Guide me, lead
me (be patient with me)
Non sono movimenti suoi, non è la sua
stessa volontà a condurlo – è lui, è Newt che anche
stavolta gli prende le mani e le guida, stringendogli i polsi con decisione e
descrivendo al suo posto una traiettoria che da solo non riuscirebbe mai, mai a percorrere.
La canna della pistola gli tocca la
fronte, e Thomas vorrebbe chiudere gli occhi, ma non ce la fa a non guardarlo. Newt lo sovrasta, bloccandolo a terra come una tenaglia,
impedendogli di deviare il percorso dell’arma – Thomas ha le mani sudate,
scivolose, e sa che da solo non riuscirebbe a tenerla un secondo di più. Non posso. “Non posso!”, grida, con la
voce che raschia dal fondo della gola e che quasi non gli sembra la sua.
Ma Newt sta
urlando qualcosa sul farsi perdonare, sul fare ammenda, ed è così perduto e
lontano e impossibile da raggiungere – vuole solo che lo liberi una volta per
tutte, ma Thomas non può. E come potrebbe? Guarda quegli occhi consumati dalla
follia, quei tratti trasfigurati e feroci, e prega per un segnale qualunque. Non può andare così.
“Non posso!”, ripete, come se fosse
l’unica cosa che è ancora in grado di fare. E forse stavolta la sua impotenza e
il suo terrore disperato raggiungono Newt, o ciò che
è rimasto di lui, perché la furia con cui gli ha riversato addosso quelle parole
agghiaccianti sembra placarsi, e il suo corpo smette di tremare.
Thomas sa che non dovrebbe, ma per un
istante si concede il lusso di sperare. È quella manciata di secondi necessari
a vedere Newt tornare se stesso – il velo sui suoi
occhi si dirada, i suoi lineamenti contratti si distendono, e per una frazione
di tempo che vorrebbe poter congelare in eterno Thomas ritrova
quell’espressione, dolce seppure sempre offuscata da un fondo di malinconia a cui
fino ad oggi non aveva saputo dare spiegazione, che l’ha costantemente accompagnato
e guidato nella vita. In questa, e forse anche in quella di cui non ha memoria.
Poi Newt
pronuncia il suo nome – “Per favore, Tommy,
per favore” – come in una preghiera definitiva, e Thomas sa che è la sua ultima
richiesta. E che è davvero lui, è Newt a farla, e non
la cosa che lo sta corrodendo inesorabilmente da dentro.
Non
posso. Non ce la faccio da solo.
Chiudendo gli occhi su quel volto
tornato infine ad essere lo stesso di sempre (così familiare, e d’un tratto
quasi di nuovo sereno – è la cosa più cara che ha, e a differenza sua non è mai
riuscito a dirglielo veramente), Thomas si aggrappa con tutte le forze
all’illusione che anche adesso, e come tante altre volte prima, siano le dita
di Newt strette attorno alle sue a guidarlo nel
premere il grilletto.
Per
tutto il tragitto fino alla sala operatoria, intrappolato nella propria stessa
angoscia, Thomas si odia per ciò che sta facendo; o meglio, per ciò che non sta facendo.
È Newt che gli fa strada e che di tanto in tanto, quando lui
accenna a rallentare e a rimanere indietro, lo richiama con un tono quasi
scherzoso – “Eddai, Tommy, non stiamo andando al mio stramaledetto
funerale!” – quando invece dovrebbe essere lui a condurlo, a guidarlo lungo quell’interminabile
corridoio bianco che è anche l’ultimo tratto che percorreranno insieme. (Per ora, si ripete ostinato nella speranza di
autoconvincersi di stare agendo nel modo giusto. Per ora, sì, ma chissà per
quanto.)
A
sua discolpa (o forse è un’aggravante, almeno stando a ciò che la coscienza gli
bisbiglia incessantemente all’orecchio), Newt non sa
a cosa sta andando incontro. Piuttosto, sa di essere stato scelto per quel test
che da qualche tempo fa ricadere la scelta su un soggetto differente ogni mese,
e sa che il fine ultimo è trovare la Cura – la più nobile delle cause. Ciò che
non sa è che il test in questione sarà una prova di sopravvivenza quotidiana
che potrebbe piegargli sia il fisico che la mente; che non verrà rimandato a
casa alla fine, perché di fine ancora non si scorge neppure l’ombra; e
soprattutto non sa che gli esami medici a cui sta per essere sottoposto non
sono semplici idoneità volte a valutare la sua adeguatezza come candidato.
Non
sa che stanno per cancellargli la memoria, e peggio ancora, non sa che Thomas è
perfettamente a conoscenza di tutto questo.
Thomas
si odia. Con un peso del genere addosso, addirittura si sorprende di riuscire a
coordinare i movimenti delle gambe e muovere un passo dopo l’altro; eppure non
può evitare di prendere tempo, di fare quelle piccole pause che esasperano Newt. Newt, che lo rimbecca
(“Muoviti, Tommy!”) allargando le braccia come se avesse a che fare con un
bambino di cinque anni; Newt, a cui non è sorto e
continua a non sorgere il minimo sospetto. Perché si fida di lui, ed è questo a
straziare Thomas più di tutto il resto – se solo sapesse tutto ciò che non gli sta
dicendo, tutto ciò che gli sta tenendo nascosto…
Sei diventato bravo a mentire, pensa, e si disprezza.
Quando
però giungono al termine del corridoio, fermandosi poco prima della sala in cui
Newt dovrà entrare da solo, Thomas quasi cede. Sarà
anche fedele al W.I.C.K.E.D. e costantemente focalizzato sull’obiettivo finale
(cosa che i suoi supervisori non perdono mai l’occasione di lodare), senza
contare che il tempo e l’esperienza hanno sicuramente contribuito a rendere le
sue bugie più credibili – ma è comunque un ragazzino di neppure quindici anni,
e non è infallibile. Soprattutto, non quando si tratta di Newt.
“Tommy,
stai bene? Sei più pallido di questi muri” – e proprio Newt
deve infine aver notato qualcosa di strano, perché la sua voce ha perso ogni
traccia di leggerezza e suona ora seria, preoccupata. Per un momento in cui la
sola idea di rischiare così tanto gli fa girare la testa come se fosse ubriaco,
Thomas quasi considera l’ipotesi di rivelargli tutto, di mettere a repentaglio
non solo la lealtà al W.I.C.K.E.D. ma anche la propria incolumità, e tutto solo
per liberarsi del peso di quei segreti. Poi però incrocia lo sguardo di Newt, così sinceramente allarmato, e di colpo torna a
sentirsi il miserabile egoista che in effetti è – come può aver anche solo
pensato di dirgli tutto? Newt non lo guarderebbe più
in quel modo. Anzi, Newt non lo guarderebbe più, e pensare di doversi separare da lui senza
la certezza di rivederlo, ma con la certezza che lo odia, gli risulta
insostenibile.
“Sto…
sì, è tutto okay” biascica. Poi i suoi occhi saettano verso le porte della sala
operatoria, e prima di rendersene conto si ritrova a chiedergli: “Sei sicuro di
volerlo fare?”
(Non
ha senso, comunque. Non che Newt abbia voce in
capitolo: è stato scelto, e volente o nolente dovrà sottoporsi alla procedura.
Eppure Thomas si appiglia con le unghie e con i denti a quelle piccole cose –
domandare la sua opinione come se davvero contasse, accompagnarlo fin lì come
non ha fatto per nessun altro prima – quasi sperando che simili gesti rendano
il peso che gli grava sull’anima più tollerabile. Più giustificabile.)
“Tommy,
dacci un taglio, stai piantando la tragedia del secolo per un niente” – riecco
il tono ironico e un po’ spaccone. Totalmente ignaro. “Sono a posto. Davvero.”
Fa una pausa, osservandolo per un po’, poi si addolcisce:
“Sei
un maledetto idiota. Vieni qui” sbuffa, e senza lasciargli il tempo di reagire
in alcun modo gli passa un braccio attorno alle spalle e se lo tira contro.
Probabilmente
certi gesti, sebbene per loro due siano diventati sempre più frequenti, non
smetteranno mai di far sentire Thomas goffo e impacciato – eppure mai come
adesso si è sentito protetto nell’abbraccio di Newt,
la testa poggiata sulla sua spalla per via di quella differenza d’altezza che
di recente si è andata accentuando e le mani che quasi a tentoni vanno ad
allacciarsi dietro la sua schiena.
Ne
aveva bisogno. Ne ha
bisogno – e come farà ora che glielo
porteranno via, gli azzereranno i ricordi e lo getteranno in pasto al
Labirinto? Come?
Newt
giocherella un po’ coi suoi capelli – un movimento ritmico, cadenzato, che si
adatta al tono pacato della sua voce mentre gli spiega: “Andrà tutto bene. Farò
tutto quello che vorranno, e se necessario anche il doppio… troverò quella dannata
cura da solo, se devo. E poi ci rivedremo. Promesso. Lo so che non puoi vivere
troppo a lungo senza di me, cosa credi”, conclude, e l’accenno di risata che si
irradia dal suo petto è come un’ondata di calore che travolge Thomas –
incredibilmente, e per quanto la situazione sia tra le meno felici che abbia
mai vissuto, si ritrova a ridacchiare a sua volta. E a stringerlo un po’ di
più, perché ha ragione – non ha idea di come farà a sopportare ogni ora di ogni
giorno tra quelle quattro mura senza di lui. Certo, avrà ancora Teresa, e Minho, ma per quanto? E comunque, non sarà lo stesso.
“Va
bene, Tommy, va bene”. Newt si scosta delicatamente,
tenendogli le mani sulle spalle. “Fammi andare, ora. E per piacere togliti
dalla faccia quella dannata espressione da cane bastonato, uh?”
Thomas
si sforza di sorridere. È il minimo che possa fare – per quanto lo voglia, proprio
non riesce a mettere insieme un discorso d’addio che ovviamente non suoni come
tale, perciò gli deve almeno questo.
“Molto
meglio” commenta Newt – e il suo, di sorriso, è così
luminoso da risultare quasi devastante, tanto che per un istante sembra oscurare
persino le luci bianchissime e accecanti installate lungo il soffitto. “Andrò
alla grande, vedrai. Sarò di ritorno prima che Minho
faccia in tempo a dire shank”.
Nella
sua voce non c’è forzatura alcuna. Ci crede davvero, e per un momento anche
Thomas arriva a farlo, salvo poi tornare a soccombere a quel senso di colpa che
gli rode le viscere – perché è così ingiusto e sbagliato che Newt non sappia, e soprattutto che sia lui a parlare come
se dovesse rassicurare Thomas e non il contrario...
Poi
succede tutto così in fretta – Newt che gli sfiora
appena la fronte con le labbra, muove un paio di passi indietro e “Allora ciao,
Tommy. Augurami buona fortuna” – che Thomas si ritrova improvvisamente
sbilanciato, come se il centro del suo equilibrio sia venuto a mancare tutto
d’un colpo. “Aspetta!”, esclama prima di rendersene conto, e Newt si volta a guardarlo interrogativo.
È
solo quello sguardo, inconsapevole e insieme fiducioso, a frenarlo dal
raggiungerlo di nuovo e trattenerlo ancora un po’: vorrebbe qualcosa di più,
vorrebbe che quel saluto rendesse giustizia alla portata di ciò che sta per
accadere – ma ancora una volta, Newt è all’oscuro di
tutto, e turbarlo mostrando troppa emotività è una cosa che Thomas, per quanto
egoisticamente la desideri, non può proprio fare. Newt
lo sta salutando in maniera casuale, a cuor leggero, come se contasse di
rivederlo nel giro di pochi giorni al massimo – reggergli il gioco è la sola
cosa che può e deve fare, nonostante sapere che una volta che avrà varcato
quelle porte potrebbe rivederlo tra un mese o tra un anno, così come mai più,
lo fa morire un po’ dentro.
“Niente”,
scuote allora la testa, augurandosi che la voce non lo tradisca proprio adesso.
“Vai. Buona fortuna.”
Ogni
sillaba gli fa del male fisico. Poi però Newt sorride
di nuovo – ed è così ottimista, tranquillo e rassicurante che Thomas, ancora
una volta, si ritrova a crederci. A credere in lui, a lasciarsi avvolgere dall’aura
serena e pacata che l’altro riesce a mantenere persino in un momento così
cruciale.
È forte. Ce la farà. Deve farcela.
Newt
striscia il suo badge di riconoscimento accanto alla porta senza voltargli le
spalle e senza smettere di sorridere, simile a un faro nel buio, e a Thomas non
resta che pregare che neppure il Labirinto riesca a spegnere quella luce.
È come andare alla deriva, ma sapendo di
avere comunque una direzione precisa anche in un terreno mai esplorato prima.
Con chiunque altro, l’aspettativa,
l’ansia e la novità probabilmente lo paralizzerebbero; ma si tratta di Newt, che si muove con sicurezza e che gliene infonde a sua
volta, senza interrompere quasi mai il contatto visivo – e comunque, non esiste
nessun ‘chiunque altro’ con cui riuscirebbe ad immaginarsi così.
(È stata Brenda a decidere di concedere
loro un po’ di tempo da soli. Thomas non sa se abbia capito, o se semplicemente abbia ritenuto che avessero bisogno dei
loro spazi per chiarire un po’ di cose in pace e senza interferenze esterne –
in ogni caso la sua sensibilità è stata apprezzatissima, così come il modo un
po’ meno sensibile in cui ha trascinato via dal Berg sia
Jorge che Minho, quasi tirando il secondo per le
orecchie e adducendo il pretesto di voler fare un giro di ricognizione nei
dintorni. Thomas le ha sorriso, mentre la guardava spingerli fuori, sperando
percepisse anche solo la metà della gratitudine che aveva provato per lei in
quel momento.)
Sopra di lui, Newt
gli posa una serie di baci tra l’orecchio e il collo, e per Thomas il mondo
potrebbe tranquillamente esplodere attorno a loro in questo istante: non gliene
importerebbe. Non ha mai provato niente del genere.
(Hanno parlato un po’, prima. Ma sono
state chiacchiere fatue, niente più che una sorta di preambolo, di
anticipazione a ciò che stava per accadere – del resto, Thomas ha vissuto
ciascuno degli ultimi giorni come un’anticipazione. È da quando si sono
ritrovati dopo l’isolamento, e più precisamente da quando l’annuncio di Rat-Man
non solo gli ha rivelato il futuro di Newt, ma
paradossalmente ha anche gettato una luce nuova e chiarificante su ciò che
sente nei suoi confronti, che ogni singolo istante gli sembra essere trascorso
in funzione di questo. Ha vissuto ciascun giorno col cuore in gola, tenendo
d’occhio Newt con costanza e apprensione e temendo
ogni più piccolo cambiamento – temendo anche, egoisticamente, che un momento
del genere non sarebbe mai arrivato, o che sarebbe arrivato troppo tardi. E ora
che è infine giunto gli sembra di ritrovarsi senza fiato, come mai gli era
successo neppure al termine di un’intera giornata nel Labirinto.)
Newt non sembra
viverla nello stesso modo. Nei suoi gesti, nel modo in cui lo tocca, non c’è
neppure la metà della foga che ha condotto Thomas fin lì – è lento e misurato,
come se avesse tutto il tempo del mondo davanti a sé. Lo sguardo nei suoi occhi
è quanto di più lontano ci sia da quello di una persona dai giorni contati: è vivo,
bruciante, e al tempo stesso pieno di una calma che pare di un altro mondo. Non c’è fretta, sembra dirgli; voglio godermi ogni secondo – e se una
parte di Thomas può trovare esasperante la lentezza con cui traccia il profilo
del suo addome prima di arrivare ad armeggiare con la cintura dei suoi jeans,
l’altra gli suggerisce di affidarsi a Newt – sa
quello che fa, o almeno è questa l’impressione che ne riceve. E la cosa gli dà
una sicurezza che rende il tutto ancora più indescrivibile.
C’è comunque una cosa che Thomas vuole
fare – trova che Newt abbia ancora troppi vestiti
addosso, e puntellandosi sui gomiti si tira a sedere, con l’altro ancora a
cavalcioni su di sé. Gli afferra la t-shirt dagli orli e lo aiuta a sfilarla –
il gesto, oltre a lasciare Newt a torso nudo, gli
scompiglia i capelli in un modo a cui Thomas, con un tuffo all’altezza del
petto, può reagire soltanto colmando la distanza tra i loro volti. Lo bacia, e
come accaduto solo pochi minuti fa, quando si erano resi conto che parlare non
serviva più, gli sembra che nella sua mente si schiuda qualcosa – è come
gettare uno sguardo, così rapido e stranamente inclinato da dargli quasi un
senso di vertigine, sulla vita di cui non ha ricordi. Su qualcosa che forse è
già accaduto.
Newt risponde
infilandogli le mani nei capelli e aprendo di più la bocca, ed è così intenso,
e la pelle di entrambi scotta nei punti in cui i loro corpi aderiscono – o
almeno, così sembra a Thomas. Senza separarsi dalle sue labbra, Newt lo spinge di nuovo giù, e Thomas percepisce dalla
tensione fisica ed emotiva che rischia di travolgerlo che ciò che li aspetta è
invece completamente nuovo.
Quasi a dare una conferma ai suoi
pensieri, Newt si stacca e “Tommy” ansima appena,
guardandolo con quegli occhi così scuri da sembrare senza fine – lo guarda con
meraviglia e riverenza, e Thomas sperimenta l’assurda impressione di sentirsi
minuscolo e infinito insieme, “ho aspettato così tanto.”
I suoi palmi gli scorrono lungo la
schiena, e poi sui fianchi – Thomas si tende completamente, e l’attimo dopo i
vestiti di entrambi, finiti in un mucchio poco più in là, non sono più un
ostacolo. E loro sono l’uno sull’altro, l’uno di fronte all’altro, senza più
barriere a dividerli.
Thomas trema, senza sapere se sia più
per l’eccitazione o il timore. “…davvero?” riesce solo a mormorare, in un filo
di voce.
Per tutta risposta, e senza mai spostare
lo sguardo dal suo viso (assurdamente, sono proprio quegli occhi che non hanno
mai il minimo cedimento a farlo arrossire più di tutto il resto), Newt gli prende una mano e se la porta alle labbra. Gli
bacia le nocche con una delicatezza quasi inverosimile, sfregandogli lievemente
il pollice sulle dita, ed è un’immagine talmente perfetta che Thomas sa già
essere destinata a rimanere impressa nella sua mente per sempre, così come sa che
se il cuore non gli esploderà in questo preciso istante, allora non lo farà mai
più.
Non servono altre conferme. Ogni freno
residuo si dissolve, e improvvisamente Thomas dimentica tutto – la fuga dal
W.I.C.K.E.D., i giorni precipitosi che ne sono seguiti, e così la fantomatica Cura,
l’immunità, la lista di Rat-Man, la rabbia, lo shock, il misterioso biglietto
ancora chiuso nella tasca dei pantaloni, il panico, le notti in bianco, i dubbi
di ogni tipo. Nulla ha più importanza. Tutta la certezza di cui ha bisogno è
lì, sopra i suoi occhi e sotto le sue mani: è Newt,
l’unica persona per cui Thomas sente che valga ancora la pena sperare, credere
in una soluzione, lottare per qualcosa di migliore; Newt,
che con quelle poche parole si è confessato nel modo più onesto e disarmante
possibile, mettendosi completamente a nudo; Newt, scomposto
e spettinato e vivo, che si sistema
tra le sue cosce e che lo guarda come si guarderebbe l’universo intero,
probabilmente ignorando di essere a sua volta diventato il centro del suo.
È come andare alla deriva – ma con Newt a guidarlo, Thomas non ha nessuna paura di perdersi.
“Tommy!
Dannazione, non stai dando di matto, vero? Dimmi che non stai dando di matto.
Ti prego.”
Accovacciato
a terra, le spalle poggiate alla porta chiusa a chiave e la fronte premuta
contro le ginocchia, Thomas sta esattamente dando di matto. E non potrebbe essere altrimenti.
(L’ha
baciato. La persona con cui ha legato di più in questi anni, il compagno di
ogni interminabile giornata di test e allenamenti, il ragazzo che ha sempre
considerato come uno dei suoi amici più cari – proprio lui, Newt,
l’ha
baciato. Perciò Thomas crede di essere
abbastanza autorizzato a comportarsi nel modo in cui si sta comportando.)
Dall’altra
parte della porta, Newt non demorde.
“Per
favore, Tommy, esci. Non fare così. Parliamone un attimo.”
Senza
emettere un suono, Thomas si abbraccia un po’ di più le ginocchia e inspira a
fondo – non che serva a tranquillizzarlo granché. Ha i palmi sudati, il cuore a
mille e un fischio strano nelle orecchie. Si può morire per un attacco di
panico?
(Non
che non se la sia cercata. Non avrebbe dovuto tirar fuori da principio quel
discorso, quello stupidissimo ‘sto-per-compiere-quattordici-anni-e-non-ho-ancora-dato-il-mio-primo-bacio’.
Come gli è saltato in mente? È vero che con Newt ha
sempre potuto parlare di tutto, ma forse quello era troppo persino per loro.
Forse ha infranto una regola non scritta, valicato un limite che non sapeva
esistere… Si è fatto trascinare dalla stanchezza, ecco, e dal fatto che fossero
rimasti da soli nella saletta comune del dormitorio mentre tutti gli altri
erano già a letto da un pezzo. E poi Newt ha fatto il
resto.)
“Io
non mi muovo di qui finché non esci. Sappilo.”
(“Proprio
una storia triste. Dovremmo rimediare, non pensi?”, gli ha chiesto, con un
braccio disteso sullo schienale del divanetto e gli occhi che sorridevano da
sé. E Thomas ha annuito, prima ancora di realizzare che quel ‘dovremmo’ li
includeva entrambi – quando l’ha capito, Newt si era
già sporto con estrema naturalezza verso di lui, e con altrettanta semplicità
aveva posato le labbra sulle sue. Il contatto si era protratto per qualche
secondo; poi, come se un interruttore si fosse riattivato all’improvviso nel
suo cervello, Thomas si era staccato bruscamente. Aveva guardato Newt con gli occhi spalancati e la bocca semiaperta;
dopodiché si era catapultato giù dal divano ed era scappato.)
“Dimmi
almeno se sei vivo. Mi sto preoccupando, e mi sento anche parecchio scemo
perché sto praticamente parlando da solo da cinque minuti.”
Paradossalmente,
a quelle parole Thomas si ritrova a soffocare una risata – tuttavia non sa
ancora come reagire, perciò rimane zitto. Di buono c’è che i battiti del suo
cuore stanno pian piano tornando alla normalità, così come il fatto che Newt sia ancora dall’altro lato; è così paziente con lui, e
mai rinunciatario, e malgrado le circostanze Thomas è immensamente grato di
quella premura. Lusingato, quasi.
“Dannazione,
Thomas, hai intenzione di trascorrere il resto della tua vita seduto sulle
piastrelle del cesso?”
A
sorpresa, è proprio quell’ultima domanda a riscuoterlo dal suo torpore, e per
due motivi: primo, Newt non lo chiama quasi mai
Thomas, a meno che non sia arrabbiato – o peggio ancora, ferito; secondo, il
fatto che abbia intuito la sua esatta posizione senza averlo visto dimostra
quanto bene lo conosca – ormai riesce addirittura a prevedere le sue reazioni.
E dimostra anche in che modo stupido, infantile e inutilmente tragico Thomas si
stia comportando.
Nel
frattempo, Newt continua:
“Se
entro sessanta secondi non esci e non parliamo come due persone civili, giuro
sugli incisivi da ratto di Janson che vado a chiamare
i tuoi supervisori e ti faccio trascinare via da lì con la forza. Oh, e ti
avverto, poi te la vedrai da solo. Non contare su di me per inventare una
dannata giustificazione al fatto che ti eri barricato in un dannatissimo cess… oh!”, esclama,
perché Thomas ha infine girato la chiave ed è uscito fuori, così senza
preavviso da fargli quasi perdere l’equilibrio.
Superata
la sorpresa iniziale, e dopo averlo squadrato velocemente, a dispetto di tutto Newt gli sorride.
“Ammettilo,
ti ho terrorizzato con l’immagine dei denti di Janson,
più che con quella dei tuoi supervisori” lo prende in giro. Poi, da
inizialmente ironico, il suo sorriso si fa esitante, quasi colpevole.
“Tommy,
scusami. Davvero. È colpa mia, non avrei dovuto. Non so se come proposta vale
qualcosa, ma se vuoi possiamo far finta che non sia successo nulla e io
prometto che mi metterò l’anima in pace e—”
“Rifacciamolo”,
Thomas sente dire dalla propria stessa voce.
“…come?”, chiede Newt –
è un verso buffo, stranamente acuto, quasi gli abbiano appena svuotato i
polmoni di tutta l’aria. E Thomas, con le guance in fiamme e le parole che
escono indipendenti dalla sua volontà, ripete “In verità mi è piaciuto.
Rifacciamolo” – perché alla fine era tutto lì, no? Chiaro e semplice. Non era
scappato da Newt, ma dalla sua stessa reazione.
Newt
continua a guardarlo, ed è così sbalordito da rasentare il comico. “Tommy, sei
sicuro di stare be—?”
“Oh,
dannazione”, sbotta Thomas, ritrovandosi senza volerlo
a parlare come lui; l’attimo dopo gli prende il viso tra le mani e lo tira
verso di sé. Il tutto avviene in maniera così precipitosa e inesperta che più
che un bacio sembra uno scontro, e in effetti i denti dell’uno sbattono contro
quelli dell’altro – ed è allora che Newt ridacchia, e
forse dopotutto è un gioco, o forse no, ma è comunque la cosa più piacevole che
sia accaduta a Thomas negli ultimi tempi.
“Tu
sei fuori, Tommy. Sei assolutamente, maledettamente fuori… e c’è bisogno di
fare un po’ di pratica, qui” mormora, divertito e leggero, sfiorandogli la
punta del naso con la propria.
In
quel preciso momento a Thomas viene in mente una cosa; facendo un passo indietro
pianta addosso a Newt uno sguardo circospetto, ai
limiti dell’inquisitorio. “Che vuol dire?”
“Che
vuol dire cosa?” (È di nuovo confuso, e di nuovo Thomas si
sente scaldare dalla sua pazienza incrollabile – si rende conto di essere un
soggetto non sempre facile da sopportare, e non è sicuro di meritare tanta
tolleranza.)
“Prima
hai detto ‘mi metterò l’anima in pace’. Che vuol dire?”
Newt
sbatte gli occhi una, due volte. Poi scoppia a ridere.
“Gesù,
Tommy! Significa che ho un debole per te più o meno dal primo giorno, ma se non
l’avevi capito forse non sei poi così sveglio come tutti dicono” – e Thomas
rimane lì a fissarlo per un istante eterno, cercando di metabolizzare appieno
quella rivelazione, finché un bip proveniente
dal basso non lo fa tornare coi piedi per terra.
Solleva
il polso – sull’orologio digitale lampeggiano quattro zeri. Mezzanotte.
Newt
copre di nuovo la distanza che li separa e “Buon compleanno, piccolo genio del
W.I.C.K.E.D.” sussurra scherzoso al suo orecchio. Poi inclina appena la testa
di lato, e a Thomas sembra di essere già più bravo nell’assecondare quel
movimento e trovare a sua volta la giusta angolazione – le loro labbra si
toccano di nuovo, e la sensazione che Thomas prova è indescrivibile: al di là
del W.I.C.K.E.D., delle loro vite segregate in quelle strutture, dei test e di
quella parola (‘Labirinto’) che sente pronunciare sempre più spesso dai grandi,
non gli è mai sembrato di essere un adolescente così normale.
Ha
quattordici anni da neppure un minuto, ma è già piuttosto sicuro che questo sarà
l’anno migliore della sua vita.
“Beh, direi che per un solo giorno hai
fatto abbastanza domande. Oggi sei il nostro ospite d’onore! Vieni, ti porto a
fare un giro” gli dice, e sulle prime Thomas prova a opporsi, ma in realtà è
solo un riflesso – si accorge di non avere poi così tanta voglia di disobbedire,
ed è in maniera quasi docile che alla fine cede alla lieve pressione dell’altro
contro la sua spalla e lo segue.
Si chiama Newt
– buffo, come nome. Ad occhio lo definirebbe suo coetaneo, salvo per quello
sguardo saggio e maturo che di tanto in tanto gli anima le pupille, e che lo fa
sospettare che dopotutto sia un po’ più grande. Alby,
il tipo massiccio che a quanto pare è a capo di tutto lì in mezzo, gliel’ha
presentato come suo secondo in comando; e a dispetto dell’aria a tratti fragile
e di quel sorriso che in certi momenti pare avere un che di bambino, Thomas non
si lascia trarre in inganno. L’impressione è quella di una persona gentile e
sensibile, ma effettivamente autorevole; impressione che la loro lunga
conversazione poco distante dal falò ha appena ravvivato.
Thomas ha bevuto ogni sua singola parola
come una spugna. Si trova lì (‘lì’ è il solo modo in cui riesca a pensare a
quel luogo – gli altri ragazzi, i Gladers, parlano di
Radura e di divisione dei compiti usando un gergo tutto loro, e lui
semplicemente non capisce) da nemmeno
ventiquattr’ore, e Newt è l’unico che finora abbia
saputo e voluto dirgli qualcosa di concreto. Thomas è così venuto a sapere di
più sul Labirinto, sulle orribili creature che lo popolano e su quel gruppo di
ragazzi che ogni giorno corrono senza sosta in cerca di una via d’uscita – una
narrazione non proprio allegra, e a cui reagire precipitando nel panico non
sarebbe stato granché biasimabile. E invece Thomas è rimasto stranamente tranquillo;
merito probabilmente di Newt, che per tutto il tempo
ha risposto alle sue domande in modo serio ma pacato, senza mai perdere
quell’attitudine fiduciosa e senza mai dargli l’impressione che non ci fosse speranza.
In un momento di silenzio che ora non saprebbe rievocare con esattezza, a
Thomas è sembrato di scorgere una tristezza di fondo nei suoi occhi – poi però Newt ha ripreso a parlare con fervore di Minho, Ben e degli altri ragazzi che ogni giorno mappano il
Labirinto, e Thomas si è fidato. Lo conosce a malapena da mezza giornata,
eppure si è fidato.
Mentre Newt
gli fa strada nello spiazzo attorno al falò, indicandogli questo o quell’altro
ragazzo e illustrando l’incarico di ciascuno, Thomas si ritrova ad analizzare tra
sé e sé quel senso di fiducia. È… curioso. Da un lato gli sembra spontaneo e
addirittura irrazionale, ma dall’altro è come qualcosa di radicato, di
preesistente – se il solo pensiero non suonasse completamente folle, Thomas
azzarderebbe l’ipotesi che sia un sentimento proveniente dal passato che non
ricorda.
Assurdo.
Non ha senso,
si dice, trattenendo l’impulso di scuotere la testa per scrollare via quella
supposizione – ma in quel momento Newt gli passa un
braccio attorno alle spalle e “Frypan!”, esclama
all’indirizzo di un ragazzo alle prese con una sorta di barbecue, “fa’ ricordare
al mio amico qui il sapore del vero bacon”.
Thomas vacilla – se non sui suoi stessi
piedi, perlomeno nella certezza che finora ha creduto essere tale. Perché quel
gesto, insieme al tono spensierato di Newt e
all’accento che dà un’inflessione particolarissima ad ogni sua parola, gli è
sembrato davvero qualcosa di conosciuto. Di accaduto. Non che gli sia tornata
la memoria – se prova a scavare oltre il livello delle ultime ventiquattro ore,
continua a rimbalzare sul solito muro di totale blackout; piuttosto, è stata
una sensazione istintiva, viscerale. E se Thomas sa che in tutto questo non c’è
nulla di provato e razionale, sa anche che smettere di fidarsi di se stesso
significherebbe muovere un passo in più verso la pazzia a cui quel luogo
potrebbe facilmente condurlo.
Newt sorride mentre
lo guarda mangiare – sembra contento, e inspiegabilmente la cosa fa sentire
anche Thomas meno teso. Dopodiché, con un cenno di saluto a Frypan
e agli altri ragazzi intenti a chiacchierare con lui, lo trascina oltre –
sempre con quel gesto amichevole, quel braccio sulle spalle che sa di
consuetudine. Ed è allora che Thomas, guardandosi attorno e quasi rimuginando
ad alta voce, gli confessa: “Newt, io non ne so nulla
di giardinaggio, di medicina, di architettura… o di cucina.”
Nell’attimo che segue, e che precede la
risposta di Newt, succede qualcosa che sfugge a ogni
logica – è come se un meccanismo segreto scatti nella mente di Thomas, e in una
frazione di secondo sa esattamente ciò che Newt gli
dirà. Non ti preoccupare, non è un
problema.
E “Non ti preoccupare, non è un
problema” è proprio quel che gli dice, con una pacca lieve sulla schiena e il sorriso
più rincuorante che Thomas possa immaginare. Poi aggiunge qualcos’altro, ma lui
già non lo ascolta più.
È incredibile. È così incredibile che
per un attimo Thomas deve quasi mordersi la lingua per tenerla a freno, perché
la voglia di sapere se anche a lui stia accadendo qualcosa del genere, se anche
lui abbia quell’impressione (ineffabile eppure vividissima) di conoscerlo già,
è troppo forte. Ad impedirgli di farlo è soltanto il briciolo di autocontrollo
che malgrado gli eventi più recenti è riuscito a mantenere, assieme al fatto di
non voler apparire inappropriato o inquietante. Non vuole che Newt lo trovi strano, che pensi male di lui – non vuole che
Newt si allontani. Potrà essere un pensiero ingenuo,
ma vuole che si fidi di lui almeno la metà di quanto Thomas sente di poter già fare
nei suoi confronti.
In quel momento – e forse complici lo
sfinimento, la tensione e l’assurdità di quella giornata inverosimile, sebbene
sappia di essere perfettamente lucido nel formulare quel pensiero – Thomas
prende una decisione.
Non ha la minima idea di cosa ne sarà di
lui in quel posto, né del perché avverta in ogni cellula il bisogno di unirsi a
quei ragazzi che ogni giorno setacciano il Labirinto; non sa se effettivamente
troveranno il modo di uscirne e di tornare alle loro vecchie vite, così come
non sa chi li abbia trapiantati lì e perché abbia privato ciascuno di loro dei
ricordi. Non sa tantissime cose – troppe. Ma sa che se deve abbassare il
proprio scudo di diffidenza e concedere a qualcuno il dono della propria
fiducia, scegliendo tra tutti quegli sconosciuti una persona nelle cui mani
mettere un pezzo della propria vita e del proprio futuro – allora che sia lui,
quel ragazzo inglese coi capelli biondi, la felpa troppo vecchia e larga e il
sorriso che sa di casa.
Che sia Newt.
NdA: lo so che lo
dico praticamente ogni volta. ‘Questa fanfiction è
stata un parto’. Beh, credetemi, in questo caso è la verità. Le ho dedicato giorni interi (università? Esami?
Chiaramente ho difficoltà a ordinare le mie priorità, sigh), rileggendola e
correggendola infinite volte, amandola e odiandola in base al momento e
all’umore. Ma alla fine eccola qui.
Non ho molto da dire: in questo periodo Newt e Thomas sono il mio OTP supremo. Li ho amati nei
libri, li ho amati nel film – e infatti questa storia è un misto di headcanon, bookverse e movieverse (per quanto riguarda l’ultimo mi riferisco in
particolare alla parte finale, ispirata a una deleted
scene BELLISSIMA e che ancora non ho accettato di non aver visto al cinema).
Una precisazione vorrei farla: avendo
letto i libri in inglese, e trovando la resa italiana veramente bruttina
(bruttina eufemismo del secolo, but still), ho preferito lasciare alcuni termini – Gladers, shank – come nella
versione originale; in più ho modificato un po’ il linguaggio di Newt, perché ‘bloody’ reso come
‘cacchio’ secondo me è illeggibile – quindi ho optato per le varianti dannato, dannazione, eccetera J
…e basta. Ringrazio come al solito Elena
(uchihagirl qui su EFP) per essersi sorbita le mie
turbe mentali e aver avuto l’onore/onere di leggerla e valutarla in anteprima,
aiutandomi a migliorare alcuni punti. Thank you so much, darling.
(Peraltro, autopubblicità: stiamo scrivendo una longfic AU a quattro mani sempre sui due pulzelli in questione, quindi stay tuned, mi raccomando! Non arriverà
prestissimo, ma arriverà.)
E ora basta davvero. Un grazie in
anticipo a chi leggerà e ancor più a chi lascerà un commento, e alla prossima!
<3
Lou.
(P.S. Il titolo è preso da un frase di
‘X-Men: Days of Future Past’.
Come potete notare, in un modo o nell’altro, con l’angst
ci vado sempre a nozze J)