Disclaimers:
Niente mi appartiene; In the Flesh è di proprietà
di Dominic Mitchell e della
BBC.
Note dell’autrice:
Il titolo della storia è tratto da una strofa della canzone
‘Corpse Roads’ di
Keaton Henson. Questa raccolta di
flashfic ha partecipato al Contest “Tempo di... Tag! Second Edition” sul Forum di EFP
indetto da Ili91 classificandosi al Terzo Posto ed aggiudicandosi il premio speciale come Miglior Caratterizzazione. Ho
scelto il tag ‘angst’,
il prompt ‘lacrime’
e la citazione – a cui mi sono
ispirata – 11. “Vi perdono
il male che mi
avete fatto. Vi perdono la mia vita spezzata, il mio onore perduto, il
mio
amore infangato e la salute della mia anima annegata per sempre nella
disperazione.”.
Bene,
vi auguro buona lettura – i commenti sono sempre bene
accetti, soprattutto in
questo caso, visto che è la prima volta che mi cimento nello
scrivere in quello
che ormai è diventato il mio telefilm preferito –
e spero che la storia possa
piacervi. -Martina-.
Gabe, tesoro, questa
fanfiction la
dedico a te! Ti voglio bene!
DON’T LIE,
I KNOW WE’RE FIXING TO DIE
Amy
Lo specchio della
stanza di quel
bungalow immerso nella semi-oscurità rifletteva la sua
immagine ormai spenta,
debole. Rifletteva cose che nessun essere umano avrebbe mai voluto
vedere sulla
propria carne. Amy fece scorrere lo sguardo su quella superficie lucida
con gli
occhi colmi di lacrime. Fissò i lividi bluastri, le lesioni
che macchiavano la
pelle del suo stomaco e delle sue braccia e desiderò solo di
scomparire. Era
così stanca di combattere, di sopravvivere.
Non era il dolore che la faceva stare male, ma le false e vane promesse
di una
cura inesistente che gli specialisti le rifilavano. E non poteva
più sopportare
tutte quelle prese in giro, non poteva più sopportare di
essere un peso per sua
nonna Dorothy, quella donna forte e coraggiosa che, nonostante
l’età e la
solitudine, aveva fatto tutto il possibile pur di guarirla.
Con il dorso
della mano, Amy asciugò
le lacrime che, sfuggite al suo controllo, le avevano rigato le guance.
Riallacciò i bottoni della camicetta per coprire quei segni
meschini e si
sedette sul bordo del letto. La leucemia era giunta allo stadio
terminale.
L’aveva divorata da dentro, fibra per fibra, e aveva vinto.
Le restavano un
paio di giorni di vita – se non di meno –, stando
alle parole dell’ultimo
dottore che l’aveva visitata. Ormai non c’era
più niente da fare.
Quella
stessa notte, alla luce
dell’abat-jour, fece testamento. La sua mano tremava, mentre
la penna che
stringeva debolmente tra le dita marchiava indelebilmente col suo
inchiostro
nero quel pezzo di carta, trascrivendone le sue ultime
volontà. Una volta
finito, piegò il foglio e lo posò sul comodino,
poi si distese sul letto e, con
un peso sul cuore, chiuse gli occhi.
Il mattino
seguente, Amy si svegliò
più debole che mai, ma nonostante ciò
pregò sua nonna di accompagnarla fuori. Il
cielo plumbeo di Roarton regalava un’aria fresca che le
sferzava piacevolmente
il viso, mentre era seduta su una delle panchine del parco.
«Nonna?»,
la chiamò. «Recitami la mia poesia
preferita.»
Dorothy
esaudì la richiesta della
nipote e, facendole adagiare la testa sulle proprie gambe,
interpretò ormai a
memoria ‘Do not go gentle
into that good
night’
stringendole una mano. Amy si perse nella voce affabile della nonna
mentre osservava alcuni bambini correre a perdifiato, ridere contenti e
divertirsi sulle altalene. Una lacrima percorse il suo zigomo.
Pensò a quanto
fosse stato ingiusto, da parte della vita stessa, essere stata messa in
panchina ancor prima che avesse potuto iniziare a giocare.
Improvvisamente si
sentì senza più forze e la stretta intorno alle
dita della sua adorata nonna si
fece più tenue.
«Nonna…»,
mormorò, la voce flebile. «Devi
lasciarmi andare…»
Dorothy
abbassò lo sguardo per
guardarla e capì. Il momento era arrivato e anche lei non
poteva fare più
niente per evitarlo. L’abbracciò forte
un’ultima volta, con gli occhi colmi di
lacrime.
«Mia
dolce Amy…»
«Ti
voglio bene, nonna… grazie di
tutto», fece appena in tempo a sussurrare la ragazza, prima
che la sua giovane
vita venne spezzata per sempre.
Kieren
La grotta era
semibuia, illuminata
solo dalla luce flebile e delicata di alcune candele. Il cielo
piangeva, quel
giorno, e l’acqua piovana scrosciava al di fuori di essa,
lontana, bagnando
tutto ciò che incontrava nella sua discesa. Kieren, con gli
occhi colmi di
lacrime, fissava la scritta che capeggiava sulla volta rocciosa davanti
a sé, ‘Ren + Rick
4ever’. Non c’era
stato
nessun per
sempre,
tra di loro. Rick
era partito per l’Afghanistan – senza neanche
prendersi la briga di dirglielo –
e là vi era morto. E Kieren non poteva più
sopportare tutto quel dolore atroce,
non poteva più sopportare l’idea che il suo
migliore amico non sarebbe più
ritornato da lui, non poteva più sopportare
quell’amore puro – ma mai vissuto
alla luce del sole – che, prima ancora di poter nascere, era
già stato
infangato. Non poteva più vivere ora che Rick se
n’era andato per sempre. La
sua vita non aveva più alcun senso, non aveva più
significato, non era più
degna di essere vissuta, non senza di lui.
Kieren
guardò un’ultima volta la loro scritta, poi
estrasse dalla tasca
della felpa il coltellino svizzero che suo padre gli aveva regalato il
giorno
del suo compleanno. Alzò le maniche fino a metà
avambraccio, scoprendone i
polsi scarni. La punta di quella sottile lama fredda e lucente si
posò sulla
sua pelle tesa e Kieren, dopo aver preso un profondo respiro, la
affondò nella
carne, senza alcuna remora, tracciando una linea verticale, spaccandosi
le
vene. Strinse i denti per il dolore e subito, impugnando il coltellino
nella
mano sinistra, squarciò anche l’altro polso. Si
lasciò cadere con la schiena
contro una roccia e abbandonò il coltellino sul proprio
petto che spasimava,
alzandosi ed abbassandosi per il male generato da quei tagli profondi.
Il
sangue cominciò a fluire copioso dai polsi dilaniati e
andò a sporcare e
macchiare tutto intorno a lui. Le lacrime avevano ripreso a bagnare gli
zigomi
di Kieren, il quale, nonostante lo sguardo appannato dal pianto e dalla
pena,
era rimasto come ipnotizzato dallo scorrere caldo ed incessante del suo
stesso
sangue. I suoi occhi d’artista non avevano mai visto un rosso
più bello di
quello.
Non
pensò al dolore che avrebbe
causato ai suoi genitori, non pensò a Jem, la sua adorata
sorellina, alla
rabbia e alla sofferenza che le avrebbe provocato commettendo suicidio.
Non
pensò a tutto il sangue che stava perdendo, a tutte quelle
vene recise, lacerate
dal fendente. Non pensò a niente se non che nel giro di
qualche minuto tutto
sarebbe finito e il suo desiderio sarebbe stato esaudito: raggiungere
Rick.
Kieren
chiuse gli occhi ed un senso di
strano torpore lo investì. Il suo sangue si era quasi del
tutto consumato, così
come le sue lacrime. Non ebbe paura della morte che stava
sopraggiungendo su di
lui. Non ebbe più paura di nulla, in quel momento. Si
sentì svuotato da tutto
il dispiacere che, negli ultimi giorni, gli aveva straziato
l’anima. E finalmente,
con un sorriso triste dipinto sulle labbra, provò sollievo.
Steve
e Sue
Era passata una
settimana esatta dal
giorno in cui suo figlio Kieren era morto suicida. Era passata una
dannata
settimana dal giorno in cui lui l’aveva trovato
lì, nella grotta immersa nei
boschi, seduto malamente con la schiena appoggiata contro una roccia e
il suo
stesso sangue a imbrattare tutto – i suoi polsi sfigurati, i
suoi vestiti, il
terreno roccioso che era stato testimone silenzioso della sua morte
– e Steve
continuava a sperare che fosse tutto un incubo. Un incubo da cui presto
si
sarebbe svegliato. Ma purtroppo quella non era altro che la tremenda
realtà:
suo figlio era morto e non sarebbe mai più tornato.
Steve si
alzò dal divano e andò verso
la finestra per guardare fuori. La notte era scesa da un pezzo su
Roarton e il
sonno, come ormai ogni notte da quando era diventato un padre
disperato, non
era ancora arrivato ad inghiottirlo nel suo torpore. Come uno spirito
errante e
senza pace, vagò ancora un po’ per il salotto, poi
ritornò a sedersi sul
divano. Provò a chiudere gli occhi stanchi e provati, ma non
appena le
palpebre calarono definitivamente,
l’immagine del figlio che stava morendo tra le proprie
braccia si riversò nella
sua mente e fu costretto a riaprire immediatamente gli occhi per
interrompere
quel flusso inesorabile di terrore, per non rivedere più
tutto quel sangue, per
non riprovare più tutto quel dolore.
«Steve?»,
la voce della moglie gli
arrivò flebile alle orecchie. «Tesoro, ti senti
bene?»
L’uomo
si voltò per poterla guardare e
per un attimo – un brevissimo attimo –
desiderò mentirle, rispondendole di sì,
che stava bene, che tutto andava
bene, ma poi scosse il capo.
«È
stata tutta colpa mia», esordì,
straziato. «Se non avessi regalato a Kieren quel maledetto
coltellino svizzero
per il suo compleanno, lui non si sarebbe mai tolto la vita e adesso
sarebbe
ancora…», la voce gli si spezzò e si
coprì il volto con le mani, soffocando un
singulto.
Sue
raggiunse il marito e si sedette
accanto a lui, accarezzandogli la schiena.
«Non
è stata colpa tua», lo
contraddisse, poi gli strinse dolcemente i polsi facendo in modo che
liberasse
il viso dalla morsa delle sue stesse dita.
E Steve lo
fece. Mostrò il proprio
volto sconvolto e contratto da una colpa che non era sua e lui, che non
era mai
stato bravo a lasciarsi andare, che parlava poco ed evitava di far
affiorare le
proprie emozioni, in quel momento pianse.
Pianse tutte le lacrime che aveva ricacciato indietro in quegli ultimi
giorni
di agonia e Sue, i cui occhi condividevano lo stesso dolore liquido del
marito,
le raccolse una ad una, asciugandole con i pollici.
«Un
genitore non dovrebbe sopravvivere
ai propri figli», mormorò infine Steve, dopo un
silenzio insostenibile.
«Lo
so, tesoro… lo so.»
E
nell’ombra di quel salotto, un
marito ed una moglie, che ora non erano altro che due anime annegate
per sempre
nella disperazione, si abbracciarono, aggrappandosi l’uno
alle spalle
dell’altra, alla ricerca di un conforto che mai sarebbe
arrivato.
Jem
Il piccolo e
morbido cerchio di cotone
imbevuto lavò via anche l’ultima traccia della
pesante matita nera che, durante
tutti i giorni, contornava gli occhi chiari di Jem, nascondendone tutta
la
sofferenza per mostrarla al mondo come una ragazza forte e con le
palle.
Raccolse i capelli in una coda alta e, dopo essersi guardata
un’ultima volta allo
specchio, uscì dal bagno. Strinse le dita intorno alla
maniglia della propria
camera ma poi, come fosse stata spinta da una forza più
grande di lei, le sue
gambe la guidarono verso la stanza del fratello. Aprì la
porta ed una fitta
dolorosa la colpì in pieno petto, spezzandole cuore, corpo
ed anima. Quella
stanza era vuota e lo sarebbe stata per sempre. L’assenza di
Kieren sbatteva,
impalpabile ed invisibile, su quelle pareti come un’eco
assordante e Jem sentì
un brivido gelido percorrerle la schiena. Non aveva più
avuto il coraggio di
varcare la soglia di quella camera da quando suo fratello,
nell’ultimo giorno
di novembre, aveva deciso di togliersi la vita. Non era trascorso
neanche un
mese da quando era successo, ma per Jem sembrava come fosse stato ieri.
Mosse
qualche passo e si guardò intorno. Niente era più
stato toccato o spostato,
tutto era ancora come lo aveva lasciato Kieren: i suoi disegni, i suoi
ritratti, i suoi pennelli, le sue tempere, i suoi libri, tutto. Ma nella stanza,
fra tutte quelle cose statiche e prive di
vita che la riempivano, mancava quella più preziosa.
Jem si
sedette sulla sedia della
scrivania e le lacrime pervasero i suoi occhi. Il dolore per la perdita
del
fratello continuava ad essere incessante e lancinante, a dilaniarla nei
più
profondi recessi del suo cuore e lei non era stata preparata a
sopportare tutto
quello strazio. Avrebbe voluto rivoltare il mondo e spaccarlo a
metà, avrebbe
voluto gridare contro Kieren che non gli avrebbe mai perdonato il male
che le
aveva fatto, che era dannatamente arrabbiata con lui per il modo in cui
l’aveva
lasciata sola, senza dirle niente, senza lasciare neanche uno straccio
di
biglietto, senza che le avesse dato modo di poterlo salvare.
All’improvviso, la
rabbia, il rancore ed il dispiacere si fecero strada dentro di lei. Si
alzò di
scatto e buttò a terra tutto ciò che, fino ad un
istante prima, si trovava
sulla scrivania, ma si pentì immediatamente per il gesto
appena commesso. Si piegò
verso il pavimento per raccogliere fogli e quaderni e, solo in
quell’istante,
si accorse di aver lanciato anche un cd. Lo riconobbe subito. Era il cd
che
Kieren aveva mixato per lei, pieno di canzoni di genere hardcore e
metal. Lo stesso
cd che l’aveva aiutata a smettere di camminare sulla punta
dei piedi quando
aveva undici anni.
Jem strinse
al petto quel piccolo
tesoro che credeva di aver perduto e lasciò che le lacrime
scorressero sulle
sue guance. Cadde in ginocchio, afflitta, e si rese conto che, questa
volta,
non ci sarebbe più stato suo fratello ad aiutarla a
camminare.
Simon
La camicia a righe
verticali giaceva
sul pavimento del bagno, in un ammasso informe di stoffa, dopo che
Simon ne aveva
slacciato ogni singolo bottone per togliersela di dosso e lasciarla poi
scivolare via dalle braccia. Diede le spalle allo specchio e, girando
il volto
da un lato, con la coda dell’occhio osservò la
propria schiena. Il pallore
cadaverico di essa contrastava con la tinta color carne del fondotinta
che gli
avevano dato – insieme alle lenti a contatto – dopo
essere stato etichettato
come idoneo per poter lasciare il centro di trattamento di Norfolk.
Simon prese
un profondo respiro prima di percorrere con lo sguardo la cicatrice che
il
dottor Halperin e il dottor Weston gli avevano inflitto lungo tutta la
colonna
vertebrale, scavandovi a fondo, senza alcuna pietà. Quella
profonda cicatrice
scura e mal ricucita sembrava volesse tagliargli in due la schiena.
Riuscì ad
intravedere le tre vertebre finali, lì, dove i fili di
sutura non avevano
retto. Se solo fosse stato ancora vivo, Simon avrebbe potuto sentire il
proprio
cuore perdere un battito a quella vista che tanto lo ripugnava.
Recuperò da
terra la camicia e se la rimise addosso. Non sentì la stoffa
leggera
percorrergli e solleticargli la pelle, non sentì la durezza
dei bottoni tra le
proprie dita mentre li riallacciava, non sentì niente. Il suo corpo da parzialmente
deceduto
non percepiva più nulla se non il freddo della morte stessa
che,
come un velo, si era posata su di lui dopo essere andato in overdose.
Simon
evitò di guardare il riflesso
del proprio volto allo specchio e uscì dal bagno.
Ritornò nella sua camera, si
sedette sul bordo del letto ed allungò un braccio verso il
comodino per poter prendere
la fotografia incorniciata di lui e sua madre. Con l’indice
accarezzò il volto
di quella donna stupenda che sorrideva, immortalata
dall’obiettivo, di quella
donna che gli aveva dato la vita, che gli aveva donato amore, che gli
era
sempre rimasta a fianco, nonostante le delusioni, nonostante le
innumerevoli
scelte sbagliate. Quella donna che lui, involontariamente, senza aver
alcun
potere di controllo sui suoi istinti primordiali e malvagi, aveva
ucciso la notte
stessa in cui era risorto, in cui non
era diventato altro che un rabbioso. Simon
chiuse gli occhi e ricordò lo sguardo pieno di disprezzo di
suo padre Iain la
prima volta che lo venne a trovare al centro di cura. Uno sguardo duro,
freddo
come il ghiaccio. Iain aveva continuato a guardarlo così
anche quando aveva
deciso di riportarlo a casa con sé. Simon aveva perduto
l’onore che un padre
riservava nei riguardi del proprio figlio. Aveva perso la sua
benevolenza
paterna nel momento stesso in cui l’aveva privato
dell’amore della propria
moglie. E in quell’istante capì che qualcosa si
era spezzato, che le cose non
sarebbero più state come una volta, e desiderò
solo di poter morire una seconda
volta, per
sempre.
Con gli
occhi che volevano versare
lacrime ma non potevano, Simon guardò ancora la foto e
implorò perdono a sua
madre.