche un modo carino per descrivere la gentaglia che la popolava.
Tony Stark non desiderava affatto trascorrere le vacanze nella Foresta Nera, ma il simpatico aviatore dell’HYDRA che, prima di paracadutarsi, gli aveva piazzato un electron scrambler sull’armatura e mandato i tilt i sistemi era stato di tutt’altro parere.
Piuttosto che precipitare come uno scarafaggio cromato nel mezzo della boscaglia, Tony avrebbe preferito fare lo sforzo di leggere un opuscolo informativo sulle meraviglie della regione.
L’impatto con il suolo non era stato dei migliori: dietro di sé aveva lasciato un sentiero infossato di sassi e ghiaia e humus che sembrava la versione hippy di una derapata sull’asfalto.
Era in momenti come quelli che sentiva la mancanza di Malibù, dell’odore intenso del mare ed il frastuono rumoreggiante della risacca.
Lo scafandro della Mark si aprì con un cigolio poco incoraggiante. J.A.R.V.I.S., l’intelligenza artificiale che si occupava del mantenimento e del sostentamento elettronico dell’armatura, era andato fuori uso alla prima scarica elettrica dello scrambler; ogni input era stato bloccato, l’intera macchina aveva ceduto al black-out. Nessun apparecchio era più in grado di funzionare.
I due gauntlet che aveva salvato per miracolo, insieme a parte del pettorale, avevano energia sufficiente per appena cinque colpi ciascuno. Per il resto, la ferraglia ammonticchiata e seppellita ai piedi di un faggio non sarebbe stata utile neanche ad un rigattiere.
Ovviamente la bussola aveva concluso il proprio onorevole servizio non appena J.A.R.V.I.S. gli aveva dato il benservito. Giusto per mantenere una dose di positività, Tony aveva ripescato alcuni frammenti della ricetrasmittente: grazie alle doti di meccanico, che non venivano mai meno, nemmeno durante una sbronza od in una situazione di pericolo al limite del mortale, era stato in grado di mettere insieme un aggeggio rudimentale con cui mettersi in contatto con l’AI, una volta tornato alle linee americane.
Se fosse riuscito ad attraversa indenne un porzione non quantificabile di territorio nemico senza farsi uccidere, allora era cosa fatta. Doveva soltanto camminare e camminare e camminare, verso Sud-Est, guidato dalle stelle, l’istinto ed una rimarchevole fortuna.
Il Colonnello Fury non ne sarebbe stato contento: si aspettava un’azione da manuale atta a spaccare in due uno squadrone aereo di Teschio Rosso, invece era finito con un pugno di mosche, neve e fango e un Iron Man privo di armatura, ma con escoriazioni ed ustioni un po’ su tutto il corpo, la maglietta a brandelli, le brache sfrangiate, gli scarponi molli ed i capelli impiastricciati di sangue.
Non propriamente un rientro in pompa magna.
Soltanto un miracolo avrebbe potuto risparmiargli una lavata di capo senza precedenti. Ma con la nebbiolina che saliva asmatica dal terreno impastoiato di melma, le ombre smilze degli alberi allungate ad artiglio, i brandelli di cielo notturno tra i ritagli arzigogolati degli abeti…Bhè, l’atmosfera non era la più adatta. L’aria si raffreddava rapidamente, tanto che Tony si ritrovò a battere i denti e sputacchiare fiato condensato molto prima di quanto avesse preventivato; si chiuse nelle spalle, ficcò le mani sotto le ascelle e chinò il capo, proseguendo testardo verso una meta che poteva benissimo essere ad un’ora quanto ad una settimana di distanza.
I passi ciancicavano scivolosi sopra il nevischio disciolto, l’erba liquida si mescolava all’humus e s’appiccicava alle suole flaccide, goccioline di umido penetravano la pelle nuda e s’appendevano alle carni, mordendo nervi e vene. Il respiro fischiava nella gola infuocata, gli occhi lacrimavano e le guance erano luride di sporco e di pianto rappreso.
Fu un cricchiolio cigolante tra gli alberi a far scattare Stark sull’attenti. Si bloccò, immobile, drizzando le orecchie ad escludere il rimbombo confusionario del cuore e l’ansito palpitante delle tempie: stette in ascolto uno, due, tre secondi…Eccolo.
Un rantolo. Strisciare ed imprecare.
Una sagoma gibbosa ed uniforme si sollevò tremolando dal sottobosco.
Un istante cristallizzato di panico, da entrambe le parti.
Quindi uno schiocco di coscienza.

Amerikanen! Gridò il paracadutista –Altri non poteva essere e Tony s’avvide dello scroscio schiumante e rosso che s’allargava sotto lo stomaco, la piega innaturale della gamba sinistra, un moncone di femore erto sopra il polpaccio destro.
La gola di Stark si chiuse per l’orrore, la nausea macchiò la bocca acida e gli annebbiò la vista per parecchi secondi. Arretrò di pochi passi, voltò la schiena all’ululato del tedesco e cominciò a correre. Corse alla cieca, frustato dal vento, dai rami, da quel sangue che non la smetteva di scorrere, da quella ferita in suppurazione che non voleva guarire, da quella maschera livida in procinto di contrarsi ed immobilizzarsi per sempre.
Correva a destra pensando fosse sinistra, saltando sentieri sicuri, graffiandosi le guance e rischiando più volte di mettere il piede in fallo e rompersi l’osso del collo. Si fermò soltanto quando la foresta si aprì ad una radura immacolata e fuori posto in quel labirinto di orrore e morte: era un ampio spazio ovoidale, nascosto da fronde e da una parete di roccia che Tony aveva costeggiato senza avvedersene.
Vi si accedeva tramite un inghiottitoio, una spaccatura del costone stesso, stretto abbastanza da farci passare una persona sola.
Stark lo aveva attraversato nell’impeto della corsa, attirato dal bagliore affusolato e bianco che gli aveva trapassato gli occhi. Un fiotto caldo e vischioso gli insozzò il fianco: doveva essersi ferito con uno spuntone.
Un quarto della radura era coperto da fogliame e abeti dalle fronte opulente, faggi allampanati dalla corteccia lustra d’argento; i fianchi e la parete dalla parte opposta a Tony erano spessi mura di roccia ad imbuto, ingentiliti da camminamenti di muschio verde ed una cascata sottile come filo di luna, che curvava in un rivo cantilenante. Ad attirare l’attenzione di Stark, però, fu il particolare che mosse le gambe invece del buon senso: la Torre, l’alta, altissima torre costruita accanto al fiume ridacchiante, ed innalzata sopra un profondo piede di ciottolame pressato.
Il corpo era affusolato, sgraziato alla base e poi aperto alla rastremazione maggiore, una corolla di contrafforti lignei a sostenere un corpo circolare, con pareti curve a stucco color crema, un ballatoio traforato, due finestre sporgenti ed un tetto a cuspide in tegole viola acceso. Una sorta di casupola da fiaba in miniatura, con comignoletto rosso e profusione di fiori qua e là, persino una striscia serpentesca di edera che arrivava ad un infisso per carrucola.
Di sicuro l’unico accesso alla Torre, a giudicare dalla totale assenza di porte.
Tony alzò la testa, fissando perplesso la balaustra a getto sul vuoto.
Non sarebbe occorso più di una spinta dei repulsor beam e avrebbe evitato la scalata, impossibile per la fatica, la stanchezza e la massiccia dose di sangue perso. Buttarsi a pesce in una stanza sconosciuta di una Torre presumibilmente disabitata ed inspiegabilmente costruita in una radura ignota della Foresta Nera non era una scelta da tattici o strateghi militari: Tony Stark non era né l’uno, né l’altro, bensì un poveraccio –Metaforicamente parlando, visto il patrimonio di cui disponeva- infreddolito e affamato, sull’orlo dell’ipotermia.
Così, azzittendo la coscienza ed i brividi di sospetto riverberati lungo la spina dorsale, sfruttò il quantitativo di energia bastevole per il balzo, s’aggrappò al montante della carrucola e si lanciò all’interno.
Atterrò sulle assi di legno col pugno destro conficcato a terra, il ginocchio piegato a terra, la gamba sinistra flessa ed il braccio gettato dietro il torso ruotato. Sollevò quindi la fronte, la lama triangolare della luna che illuminava parzialmente l’interno della stanza.
Un locale circolare e smorto, in netto contrasto con l’atmosfera da marzapane dell’esterno. Si sarebbe aspettato qualcosa come tende rosse, colori dappertutto, un soffitto dipinto, un letto a baldacchino e lenzuola di porpora, sfrigolio di fuoco nel camino e profumo di zenzero. Dominavano, al contrario, toni neutri e senza vita, il nero, il grigio, l’avorio.
Il camino era incastrato in una rientranza chiazzata di muffa, cenere e fantasmi di fumo; un arco di pietre squadrate immetteva in un angolo cucina polveroso, dotato di un lavello sgangherato e stoviglie sbeccate, impilate comunque in bell’ordine. Su una libreria che aveva vissuto tempi migliori erano affastellati libri su libri, le copertine cadenti e i titoli smangiati, tutti in lingua tedesca.
Una rampa di scale traballanti portava ad un palco rialzato. In mezzo alle grate del ballatoio si intravedeva la sagoma di un grosso materasso, all’apparenza rozzo e scomodo.
E fu proprio da quel fagotto informe che si levò una forma dalle spalle ampie, una sagoma che nonostante le fattezze massicce e imponenti si mosse fino alla balaustra con sorprendente sveltezza.
Doveva essere stato svegliato dal fracassa di Tony, tuttavia questi non aveva la forza di opporsi, non l’aveva più. Aveva soltanto i repulsor beam carichi e pronti all’uso, l’ultima difesa prima dell’oscurità e del crollo.
«Wer bist du?» chiese una voce e Stark aggrottò la fronte: il tedesco era impeccabile, infettato però da una reticenza inconsapevole, una nota stridente e stridula che faceva trasparire una cadenza linguistica diversa, più sciolta e meno impettita «Wer ist da?»
«Ein Wanderer» rispose Tony, ancora sul chi vive «Ich friere.
Ich verhungere. Ich bin verletzt.»
La sagoma non si avvicinò alla balaustra, tantomeno al cono di luce. Stette immobile davanti al letto e non fece un passo. Stark non sapeva dire se stesse studiando lui oppure la maniera più veloce per accopparlo.
«Sind Sie ein Soldat?» lo interrogò, dopo alcuni minuti di silenzio titubante.
«Ich bin ein Mechaniker. Ti prego.
Sono un meccanico. E sono affamato. Ho freddo.»
Tony passò all’inglese, sperando di originare qualsivoglia tipo di reazione nell’interlocutore sconosciuto ed invisibile –Od anche solo per capire, da un particolare microscopico come la padronanza o meno di una lingua, qualcosa in più sul suo conto.
La mossa era stata quella giusta. Si udì uno strusciare di suole contro le assi del pavimento, quindi un lungo sospiro: l’abitante della Torre emerse nell’alone latteo della luna e si mostrò a Stark come il perfetto esemplare di razza ariana tanto declamata da Herr Hitler, prima che il Teschio Rosso prendesse le redini della Germania e dall’Europa intera, proseguendo per decenni una guerra che sarebbe dovuta finire negli Anni Quaranta.
Non aveva sbagliato sulle spalle, che erano ampie quanto era mastodontico il torace e forti i muscoli dell’avambraccio. Stava coi piedi ben saldi e le gambe appena divaricate, il mento di poco alzato, il sopracciglio destro inarcato; aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri ed un cipiglio fiero, ostinato, di quelli che avresti seguito in capo al mondo con una sola occhiata. La mascella squadrata creava un connubio inaspettatamente armonico e quasi…Dolce, raffinato, coi tratti decisi del volto, gli zigomi dalla linea dura e la curva delle labbra. Due fossette ai lati della bocca ne segnalavano lo storcersi meditabondo, così come il segmento arzigogolato che accartocciava la fronte.
Indossava abiti che sapevano di polvere e di antico quanto la stanza: pantaloni grigi dalla foggia tipica della Germania della metà del secolo, camicia bianca e bretelle scure, mocassini morbidi neri –E mal tenuti, lisi, vecchi come il resto del vestiario. Come lui, che esulava dal tempo e sembrava appartenere ad un’altra epoca, ad un altro mondo, ad un altro se stesso.
«Non sentivo parlare inglese da tanto»
Tony non spalancò la bocca soltanto perché oramai i muscoli erano tanto intirizziti e rigidi da essere inservibili. Lo sconosciuto si esprimeva fluentemente in inglese, con una capacità e scioltezza tali da fargli venire il dubbio che fosse quello, e non il tedesco, la sua lingua madre. Inoltre, un minuscolo sorriso s’era soffuso sulle labbra gentili e Stark si diede dello stupido a non aver notato prima quanto fosse incredibilmente caldi e azzurri i suoi occhi, incredibilmente biondi e caldi i capelli.
Da qualunque posto venisse quel ragazzo, non era certo la Germania la sua Patria. Non aveva nulla di teutonico, persino il portamento che aveva era una caricatura, quasi un artefatto imposto da un’autorità al di sopra del suo volere.
«Da quanto tempo sei qui?»
«Dacché io ricordi.»
«Quanti anni hai?»
«Non lo ricordo con certezza.»
«Il tuo nome. Questo lo ricordi?»
«Steven.»
«Io sono Tony. Ora Steven, se me lo permetti, sarebbe mia intenzione svenire sul pavimento.»

 

 

03. On Your Own, You Won’t Survive

 

Non devi uscire da questa Torre.
Voce di tuono che rimbomba di eco sofferente nel cranio e nel costato. Il dolore che si propaga in ondate e cerchi e creste di marosi, il sangue che scorre, si coagula, stantuffo di siringa, singulto di fiato. La vista che si offusca, le orecchie che battono, il cuore che si schianta contro la cassa toracica, la spina dorsale che si scioglie, si sgretola, si liquefa, i polmoni come lava, i bronchi come spilli bollenti conficcati nelle carni.

Non devi mai uscire da questa Torre.
Fuori il mondo, il mondo che si spinge al di là degli occhi e della mente, che esplode di albe e sfolgora di tramonti, dove risate vengono sorrise e sono piante lacrime, dove si canta di morte e di vita, dove si danza e si cade, ci si rialza e ci si inginocchia, si prega e si ama, si odia e si brama.

Obbedisci!
Scariche elettriche dietro la fronte, raccolte dentro le orbite messe a ferro e fuoco, le vertebre tremano e cigolano, balbettano, le arcate dentarie si incollano e si fondono, la gola si piega, la voce è un urlo che squarcia il collo ed il petto e le dita si torcono, le nocche si avvitano, le unghie affondano nel palmo, lo stomaco si capovolge, vomito ed acido, respiro mozzato e strappato, violento, animale, brutale, stantuffo siringa una ferita aperta per una ferita sanata, siringa stantuffo aria risucchiata sangue sfilato via sangue succhiato via ricordi succhiati via memoria sfilata via dolore coltello che affonda dolore sofferenza ricordo memoria sangue vita volontà ordine ordine ordine ordine ordine obbedisci!
Steven appoggiò il carboncino di traverso sul foglio bianco e pigiò i polpastrelli contro le palpebre. Avvertiva un vuoto dondolante nel cranio, come se qualcuno l’avesse dapprima riempito di aria e quindi avesse pompato via l’ossigeno in un solo colpo. Ad occhi chiusi, il giovane strinse la radice del naso tra le dita ed inspirò a fondo, trattenne il fiato e lo rilasciò con un lunghissimo sospiro.
La tensione sulle spalle parve allentarsi, così come il tremore ai polsi. S’umettò il labbro superiore con la punta della lingua, deglutì e il nodo alla gola si sciolse in rigagnoli amari, dal retrogusto stomachevole e rivoltante di nausea acidula.
Un altro respiro prima di aprire gli occhi e tornare a concentrarsi sullo schizzo in carboncino che aveva davanti a sé. Sistemò sulle ginocchia il blocco di fogli ruvidi, a buon mercato e patinati di macchie giallognole, inclinò la testa e tenendo la punta del carboncino di traverso aggiunse una zona d’ombra nella piega dell’occhio e sulla palpebra inferiore di Tony.
Il meccanico era crollato bocconi sul pavimento e Steven l’aveva preso in braccio senza difficoltà, trasportandolo fino al letto. L’aveva dunque disteso sul materasso, coperto con un lenzuolo spesso e di tessuto piuttosto grezzo, e infine aveva riempito una bacinella di acqua in cui aveva intinto una pezzuola pulita da appoggiargli sulla fronte.
A quel contatto un lamento era colato dalla bocca dischiusa di Tony e le palpebre si erano contratte in uno sfarfallare di ciglia scure. Steven si era accomodato sulla seggiola pericolante accanto a lui e aveva cominciato a disegnare, per ingannare il tempo in attesa del suo risveglio. Se si fosse sentito abbastanza in forze gli avrebbe preparato qualcosa da mangiare e gli avrebbe dato dei vestiti da indossare al posto di quelli luridi, strappati e bagnati che indossava.
Steven non sapeva da dove Tony venisse, né come avesse fatto ad arrivare fin lì: la curiosità aveva avuto la meglio sul senso di pericolo che avrebbe dovuto provare nei confronti di uno straniero apparso da nulla, e le condizioni disperate in cui l’altro versava avevo vinto ogni resistenza. Non poteva certo abbandonarlo, no? Sarebbe morto assiderato, fuori dalla Torre, e per dissanguamento, al suo interno.
Aveva fatto del proprio meglio per fasciargli le ferite, disinfettarle e tenere l’ospite al caldo. Se nonostante le cure Tony fosse morto, Steven non avrebbe potuto impedirlo, ma almeno così non avrebbe condannato una vita in maniera ignobile e disumana –In realtà, ci sarebbe stata un’altra cosa che avrebbe potuto fare per guarirlo, un metodo che avrebbe allontanato il disfacimento e richiuso con filo invisibile ogni taglio, ma al solo pensiero nella testa si era scatenato un temporale di suoni ed odori, parole aspre, ordini metallici, lezzo insopportabile, sofferenza inaudita.
Perché il mondo di fuori era malvagio, era un nido di serpi che non attendevano il momento giusto per ghermirlo e trascinarlo a fondo, smembrarlo e studiarlo come un insetto in vitro, facendogli male, torturandolo, dal mattino alla sera, per tutta la notte, senza risposo, senza pace. Il mondo di fuori era malvagio, era pericoloso, soltanto dentro la Torre era al sicuro. Lì nessuno sarebbe mai entrato, lì nessuno l’avrebbe trovato, lì sarebbe stato difeso, lì il mondo di fuori non l’avrebbe raggiunto, lì stava bene, lì c’era lui e lui diceva sempre cose giuste sul mondo di fuori, sulla sua malvagità, sul suo pericolo, sulla gente che voleva usarlo, che voleva ghermirlo, trascinarlo a fondo, smembrarlo e studiarlo, fargli male, torturarlo. Lui lo metteva in guardia sulle lingue del mondo di fuori, sul tortuoso binario della parola che non fosse la sua. Perché gli esseri che popolavano il mondo di fuori sapevano confondere e tessere come ragni trame appiccicose di bugie. Con subdola arte e discorsi sibillini l’avrebbero convinto che il bianco era nero, il giusto l’ingiusto, l’avrebbero ingannato e avrebbero fatto di lui mera bambola disarticolata, mero oggetto per i loro esperimenti ripugnanti.
Doveva rimanere nella Torre.
Non doveva uscire dalla Torre.
Non doveva mai uscire dalla Torre.
Era un ordine e gli ordini andavano rispettati, bisognava ubbidire agli ordini, o sarebbe sopraggiunto il dolore, le scosse, le percosse, il sangue, i pugni, il filo del coltello, il fuoco, l’ustione, la sofferenza.
Non doveva uscire dalla Torre.
Il mondo di fuori era pericoloso. Chi lo abitava era pericoloso.
Non doveva mai uscire dalla Torre.
Dentro alla Torre sarebbe stato al sicuro. Dentro alla Torre sarebbe stato libero.
Libero.
Libero…
Steven scosse il capo, per schiarire la mente dalle nebbia che l’aveva avvolta in batuffoli tentacolari di disorientamento. Sfregò il palmo della mano sulle labbra, avvertendo noduli cicatriziali, cordoncini compatti e spessi contro la bocca. Flesse ed aprì più volte le dita, la ragnatela sottile di sfregi che brillava e balbettava alla luce sempre più tenue della luna.
Poi, come un bacio od una carezza, una goccia di rosa si raccolse nel suo palmo. Steven osservò affascinato la polla d’alba combaciare perfettamente col suo palmo, scivolare nello spazio tra le dita, nascondendosi buffa e giocosa all’interno del polsino bianco. Un secondo raggio saettò dalla finestra all’interno dell’ambiente circolare ed incendiò il pettorale rosso e oro di Tony, delineò le rifiniture, colò nelle pieghe dei dettagli e rese ancor più splendente il cerchio ronzante ed azzurro al centro del petto.
Steven non aveva mai visto niente di simile, dacché ricordava e aveva memoria –Prima era unicamente buio e occhi di brace. Spinto da una curiosità improvvisa, dal fascino magnetico che quel marchingegno suscitava su di lui –Così come lo avevano suscitato i lineamenti stranamente familiari di Tony, la curva del mento pizzicato dalla barba, i capelli scarmigliati e scuri, gli occhi dai toni vividi- allungò il braccio a sfiorarlo a punta di dita.
Era caldo, sotto i polpastrelli, il suo ronzio vibrava lungo le falangi e le ossa della mano, su per il braccio, piegava nella spalla e raggiungeva il cuore. Il giovane trattenne il fiato e ritrasse subito la mano quando uno spasimo nel corpo di Tony ed un singulto lo avvisarono del suo prossimo risveglio.

 

04. Do I Even Dare?

Tony non aveva mai mangiato pane più raffermo di quello offertogli da Steve, né zuppa più insipida. Non era questione di gusti altolocati, il cibo che il giovane aveva dentro la Torre era vecchio e stantio, scrocchiava sotto i denti e ammollava lingua e palato di rivoltante muffa pelosa.
«Grazie.» disse Iron Man, quando ormai lo stomaco non era più in grado di contenere un’ulteriore cucchiaiata della brodaglia annacquata «Ti devo la vita.»
L’altro gli indirizzò un sorriso impalpabile, un bagliore soffuso degli occhi azzurri.
Quando Tony si era ripreso aveva colto un movimento affrettato del giovane, di chi sta nascondendo qualcosa di potenzialmente imbarazzante. A disagio, Steven gli aveva chiesto se sentisse abbastanza in sé per mangiare qualcosa e senza una parola di più era sceso dabbasso per preparargli un semplice pasto. Stark ne aveva approfittato per dare una nuova occhiata all’intorno ed avvertire il cuore oppresso dall’ambiente così logoro, smorto, solitario. Era chiaro che Steven cercasse di tenerlo il più abitabile e confortevole possibile ed ugualmente era chiaro che ogni sforzo era vano, visto la mancanza di mezzi.
«Come ti senti?»
«Meglio.» mentì Tony, inclinando la testa sulla spalla «Come sei finito qui, Steven?»
Il giovane contrasse la mandibola e scosse la testa, un accenno di risposta salito alla bocca e poi immediatamente masticato, appallottolato ed ingoiato.
«Sono sempre stato qui.»

Balle, fu il pensiero di Stark e si astenne bene dal dirlo ad alta voce. Non commentò l’affermazione del padrone di casa, tuttavia di concesse un eloquente sollevare di sopracciglia. Mossa sbagliata, comunque, a giudicare dall’occhiata gelida scoccatagli dall’altro e da come chiuse le spalle, interrompendo il contatto visivo mantenuto fino a quel momento.
«Nessuno nasce e cresce in una Torre.»
«Non ho mai detto di esserci nato.»
«Hai detto di essere sempre stato qui.» replicò Stark, corrugando la fronte.
Steven si passò le dita tra i capelli, riavviando la ciocca che dalla fronte scendeva a solleticare la punta della ciglia bionde.
«Forse il mio sempre non comincia dalla nascita.»
«E da quando, allora?»
«Non lo ricordo.»
Fantastico. Le cose andavano di bene in meglio e il suo interlocutore stava più di un problema di stabilità mentale. Ciò lo faceva rientrare perfettamente nella ristretta cerchia di conoscenti con cui Tony scambiava più di un saluto noncurante od un accenno altezzoso del capo, tuttavia non era la compagnia adatta in territorio nemico. Distrattamente, Stark sorvolò a punta di dita le rigature bluastre che gli si rincorrevano sulla piega del collo: l’avvelenamento da palladio aveva trovato nella debolezza e nella mancata assunzione del beverone “alchemico” un terreno a dir poco fertile.
«Sei sempre rimasto qui?»
«Sì.»
«Non sei mai uscito?»
«Mai.»
Le sopracciglia di Stark schizzarono all’attaccatura dei capelli, le palpebre sgranarono, stupefatte. Ricapitolando: Steven era rinchiuso da un periodo non meglio identificato nella Torre e non ne usciva per l’esattezza da quel periodo non meglio identificato che lui definiva sempre.
Osservò il mobilio, gli abiti di Steven, tamburellò i polpastrelli sulla ciotola sbeccata, ripensò al cibo magro e muffito che l’altro gli aveva offerto.
Se era vero che non usciva dalla Torre, allora qualcuno si dava da fare per mantenerlo in vita –O quantomeno al limite della sussistenza. Chi fosse e per quale recondito motivo non era dato sapere, né Tony ci teneva a scoprirlo: ci avrebbe scommesso un occhio della testa e tre quarti del patrimonio che chiunque ci fosse dietro a quella storia non era gentile e disponibile quanto Steven.
«Perché non sei mai uscito?»
«Perché il mondo fuori è pericoloso. Il mondo di fuori vuole farmi del male. Dentro la Torre sono al sicuro.»
«E’ per via della Guerra?»
Steven lo fissò ad occhi spalancati, il fiato appeso ratto alla bocca livida. Un’incrinatura frantumò lo specchio vitreo dell’iride, lasciando filtrare una nota più intensa e consapevole di cose, orrori dimenticati.
Che fosse un disertore? Magari aveva pagato profumatamente il vero proprietario della baracca per nascondersi agli occhi di Alleati e affiliati dell’HYDRA, riuscendo a garantirsi un minimo di sostentamento con promesse e spiccioli.
Stark appoggiò la scodella di brodaglia sul materasso, scostò il lenzuolo ed appoggiò i piedi sul pavimento. Prese un respiro e si levò dritto, scrocchiando le vertebre del collo indolenzito e sciogliendo i muscoli delle braccia. Il giovane sbatté le palpebre, perplesso.
«Dove vai?» gli chiese.
Tony diede uno sbuffo.
«In Guerra.»
«Portami con te.»
Se la richiesta non lo avesse gelato al punto di farlo rassomigliare ad una statua di sale, Iron Man sarebbe scoppiato a ridere. Un ghigno strafottente gli arcuò la bocca costellata di croste marroni rapprese, un baluginio sfrontato rese i suoi occhi affilati come una faina.
«Per quale motivo dovrei?» lo sfottè –Il che, d’accordo, era parecchio scortese visto e considerando il non trascurabile dettaglio di avere un debito di vita con lui.
Steven si levò in piedi e Stark ebbe l’impressione che fosse raddoppiato per imponenza: emanava potenza e comando, un’aura tale che lo stesso Fury avrebbe avuto un paio di problemi a contrastare.
«Perché senza di me non potresti procedere più di qualche metro» proferì e per Tony fu come se avesse appena pronunciata la Verità più Sacra dell’Universo. «Il mondo di fuori è oscuro, è pieno di pericoli, la foresta inghiotte i viandanti e li trasforma in ombra: senza di me, diverrai uno di loro. Sei debole e sfinito, non hai ancora recuperato le forze, hai perso troppo sangue, hai preso troppo freddo. Io posso mostrarti la via che cerchi. Portami con te. Alla Guerra. Devo andare: è un richiamo che mi spinge e cui non posso non rispondere. Non hai altra scelta. Portami con te.»
«Cosa ti aspetti di trovare lì fuori, Steven?»
«La mia vita.»
E così, in meno di un’ora Tony si era trovato infagottato in una camicia più grande di una taglia e mezza almeno, pantaloni di lana ruvida e scarpe scomode, slargate, ma per fortuna integre. Steven aveva raccolto in una saccoccia un po’ di viveri ed una corda, tratta da sotto il letto. Si erano avvicinati entrambi alla finestra e Stark si era direttamente gettato dalla balaustra senza aspettare che Steven montasse la carrucola; bilanciandosi usando i repulsor beam ad intermittenza, fu in grado di atterrare sull’erba, sollevando polline d’oro bianco ed un profumo dolce-amaro di rugiada.
Alzò gli occhi e li puntò sul giovane, una mano stretta alla corda ed il volto terreo. Si domandò cosa gli stesse passando per la testa, se sarebbe stato in grado o meno di compiere il grande passo oltre l’isolamento. Non pareva convinto e aveva l’aria di chi si è cacciato in un guaio di quelli grossi.
«Allora?» lo spronò «Non ho tutto il giorno! Ho un’armatura da riparare e magari una Guerra da vincere!»
Steven lo osservò dall’alto della Torre, serrò le palpebre e di nuovo Stark colse in lui il riflesso di una persona differente, abituata all’azione, abituata alla battaglia e alle situazioni senza via di fuga, abituato a scegliere e a scegliere in fretta, per salvare se stesso e coloro che erano con lui.
Notò una schermaglia caratteriale ed ideologica tra queste due entità, scontri di creste di onde e di spuma l’una contro l’altro, spruzzi e schizzi, retrocedere ed avanzare, muggire di maelstrom e ritrarsi di minuscoli flutti.
Alla fine, Steven saltò senza dare ragione a nessuna delle due parti. Stette coi palmi affondati nella terra, respirando a fondo l’aria e l’ossigeno, raccogliendo sul viso e sui capelli il bacio rovente del sole, il tepore dell’azzurro, il canto del vento e della brezza. Un sorriso avvampò sulla bocca e le iridi sfolgorarono come mai prima.
Si rialzò, sistemò la saccoccia sulla spalla e diede una pacca sul braccio di Stark, appena sopra il gauntlet.
«Alla Guerra, allora.»

   
 
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