flipping
through the worn out pages
(Piano, piano…
un passo alla volta.)
C’è un corridoio da percorrere lentamente, e alla fine del
corridoio una porta da varcare.
È bianca la porta, e bianche sono le pareti ridipinte da poco
– l’odore della pittura aleggia ancora fra queste quattro mura, mescolandosi a
quello del cuoio, del tabacco e del mazzetto di lavanda nascosto in chissà
quale anfratto del vecchio armadio.
La stanzetta è spoglia, uno spazio quasi irreale: le valigie
accatastate l’una sopra l’altra a malapena riescono a renderla un’entità
tangibile.
(Puoi aprire la prima, se vuoi.)
Questa è l’unica a non aver alcun adesivo né scritta che
possano darti qualche indizio riguardo il periodo che racchiude; la apri.
La fodera è un vecchio tessuto che ha conosciuto tempi
migliori, e un lembo staccato del tutto riesce a nascondere quasi perfettamente
un foulard a scacchi verdi, un ricordo lontano: ne inspiri la sottile traccia
di dopobarba che ti ha avvolto per l’ultima volta in una domenica pomeriggio di
tantissimi anni fa.
(“Sei proprio un ometto in gamba” ti aveva detto,
spazzolandoti via una macchia di terra dalla
salopette
e chiudendosi il cancelletto di casa tua alle
spalle.)
I quaderni sono tutti qui, zeppi di file e file di lettere
ricopiate in un corsivo stentato, figurine di Joe DiMaggio, disegni – sgorbi
– di Paperino e carte di Skittles e Milky Way.
Sulla prima pagina c’è scritto “Questo quaderno è di Edward Mueller”: la
calligrafia è insicura, tremolante e le lettere percorrono un tragitto degno
delle montagne russe; tra le righe rivedi un bambino con i capelli tagliati a
caschetto, intento a stringere la penna con tale foga da lasciare un solco
sulle pagine e, qualche volta, anche qualche vescica sulle dita.
La seconda valigia ha l’impronta di un anfibio sull’angolo
destro: ricordi di averla presa a calci appena tornato da scuola, il giorno in
cui quello stronzo del tuo professore ti aveva ripreso e tu gli avevi
dimostrato cosa la “vera vita” significasse veramente per te.
Le bollette sventolate durante quella mattinata, le
giustificazioni per i ritardi, i biglietti dei primi concerti a cui sei andato
– persino la registrazione pirata che avevi fatto a quel famoso show dei The Who – sono tutti qui, gettati alla rinfusa e incasinati
esattamente come quegli anni.
Ci sono anche i volantini del club di teatro e una foto di Liz Gumble con quel maglione che
a te piaceva così tanto… la riponi e ti concentri sul primo quaderno, quello
con la copertina praticamente squarciata e fitta di cancellature rabbiose.
Edward
Louis Severson
Edward
Mueller
Eddie
Severson
Eddie Vedder
Eddie?
EDDIE
“Andrà tutto bene, vedrai” borbotti sottovoce, sfiorando le scritte
nere con la fronte corrucciata… speri che quel ragazzetto possa sentirti, ma in
fondo non ne sei così sicuro.
Sulla terza valigia non ti soffermi tanto: ora che l’hai
aperta ti sei già bello che dimenticato di come fosse esteriormente, anche perché
i tuoi occhi sono ormai fissi sul primo della pila di quaderni che ti stava
attendendo in silenzio.
C’è una pagina con l’angolo strappato e, su quella
successiva, hai incollato il pezzetto di carta mancante – sopra c’è il numero
di telefono di Jack Irons, scribacchiato in fretta e furia la sera in cui vi
siete incontrati per la prima volta.
Ci sono anche dei rimasugli di scotch rimasti attaccati per
miracolo nel punto in cui, una volta, avevi incollato la polaroid che t’eri
scattato con Strummer… quella con l’autografo, che
hai incorniciato e che ora tieni vicino alla foto di tuo padre e al famoso
scatto in cui Townshend ti abbraccia.
È rimasta soltanto la didascalia, scritta con un pennarello e
mangiata dall’umidità e dal tempo: “Me
& Joe Strummer: lighted a spliff for the
gentleman here, best night ever”.
Sorridi e ricominci a sfogliare velocemente altre pagine
finché arrivi ad una calligrafia più fluida,
la prima che tu abbia mai mostrato a qualcuno: i testi di Alive, Once e Footsteps sono qui, tali e quali a ventiquattro
anni fa… ancora figli delle onde di quel pomeriggio in cui le parole vennero
alla luce sporche di sabbia e salsedine.
Qualche pagina più in là ed ecco che sbuca un post-it con
l’indirizzo della Galleria Potato Head e, proprio accanto, ecco anche una
dedica strampalata che Mike ti ha scritto il giorno in cui saresti dovuto
tornare a San Diego, dopo aver trascorso una settimana nell’Emerald City per
conoscere lui e i ragazzi e iniziare a comporre musica in loro compagnia: McCready si era divertito a fingere che questa fosse la
pagina dell’annuario del Senior year e tu l’avevi
lasciato fare, a patto che non andasse a ficcare il naso in quelle precedenti.
Ritrovi anche l’acquerello che Jeff aveva fatto quand’eri
tornato a Seattle per piantarci definitivamente le radici e la caricatura che
Stone ti aveva lasciato qui di nascosto dopo che avevate aperto per gli Alice
In Chains: ci sei tu, un ometto tutto capelli e ansia
che ricopre l’asta del microfono – immobile come uno stoccafisso, Jeff dalle
sembianze vagamente scimmiesche che suona andando sullo skate, Mike che
colpisce gente a caso nell’audience con la sua mitica chitarra spara-laser, Krusen semi-nascosto dalla batteria e Stone con gli
occhialetti e la toga da giudice so-tutto-io.
Ridacchi e chiudi il quaderno, notando che sul retro della
copertina troneggia uno “STILL MISSING” a caratteri cubitali – la stessa
scritta è presente sul prossimo notebook, e non puoi fare a meno di rabbuiarti
un po’: il ricordo del concerto in cui qualcuno si era intrufolato nel tuo
camerino e aveva trafugato alcuni dei tuoi quaderni – i tuoi testi, la tua
fottutissima vita – è ancora vivo e riesce ad irritarti come quando avevi
appena scoperto il fattaccio.
Da qui in poi la tua calligrafia non diventa altro che un
groviglio d’inchiostro e linee intrecciate per formare intenzionalmente un
elettrocardiogramma – eri impenetrabile, incazzato e volevi farlo sapere a
tutti, soprattutto ai potenziali stronzi che avrebbero potuto riprovare a
sottrarti giorni e giorni d’idee, schizzi e confessioni senza avere nemmeno
l’ombra del tuo consenso.
Quelle che si susseguono sono pagine su pagine fitte di
eventi e note, pagine che in un batter d’occhio diventano quaderni da divorare
nuovamente: sono le polaroid del fiume di gente al Pinkpop
Festival e alle varie tappe del Lollapalooza,
l’indelebile che ricopre la pagina dell’8 aprile 1994, i testi di alcuni brani
battuti a macchina, tu vestito pseudo-elegantemente a Roma – ingessato e con Beth a braccetto, leggiadra come solo una novella sposa sa
essere – il ritaglio di un giornale con la foto dell’auto della fanatica che
aveva provato ad introdursi a casa tua e che aveva finito con lo schiantarsi
sul cancello, la pagina nera dedicata a Roskilde, ancora bagnata e stropicciata
e su cui a malapena si può leggere la scritta che avevi inciso furiosamente con
la biro…
PERCHÉ?
(Già… perché?)
Ti svegli di soprassalto, l’aria che un po’ ti manca: l’altra
metà del letto è fresca, Jill dev’essersi alzata già da un pezzo.
Dopo cinque minuti abbondanti riesci ad alzarti dal letto e
apri la porta-finestra che dà sul parco: il vento delle otto di mattina ti fa
intirizzire, però non ricordi l’ultima volta in cui hai fumato una sigaretta
guardando un cielo così, perfettamente pulito e sgombro da ogni nuvola.
Resti così per un po’, con il mozzicone a mezz’aria,
dopodiché ti decidi finalmente ad iniziare questa giornata: nonostante sia
dicembre indossi la maglia appartenuta allo zio John – in questo momento vuoi
sentirlo più vicino che mai.
Sciabatti lentamente per i corridoi, un passo alla volta, con
gli occhi che ancora ti si chiudono e l’eco di una domanda che aleggia ancora
nella tua mente, senza aver ricevuto alcuna risposta.
La porta è lì, a pochi passi da te, bianca e pronta a farsi
aprire: varchi la soglia e con un rapido colpo d’occhio puoi constatare la
presenza di tutte le valigie.
Sospiri sollevato e riprendi a sfogliare i quaderni da dove
avevi interrotto la tua lettura: fiumi e fiumi di parole, anni e anni ti
scorrono fra le mani come biglie lisce dai motivi imperfetti… sfuggevoli e
insolenti, scivolano lungo il tragitto della tua memoria, un sentiero che non
sai ricordare in tutta la sua interezza.
Quando arrivi all’ultima valigia, non sai quanto tempo sia
trascorso da quando hai rimesso piede in questa stanza… di una cosa però sei
certo: questo quaderno dalla copertina immacolata non l’hai mai visto prima
d’ora.
Lo apri con titubanza e vieni immediatamente travolto da
un’esplosione di colori e scarabocchi: l’ometto che soffia sulle candeline di
una torta a forma di ukulele, la donnina più alta di lui che suona una
trombetta con aria festosa e le due fatine bionde che gettano coriandoli in
ogni dove ti fanno sorridere intenerito.
Poco dopo tre paia di braccia ti cingono in un abbraccio
sentito, augurandoti cento di questi giorni e invitandoti ad andare a scartare
i regali che ti stanno aspettando in salotto.
Annuisci e segui le donne della tua vita, facendoti
trascinare fuori di lì con il nuovo quaderno sottobraccio.
C’è un corridoio da percorrere lentamente, e alla fine del
corridoio una porta da varcare.
È bianca la porta, e bianche sono le pareti ridipinte da poco
– l’odore della pittura aleggia ancora fra queste quattro mura, mescolandosi a
quello del cuoio, del tabacco e del mazzetto di lavanda nascosto in chissà
quale anfratto del vecchio armadio.
In mezzo alla stanza c’è un uomo che se ne sta ad occhi
chiusi, con la fronte distesa e una consapevolezza che sta progressivamente
crescendo dentro di lui: ci saranno sempre mille e più pagine ancora inviolate
ad attenderlo, e lui le troverà tutte.
Ø
Non
ricordo precisamente la dinamica, ma un giorno uno dei professori sorprese
Eddie a dormire sul banco e gli fece una ramanzina: per tutta risposta il
ragazzo prese il proprio zaino e ne vuotò il contenuto sul banco, che venne
immediatamente sommerso da una sfilza di bollette (Eddie infatti lavorava anche
di notte pur di mantenersi gli studi), mostrando al docente la propria “vera
vita”
Ø
Liz Gumble è stata la prima ragazza di Eddie – colei che si
dice abbia ispirato il testo di Black
Ø
Jack
Irons è l’ex batterista dei Red Hot Chili Peppers nonché colui che mise in contatto Jeff Ament, Stone Gossard e Mike McCready con Eddie; dal 1994 al 1998 divenne egli stesso batterista
dei Pearl Jam
Note autrice
Non ho molto da aggiungere: sono molto felice che Eddie abbia potuto
raggiungere la tappa dei cinquanta, e sono altrettanto soddisfatta dell’Eddie
cinquantenne che ha imparato a lottare contro i propri demoni e a mitigare la
propria impulsività a favore di una maggiore calma, ma che non ha mai smesso di
farsi portavoce degli ideali e delle battaglie altrui in cui crede fermamente.
Cento di questi giorni, Eddie! Grazie per essere rimasto sempre te stesso ♡
Dazed;