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Autore: TheSandPrincess    15/12/2014    3 recensioni
Kovu appoggia la fronte contro quella di lei, la abbraccia, si rifiuta di lasciarla andare.
«Mi sei mancata» sussurra ad occhi chiusi contro le sue labbra.
Kiara lo bacia di nuovo, passa le mani tra i suoi capelli neri, raccolti in trecce sottilissime che gli ricadono sulle spalle, sospira.
«Lo so» risponde, infine. Perché la verità è che non c'é altro da dire. Non c'è nulla che possa giustificare questo loro vivere senza vedersi quando abitano nella stessa città, nulla che possa spiegare perché tutto questo venga considerato sbagliato, nessun modo per comprendere perché vada tenuto nascosto.
Hanno la pelle di colori diversi. E quindi?

[human!Kovu/human!Kiara ♥ | modern!AU | accenni al razzismo]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kiara, Kovu
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Notina piccolina piccolina prima della lettura:
 
Tutt'oggi, a Cape Town, il 56% della popolazione
non interagisce mai con persone di un'altra razza.
Il 23% lo fa a volte o di rado, e solo il 21% spesso
o quotidianamente. Non mi è parso quindi troppo
assurdo immaginare che una relazione intrerrazziale
venga considerata praticamente proibita. Tuttavia,
non ho mai vissuto in Sud Africa, e le mie idee si
basano semplicemente su quello che ho scoperto 
facendo ricerche. Vi prego quindi di non linciarmi se
qualcosa non corrisponde perfettamente alla realtà.
 
 














Di piccole e grandi follie
 
 
 
 
 




 
Il sedile di plastica del vecchio autobus è tanto rovente che Kiara, con i suoi pantaloncini corti, quasi non riesce a stare seduta. Il caldo è opprimente, toglie quasi il respiro, e vorrebbe poter dire il contrario, ma non è il solo motivo per cui una goccia di sudore le scende lungo la guancia.
Ha le cuffie nelle orecchie, guarda fuori dal finestrino la città che scorre via, cerca di comportarsi come se fosse immersa nei propri pensieri. Ancora quattro fermate. Respira.
Non ce la può fare. Non può resistere tanto a lungo. Non quando ogni volta che prende questo maledettissimo autobus, quello che porta fuori dalla città, verso le campagne brulle in cui si annidano i serpenti e le case sono separate da centinaia di metri di terreno, ha paura che sia l'ultima.
Ha paura che qualcuno la riconosca, che le chieda dove sta andando, che suo padre lo venga a sapere. Ha paura di perdere tutto perché non è stata abbastanza attenta. Ha paura e basta, e non sa come liberarsi di questo terrore che, come un parassita, sembra starle lentamente divorando le interiora.
Fa un respiro profondo, si concentra sulla musica. Andrà bene. Andrà bene come sempre. Sono due mesi ormai che prende questo autobus, due mesi che pensa che il suo mondo stia per crollarle addosso, due mesi che alla fine tutto fila liscio come l'olio. Sono due mesi che nasconde questa storia ai suoi genitori, e due mesi che non ha rimorsi.
Andrà bene.
Quando arriva la sua fermata, il capolinea, l'autobus è vuoto. Sono solo lei e l'autista. Si alza con calma, lo saluta, scende sul marciapiede e tira fuori il telefono, in attesa che il mezzo riparta. Se il conducente si è domandato cosa venga a fare una ragazza bianca qui, ha deciso di tenere i suoi dubbi per sé. L'autobus riparte, scompare dietro a una curva.
Kiara alza lo sguardo, e non deve neanche cercalo. Eccolo, dall'altra parte della strada, che la guarda e sorride. Kovu.
Il cuore le batte a mille, ma questa volta la paura non c'entra niente.
 
Kiara respira, cerca di calmarsi.
Non sa dove si trovi. Il suo telefono è morto.
Niente GPS, niente Internet, niente possibilità di chiamare i suoi.
Ha paura. Soprattutto perché è piuttosto sicura di essere finita in uno di quei posti in cui un bianco non dovrebbe mai mettere neanche la punta dell'alluce.
Dio, come ha fatto a mettersi in un pasticcio del genere?
Si guarda intorno, nella speranza che arrivi presto un altro autobus. Ma la strada è deserta, come un quarto d'ora fa, quando è scesa dal mezzo precedente. Si è addormentata, ha perso la sua fermata, e allora ha pensato bene di scendere e aspettare un autobus che andasse nella direzione opposta, per poter tornare a casa.
Sarebbe dovuta restare seduta. Arrivare fino al capolinea e poi tornare indietro. Ci avrebbe messo dei secoli, certo, ma almeno sarebbe stata al sicuro.
Si passa una mano tra i capelli ramati, preme il tasto di accensione del telefono e spera che risponda alle sue preghiere.
Per un attimo lo schermo si illumina, ma è solo per ribadirle che la batteria è a terra.
Deve mantenere la calma. Niente panico. Niente panico.
«Hey!»
Panico.
Kiara si volta di scatto, e vede davanti a sé un bellimbusto nero. Alto, muscoloso, forte. Con tanto di cicatrice sulla fronte, bianca e lucente, che gli taglia a metà il sopracciglio sinistro.
Il terrore le attanaglia la gola.
«Serve aiuto?»
Dovrebbe scappare. Anche se non ha speranze. Correre finché può, fino a stramazzare a terra, fino a che lui non la raggiunge. Dovrebbe almeno provarci, ma è completamente paralizzata.
Dio, non può finire così. Non può non può non può.
Il ragazzo aggrotta le sopracciglia, confuso, e Kiara si sente una stupida quando nota che ha gli occhi così verdi da sembrare finti, perché questo decisamente non è il momento per pensare a cose del genere, e –
«Va tutto bene?»
Sembra preoccupato. Genuinamente preoccupato. E Kiara non sa né come fa né perché lo fa, ma risponde.
«Mi sono persa»
È quasi un sussurro, ma il ragazzo lo sente. Annuisce, come se comprendesse perfettamente.
«Pessimo quartiere per perdersi, scommetto» dice, con un sorriso amaro.
E Kiara si sente uno schifo, perché sa benissimo che se la pelle di lui fosse stata bianca sarebbe stato tutto diverso.
 
Kovu attraversa la strada con calma, senza mai smettere di sorridere, e Kiara non ce la fa a restare a guardarlo.
Gli corre incontro, lo stringe a sé. Non si vedono da una settimana. E forse è per questo che quando lui la bacia le sembra di non essersi mai sentita così bene. Le loro bocche si cercano disperatamente, le loro mani si sfiorano appena, troppo concentrate sul proprio obiettivo: Kiara gli accarezza la faccia, le spalle, il petto, mentre lui le stringe i fianchi, nel tentativo di avvicinarla ancora di più, più di quanto sia umanamente possibile.
Kovu appoggia la fronte contro quella di lei, la abbraccia, si rifiuta di lasciarla andare.
«Mi sei mancata» sussurra ad occhi chiusi contro le sue labbra.
Kiara lo bacia di nuovo, passa le mani tra i suoi capelli neri, raccolti in trecce sottilissime che gli ricadono sulle spalle, sospira.
«Lo so» risponde, infine. Perché la verità è che non c'è altro da dire. Non c'è nulla che possa giustificare questo loro vivere senza vedersi quando abitano nella stessa città, nulla che possa spiegare perché tutto questo venga considerato sbagliato, nessun modo per comprendere perché vada tenuto nascosto.
Hanno la pelle di colori diversi. E quindi?
 
Comincia così, per caso.
Il ragazzo si presenta, cerca di dissimulare quella tensione innegabile che deriva dallo scontro di due mondi. Si chiama Kovu, e si offre di aspettare con lei che arrivi un autobus, giusto per farla sentire un po' meno sperduta.
Kiara accetta, più perché si sente ancora un verme per i propri pregiudizi che perché si senta effettivamente al sicuro con lui accanto.
Passa un quarto d'ora.
Kovu scherza, le racconta un po' della sua vita, cerca di farla ridere. Ci riesce. Prima è un sorriso timido, poi una risata appena accennata. Quando infine la sente rimbalzare sui muri delle pareti, echeggiando per la strada vuota, per un attimo Kiara è assalita nuovamente dai dubbi, teme di aver abbassato eccessivamente la guardia, si sente in trappola.
Ma poi lo guarda sorriderle, e si chiede cosa abbia mai fatto questo ragazzo per meritarsi una diffidenza simile, e non trova risposte.
Allora racconta di sé, della sua vita, della scuola. Non dovrebbe, forse, ma ormai si è lanciata in questa battaglia folle contro i suoi stessi pregiudizi, e non ha intenzione di fermarsi. Non fa nomi, non dà indicazioni precise, ma racconta episodi e persone, assemblandoli in un mosaico imperfetto.
Non si fida, non ancora, ma non ha più paura.
Non sa quanto tempo sia passato, quando arriva l'autobus, ma sa che alla fine non è stato poi così male.
Lo saluta, e per un attimo vorrebbe restare ancora, perché si rende conto che questa sarà la prima e l'ultima volta che le strade si incrociano, ma non lo fa. I suoi genitori si staranno sicuramente chiedendo che fine abbia fatto, e non le pare giusto farli stare in pensiero senza motivo.
Così sale sull'autobus e si siede, cercando di far finta che non sia successo nulla, quando in realtà è perfettamente consapevole del fatto che non dimenticherà questo incontro così facilmente.
Anche perché, contro ogni aspettativa, è solo il primo di una lunghissima serie.
Da quel giorno in poi, ogni tanto si incontrano sull'autobus, e forse è solo un caso, o forse è Kovu che decide di fare un giro in città proprio quando lei esce da scuola.
Le prime volte sedersi l'uno accanto all'altra è strano, surreale. Però ci provano comunque. Chiacchierano, scherzano, e scoprono che alla fine non sono poi così diversi. Certo, Kovu vive in una casa che è probabilmente un terzo della sua, con sua madre e due fratelli, ma i problemi sono gli stessi: la scuola, gli amici, il futuro.
Un giorno le chiede di uscire.
«Stiamo parlando di un appuntamento?» domanda lei, sollevando un sopracciglio. Nelle ultime settimane ha scoperto quanto sia facile metterlo in imbarazzo, e non perde mai occasione di farlo.
Lui abbassa lo sguardo, borbotta qualcosa, ed è allora che Kiara capisce cosa vuole.
Senza neanche pensarci, gli prende il volto tra le mani e lo bacia.
 
Kovu la prende per mano e, come ogni volta, Kiara non può fare a meno di pensare che siano due pezzi di uno stesso puzzle, tanto combaciano perfettamente.
C'è una casa su un albero, poco lontano dalla fermata dell'autobus, ed è lì che devono andare.
Kovu sa che c'è perché l'ha costruita con suo zio, prima che lui e suo padre litigassero per questioni di soldi. Adesso uno è morto e l'altro è in carcere per omicidio. Lui è l'unico che ancora ci viene, perché è uno dei pochi posti in cui riesce a sentirsi in pace con se stesso e con il mondo. Uno dei pochi posti in cui non debba costantemente preoccuparsi di sua madre, che fa tre lavori pur di tenere in piedi la famiglia, di suo fratello Nuca, che non fa altro che entrare e uscire da centri di disintossicazione, di sua sorella Vitani, che a dodici anni ha già capito che viviamo in un mondo in cui o sei il lupo o sei l'agnello, e ha deciso che sbranare la gente le piace molto di più che essere sbranata, e di tutte le altre cose che non vanno e che sembrano moltiplicarsi di giorno in giorno, peggio dei conigli.
È uno dei pochi posti in cui lui e Kiara possono amarsi senza aver paura che finisca male. Uno dei pochi posti in cui non devono guardarsi le spalle, in cui non c'è la paura di essere picchiato a sangue per un bacio, in cui gli sguardi della gente non contano nulla, e non c'è nessuno che possa andare a riferire alle loro famiglie. È uno dei pochi posti in cui il mondo sembra finalmente girare nel verso giusto.
Kiara sale per prima, come al solito, e Kovu la segue, stando attento a dove mette i piedi.
Dentro non c'è molto: due materassi, ciascuno coperto da un sacco a pelo, un grande contenitore di plastica con qualche bottiglia d'acqua e vari snack, qualche poster scolorito alle pareti. Quello che basta perché non sembri una catapecchia abbandonata.
Lei si gira, lo guarda, sorride, lo bacia di nuovo.
Quando sono insieme i loro corpi sono sempre in contatto, sempre vicini, come se avessero bisogno di assorbire quanta più acqua possibile, in previsione del deserto che verrà dopo.
A volte Kovu si dice che non ha senso andare avanti così, senza piani e senza mete, senza alcuna sicurezza. Poi però la guarda, e capisce che quello che non ha senso è lasciarsela sfuggire.
«Credo di amarti» dice, in un sussurro.
E se fosse meno vigliacco ammetterebbe che in realtà quel «credo» non ha ragione di esistere.
 
Nessuno sa nulla.
Non i suoi genitori, non le amiche, nessuno.
Non capirebbero.
Dell'approvazione Kiara se ne sbatte, quello di cui ha paura è che possano mettersi tra lei e Kovu. Non vuole correre il rischio. Anche se significa mentire sistematicamente ai suoi genitori. Anche se significa vederlo al massimo due, tre volte la settimana. Anche se significa dover stare lontani dalla gente, per paura che qualcuno che conoscono scopra il loro segreto.
Per Kovu è anche peggio.
Se qualcuno nel suo quartiere venisse a sapere di Kiara, inizierebbero gli scherzi di cattivo gusto, le minacce, il vandalismo. Se qualcuno li vedesse insieme, nessuno dei due ne uscirebbe indenne. Perché il fatto è che dopo anni di sottomissione, c'è troppa rabbia per poterla semplicemente dimenticare. E fanno bene, i bianchi, a temere il mostro che loro stessi hanno creato.
Così, tace anche lui, e quando la gente gli chiede perché non lo si veda più, per strada, inventa una scusa sempre diversa, poi cambia discorso più in fretta che può.
Se sapessero, lo considererebbero un traditore. E Kovu vorrebbe poter dire il contrario, ma non c'è cosa al mondo che gli faccia più paura.
Ogni tanto riescono ad uscire insieme. Vanno in quartieri neutrali, tranquilli, in cui l'apartheid sembra quasi dimenticato, perché sanno che lì nessuno dei due corre rischi.
Per il resto, però, Cape Town sembra un campo minato. La chiamano la «nazione arcobaleno», il Sud Africa, quando ad ogni angolo c'è uno pronto ad ammazzarti solo perché hai la pelle del colore sbagliato.
Passano il tempo a sognare una vita diversa, in un'altra città, in un altro Paese, uno dove tutto è possibile. L'America? L'Inghilterra? Più si guardano intorno più sembra che in realtà il razzismo sia ovunque, e allora decidono che tanto vale che il mondo vada a farsi fottere.
«Troveremo un modo» le dice Kovu, e lei vorrebbe credergli, ma ci sono momenti in cui semplicemente non ce la fa.
Allora parla col vecchio che chiede l'elemosina poco lontano da casa sua, e che conosce ormai da anni. Si chiama Rafiki e Kiara è piuttosto sicura che gli manchi qualche rotella, ma almeno la ascolta. Certo, poi le risponde con indovinelli senza né capo né coda, ma alla fine quello di cui ha bisogno, più che un consiglio, è la possibilità di sfogarsi.
«Ascolta il vecchio Rafiki! Lui conosce la strada!» le urla dietro un giorno, con quel suo accento assurdo, mentre si sta allontanando.
Lei si gira e gli sorride, annuendo.
Chissà di che strada parla, e dove porta. E chissà se in quel luogo esiste un posto anche per la gente che ama a prescindere da tutto.
 
Kovu le bacia il collo, le spalle, il ventre. Le sue mani le accarezzano la schiena, sfiorano il bordo del reggiseno, la fanno sentire al sicuro. E Kiara non riesce a capire perché dovrebbe essere sbagliato. Non riesce a capire perché dovrebbe sentirsi sporca dopo ogni bacio, ogni carezza, ogni contatto. Non riesce a capire come il contrasto tra le sue dita lunghe e pallide e il bruno del suo torace possa essere considerato orribile, quando le pare la cosa più bella del mondo, e non riesce a capire perché dovrebbe sentirsi in colpa solo perché è innamorata.
Stesi l'uno accanto all'altra si guardano, si sfiorano, non riescono mai a saziarsi. E Kiara vorrebbe gridare e strapparsi i capelli, piangere ed essere ascoltata, far cambiare idea a chi non ha ancora capito che Dio, non esiste niente di più giusto di loro due, qui, adesso.
«Un giorno» le dice Kovu, accarezzandole i capelli, perché ormai ha imparato a capire che cosa pensa anche solo con uno sguardo.
Lei sorride, di un sorriso un po' amaro, un po' triste, e non si chiede come faccia a leggerla in questo modo, perché ormai ci è abituata.
«E intanto?» chiede, con un sospiro.
«Intanto niente» risponde lui «Ci amiamo, facciamo cazzate, ridiamo... Prima o poi vorrei anche fare sesso, a essere sinceri...»
Kiara a quel punto gli tira un cazzotto, forte, sulla spalla.
«Sei veramente pessimo» dice, e poi scoppia a ridere, perché non sa se sono più folli loro due o il mondo che li circonda, e per la prima volta non le importa scoprirlo.
Ha deciso che chiederà a Rafiki di quella strada che conosce.
Tanto ormai sembra che i matti siano gli unici a questo mondo ad avere ancora un po' di sale in zucca.
























Yaw.
Innanzitutto, poiché bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, devo ammettere che l'idea di scrivere un human!AU del Re Leone non mi sarebbbe mai venuta se non avessi letto questa ff di visbs88, che con la mia non ha nulla a che fare, ma che vi consiglio comunque di andare a leggere :D
Sull'AU poi vorrei dire che mi dipiace se stavate cercando una fic piena di angst e questa vi ha invece deluso, soprattutto per il finale spensierato, ma la mia idea, più che quella di rappresentare un amore tormentato, era quella di rappresentare un amore un po' così: senza sicurezze, senza aspettative, senza piani. Un amore che va avanti nonostante tutto, senza un motivo preciso. Non so se abbia senso come ragionamento, ma è così. Credo.
Per il resto credo di essermi innamorata di questa coppia, quindi aspettatevi tante altre comparse in questo fandom.
Amo anche human!Simba, ma solo quando africano. Altrimenti potete tenervelo. 
E nulla, fatemi sapere che ne pensate, magari ;)

-TheSandPrincess-




 
  
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