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Autore: Eleanor Tommo    28/12/2014    2 recensioni
Aveva avuto il coraggio di rompere il muro e di non fermarsi a ciò che poteva vedere solo con gli occhi.
Era riuscita ad uscire dal labirinto della sofferenza trovando la risposta alla sua domanda che ancora tutti si porgono.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un anno dopo. 

Ecco che per l'ultima volta, mi ritrovai a fare un tour visivo di tutto quello che mi circondava: un immenso vuoto. 
Avrei rivisto quella stanza per l'ultima volta prima di tornare in Florida con i miei e così me ne stavo là, ritto in piedi a fissare le pareti spoglie; la cartina del colonnello, accanto alla sua postazione del letto sopra, non c'era più: sparita insieme al TAVOLINO DA CAFFÈ, nonché il mio baule da viaggio che in quel momento stava tra le mie gambe in attesa di essere gettato a caso tra i bagagli che poteva contenere un autobus di quelli che mi avrebbero riportato a casa. 
In quel momento quella stanza non sembrava più calda e afosa come me l'avevano messa davanti il primo giorno, ma appariva spoglia e fredda, quasi come se le pareti mi chiedessero di risistemare i libri sugli scaffali e i poster sulla porta. 
Se scostavo anche solo di poco la testa, potevo attraversare il bagno con lo sguardo; ancora sorridevo perché quello specchio ad altezza estesa era sempre là, accanto al lavandino e rifletteva sempre la solita immagine di un doccino alto quanto bastava per farsi la doccia a metà. La costante immagine di me, piegato sulle ginocchia a gambe spalancate, si faceva ogni giorno viva nella mia testa e l'imbarazzo che provavo verso me stesso non cambiava affatto, anzi diventava sempre più forte e intenso. 
Il letto a due piani, in particolare la parte sotto mi chiedeva disperatamente di sdraiarmi ancora una volta sul quel vinile appiccicoso, sul quale passai giorni e notti a piangere, a ridere e a sbronzarmi di nascosto dall' Aquila, con il mio conpagno di stanza. 
Il colonnello. 
Lui mi mancava, mi mancava davvero. 
 Purtroppo pochi mesi prima ci eravamo dovuti dividere, non per alcuni giorni, non per un breve periodo: per sempre. 
Tutto questo perché ne aveva combinate tante e grosse, e quando arrivò il momento di denunciare qualcuno, denunciò se stesso venendo così cacciato dal Campus. 
Quelle erano le regole: o ti comportavi da ragazzo esemplare o ti cacciavano a calci in culo. Ormai il colonnelo ne aveva scampate troppe per riuscire a scampare anche l'ultima. 
Takumi. 
Lui se n'era ormai andato da tempo, con la promessa di tornare, ma dopo la lettera che mi scrisse, nessuno seppe più nulla di lui. 
Come finì con Lara? 
Con lei riuscii finalmente a socializzare, sicuramente più di quanto facevo in precedenza, ma oltre a quello capii che non era affatto il tipo di ragazza che avrei voluto portarmi a letto. 
Era carina, questo lo ripetevo ogni volta, ma non sapevo dire altro. 
Tanto che nel giro di alcuni mesi si trovò un ragazzo migliore di me e se lo meritava, perché io non sarei riuscito a tirare avanti una relazione per poco più di due settimane. 
Oltre a questo, lei fu promossa con il massimo dei voti e uscì dal campus con il cuore in pace. 
Il professor Hyde, nonostante le previsioni che alludevano spesso alla propria morte, stava ancora in piedi. 
I suoi polmoni reggevano, o almeno, uno dei due ancora funzionava, anche se il suo respiro non era cambiato, né tanto meno i suoi modi di fare. 
Dovettero cambiare la sua sedia; già, perché quella si distrusse, prima che la salute e il tempo, potessero distruggere il vegliardo e le sue idee religiose e filosofiche. 
Riuscì nel suo intento e ci insegnò per filo e per segno ogni dettaglio delle tre religioni, taoismo, induismo ed ebraismo. 
E lui che credeva di non potercela fare. A pensare che nella sua aula, sulla lavagna, scritta in gesso, c'era ancora la domanda di Alaska:" Come si può uscire da questo labirinto di sofferenza?". E che domanda. Una domanda così difficile, ma così semplice allo stesso tempo; una domanda misteriosa che poteva avere una o mille risposte. 
In fondo, quella domanda non era la sola ad essere un perfetto mistero, ma accompagnava a braccetto lei, Alaska. Forse la persona più misteriosa, ma anche la persona più forte, stupida e fantastica che avessi mai conosciuto durante l'arco di tutta la mia esistenza. 
Ormai quella ragazza, che inizialmente era il mio primario desiderio, stava sparendo insieme alla mia voglia di trovare la soluzione; spariva insieme all'intenzione di rispondere a quella sua importante domanda e allo stesso tempo, spariva anche la mia esaltazione nel cercare quel Grande forse. 
Forse perché mi sarebbe servito ancora molto tempo, prima di riuscire a trovarlo o forse perché semplicemente, lo avevo trovato senza nemmeno essermene reso conto. Ero certo solamente di una cosa: Chi fosse riuscito eventualmente a rispondere alla domanda, sarebbe stato dimenticato e distrutto come ognuno di noi viene distrutto quando è il tempo giusto. 
In poche parole, non si avrà mai la risposta a quella domanda, in quanto ogni essere umano può affrontare la propria sofferenza vedendola come un mostro che va ucciso lottando; si potrebbe non uscire vivi da quel labirinto, come si potrebbe anche uscirne vittoriosi, ma il dolore c'è sempre e comunque. Passai davanti a gran parte delle stanze e davanti alla sua mi fermai. 
Restai sulla soglia guardando attraverso la porta spalancata e tutto quello che potevo vedere era la parete estrema ammuffita a causa del vecchio scherzo che i ragazzi della Settimana Corta, fecero ad Alaska. 
La scrivania era completamente vuota e se mi guardavo attorno riuscivo ad immaginare ancora le infinite pile di libri che circondavano il suo letto. Del vulcano di cera, alto più di trenta centimetri, rimaneva solamente la base. Quella stanza sapeva ancora di lei. 
Se chiudevo gli occhi sentivo la sua voce e se respiravo profondamente ero persino in grado di sentire il suo odore, anche se, ahimè, veniva subito smorzato dalla puzza di umido che aveva impregnato le pareti sottili e annerite dal fumo proibito. 
Il suo letto era disfatto, le lenzuola e i cuscini ormai spariti. 
Sulla sua porta vi era ancora infisso il piccolo cartello con la scritta "Alaska ha una singola" , ma ormai quelle parole si stavano sbiadendo con la stessa velocità con cui si sbiadiva il ricordo dei giorni passati insieme a lei. 
Se mi leccavo le labbra potevo sentire il suo sapore, e improvvisamente per terra, c'eravamo io e lei. Sdraiati uno sopra l'altra ci baciavamo con passione, una passione dovuta all'alcol. Io che toccavo il suo corpo così bello, così desiderato e così meraviglioso; mi vedevo ancora una volta avvolgere le mie mani sul suo seno, con un solo strato che mi separava dalla sua pelle calda. 
Non volevo piangere e non avrei pianto, in quel momento. Avrei lasciato il campus con l'intenzione di abbandonarci tutto: avrei lasciato là tutta la mia malinconia e il mio rimorso, là nella stanza 43, in modo che la sofferenza non mi seguisse fino a casa in Florida. 
Mentre attraversavo il campo sterrato al centro dei sei grandi edifici, riuscivo a sentire le urla dei ragazzi quando, finite le lezioni, se ne tornavano nelle loro camere o uscivano per divertirsi. Vedevo ancora il nostro gruppo che organizzava meravigliosi e storicissimi scherzi e in lontananza vedevo il campo da calcio. 
Il campo in cui immaginavo me ed Alaska sdraiati su un fianco quasi fino a toccarci, ma con una bottiglia di vino che separava i nostri due corpi. Lei leggeva e io la ascoltavo con stupore, con voglia e con entusiasmo. La sua voce era soprannaturale per me; una voce d'angelo, divina, intoccabile. 
Quando mi voltai vidi la stessa scena che avevo visto un anno prima: la macchina dei miei genitori parcheggiata accanto al marciapiede ed io con in mano le valigie con le quali stavo trafficando. 
L'unica differenza è che quel giorno, io me ne stavo andando lasciandomi un anno intero alle spalle. 
Il motore acceso dell'automobile mi distrasse dai miei pensieri e in quel nanosecondo iniziai a vedere le immagini scorrermi davanti agli occhi come uno schermo, mostrandomi una panoramica di tutto quello che avevo vissuto in quel lungo periodo. I sei edifici, il cortile e poi... un campo di margherite. 
Come poteva essere? In un luogo così piccolo, vidi per la prima volta un'immensa distesa bianca. 
Forse sarebbe solo bastato sporgersi un pò e guardare oltre. 
Oltre tutte le apparenze; oltre a ciò che credevano di metterci davanti. Alaska lo aveva fatto. 
Alaska era andata oltre i divieti, aveva avuto il coraggio di rompere il muro e di non fermarsi a ciò che poteva vedere solo con gli occhi. 
Era riuscita ad uscire dal labirinto della sofferenza trovando la risposta alla sua domanda che ancora tutti si pongono. 
"Come si esce da questo labirinto di sofferenza?".
  
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