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Autore: RandomWriter    25/12/2014    10 recensioni
"Vidi il mio riflesso allo specchio passarsi fugacemente la lingua sul labbro inferiore, quasi a voler ricercare un sapore che il sonno aveva cancellato; di certo sulla mia bocca non c’era più alcuna traccia di quel bacio, ma nella mia mente, rivivevo quell'immagine a rallentatore, ricordando maniacalmente ogni dettaglio: quegli occhi lucidi, che riflettevano in modo innaturale la luce lunare, quelle ciglia lunghe e sensuali, il tocco morbido dei suoi capelli castani e, da ultime, quella coppia di labbra rosee che mi aveva fatto estraniare da tutto.
Baciare Erin fu qualcosa di assolutamente indescrivibile… e anche a distanza di anni, ogni volta che ripenso a quel momento, mi accorgo di non aver dimenticato nulla."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Castiel, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'In her shoes'
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Intanto, BUON NATALEEEEEEEEE^^!!!!!!!
 
 
Come vedete ho mantenuto la promessa di pubblicare questa OS proprio il giorno di Natale (si batte una mano sulla spalla u.u).
Penso (o almeno spero ^^’) che fosse particolarmente attesa tra le lettrici abituali di In her shoes… quanto a chi invece non ha mai letto tale fanfiction e si è appena imbattuta in questo spin-off… beh… non posso certo dirvi “andatevi prima a leggere la fic!”. Tra le varie cose, è talmente lunga (e ancora lontana dalla fine) che questa mia richiesta suonerebbe pretenziosa; mettiamola così allora: questa OS andrebbe letta dopo essere arrivati al capitolo 40 ma, se non avete voglia di leggevi tutto quel malloppo, spero che comunque si intuiscano i fatti a cui si riferisce Castiel.
Eh già, perché la novità di questa OS, e qui mi rivolgo specialmente a chi mi conosce, è la narrazione in prima persona ^^. Spero gradirete questa scelta, dal momento che, care fedeli lettrici, vi ho abituate ad una voce narrante esterna; ho voluto quindi sperimentare qualcosa di diverso e spero di essermi calata abbastanza dei panni del rosso tanto da sembrare che sia davvero lui a raccontare.
Ultima cosa… so che a questo punto è un avvertimento un po’ inutile, ma scrivendola, poiché volevo tirare fuori delle riflessioni di un certo spessore, ho immaginato che a parlare sia un Castiel in versione adulta. Il fatto è che sono scivolata nello spoiler XD cioè, io ho in mente quale sarà il futuro dei vari personaggi e in questa OS vengono a galla alcuni fatti che accadranno a Castiel dopo che IHS sarà conclusa (notate bene che ne parlo come se lui esistesse realmente u.u) … dicevo che è un po’ inutile dirvelo ora, perché voglio vedere quante di voi diranno “eh no, allora aspetto la fine di IHS per leggerla!”.
Direi che è tutto^^ Buona lettura!





 

 
IN CASTIEL SHOES
 
 
Ricordo che quella mattina, quando mi alzai, lo feci con la consapevolezza che avrei dovuto dormire molto di più. Il letto sembrava emanare un calore proprio e lasciarlo, fu un saluto particolarmente doloroso per me: erano già due notti che dormivo poco e quella carenza di sonno era come veleno.
Sentivo i muscoli intorpiditi e la testa pesante. Avrei voluto rifugiarmi nuovamente nell’abbraccio caldo della trapunta ma non potevo: poche ore prima aveva preso una decisione, forse una delle più importanti della mia vita ed ero determinato a portarla a compimento.
Mi trascinai in bagno, studiando la mia espressione allo specchio: sembravo un tossico.
La notte prima, tornato dal concerto, mi ero diretto meccanicamente verso il frigo e avevo spazzato via la mia riserva di birra, l’ultima alleata di cui cercavo il conforto quando toccavo il fondo.
Non avevo ricordi nitidi di quanta me ne fossi scolata, ma mentre uscivo dalla mia stanza, avevo sbirciato in cucina e avevo notato una sorta di discarica di lattine.
Neanche quando avevo rotto con Debrah, mi ero ridotto in quello stato pietoso.
Mi schiaffeggiai le guance, troppo forte per la sensibilità della mia cute, tanto da strappare a me stesso un lamento dolorante. In quel momento mi sarei anche preso a pugni se ciò fosse bastato a farmi dimenticare cosa era accaduto la notte prima, sul tetto del liceo che frequentavo all’epoca.
Mi sembrava ancora di sentirle, quelle labbra così morbide e vellutate, mentre sfioravano le mie, troppo avide ed egoiste per sottrarsi a quel contatto.
Vidi il mio riflesso allo specchio passarsi fugacemente la lingua sul labbro inferiore, quasi a voler ricercare un sapore che il sonno aveva cancellato; di certo sulla mia bocca non c’era più alcuna traccia di quel bacio, ma nella mia mente, rivivevo quell’immagine a rallentatore, ricordando maniacalmente ogni dettaglio: quegli occhi lucidi, che riflettevano in modo innaturale la luce lunare, quelle ciglia lunghe e sensuali, il tocco morbido dei suoi capelli castani e, da ultime, quella coppia di labbra rosee che mi aveva fatto estraniare da tutto.
Baciare Erin fu qualcosa di assolutamente indescrivibile… e anche a distanza di anni, ogni volta che ripenso a quel momento, mi accorgo di non aver dimenticato nulla.
 
Debrah era stata la mia primissima storia d’amore, in cui realizzai che potevano esistere sentimenti più forti persino dell’amicizia che nutrivo per Nathaniel. Prima di conoscerla, ero sicuro che l’amore non esistesse, che fosse solo un pretesto per giustificare l’incapacità dell’essere umano di affrontare la solitudine. Pretesto che era bastato a mio padre per sposare mia madre. Il loro matrimonio era la dimostrazione più lampante di quanto ero convinto all’epoca, dal momento che nemmeno la mia nascita era bastata a tenere in piedi la loro unione.
L’amore era un sentimento effimero e utopico, facilmente confondibile con la gioia che si prova a sentirsi speciali per qualcuno. A distanza di tempo, mi rendo conto che tutto il mio cinismo era dettato in buona parte dalla voragine che si era aperta in me quando le cose tra i miei genitori avevano cominciato a non funzionare. Da bambino amavo molto mia madre, con il suo profumo di mughetto e i capelli neri, come i miei.
“sei proprio un Black” mi diceva, scompigliandomi la chioma scura quando andavo alle elementari. Mi sorrideva orgogliosa, ripetendomi che assomigliavo tantissimo a suo padre, da cui ereditai il cognome dopo il divorzio dei miei. Dovetti diventare Castiel Black per una rognosa questione burocratica, legata al trasferimento di mio padre e all’eredità di mio nonno. All’epoca non mi interessai ai dettagli di quella scelta, tanto che tutt’ora non saprei spiegare nemmeno ai miei figli il perché del loro cognome.
 
Ricordo il primo giorno senza mio padre in casa: se n’era andato in un hotel mentre mia madre, incapace di sopportare il mio sguardo accusatore, era uscita; ero rimasto da solo, ad affogare in quel soffocante silenzio. Nathaniel, intuendo che in famiglia le cose stavano peggiorando, mi aveva inviato l’ennesimo messaggio, ma lo ignorai. Non volevo vedere nessuno.
Demon abbaiava, probabilmente era passato un gatto o qualche altro animale, ma mi piacque pensare che volesse dirmi qualcosa; mi spostai in bagno e incollai il mio riflesso allo specchio.
Un Black. Ecco come sarei stato identificato da quel momento in poi.
Mia madre mi aveva cresciuto convincendomi di assomigliare a mio nonno, ma quel giorno, allo specchio, non ero il riflesso di Ray Black; gli occhi scuri e profondi, il naso dritto e lungo, i capelli neri e quell’espressione magnetica: non stavo più guardando me stesso, stavo vedendo mia madre.
Un conato di disgusto mi assalì. Come un fuoco che trova accanto a sé della benzina, mi infiammai di rabbia e frustrazione: non volevo vedere in me quella donna che prima mi aveva regalato la felicità per poi sottrarmela.
Mi accucciai sull’armadietto sotto il lavabo, frugando freneticamente alla ricerca della tinta che avevano regalato al supermercato a mia madre e che lei non avrebbe mai usato.
Lessi sbrigativamente le istruzioni, senza curarmi più di tanto di comprenderle.
Dopo più di mezz’ora, uscì dal bagno, con i capelli ancora gocciolanti: il colore non era esattamente quello che avevo in mente ma quel rosso mogano era l’unica alternativa che avevo a disposizione. Dovevo aver sbagliato qualcosa nel tempo di posa o nella stesura del prodotto, perché la chioma non risultava uniforme e c’erano chiazze di rosso più o meno intense.
Nonostante il pessimo risultato, sorrisi soddisfatto: non era più un Black.
 
Il passaggio dal rosso scuro ad una tonalità assurda di ketchup, fu breve: Alexy era diventato da poco mio amico e, un pomeriggio, si era offerto di rimediare al disastro che avevo combinato.
Accettai di buon grado e fu così che l’indomani, entrambi ci presentammo a scuola con un colore improbabile. In un primo momento faticai ad accettarmi con quel nuovo look, ma la reazione di sconcerto dei miei genitori, unita a quella del resto della scuola, furono la giusta motivazione per non fare marcia indietro. Più la gente si impressionava per quel colore e più lo ostentavo con orgoglio. Anche Alexy, lasciandosi trascinare da quell’entusiasmo di eterno bambino, aveva voluto cimentarsi in quell’esplosione di vivacità, e si era presentato con un colore azzurro che persino il cielo in primavera gli avrebbe invidiato.
Devo trattenermi tutt’ora dal ridere se penso all’espressione della preside che, dopo averci convocati nel suo ufficio, ci minacciò:
“dovete scegliere: o vi presentate a scuola con un colore più sobrio, oppure verrete sospesi due giorni!”
La prima cosa che feci l’indomani mattina fu passare dalla vecchia per annunciarle che se mi cercava, mi avrebbe trovato nella sala giochi di Evergreen Terrace.
 
Prima di Debrah non me la passavo male: avevo un gruppo di amici fantastici, per i quali mi sarei buttato sul fuoco (fatta eccezione per Rosalya, che in certi momenti avrei gettato lei sul fuoco). Nathaniel era una sorta di capo banda, sedava le discussioni tra me e l’unica ragazza del gruppo e proponeva la maggior parte delle uscite. Armin era un elemento chiassoso, sempre allegro e con in mano la sua irrinunciabile PSP. Un giorno ebbi la malsana idea di fingere di avergliela rotta, scatenando una belva: quella fu una della poche occasioni in vita mia in cui guardai in faccia il terrore. Alexy per contro era la dolcezza fatta persona e non avrei permesso a nessuno in mia presenza di fare anche solo mezzo commento offensivo nei suoi confronti. C’era poi Leigh, con cui ammetto di non aver mai avuto un feeling particolare, ma era un ragazzo tranquillo e a modo. Mai quanto Lysandre.
A quel tempo non avrei mai previsto che il ragazzo più solitario del nostro gruppo avrebbe in qualche modo sostituito Nathaniel un giorno, o per lo meno per una parte della mia vita. Lysandre aveva sempre la testa tra le nuvole, ogni tanto borbottava parole sconnesse, costringendoci a interrompere le nostre conversazioni finchè non realizzavamo che non stava parlando con noi. Viveva in un mondo tutto suo, eppure non gli sfuggiva nulla.
Passando da un anno all’altro, le cose cominciarono a migliorare per me: all’inizio del quarto anno, venni eletto capitano della squadra di basket. In realtà ero convinto che Dajan, un mio compagno di classe, fosse più adatto a quel ruolo, ma non obiettai; i miei si erano accordati per prendermi una villetta dove ormai da parecchi mesi, vivevamo solo io e Demon e ce la passavamo alla grande: niente giustificazioni da dover inventare, niente coprifuoco, niente proteste per la musica troppo alta.
In qualche modo avevo trovato il mio equilibrio; era un po’ instabile e ogni tanto dovevo riaggiustare il baricentro, specie quando mia madre o mio padre venivano a trovarmi; non capivano che meno li vedevo e meglio stavo. D’altronde quelle visite rispondevano al loro egoistico desiderio di scaricarsi la coscienza per una serie irrefrenabile di scelte sbagliate.
Mio padre aveva un figlio che non portava neanche più il suo cognome e un lavoro che, un anno dopo il divorzio, lo spinse oltre oceano. Mia madre invece, si era rifatta una vita con un uomo che non avevo mai voluto conoscere. Le famiglie allargate non facevano per me.
La mia vita non era perfetta, ma a me andava bene così. Nulla potevo cambiare, quindi nulla avrei cambiato.
 
Finchè non la incontrai.
 
Era lì, seduta su quel bancone del pub con le gambe accavallate e una minigonna che stimolava affatto l’immaginazione ma la vista sì. Ero uscito con Armin e Dake quella sera e stavamo aspettando che Nate ci raggiungesse.
Intercettò il mio sguardo da beota, evidentemente avevo indugiato un secondo di più su quel culo che, lo ammetto, è sempre stato uno dei mie punti deboli. Ridacchiò, inclinando leggermente la testa all’indietro e pensai di non aver mai sentito una risata più bella.
Dake e Armin erano impegnati in una discussione e non si accorsero di quello scambio di sguardi tra me e quella sconosciuta.
Si portò il bicchiere alle labbra, laccate di rosso, e con una lentezza quasi esasperante, ne prosciugò l’ultimo sorso. Tamponò l’indice sull’angolo della bocca, sfiorandolo appena per non rimuovere il rossetto e si ruotò verso di me.
Io nel frattempo non mi ero mosso, né avevo distolto lo sguardo da lei, neanche per un secondo.
Evidentemente deliziata dall’effetto che sortiva in me, scese dallo sgabello e mi si avvicinò. Finalmente i miei amici si accorsero di lei, ma non li calcolò minimamente:
“ci conosciamo?” mi sussurrò.
Aveva degli occhi meravigliosamente azzurri e uno sguardo vispo e intelligente; di fronte al mio silenzio, ancora troppo inebetito per formulare un discorso, lei provvide a rimediare a quella lacuna:
“piacere Debrah”
 
Il passo da semplici conoscenti a coppia fu talmente breve che non me ne capacitai all’epoca e non me ne capacito tutt’ora.
Lei viveva sempre a mille, era un’iniezione costante ed esagerata di adrenalina: niente soffocava la sua voglia di provare, sperimentare. Quando poi scoprì la sua voce, ne rimasi folgorato.
C’era qualcosa nel suo modo di cantare che, ne ero convinto, mai avrei trovato in nessun altra ragazza… ma questo perché all’epoca non avevo ancora conosciuto Erin.
Debrah ci mise poco a stringere un legame con i miei amici: solo Lysandre e quell’acida di sua sorella erano restii di fronte alla sua espansività. Mi ci volle parecchio tempo e quando era ormai troppo tardi per capire che avrei fatto meglio a dare ascolto alle loro perplessità.
L’unica cosa che contava era sapere che lei era accanto a me, a dimostrarmi che l’amore esisteva davvero, che era possibile trovare una persona per cui valesse la pena annullare sé stessi, mettere da parte l’orgoglio. Ma la amavo nel modo sbagliato: avevo spazzato via la mia dignità per elevare lei al di sopra di ogni imperfezione e non permettevo a nessuno di contraddirla. Lei era tutto e io non ero niente. Senza di lei, ero perso. Quando facevamo l’amore mi sentivo completo, come se, entrando nella mia vita, avesse portato con sé il cuore che avevo perso.
Non mi importava più del successo che riscuoteva Nathaniel tra tutte le ragazze perché io ne avevo una di speciale, l’unica che avesse preferito me a lui.
Probabilmente questo era il motivo principale per cui la amavo e la causa alla base di tutta la rabbia che scaturì dal loro tradimento; che tutte le ragazze non avessero occhi che per Nate era un copione a cui avevo partecipato troppo volte, recitando la parte dell’amico del protagonista. Con Debrah però, ero convinto che mi fosse stata cambiata la parte, che anche io potessi essere al centro della scena; all’ultimo momento però, proprio quando pensavo di aver trovato finalmente il mio lieto fine, scoprii di essermi calato nel personaggio sbagliato. Non ero io quello destinato a vivere una storia da protagonista.
Paradossalmente, già a distanza di due settimane dalla rottura con Debrah, mi sentii libero. Percepii la sensazione di un nodo che si scioglieva, di un guinzaglio che viene rimosso. In qualche modo quella ragazza mi aveva tenuto sotto il suo comando e neanche me ne ero accorto.
L’amavo ancora, ma non potevo perdonare né lei né me stesso per come avevamo costruito il nostro rapporto. Da parte sua con la menzogna e l’egoismo, dalla mia con disincanto e romanticismo.
Non avrei mai più permesso a nessuna ragazza di prendersi la libertà di cui si era appropriata la mia ex. Una batosta come quella era più che sufficiente come lezione, del resto sono sempre stato quel tipo di persona che capisce i concetti solo dopo che questi sono stati messi in pratica.
Debrah sparì, quasi in punta di piedi dalla mia vita, poiché non fece nulla per mettersi in contatto con me e in questo senso anche io ci misi del mio: l’estate di quell’anno accettai l’invito di Mauro, il mio vicino di casa, che avrebbe passato le vacanze estive a New York, da un suo amico residente a Little Italy.
Se Debrah non si fece sentire, Nathaniel non la smetteva di intasarmi la casella dei messaggi. A impedire la riconciliazione fu il mio orgoglio, profondamente ferito dall’amico che consideravo come un fratello.
La mia ottusità e chiusura finirono per deluderlo: l’accusa che gli avevo mosso di essersi fatto la mia ragazza era infondata ma il fatto che continuassi a crederci, ci allontanava sempre più l’uno dall’altro.
L’unica persona che potevo soffrire era Lysandre: non mi forzava in alcun modo, non andava in giro a raccontare quanto gli dicevo e così arrivò l’inizio dell’anno scolastico; per i corridoi io e Nate facevamo l’impossibile per evitarci, quando incrociavo Rosalya o Alexy tenevo un’espressione dura, fingendo di non accorgermi di quanto il mio amico soffrisse per quella situazione. Leigh se l’era cavata diplomandosi l’anno prima, ma del resto lui era l’ultimo dei miei problemi e delusioni. Ero rimasto scottato dal comportamento dei miei cosiddetti amici, quelle stesse persone che consideravo da tempo la mia vera famiglia.
Più volte mi è stato facile attribuire a Debrah la colpa di quanto accadde, ma la verità era che non riuscivo ad essere abbastanza maturo da ammettere le mie responsabilità: non basta una sola persona per far crollare un rapporto, specie se così forte come quello tra me e Nathaniel. Sta a noi tenerlo in piedi, accantonando anche l’orgoglio se necessario. In altre parole, se quella ragazza aveva spezzato la nostra amicizia, io non avevo fatto nulla per impedirglielo.
 
Prima del capitolo Debrah, quel senso di fierezza e autodeterminazione è sempre stato motivo di vanto per me. Dovevo tornare ad essere quella persona, o meglio, diventare un uomo ancora più cinico e forte.
Nessuno mi avrebbe più scosso o urtato, non mi sarei mai più legato a nessuno, tranne la dovuta eccezione per chi c’era sempre stato come Lysandre e Demon. Anche se per la gente quello era solo un cane, per me è sempre stato un sostegno, una compagnia insostituibile e, ora che non c’è più, quando mi capita di pensare a lui, provo un’immensa nostalgia.
Quanto a Lysandre, ogni volta che incrociavo il suo sguardo, leggevo la malinconia per la nostra situazione: era tutto cambiato e, pur sapendo che ero l’unico che poteva risistemare tutto, non riuscivo a fare il primo passo. Anche se non l’avrei mai ammesso, avevo un terrore folle che anche lui mi voltasse le spalle, che si stancasse di quel caratteraccio che non riuscivo ad arginare.
Eppure lui si ostinava a restare lì, in silenzio, a suonare con me quella musica che era la mia droga.
Per quanto fosse scottante l’umiliazione di non essere stato considerato dal discografico, che aveva preferito prendere solo Nathaniel, non riuscivo a rinunciare a quel ridicolo sogno di diventare musicista.
Avevo smesso di crederci, ma continuavo a sperarci.
 
Ripetere l’anno fu più pesante di quanto immaginassi: del resto ero stato bocciato per le molteplici assenze, non tanto perché i miei voti così fossero pessimi. Di conseguenza, le materie risultavano poco stimolanti, tutto mi sapeva di già fatto e di poco impegnativo. Le lezioni della Fraun poi erano uno smaronamento completo e preferivo passare il mio tempo a comporre musica sul tetto dello spogliatoio oppure in compagnia di Demon, che riuscivo a far entrare di sfuggita nel liceo.
 
Fu proprio dopo aver passato un’ora di lezione in quella maniera che la incontrai per la prima volta
 
Non fu decisamente un colpo di fulmine, quello no: come ragazza era parecchio strana e per certi versi, addirittura inquietante; indossava quella maglietta troppo larga degli Alice in chains che non permetteva di intuire alcuna forma femminile al di sotto e dei lunghi capelli enfatizzavano un’aria trasandata e apatica.
La scritta poi del gruppo rock non mi impressionò affatto: ce n’erano sono fin troppe di ragazze che si sentivano delle esperte di rock solo perché avevano comprato una maglietta della prima band con un nome figo. Erano semplicemente patetiche.
Ed Erin Travis, come mi venne poi presentata, non aveva nulla di diverso dalle altre.
Pur nella sua stranezza, era una come tante.
Appena avevo varcato la soglia dell’aula, tutti si erano voltati verso di me, curiosi di assistere alla mia reazione di fronte a quell’intrusa.
Più mi avvicinavo a lei, e più quei capelli assurdamente lunghi sembravano non avere fine. Mi portai davanti al mio posto e la squadrai.
Quel giorno avevo parecchio le palle girate. Ormai erano sempre talmente girate, che non sapevo più quale fosse il loro verso giusto.
Senza mezzi termini, le ordinai di sloggiare, convinto di essere stato abbastanza autoritario.
La sua difesa però fu qualcosa che non mi aspettavo e che mi spiazzò: non posso dire che nessuna ragazza prima fosse riuscita a tenermi testa, ma Erin aveva un modo suo di replicare, con quel sorrisetto soddisfatto che le sfuggiva, contro la sua volontà, quando pregustava la risposta con cui mi avrebbe messo all’angolo.
Avevo trovato finalmente qualcuno su cui infierire per destarmi dall’apatia in cui mi ero rinchiuso.
Un diversivo. Ecco come ridimensionai quella che sarebbe diventata la ragazza che mi avrebbe privato di intere nottate di prezioso sonno. Un diversivo.
Lei mi rese tutto più facile quando manifestò il suo desiderio, assurdo data la sua statura da Lilliput, di entrare nel club di basket. Nascosi quel pallone, convinto che mai l’avrebbe trovato e che mi avrebbe supplicato di entrare in squadra. Volevo sentirla implorarmi, vedere quanto potere avessi su di lei.
Il giorno successivo mi arrivò la risposta: zero. Era riuscita a vincere la scommessa: aveva trovato quella palla;  solo anni dopo, scoprì che era stato quel volpone di Lysandre ad aiutarla; aveva notato Erin passare per il cortile e aveva attirato la sua attenzione canticchiando un motivetto. Questo era bastato ad attirarla sul tetto, dovevo insieme al mio amico, trovò anche il pallone. L’intelligenza strategica di quel ragazzo mi ha sempre lasciato senza parole, e in più occasioni ho finito per beneficiare dei suoi piani machiavellici.
Arrivò quindi il momento della sfida ufficiale, quella che avrebbe decretato la sua adesione o meno al club. In fondo, già in quel momento avrei voluto farla entrare in squadra, solo per il gusto che trovavo nel stuzzicarla, ma risaputa la mia chiusura verso l’entrata nel club di ragazze, non potevo lasciare che Erin fosse un’eccezione. Come se ciò non bastasse, mi impegnai nella sfida quel tanto che bastò ad umiliarla. Tradendo le mie aspettative, dopo pochi minuti dall’inizio della partita, lei si spense.
Mi innervosii parecchio, deluso dal mio diversivo: ai miei occhi, lei doveva essere sempre combattiva, scattante, permalosa, pronta a ribattere; davanti a me invece avevo una persona completamente diversa, con uno sguardo rabbuiato ed un’espressione stralunata.
All’epoca non sapevo di Sophia, della sua passione per il basket e del disperato e infantile tentativo di Erin di assomigliare alla sorella per sentirla più vicina.
Una volta in squadra, non fu difficile trovarle un ruolo: nessuno di noi dieci era in grado di rispettare il regolamento, gli orari e incastrare gli allenamenti in palestra con quelle degli altri club.   
Tuttavia, anche restando ferma, riuscì a farsi male, non accorgendosi di una palla che la centrò in pieno volto. Palla che tra l’altro avevo tirato io.
Ci mise una vita in infermeria, tanto che cominciai un po’ a preoccuparmi: forse le avevo fatto davvero male, ma cercai di non darlo a vedere; a giudicare da ciò che disse Trevor non appena Erin rimise piede in palestra, si era capito che ero un po’ in ansia per lei.
Sempre a causa di quell’idiota di Trevor, mi ritrovai in una situazione imbarazzante: eravamo in piscina, appollaiati come due scimmie, ai galleggianti che dividevano le corsie. Ci stavamo guardando un po’ attorno, osservando con occhi diversi le nostre compagne di classe e in quell’occasione notammo che Iris, quanto a davanzale, era una visione celestiale, con tanto di cori angelici dell’alleluia.
Quando però il mio amico mi invitò a spostare l’attenzione sul sedere di Erin, che fino a quel momento ero convinto fosse amorfa, rimasi talmente senza parole, che offrii a Trevor l’occasione per prendermi per il culo.
Probabilmente fu la prima volta che mi resi conto che, fisicamente, quella ragazza era decisamente il mio tipo. Le mancava tutto il resto, ma quanto a sedere, aveva tutta la mia approvazione.
Quando poi aiutò Kim a uscire dalla piscina, guadagnò un altro punto: ero orgoglioso del mio diversivo, avrebbe reso molto più sopportabile il mio anno in 4^ C.
Lei però era intenzionata a superare le mie previsioni: con lo scherzo delle extencion nascoste ad Ambra, si guadagnò la mia stima, anche se ovviamente, non glielo dissi.
 
Forse ero troppo concentrato su di lei per accorgermi anche di tutto ciò che la circondava: aveva stretto amicizia con Rosalya e Alexy, aveva parlato in un paio di occasioni con Armin e soprattutto, aveva legato moltissimo con Nathaniel.
La cosa mi rodeva un po’, ma non avevo nessun motivo per arrabbiarmi per questo: il biondo non si smentiva mai, come un fiore non può fare a meno di profumare, lui non riusciva a non emettere quel fascino da principe delle fiabe.
In appena cinque giorni al Dolce Amoris, Erin Travis era riuscita a fare tutto questo.
Ed è proprio con il quinto giorno che coincide l’attimo in cui tutto cambiò.
 
Ero andato in bagno, con un motivetto che mi balenava in testa e che non vedevo l’ora di trasferire su carta. Il liceo di notte era quasi un posto accettabile, anche se aveva perso il fascino che rivestiva quando ospitava un gruppo più nutrito di amici il venerdì sera.
Aprii la porta e me la trovai davanti.
Sbottai per la sorpresa e, come ormai eravamo avvezzi, nemmeno lei fu esattamente un mostro di galanteria.
Lysandre mediò la nostra piccola discussione e alla fine accettai, fingendo irritazione, che lei restasse lì. D’altronde, il Lys che trovai in quella stanza era diverso da quello che avevo lasciato quando era andato in bagno: sorrideva sereno.
“…stare qua da solo con te mi mette una tristezza…”
Disse quella frase in tono melodrammatico, per strappare un sorriso ad Erin, ma l’amara verità che era sottesa, la colsi in pieno.
Mi misi all’opera: avevo della musica da comporre e, quando ero in quello stato, nessuno poteva distrarmi. Non mi accorsi di come lei mi guardava, di quanto l’aveva piacevolmente sorpresa vedermi così pacato e serio, dedito a quella che è sempre stata la mia passione più grande.
Lysandre mi propose di suonare Don’t wake me: aveva degli accordi facili, non mi piaceva granchè suonarla, ma ero stanco e non volevo nulla di impegnativo.
La voce del mio amico si diffuse nella stanza e riuscì a cantare la prima strofa. In quel momento ero quasi annoiato, quella canzone non tirava certo fuori il meglio delle qualità vocali del poeta.
Poi però accadde l’imprevedibile.
Alla voce di Lysandre si sommò quella di Erin, frapponendosi con una tale dolcezza che non ce ne accorgemmo subito; appena però il tuo timbro si distinse da quello di Lysandre, quest’ultimo si zittì.
Credo di aver mancato un passaggio, tale era la reazione che era riuscita a evocare in me.
Ero talmente ammaliato dalla sua voce che non mi accorsi della sua espressione: era turbata, ma credo non quanto lo ero io in quel momento.
Per me la musica è sempre stata vita. Non è mai stata un intermezzo, una colonna sonora di sottofondo della mia quotidianità. Vedere Erin commuoversi, per chissà quale pensiero evocato da quelle note, aveva annullato tutto il mio sarcasmo e asprezza.
Solo allora dovetti ricredermi: non era una ragazza come tante.
Stava smuovendo qualcosa in me, ma in modo talmente impercettibile che non potevo accorgermene.
Quella notte la accompagnai a casa, cercando in modo pateticamente goffo, di tirarle su il morale e contro ogni mia previsione, riuscì a strapparle un sorriso. Vederla nuovamente felice mi scaldò un po’ il cuore e me ne andai a casa di ottimo umore, con la sua esecuzione di Don’t wake me che mi riecheggiava in testa.
Dopo quell’episodio, accadde tutto ad una velocità pazzesca: nonostante le mie resistenze dettate dall’orgoglio e dalla stupidità, Erin riuscì a farmi riallacciare i rapporti con quel Cerbero di Rosalya, quell’esaltato di Alexy e quello stramboide di Armin. Per quanto potessi usare aggettivi poco lusinghieri per descriverli, mi mancavano da morire, anche se mai quanto le conversazioni con Nate.
Inevitabilmente Erin approfondiva giorno dopo giorno la sua amicizia con quest’ultimo, secondo un copione che aveva letto fin troppo spesso. Non potevo oppormi in alcun modo al destino, ma nonostante ciò, far finta di nulla diventava sempre più difficile.
Quella volta in cui la Robinson ci commissionò il disegno, fissare Erin fu davvero imbarazzante.
I casi erano due: o aveva una qualche strana malattia che la rendeva più bella di giorno in giorno, o ero io che me ne stavo innamorando sempre di più.
Era la mia Rapunzel e sapere che si avvicinava sempre più a Nate, mi feriva sempre di più.
Fino alla batosta finale
 
sei il mio migliore amico
 
Se all’epoca mi avessi detto che eri lesbica, forse l’avrei presa meglio. Grazie al cazzo Erin, è come se ti avessi chiesto dell’acqua perché sto morendo di sete e tu ti fossi presentata con una fetta di Sacher.
Non riuscivo a gioire del fatto che fossi l’unico con cui ti fossi aperta, l’unico fino a quel momento a cui avessi parlato di Sophia.
A conferma che ormai la situazione stava prendendo una piega irrimediabile, arrivò quella domenica in cui ti trovai sulle spalle di Nathaniel: eravate davvero una bella coppia e io un patetico idiota.
Tornai a casa di pessimo umore, con Demon che sembrava mortificato per avermi condotto a voi due.
Cercavo di non pensarti, ma era praticamente impossibile; a volte in una stanza, quasi dimenticavo che non c’eri solo tu, ma non potevo impedire a me stesso di fissarti, di cercare il suo sorriso timido, quando non avevi alcuna ragione di sorridere se non quella di sentirti inspiegabilmente osservata.
Inspiegabilmente? Ma porca troia Erin, possibile che fosse davvero così impossibile da capire per te? Eppure a distanza di tanto tempo, realizzo finalmente perché fosse così lampante per tutti! Spiegami come potevo non innamorarmi di te, che sei così spontanea, dolce e intelligente. Hai quell’espressione così tenera, quando ti mordicchi il labbro inferiore nel tentativo di trattenere un sorriso che sfugge immancabilmente al tuo controllo. Abbassi il capo, scuotendolo leggermente rassegnata e quando lo risollevi, gli occhi ti brillano più di prima. Notai che a volte cambiavano colore, in base al tempo: avevi qualcosa di magico, di speciale.
Quella tua curiosità poi, quel tuo voler mettere il naso ovunque, ma a fin di bene che tanto irritava Nathaniel, io la trovavo adorabile. Forse perché mi avrebbe lusingato essere al centro del tuo interesse.
Ero passato dal considerarti una ragazza come poche, ad essere l’unica ragazza che riuscivo a vedere. Le altre sparivano e c’eri solo tu.
E poi accadde l’inevitabile: sei andata in gita e sei tornata con la peggiore ma la più prevedibile delle notizie: tu e Nate una coppia. Pensavo di essere pronto a quell’eventualità, invece reagii peggio di quanto volessi. Aggiungici poi che ti sei presentata come una ragazza completamente cambiata… mi sembra ancora di vederti: ti eri sbarazzata di quella chioma informe e finalmente anche i capelli rendevano giustizia alla dolcezza del tuo viso, indossavi un maglione di lana rossa, manco a dirlo, il mio colore preferito e ti eri persino un po’ truccata, anche se quel velo di mascara era superfluo, eri già bellissima così, ma avrei preferito sottopormi ad una seduta di ceretta inguinale piuttosto che ammetterlo in quella circostanza.
 
Mi ci vollero alcuni giorni per metabolizzare la cosa e abituarmi a quella nuova situazione, a non avere sempre Erin a pranzo. Per quanto sia imbarazzante da ammettere, mi capitava di torturarmi immaginando lei e Nathaniel avvinghiati sotto le lenzuola e rodendomi dalla gelosia.
Ma nonostante ciò, appena quei pensieri sfociavano nella mia mente, cercavo di arginarli pensando ad altro.
Questo altro fu rappresentato dalla recita prima e dal concerto poi, fornendo ad Erin l’occasione per tentare la riappacificazione tra di noi: era sempre lei a fare il primo passo, a cercarmi; come quando mi trascinò davanti a suo padre: Peter mi incenerì al primo sguardo ma non mi lasciai intimidire; non ero io il futuro genero che doveva guadagnarsi la sua stima. Inoltre mi sentii attaccare senza motivo e almeno, non avevo di certo colto il reale motivo della sua ostilità verso di me: probabilmente, se all’epoca avessi saputo che il padre di Erin mi considerava una reale minaccia, colui che, a suo avviso, avrebbe rapito la sua principessa per portarla in un castello lontano, avrei riso di gusto.
Quel giorno riuscii anche a far arrabbiare quel sant’uomo di Lysandre e così lo cercai sul tetto del liceo, trovandolo davvero di umore nero. La recita però rappresentò un fetta molto modesta della nostra conversazione, che si spostò su Erin. Quella sera non ci dicemmo molto, ma lui capì tutto, tutto ciò che io, ancora, mi ostinavo a non voler accettare.
Passata la recita, Erin impegnò ogni sua energia per farmi partecipare al concerto. Scoprii così che poteva essere davvero molto insistente e, nonostante tutte le volte in cui sbottavo irritato, lei si limitava a tacere per qualche secondo, per poi riprendere a martellarmi con quella richiesta. Non è che non volessi partecipare, anzi: sapevo perfettamente che, se volevo sfondare nella musica, da qualche parte dovevo pur cominciare, ma senza tutto il resto della band, io e Lysandre eravamo ridicoli. Inoltre, avevo il terrore di rischiare: avrei potuto fare una figura di merda davanti a tutti, realizzare, nella maniera più plateale e umiliante, che quel mio talento di cui parlava Lys era solo un’illusione.
Alla fine ci pensò Miss Joplin a sedare ogni mia protesta con quel ricatto che, in fondo, se ci ripenso, lo trovo quasi divertente: quella donna è sempre stata una spanna sopra gli altri insegnanti e anche se odiavo la sua materia, non posso non riconoscere che fosse un’ottima persona, sia sotto il profilo professionale che umano.
Era la sorella del vicino di casa della zia di Erin, Jason Joplin. Già il fatto che fosse un veterinario me lo rendeva simpatico. In qualche modo, con il lavoro che avrei intrapreso dopo il liceo, io e lui saremo diventati ottimi amici. In particolare ricordo quella sera in cui mi presentai sotto il loro condominio.
Era davvero un quartiere squallido e non capivo come Pam si ostinasse a viverci. Di notte c’era da aver paura a camminare da soli in un posto simile. Jason mi intercettò e bofonchiai la scusa del quaderno che avevo escogitato per chiacchierare un po’ con la sua vicina più giovane.
Fu in quell’occasione che mi venne proposto di adottare un gatto, ma il mio primo pensiero andò a Demon e ai secondi che avrebbe impiegato per sbranare quella bestiola indifesa. Erin invece non solo non aveva cani, ma amava i gatti; mancava meno di un mese al suo compleanno e, come realizzai poi, mi ero imbattuto in un regalo perfetto per lei. Probabilmente sua zia non avrebbe gradito, ma era destino che il ramo della famiglia Travis mi trovasse irritante.
Ciò che non potevo immaginare era che non avrei mai visto la faccia di Erin mentre incrociava lo sguardo tenero di quella che avrebbe poi battezzato, in mio onore, Ariel.
Arrivò così la notte prima del concerto. Quella sera mi sentivo stranamente calmo: l’evento era alle porte e avevamo fatto prove su prove. Cominciavo a sentire l’eccitazione e la voglia di salire su quel palco, spinte ad un livello che difficilmente mi avrebbe fatto chiudere occhio quella notte.
In effetti, quel giorno mi privai di preziosissime ore di sonno, ma non a causa del concerto; stavo guardando Scrubs, quando sentii Demon abbaiare furiosamente. Mi avvicinai pigramente alla finestra, convinto che si trattasse di un passero, poiché non era consuetudine del mio cane di abbaiare ai passanti.
 
E invece lei era lì, davanti al cancello di casa mia, infreddolita e spaventata.
 
Quando mi chiese di ospitarla per la notte, credo che il mio cervello non abbia colto il casino in cui mi sarei cacciato. A parte Rosalya, che comunque non sono mai riuscito a considerare una donna, tanto è scorbutica, nessun’altra ragazza era entrata in casa mia dopo Debrah.
Una volta accomodatasi all’interno, feci finta di non accorgermi che la curiosità avesse preso il sopravvento sulla mia amica, che si era alzata furtivamente dal divano e aveva cominciato ad esplorare il mio appartamento. Non so cosa si aspettasse di trovare, so solo che le si era stampato un sorrisetto compiaciuto mentre ammirava la mia nutrita raccolta di CDs. Dal canto mio, mi era sempre piaciuta la sua vivacità, quella sua irrefrenabile tendenza a ficcare il naso ovunque, anche se facevo l’impossibile per manifestare il contrario. Era riuscita persino a portami a raccontarle di quanto era accaduto con Debrah, storia che avevo seppellito in un angolo remoto della mia mente.
Erin si sedette vicino a me sul divano, troppo vicino, visto che quel minimo contatto mi fece sussultare leggermente. Lei non se ne accorse, ma del resto erano parecchie le cose a cui non faceva caso a quel tempo. Non so come, ma credeva davvero ai miei commenti idioti, alle mie battute di pessimo gusto, unica arma che avevo per non lasciarla avvicinare più di quanto già non avesse fatto.
Forse bisogna decidere cosa siamo disposti a rischiare, alcuni mettono in gioco i propri sentimenti, altri il proprio futuro, quanto a me dovevo imparare a rischiare, punto. Anche se questo significava fare il primissimo passo” diceva JD quella sera.
Fanculo JD. Sarò pure stato un idiota come sosteneva Lysandre, ma non intendevo prendermi un’altra inculata. Almeno, diversamente da Debrah, Erin non mi aveva mai illuso di niente, avevo fatto tutto da solo. Lei aveva scelto Nathaniel e io stavo cercando di farmene una ragione.
Non aveva senso rischiare. Si rischia quando c’è qualcosa da vincere.
Era questo che pensavo all’epoca.
“…credo sia meglio che questa cosa rimanga tra me e te. Non vorrei che Nathaniel pensasse male” 
come vuoi. Per quanto mi riguarda ci sono più probabilità che salti addosso all’inquilina del piano di sopra
Davvero non so come riuscisse a tirare fuori quel lato di me: non solo quel genere di battute mi uscivano spontaneamente, ma ammetto che ci trovavo pure un certo gusto nel vedere come lei ci credesse.
Per la miseria Erin! Se quella sera mi avessi dato un minimo segnale di accondiscendenza, se non fossi stata la ragazza di quello che in fondo era sempre stato il mio migliore amico, quella notte le cose tra di noi sarebbero andate diversamente.
Non sarei rimasto come un idiota a guardarti dormire, pendendo dalle tue labbra come un allocco. Fu in quel momento che me ne accorsi: eri pericolosa per me.
Avevi questa capacità di affascinarmi, senza neanche rendertene conto.
Quella volta ti sentii cantare per la seconda volta, ancora più di quel fatidico venerdì sera, mi innamorai della tua voce.
Qualche addetto al settore potrebbe obiettare che la tua voce non fosse niente di che, eppure per me hai sempre avuto uno stile ammaliante, un timbro così caldo e particolare. Molte delle canzoni che composi da quel momento in poi le immaginavo per la tua voce. Eri diventata la mia musa ispiratrice.
Ti lasciai il mio letto, sarò stato anche un gran cafone all’epoca ma non ti avrei mai fatto dormire sul divano.
Appena nella casa piombò il silenzio, i pensieri che avevo frenato fino ad allora, presero il sopravvento e mi investirono con l’impeto di uno tsunami.
Ammettere di essermi innamorato di te divenne improvvisamente una cosa molto naturale, ma non per questo mi sentii meglio: fondamentalmente ero fottuto; ero il tuo migliore amico, non c’era la possibilità per niente di diverso. Inoltre stavi con Nathaniel e la differenza tra me e lui era talmente abissale che mai e poi mai avresti lasciato uno come lui per stare con uno come me.
Dopo essermi rigirato ore e ore su quei cuscini verdi, mi alzai frustrato: avevo una dannata esibizione a cui prepararmi e la mia mente non voleva saperne di dormire. Istintivamente, mi spostai nella mia stanza, con l’idea di controllare se almeno tu eri stata rapida da Morfeo.
Da quando feci il primo passo però, il mio corpo non rispondeva più di alcun movimento volontario. Mi avvicinai a te, talmente tanto che, se non fosse stato per un lampo di razionalità che mi investì in quel momento, le nostra labbra si sarebbero sfiorate.
Piuttosto patetico se ci pensi no? Per riuscire baciarti, dovevo assicurarmi che fossi addormentata o ubriaca.
L’indomani mattina ti offrii una colazione fugace e silenziosa: percepivo che ti sentivi a disagio, ma non potevo farci nulla; dopo quello che era accaduto la notte prima, ti guardavo con occhi diversi. Per questo ti congedasti in fretta e io, troppo stanco per andare a scuola, tornai a dormire, nonostante la caffeina in circolo.
 
Una volta arrivato al concerto, ero talmente teso che trascinai Armin sul tetto della scuola per stemperare la tensione con un po’ di birra; lui era su di giri, ma solo mesi dopo capii che non era tanto il concerto a esaltarlo, quanto il ritorno di Ambra. Che quel ragazzo fosse strano, l’ho sempre pensato, ma la prima volta che sentii parlare della sua infatuazione per la bionda, conclusi che fosse completamente fuori come un balcone. Contrariamente alla mia opinione, in quell’anno, la sorellina di Nathaniel era cambiata davvero parecchio, al punto da deporre l’ascia di guerra con Erin.
Fu proprio in occasione del concerto che mi accorsi quanto fosse diversa: la mia amica era salita sul palco ma appena i ricordi di Sophia si presentarono davanti a lei, non riuscì ad esibirsi; aveva uno sguardo perso, assente. Pregai perché Nathaniel salisse su quel maledetto palco ad aiutarla, altrimenti avrei dovuto farlo io e preferivo evitare una simile scenetta. A esibirsi accanto ad Erin fu sì un membro della famiglia Daniels, ma non quello su cui puntavo io: Ambra impugnò il microfono e intonò la prima strofa.
L’educazione musicale che aveva ricevuto a casa era fin troppo evidente, non sbagliava una nota e andava perfettamente a tempo. La maggior parte degli studenti presenti in quella palestra, pensarono che il suo fosse l’ennesimo tentativo per umiliare Erin, per sbatterle in faccia la sua superiorità. In pochi capirono che quell’Ambra non esisteva più e che, probabilmente, era una delle persone più generose presenti quella sera in palestra.
Orgogliosa fino al midollo, la bionda scese dal palco senza tante cerimonie, rifiutandosi di ammettere i nobili sentimenti che l’avevano spinta a cantare accanto ad Erin.
Dovevo comunque accantonare la loro esibizione per pensare ad altro: ancora poche ore e tutta la scuola avrebbe ascoltato la mia musica. Il tempo passava con una lentezza snervante: Lysandre si divertiva a torturarmi, fingendo che la voce lo abbandonasse a intermittenza, mettendo a serio rischio la sua incolumità; quando si trattava di musica, della mia musica, diventavo noiosamente serio.
Pochi minuti prima dell’esibizione, Erin non era ancora nei paraggi, eppure lo sapeva che doveva eseguire la canzone di Rice con Lys. Cominciai a tempestarla di messaggi e chiamate ma quel genio si decise ad arrivare proprio mentre ero sul punto di esplodere. Dovevo avere un’espressione parecchio terrificante, vista la sua reazione. Immancabilmente l’aveva seguita Nathaniel, ma cercai di ignorarlo: quello doveva essere il nostro concerto, senza di lui non riuscivo a considerare noi quattro una band. Era lui che aveva mosso tutto, era stato lui a dirmi quel giorno, “suona questa”, allungandomi una chitarra classica. Gli dovevo così tanto, ma talmente tanto, che a parole non sarei mai riuscito a spiegarglielo.
Fu lui il primo a parlare, obiettando sulla scelta della prima canzone. Obiezione che pure io avevo mosso ai ragazzi, ma non avevano voluto darmi retta.
non sei d’accordo?” indagai con curiosità. Lo sapevo perfettamente che non poteva condividere quella scelta. Erano passati mesi senza che ci parlassimo ma non erano bastati a cancellare anni di amicizia.
“fossi in voi partirei con il botto. Quella lasciatela a metà concerto per creare la giusta atmosfera”
“tu quale suoneresti?” lo incalzai
“dipende da quali vi siete preparati” convenne lui conciliante.
“toh, questa è la scaletta” 
Allungargli il foglio fu un gesto naturale ma ancora di più fu cominciare a parlargli come un tempo: per un attimo non esisteva neanche Erin, quella ragazza che, tentando di unirci, era diventata l’unico motivo per cui non riuscivamo ad avvicinarsi… e non esisteva più nemmeno Debrah.
Tra di noi tornò quella complicità, dei cenni d’intesa che non avevo con nessun altro dei miei amici. Mi era mancato. Cazzo se mi era mancato!
Ma non c’era tempo per lasciarsi andare ai ricordi: uscimmo uno ad uno sul palco e la prima canzone fu un successo, un’esplosione di energia; ero orgoglioso dei ragazzi, in quei tre minuti mi ero completamente dimenticato che su quella piattaforma mancava un quinto uomo. Chi invece non se n’era scortato fu quel furbone del vocalist che, con una performance degna di un Oscar, cominciò ad accusare problemi alla gola. In un’altra circostanza mi sarei accertato sulla gravità della situazione, avrei prima tentato di capire se vi fosse una soluzione ma quella volta, sembrava che non aspettassi altro che un pretesto per correre dietro le quinte:
“Nate… il microfono è tuo”
Ancora oggi, quando ci capita di ricordare quella scena, lo prendo ancora in giro per la faccia da beota con cui mi guardò quella volta. Gli ci vollero tre secondi buoni per metabolizzare quanto gli avevo appena detto. Poi, con quell’aplomb da figo che solo lui sapeva adottare, replicò:
“fammi cantare roba buona”
Non fu necessario dire altro. Ci capivamo con lo sguardo.
 
Il concerto fu strepitoso, non so se fossimo più carichi noi o la folla. Eravamo frastornati dalle luci, della grida, dagli applausi. Il liceo aveva proprio bisogno di quel genere di evento.
Cantare con accanto Nathaniel fu un’emozione indescrivibile che mi fa tutt’ora venire ancora la pelle d’oca, nonostante sia passato così tanto tempo. In parte anche perché, dopo quell’evento, non ci una seconda occasione. In fondo penso sia stato meglio così: abbiamo preso strade completamente diverse e ognuno dei due è felice e orgoglioso delle proprie scelte.
Nessuno dei due dimenticherà mai quanto accadde quella notte, soprattutto, non io.
Una volta scesi dal palco, riuscimmo a malapena a scambiarci due parole che venni investito dai miei amici. Mentre ero frastornato da Armin che, un po’ brillo, mi urlava contro, notai la figura di un uomo piccoletto, alto all’incirca quanto Erin: era un po’ attempato e, nonostante fosse assolutamente fuori luogo in mezzo a quella banda di liceali esagitati, manteneva una certa compostezza. Lo guardai con relativa curiosità, ipotizzando che fosse il genitore di qualche studente, finchè questo non pronunciò le fatidiche parole che erano anni che sognavo di sentire:
“sono un agente discografico”
Nei miei sogni quella scena doveva svolgersi dopo che avevo fatto un assolo pauroso durante un concerto in un pub. A quel punto un uomo alto e robusto, con la faccia goliardica e un dente d’oro, si sarebbe alzato dal pubblico, applaudendomi e, quasi urlando, mi avrebbe annunciato che voleva promuovere la mia musica.
Era alquanto ridicola come scena e decisamente irrealizzabile, ma per quanto lo fosse, non riuscivo ad immaginarla diversamente. Quando allora quell’omino apparentemente insignificante si presentò come colui che aveva in mano le chiavi della mia felicità, rimasi di sasso.
“vorrei parlare con lei”
Ma certo, con Nathaniel. La mia estasi era durata pochissimo ma abbastanza da farmi sentire il morso dell’amarezza. A forza di accumulare delusioni, pensavo di aver ormai capito che non ero destinato alla felicità, del resto non era colpa del mio amico se la natura era stata talmente generosa da offrirgli così tanti talenti.
Era destino che solo uno dei due sfondasse nella musica.
La cosa buffa è che in effetti, fu proprio così.
Colsi immediatamente la nota di indecisione di Nate: ci eravamo praticamente riconciliati e quella novità rischiava di mandare all’aria tutto; spettava a me comportarmi da uomo e soprattutto da amico: non potevo ostacolarlo, non gli avrei fatto pesare quell’opportunità che a me non era stata concessa.
I due si allontanarono e cominciarono a parlottare. Fu una conversazione fugace tanto che, dopo pochi secondi, Nathaniel si voltò verso di me, con un sorriso ebete stampato in faccia.
Sorrisi a mia volta, contento di vederlo in quello stato, ma non avevo capito cosa giustificasse tutta la sua gioia mentre il discografico mi raggiungeva:
“c’è stato un equivoco. Intendevo parlare con lei signor Black”
Quell’uomo mi allungò nuovamente il suo biglietto da visita e si presentò come l’agente di una nascente casa discografica. Il proprietario, un tedesco che aveva da poco ereditato una fortuna, aveva questo sogno di produrre musica e lo stava realizzando. Quell’ometto mi disse di chiamarsi Alton e che era molto interessato alle canzoni della band. Chiedendo in giro, aveva capito che il compositore fosse Nathaniel, puntando quindi sulla persona sbagliata.
Mi spiegò che la sua agenzia stava promuovendo un gruppo di quattro ragazzi giovani il cui stile si sposava perfettamente con il genere musicale in cui ci eravamo esibiti. Mi chiese se sarei stato disposto ad abbandonare la mia band e quella fu l’unica esitazione che gli concessi quella sera.
L’uomo continuò spiegandomi che questa band, i Tenia, si sarebbero trasferiti in Germania ad incidere il disco. La cosa mi stupii due volte, da un lato perché il nome di quel gruppo era lo stesso che aveva proposto Erin per la mia band, dall’altro perché non concepivo lo scazzo di trasferirsi in Europa quando anche in America c’erano degli ottimi studi di registrazione.
Alton mi spiegò quindi che il proprietario, il signor Amadeus, il cui nome mi strappò un sorriso, era tanto ricco quanto eccentrico e sosteneva che solo nella sua terra natia i “suoi” ragazzi avrebbero potuto trovare la giusta ispirazione. Tutte quelle informazioni furono difficili da assimilare, mi sembrava tutto troppo bello per essere vero. Alton proseguiva spiegandomi che avrebbero avuto bisogno di me per sei mesi, da gennaio a giugno e che quindi cominciassi a pensare se la cosa fosse fattibile per me, del resto non mi ero ancora diplomato.
Mi grattai la testa, non tanto per necessità, quanto per sfogare in qualche modo la mia trepidazione.
L’uomo infine concluse dicendo di passare in agenzia da lui l’indomani, così avremo parlato con calma dei dettagli e avrei avuto una panoramica più completa per poter decidere.
“accetto”
Mi guardò dubbioso, mentre io non accennavo ad alcuna indecisione.
“guarda che non ho tutta questa fretta. Puoi pensarci con calma durante le vacanze e poi a Gennaio mi comunichi…”
Lo interruppi. Non potevo rifiutare. Non volevo rifiutare. Non so cosa avesse fatto nell’ultimo periodo quell’ometto, ma erano cinque anni che lo stavo aspettando.
 
Quando Alexy comunicò a tutti la notizia, salendo sul palco, in un certo senso provai sollievo; mi aveva tolto dall’impiccio di dover essere io a dirlo agli altri.
Prima che me ne rendessi conto, la cercai. Volevo vedere che espressione avesse, senza pormi alcuna aspettativa: la individuai subito, nonostante fosse venticinque centimetri più bassa di me, lei era sempre la prima persona su cui si posavano i miei occhi.
Ammetto che mi deluse: non era esplosa di gioia né tanto meno di tristezza. Mi fissava inespressiva, come se fossi una statuina di porcellana. Io invece, solo indagando nei suoi occhi verde bosco, provai una morsa di nostalgia che anticipava quel sentimento che mi avrebbe accompagnato in quel viaggio.
Mi sarebbe mancata, mi avrebbe fatto male starle lontano, ma non quanto me ne faceva starle vicino.
 
Erin sparì. Rosalya ed Iris girovagavano per il liceo cercando dove si fosse nascosta.
Io invece, ero talmente stordito, che mi isolai sul solito tetto. Avevo bisogno di stare da solo e riflettere.
Evidentemente lei non lo sapeva.
Arrivò barcollando e si sedette accanto a me. Mi aveva sempre detto di non bere ma il suo comportamento rappresentò un’eccezione.
Cominciò a parlare di argomenti senza senso, come di uno stupido gioco in cui le persone dovevano dire una frase vera e una falsa. Forse perché anche io un po’ avevo bevuto, la assecondai:
“amo gli hamburger”
Lei la dichiarò una verità, quando in realtà li ho sempre odiati: da quando vivevo da solo, poiché i fornelli non erano il mio forte, ripiegavo talmente tante volte sul McDonald che quando con la squadra di basket uscivamo a festeggiare, cercavo in tutti i modi di optare per qualcosa di diverso dal cibo spazzatura. Per mia sfortuna i ragazzi ne andavano matti, specie Dajan e Wes.
“credo di essermi innamorato di te”
Volevo solo vedere la sua reazione, d’altronde non avevo nulla da perdere, durante le vacanze l’avrei evitata e poi me ne sarei andato per sei mesi.
“non dovresti scherzare su queste cose”
Per la seconda volta, Erin mi deluse; non era la risposta che mi aspettavo, avrei preferito che mi prendesse seriamente e ammettesse che non avrei mai preso il posto di Nate.
Non risposi, camuffando una tranquillità che non mi apparteneva. Scrutai il cielo, quasi a cercare nelle stelle la chiave di lettura di quella risposta sibillina.
Ad un certo punto la sentii appoggiarsi alla mia spalla:
“non partire” mugolò con la voce rotta dal pianto.
Quelle due parole mi accelerarono il battito in modo quasi doloroso: lei aveva questi occhi così belli e tristi, che sembravano implorarmi di leggerle dentro ciò che lei non riusciva a dire.
Fu davvero straziante vederla così ma lo era ancora di più non fare nulla.
Baciarla, fu inevitabile.
 
Ricordo che quella mattina, quando mi alzai, lo feci con la consapevolezza che avrei dovuto dormire molto di più. Il letto sembrava emanare un calore proprio e lasciarlo, fu un saluto particolarmente doloroso per me: erano già due notti che dormivo poco e quella carenza di sonno era come veleno.
Sentivo i muscoli intorpiditi e la testa pesante. Avrei voluto rifugiarmi nuovamente nell’abbraccio caldo della trapunta ma non potevo: poche ore prima aveva preso una decisione, forse una delle più importanti della mia vita ed ero determinato a portarla a compimento.
Mi trascinai in bagno, studiando la mia espressione allo specchio: sembravo un tossico.
La notte prima, tornato dal concerto, mi ero diretto meccanicamente verso il frigo e avevo spazzato via la mia riserva di birra, l’ultima alleata di cui cercavo il conforto quando toccavo il fondo.
Non avevo ricordi molto nitidi di quanta me ne fossi scolata, ma mentre uscivo dalla mia stanza, avevo sbirciato in cucina e avevo notato una sorta di discarica di lattine.
Neanche quando avevo rotto con Debrah, mi ero ridotto in quello stato pietoso.
Mi schiaffeggiai le guance, troppo forte per la sensibilità della mia cute, tanto da strappare a me stesso un lamento dolorante. In quel momento mi sarei anche preso a pugni se ciò fosse bastato a farmi dimenticare cosa era accaduto la notte prima, sul tetto del liceo che frequentavo all’epoca.
Mi sembrava ancora di sentirle, quelle labbra così morbide e vellutate, mentre sfioravano le mie, troppo avide ed egoiste per sottrarsi a quel contatto.
Vidi il mio riflesso allo specchio passarsi fugacemente la lingua sul labbro inferiore, quasi a voler ricercare un sapore che il sonno aveva cancellato; di certo sulla mia bocca non c’era più alcuna traccia di quel bacio, ma nella mia mente, rivivevo quell’immagine a rallentatore, ricordando maniacalmente ogni dettaglio: quegli occhi lucidi, che riflettevano in modo innaturale la luce lunare, quelle ciglia lunghe e sensuali, il tocco morbido dei suoi capelli castani e, da ultime, quella coppia di labbra rosee che mi aveva fatto estraniare da tutto.
Baciare Erin fu qualcosa di assolutamente indescrivibile… e anche a distanza di anni, ogni volta che ripenso a quel momento, mi accorgo di non aver dimenticato nulla.
Dovevo darmi una sistemata, Alton mi aspettava per il colloquio.
 
Uscito dall’agenzia, chiamai Lysandre: era l’unico che non avrebbe tanto di fermarmi. Passai a fare qualche altra commissione, come quella di dare delle disposizioni a Jason per il compleanno di Erin.
Tornato a casa, cercai un volo last minute per l’Europa. Sarei atterrato anche in un qualsiasi paese confinante con la Germania pur di partire il prima possibile. Avevo detto ad Alton che non solo ero convinto della mia scelta, ma che volevo andarmene subito, trascorrere le vacanze a Berlino.
Evidentemente l’uomo era abituato ad assecondare le persone eccentriche e non si scompose più di tanto: telefonò al signor Amadeus che, ridendo sonoramente, lo autorizzò a lasciarmi partire. Alton mi diede una serie di indicazioni, tra cui quelle necessarie a raggiungere lo chalet dove avremo soggiornato.
i Tenia ti raggiungeranno a Gennaio, come ti dicevo ieri… intanto tieni, questi sono loro” disse, allungandomi un minuscolo i-pod. Resistendo alla curiosità di ascoltarli in quel momento, attesi che Alton ultimasse le sue spiegazioni. Mi abbozzò una serie di recapiti e informazioni varie su dei fogli ed infine ci salutammo. Se fossi riuscito ad arrivare a destinazione, l’avrei rivisto l’anno successivo, in Germania.
La fortuna mi sorrise e trovai un volo per Düsseldorf, nota meta di industriali facoltosi e da lì trovare un collegamento per Berlino fu semplicissimo.
Preparai la valigia, cercando di selezionare tutto il necessario. Molte cose le avrei comprate là, per cui mi portai dietro ciò che ritenevo insostituibile o irrinunciabile. In questa categoria rientrava anche Demon, ma non potevo portarlo con me. Andai così da Mauro e gli spiegai la situazione: avevo l’aereo l’indomani mattina e nessuno a cui lasciare il mio amico. L’uomo mi sorrise e mi abbracciò, con quell’affetto caloroso di cui si fanno tanto vanto gli italiani.
Quella notte il mio ultimo pensiero andò ad Erin; promisi a me stesso che, quando l’avrei rivista al mio ritorno, non avrei più provato nulla per lei.
 
In aereo mi decisi finalmente ad ascoltare il contenuto dell’i-pod che Alton mi aveva allungato il giorno prima; la mia era stata una sorta di scaramanzia, come se ascoltare quelli che sarebbero diventati dei miei colleghi potesse compromettere il raggiungimento del mio obiettivo.
L’aereo era decollato, non c’era più la possibilità di tornare indietro. A quel punto potevo solo andare avanti.
Mi accomodai le cuffiette nei condotti uditivi e mi accorsi che il volume era troppo basso.
Prontamente lo alzai e quello che arrivò alle mie orecchie fu una delle sensazioni più magnifiche mai provate con la musica: la batteria si distingueva per un’energia incredibile, eppure non soffocava la chitarra elettrica, alla quale talvolta lasciavano spazio per degli assoli che mai e poi mai sarei riuscito ad eseguire. Il basso, accompagnava il tutto, aggiungendo delle note quasi malinconiche. E la voce. Era potenza pura, era rabbia mista a gioia.
 
La prima volta che ascoltai i Tenia pensai che fossero dei geni.
 
Avevo la pelle d’oca e, preso dalla foga e dall’entusiasmo che quei quattro sconosciuti mi avevano trasmesso, cominciai a scarabocchiare sul primo spazio che trovai della rivista che mi aveva offerto l’hostess, quella che poi sarebbe diventata la prima canzone del loro primo album: On plane.
 
Uscito dall’aeroporto, chiamai mia madre: si era raccomandata che le facessi sapere di essere ancora tutto intero e, dietro la scusa del costo della tariffa, accorciai la telefonata. A mio padre scrissi una mail, anche perché rappresentava la mia risorsa economica. Da solo, con i risparmi messi da parte, non avrei mai potuto affrontare sei mesi all’estero, anche se presto avrei cominciato a percepire uno stipendio.
Da Düsseldorf, trovai una corriera che in cinque ore mi avrebbe portato a Berlino. Il paesaggio era completamente diverso da quello a cui ero abituato in America: le strade tedesche erano in condizioni migliori, la viabilità eccellente e non esistevano le vaste aree disabitate che si incontravano viaggiando in macchina nel mio paese.
Il mezzo mi scaricò nella stazione centrale e, con i muscoli intorpiditi dal sonno e dalla posizione che per ore era rimasta immutata, cercai di capire come arrampicarmi sulla montagna in cui si trovava il rifugio riservato ai Tenia. Alton mi aveva spiegato che avrei dovuto prendere un autobus con una destinazione dal nome impronunciabile e che mi aveva segnato su un foglio. Mi avvicinai alla biglietteria, mostrando il nome e gesticolando sul fatto che dovevo andare in quella località.
La donna, una vecchietta dall’aria scorbutica, non capiva la mia lingua ma alla fine, grazie all’aiuto di una signora in coda dietro di me, ottenni il mio biglietto.
Non aspettai molto per l’autobus ma nell’attesa, comprai in edicola un frasario di tedesco.
Il mezzo su cui salii era piuttosto sgangherato, facendomi dubitare seriamente sul fatto che sarebbe arrivato a destinazione.
Fui l’ultimo a scendere e, come aveva predetto Alton, mi aspettava una camminata di un chilometro in salita per raggiungere lo chalet di cui già intuivo il profilo in lontananza.
Dopo un’estenuante arrampicata, con la valigia che a causa della pendenza, sfuggì al mio controllo un paio di volte, arrivai a casa.
Cercai le chiavi che mi aveva fornito Alton ed entrai.
L’ambiente era enorme, rivestito alle pareti da grosse tavole di legno di noce e un soffitto anch’esso ligneo. Per quel che ne sapevo io, il giorno prima Alton aveva contattato una parente del signor Amadeus per fare le pulizie così in quel posto, al mio arrivo, non c’era il minimo accenno di polvere. La tavola da pranzo era enorme, adatta ad ospitare quella grossa comitiva tra artisti e tecnici che si sarebbe riunita da lì a poche settimane. Quell’abitazione era ricca di dettagli, mobili ad ogni angolo, vasi, quadri e nell’insieme risultava talmente accogliente da sembrare romantico.
Talmente tanto che, un anno dopo passai lì il giorno di San Valentino.
Passai ad esplorare il resto della casa e trovai tutte le porte delle camere chiuse a chiave, eccetto una: all’interno c’era un letto a castello, così mi accontentai di quello; mi distesi sul letto inferiore, stremato dal viaggio e mi addormentai.
Il giorno successivo, verso le otto, mi svegliai.
Appena aprì gli occhi però, cacciai un urlo.
Ad attorniami infatti, c’erano quattro teste che mi fissavano con curiosità e con un sorrisetto sardonico sulle labbra.
“la nostra Biancaneve si è svegliata” commentò il più basso del quartetto. Aveva i capelli rasati e portava un dilatatore all’orecchio. I denti bianchi scintillarono nella luce che permeava nella stanza, come quelli di un felino.
“avrà percepito la tua aurea negativa Ches” borbottò un ragazzo alto e con gli occhiali, tenendo le braccia conserte.
“semmai quello che emana un’aurea negativa è Jun-chan, con quell’aria da emo frustrato” lo rimbeccò il primo che aveva parlato, osservando di sbieco un terzo ragazzo: aveva dei lineamenti orientali e un’espressione apatica, che strideva in modo quasi fastidioso con la solarità del ragazzo che parlò per ultimo e che se ne uscì con la più imprevedibile delle esclamazioni:
“chi è Erin?”
Avvampai all’istante, saltando giù dal letto. Nella foga però non ricordai che ce n’era un altro sopra di me e ci sbattei contro la testa, risedendomi dolorante:
“CHI CAZZO SIETE VOI?” urlai di rimando, in preda all’imbarazzo.
“noi?” ripetè senza scomporsi il biondino che mi aveva chiesto di Erin “noi siamo i Tenia” si presentò, raggruppando a sé gli amici.
Sorrideva come un ebete e sulla stessa falsariga, anche Ches, che poi scoprii chiamarsi Chester, aveva l’espressione di un beota.
 
La prima volta che vidi i Tenia pensai che fossero un branco di idioti.
 
Chester si confermò da subito come il più chiassoso della band: mi spiegò che, appena avevano saputo della mia esistenza, volevano conoscermi assolutamente. Alton però gli aveva annunciato che ero già sul volo per la Germania così, come se fosse una cosa da niente, avevano prenotato il primo volo.
Ace s’intromise, sostenendo che, la sera della partenza, Chester si era ubriacato con la vodka e che solo per questo rischiavano di non partire:
si fidi agente” aveva detto il biondo al momento del controllo bagagli “ questo da sobrio è anche peggio. Finchè è un po’ alticcio, se ne sta buono buono”
Ace era esattamente il tipo di ragazzo che faceva strage di cuori: bello e dannato. Aveva una risata contagiosa ed era sempre allegro, ricordandomi per certi versi Armin. Era lui a nascondersi dietro il chitarrista portentoso che avevo ascoltato il giorno prima. Dopo aver sentito parlare Chester, non fu difficile associare a lui il ruolo del vocalist, anche se faticai a credere che quella specie di scimmietta urlatrice potesse trasformarsi in un cantante di tutto rispetto.
Il ragazzo emo si chiamava Jun, ed era cino-canadese. Nonostante ciò, Ches si ostinava ad associare al suo nome un suffisso giapponese, con accezione vezzeggiativa, diventando Jun-chan.
Una volta provò anche con me, ma mentre il primo “Castiel-chan” glielo concessi, al secondo l’avevo fatto dall’altra parte della foresta.
Infine c’era Damien che sembrava molto più grande di noi:
“ho ventitré anni” mi spiegò, sorseggiando una birra.
In tutta sincerità, ammisi che gliene avrei dati una trentina e la cosa lo irritò parecchio; aspettai quindi che anche gli altri si aggiornassero sulla loro data di nascita e scoprimmo che ero il più piccolo della comitiva: Ace aveva un anno più di me, Jun ne aveva ventidue mentre Chester, e qui la cosa mi lasciò senza parole, ne aveva trentuno:
“ma se sembri un poppante!” esclamai sconvolto.
Senza accorgermene, già dopo un’ora dal loro arrivo, mi comportavo come se fossimo vecchi amici.
“portami rispetto” mi redarguì lui, dandosi delle arie “sono il tuo senpai!”
Gli risposi con un medio, mentre Ace, annoiato da quella conversazione, ripetè una domanda che avevo dimenticato:
“allora, chi è questa Erin?”
Sputacchiai la birra, annaffiando Damien e fornendogli un secondo motivo per avercela con me.
“m-ma come fai a conoscerla?”
“quando siamo arrivati nella stanza, stavi borbottando qualcosa tipo” e guardò Chester come a chiedergli man forte. Il pelatino si strinse nelle spalle e con voce melliflua, cominciò a recitare:
“Erin… mi dispiace…io…”
Scattai in piedi e per fortuna questa volta non avevo un letto sopra la testa.
“m-ma fatevi i cazzi vostri!” sbottai in preda alla vergogna.
“non ti devi vergognare Cas” mi sedò Ace con un sorriso furbo e prendendosi una confidenza non autorizzata “da oggi saremo compagni di stanza, quindi è giusto che io sappia di cosa parli mentre dormi. Potremo anche fare delle interessanti conversazioni io e te”
A quella notizia, guardai istintivamente l’elemento più silenzioso del quartetto:
“voglio stare in camera con Jun!” affermai risoluto. Lui non mi avrebbe dato problemi.
Di fronte alla mia convinzione, i quattro mi guardarono interrogativi, poi Chester, borbottò perplesso:
che dichiarazione senza peli sulla lingua. Non avevamo capito che fossi dell’altra sponda Cas” e prima che avessi il tempo di obiettare, aggiunse “però hai sbagliato bersaglio. Se vuoi avere qualche chance, dovresti puntare su Damien”
Damien non si scompose, confermandomi di essere gay come aveva sostenuto Chester. Io però era talmente allibito dalla stupidità di quel gruppo che per un po’ rimasi senza parole, con la tempia che rischiava di esplodermi. Esplosione che avvenne a seguito della frase di Ace:
“macchè gay. Erin è un nome da ragazza, il nostro Cassy è bello che cotto”
“la smetti di ficcare il naso negli affari miei?”
Ace mise il broncio, come un bambino che dopo mille insistenze per un giocattolo, scopre che il suo capriccio non sortirà l’effetto desiderato.
“deve essere molto importante per te se ne parli anche nel sonno” commentò tranquillo Damien, forse per vendicarsi delle mie offese involontarie. Ace sembrò riprendersi, e insistette:
“scommetto che sei perso per questa ragazza ma lei non ti fila di striscio”
Colpito nell’orgoglio, ribattei:
“lei per me non è niente”
“sono sicuro che se ti chiamasse, scatteresti sull’attenti come un cagnolino” mi provocò Ace, allungandosi sul tavolo e portando il suo viso a pochi centimetri dal mio.
“vuoi scommettere?” ghignai, sfidandolo. Quella piega solleticò incredibilmente Ace, che precisò:
“scommetto che non riesci a resistere due settimane senza sentirla; se lei ti chiama e tu le rispondi, hai perso”
“e cosa succede se perdo?”
Ace rifletté un attimo, guardandosi attorno in cerca di ispirazione.
Il suo sguardo si posò su Chester, su quella sfera liscia che aveva al posto dei capelli. Sorrise sornione e completò:
“se cedi, ti Chester ti raperà a zero”
Rabbrividii all’idea di quel nuovo look, ma considerai che non c’erano presupposti perché perdessi quella scommessa. Mi offriva invece l’occasione per mettere al suo posto Ace e, per una volta, togliergli quel sorrisetto divertito dalla faccia:
“ovviamente se vinco, la stessa sorte toccherà a te”
Il chitarrista non si scompose. Era talmente tranquillo che cominciavo a dubitare della mia forza di volontà.
Damien e Chester uscirono a fare la spesa, mentre io e gli altri continuammo a chiacchierare. Più che altro Jun faceva da ascoltatore silenzioso, ma ben presto mi abituati al suo mutismo.
A cucinare fu Ace che, sorprendentemente, si rivelò un ottimo cuoco.
Finimmo di esplorare lo chalet che si rivelò anche dotato di uno studio di registrazione di ultima generazione. Anche per i ragazzi fu una piacevole sorpresa poiché era la prima volta che mettevano piede in quel posto.
Trascorremmo la giornata in allegria: insegnai ai ragazzi a giocare a basket, sfruttando un canestro arrugginito fuori dallo chalet e quel giorno ricordo che parlammo di tutto tranne che di musica. Era come se noi cinque avessimo raggiunto la percezione che non si trattava più di una passione, ma di un lavoro e che per questo, non era il momento di parlarne.
Condividere la stanza con Ace fu un’esperienza che mise a dura prova la mia capacità di sopportazione: gli altri tre avevano ciascuno una stanza singola ed infatti erano arrivati muniti delle chiavi che a me mancavano per aprire quelle stanze. Ace invece odiava dormire da solo, così toccò a me sorbirmelo.
La prima notte, troppo eccitato dalla mia presenza per addormentarsi, mi lanciava dall’alto il suo cuscino, svegliandomi, con pretesti assurdi. Spazientito, cercavo di zittirlo ma ottenevo come unico risultato quello di perdere le staffe e aumentare il suo divertimento.
“secondo te esistono gli alieni?”
“hai mai notato le ragazze quando vanno in bagno? Vanno in compagnia, forse non riescono a fare la pipì da sole”
“Cas, prova a congiungere i due indici. Anche tu hai le falangi che puntano in due direzioni opposte?”
“hai mai desiderato nascere donna?”
Erano solo alcune delle scemenze che Ace pronunciava, impedendomi di dormire, finchè entrò Damien, sbattendo la porta furente; la sua camera era confinante con la nostra e a giudicare dalla sua espressione, erano ora che cercava di addormentarsi.
“piantatela o vi faccio rotolare giù dalla montagna” ringhiò.
Ace si zittì all’istante, evidentemente conosceva abbastanza il ragazzo da sapere che era meglio non provocarlo. L’intervento del bassista fu fondamentale e mi permise, finalmente di addormentarmi.
 
Non erano neanche le sei, quando il cellulare vibrò; avevo dimenticato la connessione dati accesa e quelle onde di certo non avevano favorito il mio riposo. Spinto dalla curiosità, sbirciai frettolosamente quella che si rivelò essere una mail:
 
OGGETTO: nessun oggetto
 
Sophia ha avuto un incidente.
Il medico ha detto che non ce la farà poiché l’intervento al cuore è troppo rischioso.
Vorrei solo che tu fossi qui, anche senza dire una parola.
In questo momento sei l’unica spalla su cui vorrei piangere.
 
Erin

 
Rimasi in silenzio, a fissare quel messaggio nel buio della notte. Calcolai che a Morristown doveva essere circa mezzanotte, ma sapere l’ora in cui Erin mi aveva mandato quella mail era perfettamente inutile.
Per la seconda volta, nell’arco di meno di quarant’otto ore, mi trovai su internet a cercare un volo last minute. Questa volta dovevo compiere il percorso inverso, sapendo che le mie risorse economiche si sarebbero ridotte all’osso.
Ace si destò e mi guardò con interesse:
“che fai?” borbottò con uno sbadiglio.
Non gli risposi, così insoddisfatto si allungò verso di me, sbriciando lo schermo del cellulare. Appena vide il sito di Skyscanner, domandò con scarsa convinzione:
“torni dalla tua Erin?”
La sua voleva essere una battuta ma, di fronte al mio tacito consenso, scoppiò a ridere:
“MA TU SEI UNO SPASSO! NON SONO PASSATE NEANCHE QUARANTOTTO ORE E GIA’ TORNI DA LEI?”
Continuò a deridermi per tutto il tempo, schernendomi per la scommessa che avevo perso, finché mi limitai a precisare:
“sua sorella sta morendo”
Ace allora non aggiunse altro, cambiando radicalmente espressione. Prese il proprio cellulare e cominciò ad aiutarmi a cercare un volo: dovevo tornare a Morristown il prima possibile.
 
Arrivai all’ospedale della città senza avere la più pallida idea di dove fosse la sala operatoria. Non sapevo come comportarmi con lei, sicuramente ce l’aveva con me perché ero partito senza avvertirla né salutarla. Ero determinato a dimenticarla, ma non potevo ignorare quella mail.
Nemmeno Nathaniel sapeva di Sophia, ero l’unico che poteva starle vicino in quel momento. Mentre camminavo per i corridoi, cercando di orientarmi con le indicazioni scritte alle pareti, la vidi.
Era nel locale delle macchinette, da sola. Quel giorno era tutto incredibilmente silenzioso e non c’erano altre persone in giro tranne io e lei. Non si accorse di me, così mi avvicinai indisturbato.
Vedevo le sue palpebre abbassarsi sempre di più: si capiva che era stremata. La situazione di sua sorella l’aveva distrutta.
Aveva serrato gli occhi quando delle lacrime le rigarono il viso. Rimasi lì a guardarla, per un paio di minuti, come se il tempo si fosse congelato.
La sua testa cominciò a inclinarsi di lato e si sarebbe spiattellata contro la sedia accanto se non fossi intervenuto. Mi accomodai di fianco a lei e lasciai che si appoggiasse alla mia spalla.
“Fia…” mormorò lei, con voce impastata da lacrime e disperazione.
“andrà tutto bene Erin” le sussurrai con una dolcezza di cui non mi credevo capace.
Lei non si mosse né reagì, convincendomi che fosse in uno stato di dormiveglia profondo. Le accarezzai delicatamente i capelli, cercando di non svegliarla e la lascia riposare, ripetendole:
“andrà tutto bene … fidati di me”
Avevo i miei buoni motivi per essere così ottimista ma ero convinto che lei non ne sarebbe mai venuta a conoscenza.
Rimanemmo lì per non so quanto tempo, finchè la figura di un uomo mi si parò davanti: suo padre era lì, in piedi e mi fissava senza battere ciglio; rimasi immobile, come ad affermare che non lo temevo. Lui però fece qualcosa che non mi aspettavo; si inginocchiò davanti a me e mi toccò il braccio:
“grazie” disse semplicemente, con voce commossa.
L’altra sua figlia non era ancora uscita dalla sala operatoria, e potevo leggere negli occhi di Peter Travis tutta la sua pena. Gli sorrisi leggermente, sperando di risultare incoraggiante e gli proposi di prendere il mio posto accanto ad Erin. Lei dormiva ancora profondamente e non si era accorta di me. Mentii a Peter, sostenendo che ero lì di sfuggita e che avevo un aereo da prendere.
Mentre sorreggevo la testa di Erin affinchè non si svegliasse e continuasse a dormire sulla spalla del padre, gli raccomandai di non raccontare alla figlia del nostro incontro. Lui non fece domande e lo apprezzai molto per questo.
Quella fu la prima occasione in cui l’uno guadagnò la stima dell’altro: in futuro Peter scoprì altri motivi per affezionarsi a me, sostenendo addirittura di essere in debito nei miei confronti; tuttavia, il fatto che Erin esistesse nella mia vita anche grazie a quell’uomo, era qualcosa di talmente inestimabile per me, che mai sarei riuscito a rendergli un dono di ugual importanza.
Andai a New York in attesa di tornare in Europa. Quella volta non avrei viaggiato da solo ma tutto sommato, la cosa non mi dispiacque particolarmente.
 
Tornato a Berlino, mi aprì la porta una ragazza dagli assurdi capelli rosa. D’accordo che io all’epoca non potevo denigrare nessuno per lo stile, ma quel rosa era un pugno in un occhio, enfatizzato anche dalla lunghezza del taglio:
così non si fa Castiel!” mi rimproverò con una vocina cantilenante ma decisa. Mi puntò contro il dito smaltato di verde e mi accusò:
“la prossima volta che prendi simili iniziative, avvertimi! Sono io la tua responsabile”
Era una ragazza alta quanto un folletto, vestita in stile kawai. Non dimostrava più di quindici anni ma, come realizzai giorni più tardi, ne aveva esattamente il doppio; Bree era la manager dei Tenia, una ragazza di origini italiane il cui nome completo era Sabrina che tutti chiamavamo con un diminutivo con cui lei stessa si identificava. Si interessò da subito alla mia storia, alla situazione di Erin e una volta che venne accertato che l’intervento era riuscito, anche Bree cominciò a torturarmi e a ficcare il naso nella mia vita privata, mettendo il broncio quando mi serravo le labbra. Diversamente dal suo aspetto però, era molto professionale e passava tre quarti delle sue giornate a rincorrere Chester e Ace da un angolo all’altro della casa. I due infatti, pur essendo i più talentuosi del gruppo, erano anche i più svogliati e inventavano mille scuse per non impegnarsi nelle prove, in attesa dell’inizio delle registrazioni.
Passammo il Natale in allegria e i ragazzi dimostrarono di non essersi scordati della scommessa; ogni tanto Chester imitata il ronzio del rasoio elettrico e Ace mimava con le dita la forma di una forbice; io replicavo che in fondo non si poteva dire che avessi perso la scommessa, dal momento che non avevo risposto alla mail di Erin. I ragazzi però non erano affatto soddisfatti.
La mattina di Capodanno, dopo aver passato la notte in giro per Berlino ed esserci ubriacati tutti come porci, andai in bagno, assalito da un conato di vomito.
Dopo essermi svuotato lo stomaco e con un fastidiosissimo senso di nausea, mi sciacquai il viso. Appena i miei occhi si posarono sullo specchio, cacciai un urlo.
Mi diressi come una furia nella stanza di Chester e lo trovai a pisciarsi addosso dal ridere:
“ma guarda i gemellini” borbottò Ace, riferendosi a me e al vocalist: la mia chioma rossa fuoco, di cui ero tanto orgoglioso, era sparita durante la notte. Al suo posto, era rimasta lo scalpo liscio e uniforme.
“ti dona” mi derise Damien seguito poi da Jun che manifestò uno dei suoi rari sorrisi.
Tenni il muso a quei quattro per un giorno intero, sopportando i loro commenti cretini. Il migliore fu quello di Ace che nacque dopo avermi beccato in bagno mentre cercavo di misurare, a distanza di parecchi giorni dal fattaccio, quanto fossero cresciuti i capelli. Volevo fare una stima di quanto ci avrebbero messo a tornare della loro lunghezza.
Ero appena uscito dalla doccia e, senza curarmi di indossare l’accappatoio, impugnai il righello che avevo rubato dall’astuccio di Bree.
Ace e il suo pessimo tempismo, entrarono proprio in quel momento, beccandomi in flagrante. Lo fissai sorpreso, mentre si piegava in due dal ridere, richiamando l’attenzione di Damien e Chester.
“AHAHAA, Castiel si stava misurando i capelli” annunciò con la voce soffocata dalle risate.
“non mi stavo misurando i capelli!” mentii io, avvampando per la vergogna.
sei tutto nudo e con un righello in mano, che cazzo ti stai misurando?” rise a sua volta Chester poi, zittendosi per un nano secondo, sorrise malizioso “forse mi sono risposto da solo”.
Persino Damien si lasciò andare in una risata esagerata, mentre Bree accorreva per vedere cosa fosse successo. Per la seconda volta in pochi mesi, contro la mia volontà, mi mostrai in tutta la mia nudità davanti ad una ragazza. Diversamente da Erin però, Bree fu più posata e, dopo aver distolto lo sguardo, mi ordinò:
“copriti idiota”
Eseguì il comando e appena lei tornò a fissarmi, si accorse che avevo posato il suo righello sul lavandino:
“a che cazzo ti serve il mio righello?” esclamò, dapprima sconvolta, poi schifata ed infine arrabbiandosi.
non ti facevo uno che si fa questo genere di complessi” continuava a sfottermi Ace.
“che complessi?” intervenne in quel momento Jun, incuriosito da tutto quel baccano.
del cazzo” completò Chester ridendo come un forsennato.
Continuarono a sfottermi per quella storia del righello per un po’, poiché non riuscivo a trovare una scusa che giustificasse l’utilizzo di quello strumento senza chiamare in causa i miei capelli o il mio virile amico.
 
Solo quando composi la prima canzone, notai un cambiamento in loro.
 
Quel giorno mi ero presentato in sala di incisione tenendo in mano lo spartito e rivolgendomi a Alton, che da circa una settimana si era aggiunto a noi, seguito da suo staff. Tra fonici, tecnici eravamo dieci persone.
Guardò le note e chiese a Chester di dare un’occhiata al pezzo. Il mio amico era stravaccato sulla poltrona, mentre aspettava che il resto della band finisse di incidere la musica.
L’accordo che avevo firmato in America, prevedeva che scrivessi almeno tre canzoni per loro, ma dopo l’esecuzione di On plane,  Alton chiamò il signor Amadeus per cambiare il contratto: appena i Tenia eseguirono la mia canzone, la loro espressione cambiò radicalmente: Jun cominciò a picchiare con una determinazione pazzesca sui tamburi della sua batteria, Damien sorrideva soddisfatto ed Ace era la concentrazione fatta persona. Contagiato dal loro entusiasmo, Chester era balzato in piedi sul divano e aveva cominciato a cantare parole a caso, saltellando e gesticolando come se fosse sul palco.
Alton applaudiva entusiasta, mentre il fonico, Phil sollevava il pollice verso di mee annuiva compiaciuto. Bree mi abbracciò con calore e mi stampò un bacio orgoglioso sulla guancia, saltellando per arrivarci.
Erano diventati la mia famiglia.
 
Più passava il tempo e meno la lontananza di Erin mi pesava. Almeno così credevo la maggior parte del tempo.
In parte perché avevo molto lavoro da fare: gli iniziali tre pezzi erano diventati sette a parità di tempo per produrli. Non che sei mesi fossero pochi, era per tre canzoni che erano troppi.
Parallelamente a me lavorava un altro compositore, Hans, però i suoi pezzi secondo Alton, non erano convincenti quanto i miei. Dopo qualche settimana, demotivato dall’insuccesso che riscuoteva la sua musica, il povero Hans si chiamò fuori dal progetto e mi trovai improvvisamente, principiante qual ero a dover pensare ad un intero album. Sentendo una pressione pazzesca, Alton mi affiancò un compositore esperto che però doveva fungere solo da supporto: la musica doveva essere la mia.
Nel frattempo ricominciai a sentire Nathaniel; avvenne tutto in modo naturale, quando decisi che dovevo chiarire la mia situazione scolastica. Contattarlo era d’obbligo ma quella volta parlammo pochissimo delle faccende legate alla mia istruzione. Infatti, dopo aver contattato la preside, il mio amico mi assicurò che era disposta a fare un’eccezione con me: se mi fossi tenuto in pari con il programma dello scorso anno e avessi superato un mega esame a giugno, una volta rientrato al Dolce Amoris, avrei evitato la bocciatura.
Del resto non aveva senso farmi ripetere per la terza volta il quarto anno.
Liquidammo così sbrigativamente la questione scolastica, poiché c’era qualcos’altro che Nate voleva assolutamente dirmi:
“io e Erin ci siamo lasciati”
Quando me lo disse, ricordo che stavo camminando per la stanza, bloccandomi davanti alla finestra.
Non me l’aspettavo.
“perché?” riuscii a dire, disegnando una forma astratta sul vetro appannato.
“non lo indovini?” mi provocò lui, quasi con amarezza “non si è mai trattato di me Cas, lei vuole te”
Scoppiai a ridere e mi ci vollero cinque secondi buoni per riprendermi:
e io che pensavo parlassi seriamente!” lo rimproverai bonario.
“ma sto parlando seriamente!” protestò lui.
Sospirai divertito e continuai a deridere la sua follia:
“come no, sicuramente mi ama perdutamente, tanto da rinunciare a uno come te”
“in un certo senso è così, non potevo continuare a stare con lei se poi pensava a te”
“Nate” lo richiamai, cominciando ad innervosirmi “sei sempre stato tu il favorito, sei sempre stato l’alternativa migliore per… tutte” sputai, indugiando sull’ultima parola in cui però lui capì perfettamente il riferimento a Debrah.
“non è così” sussurrò, ma la voce gli uscì talmente flebile che non bastò di certo a convincermi che avesse ragione “forse un giorno, quando avrai smesso di crederti una nullità, ti renderai conto che non sei mai stato tu a dover invidiare me…”
Quelle parole mi zittirono. Non potevo vederlo, ma sapevo che dall’altra parte c’era un ragazzo dall’aria talmente seria che non mi avrebbe concesso alcuna replica. Non condividevo per nulla quello che aveva appena detto: avevo passato una vita ad ammirarlo, niente mi avrebbe fatto ricredere sul modello che mi ero scelto come riferimento. In ogni caso preferii non approfondire quel dibattito, poiché per telefono non gli avremo reso il giusto merito. Rimanemmo quindi ciascuno sulla propria posizione.
In qualche modo cambiammopoi argomento, lui cominciò a parlarmi del suo soggiorno in California e io di quello in Europa. Dopo quella telefonata ne seguirono molte altre, intermediate da scambi di mail: se rinunciare ad Erin e non sentirla era un’auto imposizione necessaria, restare in contatto con Nate era altrettanto essenziale per me.
 
Verso metà gennaio, mi spostai nella saletta dove c’era un pc portatile e che usavamo tutti in comune. Contrariamente a quanto avrei fatto credere poi ad Erin, la connessione era ottima, anche se eravamo un po’ dislocati rispetto al centro città.
Era passato quasi un mese da quando ero partito per la Germania e sentivo un po’ di nostalgia per Morristown: mi mancava svegliarmi la mattina e fare un salto da Demon, portalo a spasso la domenica e rimproverarlo quando abbaiava contro i piccioni del parco. I pranzi in cui mi invitava Mauro, in cui rotolavo verso casa per quanto mangiavo e le sue raccomandazioni sul fatto di trovarmi una ragazza seria. Avrei voluto rivedere Lysandre, sedermi sul tetto del liceo, anche solo per stare in silenzio, mentre lui componeva poesie e io musica, fumando una sigaretta. Ogni volta che sfidavo Chester o Jun ai videogiochi, non potevo non pensare ad Armin e a tutte le sconfitte umilianti che mi aveva impartito quel mago dei joystick. Sentivo perfino la mancanza delle ragazze, di Rosalya, sempre troppo acida verso di me ed Iris alla quale mi ero molto affezionato, per i suoi modi sinceri e spontanei. Persino Violet, con il suo stare in disparte a disegnare in silenzio, riusciva a strapparmi un sorriso triste.
Ma più di tutti, anche se per giorni interi continuavo a ripetermi che l’avrei dimenticata, mi mancava Erin.
Apriila pagina di Facebook, benedicendo Alexy in quanto unico del nostro gruppo di amici ad avere un account in quel social network. Pur vergognandomi, perché mi sentivo un po’ stalker, non riuscivo a non controllare tra le sue foto, se ce ne fossero alcune di Erin;  in particolare, mi ero fissato su una che era stata scattata durante il compleanno. Non si era accorta di essere inquadrata eppure, o forse proprio per questo, aveva un’espressione bellissima: lo sguardo era abbassato, non ci capiva se e cosa guadasse di particolare. La mano destra intrecciava distrattamente una ciocca di capelli, sorridendo dolcemente.
Alexy aveva caricato cinque foto di quel giorno e in nessuna di esse trovai il mio peloso regalo; prima di partire per Berlino, mi ero recato da Jason, annunciandogli che intendevo accettare la sua offerta di prendere un gatto. Mi spiegò che ci volevano ancora parecchi giorni prima che i cuccioli si potessero separare dalla madre ma questo faceva perfettamente al caso mio; dopo avergli messo in mano un po’ di soldi per il necessario, gli chiesi di scegliere una gattina e portarla ad Erin il 4 gennaio, come regalo da parte mia.
Passando in rassegna quelle foto, cominciai a temere che Jason si fosse dimenticato della mia richiesta, ma la mia preoccupazione svanì pochi minuti dopo, quando potei vedere l’animaletto con i miei occhi.
Mentre ero concentrato sul pc, a sorpresa, arrivarono Ace e Chester:
“Cas! Mi è venuta un’idea!” esclamò Ace, facendomi rabbrividire.
Ogni volta che esordiva con quella frase, le cose prendevano una piega inquietante.
“voglio vedere questa Erin! connettiti a Skype!” mi ordinò.
Sgranai gli occhi e mi arrabbiai per la sua invadenza. Era assolutamente fuori questione che mi facessi vivo con lei, specie via webcam.
“scordatelo, e poi non sono affari tuoi!”
“eddai Mozzy” mi implorò Chester, storpiando uno dei miei soprannomi più gettonati, Mozart. Me l’ero guadagnato a forza di scrivere canzoni che, a detta dei ragazzi, erano una più bella dell’altra. Io invece non ne ero mai pienamente soddisfatto e continuavo ad arrovellarmi per studiare dei miglioramenti.
ormai siamo una famiglia, l’hai detto tu l’altra sera al pub”
“ma cosa dici? Io non l’ho mai detto” protestai. Anche se non l’avevo mai espresso a voce alta, si trattava di un pensiero di cui ero convinto.
“da ubriaco sei uno spasso” mi canzonò Ace, portando la mano destra sul mouse.
Prima che riuscissi a fermarlo, comparve il logo di Skype e poiché giusto due giorni prima l’avevo usato per sentire Nathaniel, il collegamento con il mio account fu istantaneo.
Cominciai a strattonare Ace che si rivelò più forte di quanto sembrasse, mentre Chester mi rideva dietro.
Appena il collegamento fu completo, vidi accendersi la spia della webcam: afferrai allora il berretto che Chester portava in testa e me lo calai fino alle orecchie, per nascondere quei corti ciuffi neri a cui faticavo ad abituarmi.
Tuttavia non fu Erin quella che apparve per prima sullo schermo:
“I-Iris?”
Vedevo la rossa fissarmi sbigottita ma non potei indugiare ulteriormente su lei, poiché Chester si posò contro il mio corpo, facendomi sbattere la testa contro la tastiera del pc.
Me lo scrollai di dosso, appena in tempo per sentire Iris che diceva:
“non immaginerai mai chi c’è qui”
Il cuore cominciò a martellarmi in petto, con la frequenza di un martello pneumatico.
Col cazzo che mi mancava sempre meno.
Mi era bastato vederla in quel momento per non capire più nulla.
Non sapevo come comportarmi, cosa dirle, che pensasse di me. In un certo senso, l’intromissione dei ragazzi mi fu vitale perché evitò il crearsi di imbarazzanti silenzi e mi permisero di rompere il ghiaccio.
Quella conversazione non era diversa da come l’avevo sempre immaginata: ce l’aveva con me per non essermi fatto vivo ed era convinta che il mio muro del silenzio si fosse esteso anche a Lysandre. Ero costretto a farle credere che fosse così, quando in realtà era solo lei il mio problema; era solo lei a far vacillare tutte le mie certezze.
Tuttavia, e per questo l’ho sempre ammirata, Erin non era quel tipo di persona che serba rancore; anche con uno come me, che per sopportarmi di pazienza ce ne vuole parecchia, lei era sempre la prima a cercare la riconciliazione.
 
Con il passare del tempo, più imparavo a conoscerla, più scoprivo in lei delle qualità che non potevo fare a meno di amare. Anche quelli che avrebbero dovuto costituire i suoi difetti, ai miei occhi si trasformavano in caratteristiche adorabili del suo essere, come la sua incapacità di articolare un discorso sensato prima di aver bevuto il caffè al mattino o i suoi piccoli piedi gelati, nascosti sotto le lenzuola.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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