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Autore: Leia    04/02/2005    5 recensioni
Coruscant, Imperial City. La strada di un giovane ragazzo in cerca di vendetta, Kyle, si incrocia con quella di una donna bellissima, elegante e misteriosa. Davanti ad un drink ghiacciato e un tramonto, i due parleranno come da tanto non facevano con nessuno.
Ma dietro agli occhi verdi e penetranti di Mara Jade, conosciuta ai più come Il Braccio Destro dell’Imperatore - il più letale dei suoi agenti segreti - si nasconde in realtà molto più di quello che sembra. Rabbia, solitudine, tristezza. Un grande senso del dovere, unito ad un profondo rispetto per la vita. Ma soprattutto il desiderio, disperato, di poter conquistare la felicità, un giorno. Una felicità senza compromessi, senza catene e senza padroni. E Kyle, molto presto, se ne accorgerà… [attenzione: fic basata su uno dei personaggi presentati nella trilogia dei libri di Timothy Zahn, successivi alla trilogia classica cinematografica. Per maggiori dettagli, leggere la premessa iniziale]
Genere: Azione, Commedia, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Han Solo, Luke Skywalker, Mara Jade, Nuovo personaggio, Principessa Leia Organa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima di iniziare, qualche doverosa parola a proposito della storia.

Questa fic parla di un personaggio dell’Universo Espanso di Guerre Stellari - Mara Jade - che appare per la prima volta nel romanzo L’Erede dell’Impero, primo volume della trilogia firmata da Timothy Zahn (in Italia pubblicato da Sperling & Kupfer). Gli altri libri e comics books in cui Mara appare sono innumerevoli, e per avere una lista completa vi consiglio la visita ad un buon sito dedicato al mondo di Star Wars (alcune pubblicazioni, purtroppo, non sono mai arrivate in Italia).

Per scrivere questo racconto mi son basata su tutto il materiale di SW in mio possesso, compresa la Guida Completa all’Universo di Star Wars, di Bill Slavicsek (edita da Fabbri Editori) e la Guida al Gioco di Ruolo di Star Wars (della Stratelibri). Tutta la terminologia, compresi i vari riferimenti a fatti, luoghi e persone, viene da lì. Perdonatemi errori e imprecisioni che possono essermi sfuggite!

 

Le uniche invenzioni presenti nella fic riguardano il protagonista maschile (Kyle) e i “nemici” che affronta insieme a Mara: entrambe le cose sono totalmente frutto della mia fantasia… uh, e anche parte del finale, ma su quello tornerò nelle note che troverete a fine fic. La storia si situa cronologicamente circa tre anni dopo Episodio IV: Una Nuova Speranza, pressappoco tra L’Impero Colpisce Ancora e Il Ritorno dello Jedi (per chi segue i libri, praticamente durante le vicende de L’Ombra dell’Impero). La “carriera” di Mara alle direttive di Palpatine è, in questo periodo, appena iniziata… perlomeno secondo le mie idee & ipotesi :P ho quindi immaginato una Mara Jade un po’ più “umana” di quella che si trova nella trilogia di Zahn. L’ho fatta ancora un po’ inesperta, con qualche scrupolo e vicina forse a quella descritta in parte sul comic book Mara Jade - il braccio dell’Imperatore di Zahn/Stackpole (che mi ha ispirata assai).

 

Per una veloce infarinatura sul personaggio di Mara Jade, vi consiglio un salto qui. E’ la pagina di uno dei miei siti dove, verso la fine, troverete un piccolo riassunto fatto da me dedicato a lei e alle sue vicende. Credo sia più che sufficiente per capire la storia che segue… naturalmente è scontato che abbiate visto almeno i film di Guerre Stellari :P

 

Che dire, adoro Mara Jade e credo sia uno dei personaggi più belli dell’universo di Lucas (se non il più bello). Avevo in mente questa fic da molto, e dopo un paio d’anni di stasi ho deciso di concluderla. Si tratta solo di un piccolo omaggio reso al Braccio dell’Imperatore, niente di più ;) ho cercato di esplorare un po’ la sua psicologia perché credo sia un tema interessante… e sotto la facciata spregiudicata e letale di Mara Jade, ho visto quello che leggerete.

Spero vi piaccia, e ringrazio in anticipo chi arriverà fino alla fine. Per me questa storia è davvero importantissima. A risentirci a fine fic per le ultime cose!

 

 

 

-

 

Spine e Velluto

 

-

 

 

Di certo non era qualcuno che passava inosservato.

La vidi subito, appena mise piede nella sala. Era alta, snella ma formosa, con due gambe lunghe, morbide, che si intravedevano attraverso lo spacco vertiginoso dell’audace vestito che indossava. Camminava con passo sicuro ma allo stesso tempo elegante, e sottilmente sensuale.

Quando si fece più vicina la osservai senza distogliere gli occhi dal suo viso, simile a porcellana fine, colpito dall’incredibile disinvoltura con cui si muoveva in un ambiente così esclusivo. Immediatamente però pensai che di sicuro doveva essere una contessa, o un’importante personalità di un piccolo e ricco pianeta, e che per lei il ricevimento di quella sera non rappresentava nient’altro che l’ennesimo e noioso dovere di un membro dell’alta società. Mi stupì solo che non fosse accompagnata da nessuno, e mentre ci pensavo, sorrisi. Se fossi stato ad Imperial City in altre circostanze avrei dedicato l’intera serata all’approfondimento di una conoscenza all’apparenza così interessante, ma purtroppo avevo priorità ben diverse. Mi ero infiltrato nel palazzo dei Karjam con un obiettivo preciso, e non me ne sarei andato da lì fino a che non si fosse presentata l’occasione che aspettavo.

Era l’unica cosa che mi importasse, allora. Sapevo di poter rimetterci la pelle, certo, me ne rendevo perfettamente conto, ma non avrei mai cambiato idea.

Fosse stata anche l’ultima cosa che facevo, dovevo provarci.

 

Dopo aver allontanato con una mano il primo bicchiere, ormai vuoto, ordinai un altro drink all’Ithoriano fermo dietro al ripiano traslucido su cui ero stancamente appoggiato. Mi rispose in basic con un cortese “subito signore”, che uscì dalle due bocche di cui era dotato risuonando in un modo piuttosto curioso. Non mi era ancora capitato di vedere un Ithoriano lavorare su Coruscant, ed in un posto del genere, poi. Pensai di chiedergli cosa l’avesse portato ad Imperial City, ma subito dopo cambiai idea.

La verità era che mi sentivo nervoso, e avevo una voglia disperata di distrarmi in qualche modo, in un qualsiasi modo. Feci un profondo sospiro per calmarmi, ma quando presi in mano il nuovo cocktail, un denso liquido verde smeraldo dal forte profumo stordente, mi accorsi di tremare. E la cosa peggiore era che non riuscivo a smettere, nemmeno facendo appello a tutto il mio autocontrollo…

Tastai la piccola impugnatura della vibrolama che tenevo in tasca. Avevo passato un’intera notte a pensare a cosa avrei dovuto scegliere come arma, propendendo alla fine per quella più difficilmente rilevabile dai sensori dell’ingresso. Ora stavo però iniziando a pentirmi amaramente. Un blaster, anche di piccole dimensioni, mi avrebbe evitato un contatto troppo ravvicinato con il mio obiettivo, assicurandomi invece un sicuro - o quasi - successo.

Mi passai una mano fra i capelli, poi appoggiai il palmo alla fronte. Stavo iniziando a sudare, ma in ogni caso, ormai, non potevo più tornare indietro. Anche se avevo una paura terribile. Anche se cominciavo a rendermi conto di stare per commettere la più grande sciocchezza della mia esistenza, probabilmente anche l’ultima. In fondo avevo solo diciassette anni, e nonostante non potessi perdonare l’assassino di mio padre non avevo nemmeno troppa voglia di morire.

 

“Posso sedermi qui?”.

 

Fu così, mentre ero immerso, con la testa fra le mani, in un dilemma piuttosto angosciante quale la scelta nel mio immediato futuro fra morte e vita, che lei mi rivolse la parola.

Potrei definire la sua voce vellutata. Sì, era questa l’impressione che mi aveva dato. Calda e tranquillizzante, ma con tuttavia qualcosa di sfuggente, di insondabile. Me ne accorsi subito dopo, in una serie di intense sensazioni a catena, quando fissandomi con due incredibili occhi dello stesso colore smeraldino del mio drink mi chiese, e senza nemmeno aspettare la mia risposta alla sua prima domanda, se mi andava di offrirle qualcosa da bere.

Attesi che il brivido che mi aveva percorso la schiena passasse per balbettare un “certo” quasi timoroso. Meno male che avevo altre priorità. E soprattutto meno male che mi ero creduto tanto sicuro di me quando l’avevo vista. Una conoscenza che avrei sicuramente approfondito, avevo detto.

“Allora, hem… cosa… cosa ci fa qui?”, chiesi sentendomi sempre più un idiota, mentre con un cenno richiamavo l’attenzione dell’Ithoriano per la nuova ordinazione.

Lei si accomodò meglio sullo sgabello, poi appoggiò un gomito sul banco. Davanti a sé posò la borsa che stringeva tra le dita.

“La stessa cosa che ci fa lei… mh, tu. Assolutamente nulla, al massimo la tappezzeria di questo meraviglioso quanto inutile salone. Queste feste lo sono. Inutili, intendo”.

Allargò le labbra carnose, color rubino, scoprendo una fila di denti bianchissimi. Anche se era a tutti gli effetti splendida, ora non mi sembrava più una riccona. Una vera snob, come quelle alle nostre spalle, statuine impassibili e perfette ferme a chiacchierare sul pavimento liscio e riflettente della sala, non avrebbe mai detto una cosa simile.

Subito mi incuriosii. Volevo conoscerla meglio, anche se sapevo che non avrei dovuto spostare la mia attenzione su di lei.

“Sei… di Coruscant?”.

Lei accarezzò con le dita il bicchiere ghiacciato del drink, un Terrysh di un intenso blu elettrico. Non mi rispose subito, ma quando lo fece restò con gli occhi fissi sul vetro.

“Chi non lo è? Questa città è il cuore della galassia, ed è come se fossimo tutti di qui”.

Mi guardò.

“Ha così importanza l’origine?”.

Non seppi bene cosa risponderle, e rimasi imprigionato un’altra volta nella magia dei suoi occhi. L’unica cosa che mi venne in mente di fare, a quel punto, fu di presentarmi.

“Beh… ecco, no, però… io sono Kyle Denom, e…”.

“Lasciami indovinare. Mi stai per dire che sei il figlio di un ex-senatore e che hai uno stratosferico conto in banca. Ah, e che non sei fidanzato”.

Se fosse stato qualcun altro a parlarmi così, anche di sesso femminile, gli avrei di sicuro risposto male, ma con lei non ci riuscii. Non seppi però nascondere la mia espressione offesa.

“Uhm”. La notò, e accavallò le gambe. “Scusa. Credevo ti saresti inventato qualcosa del genere, ma…  evidentemente gli uomini non sono tutti uguali”.

Ridacchiò, ed in un modo talmente delizioso da farmi dimenticare subito il tono odioso che aveva usato un attimo prima. Risollevai la testa.

“Ma anche se tu fossi come gli altri non riusciresti a convincere nessuno. Sei un po’ troppo impacciato per far parte della stessa cerchia degli insulsi damerini qui dietro”. Con un cenno del capo indicò un gruppo di umani e alieni che conversavano compostamente a pochi metri da noi. In effetti sembravano più manichini inamidati che esseri viventi.

Mi riappoggiai al ripiano, demoralizzato.

“Vuoi dire che non sono credibile come aristocratico?”.

“Beh, ti si nota subito. Perdonami ragazzino, ma sembri un pesce fuor d’acqua, qua dentro”.

Distolsi ancora gli occhi da lei. Bene, se una donna mi aveva subito smascherato solo guardandomi, immaginai che la mia missione potesse già considerarsi fallita in partenza. Forse non ero un granché come infiltrato. E neanche come falso snob.

“Nemmeno tu fai parte dell’alta società, o sbaglio? Anche se fino a quando non hai aperto bocca lo sembravi”, continuai, un po’ distaccato. Poteva anche evitare di farmelo notare così, ci ero rimasto male.

Lei alzò il drink per berne un sorso, e solo in quel momento notai che aveva dei polsi incredibilmente sottili. Non riuscivo ancora a capire che tipo di donna fosse. Sembrava allo stesso tempo forte e fragile, provocante e schiva, e forse proprio per questo mi attraeva come nessun’altra aveva mai fatto prima. Anche se, sicuramente, doveva avere quattro o cinque anni più di me. Magari addirittura di più.

Si passò velocemente la lingua su un labbro per catturare una goccia azzurra di Terrysh, poi sorrise. Un sorriso terribilmente seducente. Ebbi l’impressione che stesse pensando a qualcosa, e mi parve anche che gettasse un’attenta occhiata alle mie spalle.

“Mh, no, non faccio parte dell’aristocrazia, o almeno… non esattamente. Ma nemmeno questo è importante”.

“Neanche il tuo nome, immagino”.

“Vedo che inizi a capire”.

Le luci della sala le illuminavano la pelle diafana, facendo brillare il rossetto scarlatto che aveva sulle labbra e i capelli color del fuoco, sparsi ai lati del collo. D’un tratto un’ombra di tristezza le attraversò lo sguardo, ma si trattò solo di un attimo.

“Tu… puoi però chiamarmi Chiara. Chiara Lorn”.

 

> - <

 

Era evidente che quello non era il suo vero nome. Avrei dato tutto per sapere quello reale, ma non osavo insistere. Mi aveva fatto capire molto bene che non voleva parlare di sé. Mentre la guardavo, però, assaporando la sua voce che di poco riusciva a sovrastare il brusio del salone, mi sembrava di impazzire.

Chiara - o chiunque esisteva dietro quel nome - mi disorientava. Certe volte smetteva di colpo di parlare, di ascoltarmi, oppure cambiava completamente espressione, come se in quell’insieme indefinito e ubriacante di suoni e voci avesse sentito qualcosa di preciso. Qualcosa che la assorbiva totalmente per qualche istante, estraniandola da tutto e tutti. Chiudeva gli occhi senza dire nulla, e sembrava dimenticare la mia presenza. Poi, come se nulla fosse successo, tornava a guardarmi, rivolgendomi un normalissimo sorriso.

“Scusa se mi permetto, ma… ”, dissi ad un certo punto.

“Dimmi”.

“Ecco… mi chiedevo se stessi bene”.

Sembrò sorpresa.

“Certo. Benissimo, perché?”.

“No… no, nulla. Così. Mi sembravi un po’… strana”.

Mi voltai verso il banco per allungare una mano su un vassoio riempito da piccole porzioni di una specie di antipasto ordinato non so bene quando da lei. Potevo sentire i suoi occhi su di me, e pensai che mi avrebbe chiesto a momenti qualcosa.

“Cosa ci fai qui, Kyle?”, disse infatti, poco dopo.

“Eh?”.

Solo allora mi resi conto che non mi aveva fatto nessuna domanda personale dopo che mi aveva confessato che le ero subito apparso un aristocratico poco convincente. Quella era la prima dopo un’ora di conversazione sul più ed il meno.

“Io… ”.

Adesso non ricordo esattamente cosa stessi per dirgli, ma di certo qualcosa di molto vicino alla verità. Per fortuna mi bloccai in tempo. Era come se… se fosse stata capace di stregarmi, ecco. Quella sensazione mi fece un po’ paura, e la fissai storto.

“Non mi pare che tu mi abbia detto molto di te, finora… se tralasciamo il nome, comunque falso. Mi spieghi allora perché dovrei dirti i fatti miei?”.

Lei mi mostrò un debole sorriso.

“Mh, hai ragione. Scusami. E’ che mi sembri molto giovane, e se non fai parte di una famiglia posta fra le alte sfere di Coruscant non riesco proprio a capire cosa tu sia venuto a fare qui, e come ci sei arrivato. I membri del Karjam non fanno entrare chi non presenta l’invito”.

Giocherellò con un tramezzino posto sul bordo del piatto.

“Anzi… ho sentito dire che chi prova a passare senza autorizzazione viene bloccato, per poi essere freddato con pochi colpi di fulminatore in una stanza nascosta alla vista”.

Venni attraversato da un brivido. Sapevo benissimo cosa succedeva a chi provava ad infiltrarsi a palazzo senza essere atteso. I Karjam erano una famiglia arricchitasi in un modo piuttosto misterioso, e molti raccontavano che vivessero soprattutto di estorsioni e traffici illegali, anche se non era mai stato provato nulla. In apparenza sia loro che il mio odiato obiettivo erano puliti, schifosamente puliti. E anche questo, purtroppo, lo sapevo fin troppo bene.

Comunque, era molto difficile riuscire ad entrare in possesso di uno di quei maledetti inviti. Avevo dovuto aspettare cinque lunghi mesi prima di poterlo avere tra le mani grazie ad un amico fidato, e lui aveva quasi rischiato la vita per me.

Nel ripensarci, portai istintivamente la mano sopra la tasca della giacca che conteneva il rettangolo di carta rigida. Sospirai.

Rivolsi a Chiara un’altra, eloquente occhiata. Lei non distolse lo sguardo dal mio.

“In qualche modo potrei aver avuto l’invito, e potrei stare aspettando qualcuno per fargli una sorpresa, chi lo sa”, mormorai con un po’ d’ironia, sporgendomi verso di lei. “Magari sono qui per i tuoi stessi motivi”.

Lei socchiuse le palpebre sfumate da un ombretto dai toni terra, a tratti dorato e color bronzo. E ancora una volta, guardandola, sentii una scarica elettrica percorrermi la spina dorsale.

“E’ possibile”, rispose con un sussurro. “Ma non ci giurerei”.

Restammo in silenzio. In realtà non avrei voluto che si creasse quell’atmosfera di ostilità. Forse lei non se n’era accorta o magari non le importava neanche, ma io percepivo la distanza fra noi farsi sempre più grande. E non mi piaceva. Non volevo.

“Una ragazza splendida come te non dovrebbe stare da sola in una serata come questa. Anche se non sei qui per… divertirti, credo”.

Dove volessi arrivare con quelle parole, uscitemi dalla bocca senza pensare, non lo sapevo bene. Però tornai a guardarla, sperando che anche Chiara lo facesse, magari con negli occhi la stessa luce che avevo intravisto quando mi aveva chiesto scusa, all’inizio.

“E’… triste. Ingiusto”.

“Ci sono molte cose ingiuste”.

Dovevo aver toccato un tasto dolente, perché sembrò oscurarsi di colpo.

“Certe volte… ”, mormorò. “C’è… ci sono… delle responsabilità. Io ne ho molte”.

Si rigirò il bicchiere tra le mani, e per la prima volta ebbi l’impressione che stesse iniziando a dirmi davvero qualcosa. Qualcosa su quella ragazza nascosta dietro a due iridi luminose ma allo stesso tempo così distanti. Su quello che fino ad allora non ero riuscito ad afferrare.

Il suo tono era diverso. All’inizio pensai che fosse paura, ma poi mi resi conto che quello, di sicuro, non poteva essere il termine esatto. Chiara non era il tipo di persona che sembrava fosse in grado di provarne. Anche se doveva avere delle debolezze, sapevo che la paura non era fra quelle.

Distese le dita affusolate sul bancone, e rimase con lo sguardo fisso sulle proprie unghie, lucide di smalto trasparente. Poi, piano, si girò verso di me.

“Posso sacrificare me stessa, non ho problemi”.

No, quella non era paura.

“Bisogna sacrificarsi, quando si hanno delle…”.

“… priorità”.

Quella era rabbia. Anche se triste, infinitamente triste. Perché era uguale a quella che sentivo dentro io.

Adesso, ne sono assolutamente certo. Anche a distanza di tutti questi anni, so che era quello il sentimento che ci univa quando ci incontrammo a Coruscant.

Anche Chiara, o meglio colei di cui non conoscevo ancora la vera identità, aveva qualcosa da fare. Un ruolo da sostenere, che le pesava, ma che aveva scelto e accettato consapevolmente. Stava perdendo molte cose, ma era stata lei a volerlo, esattamente come me, che stavo giocando col mio destino inseguendo una vendetta più simile ad un suicidio che altro.

Sì, la nostra volontà superava ciò a cui tenevamo, ciò che eravamo: esseri umani. La nostra fede travalicava l’attaccamento alla vita, la ricerca della felicità. Andava oltre a tutto, tutto quanto.

Esisteva solo la fede. La fede in qualcosa.

 

Allora, tutto questo era stato soltanto un mio sospetto. Certo, non l’avevo pensato così articolato, ma diciamo che ero riuscito ad avvicinarmi alla verità. Insomma, avevo intravisto la vera Chiara già a quel tempo, in quella indimenticabile conversazione, ma non avevo voluto rendermene conto. Perché non volevo che cambiasse l’immagine di lei che avevo davanti in quel momento.

Ricordo che quando finimmo quella frase insieme, nel momento in cui ci guardammo, mi sembrò fatta di vetro. Una superficie levigata, lucente, trasparente, solo a tratti opaca. Una creatura bella, rara e fuggente. Pensai che se avessi chiuso gli occhi anche solo un attimo sarebbe scomparsa, come una farfalla in un battito d’ali. Si sarebbe librata nel cielo, e dopo il tramonto la sua vita libera ma effimera sarebbe finita improvvisamente, ingiustamente.

Così splendida, così forte, così fragile.

Chiara Lorn.

Chi era? Chi era quell’essere angelico, malinconico ma a volte così cupo che sedeva di fronte a me?

Ma anche se non riuscivo a comprendere la forma della sua anima, ad un tratto smisi di farmi tutte quelle domande. Smisi di chiedermi qualunque cosa. Avrei voluto conoscere le risposte, non lo nego. Le avevo desiderate fin dall’inizio. Ma quando si creano dei momenti magici, e dico veramente magici, beh… non c’è più bisogno di pensare. Non c’è più bisogno di nulla.

“Comunque…”.

“Sì?”.

Allungò una mano, che sfiorò, come se fosse seta, la mia.

“Adesso non mi sembra proprio di essere sola. Ci sei tu, qui con me. O sbaglio?”.

Annuii, mentre un lieve sorriso mi si delineava sulle labbra.

“Hai ragione”.

 

> - <

 

Il cielo, costellato da nubi color lavanda, era vicino ad incontrare i toni cangianti della notte di Coruscant. Restai a fissare per un po’ l’orizzonte oltre i vetri azzurrini del palazzo, poi feci scorrere gli occhi lungo le alte lastre trasparenti che si innalzavano, per almeno dieci metri, oltre la mia testa.

“Mh, cos’è quello sguardo perso? Sogni forse di pilotare i caccia, ragazzino?”.

Mi passai una mano tra i capelli, piano, come se mi stessi svegliando in quel momento da un lungo, pacifico sonno. Ero rilassato, e sereno. Ed era Chiara a farmi sentire così. La sua voce, dal timbro morbido e sensuale. Un petalo di rosa rossa tra le secche, gialle foglie avvizzite dell’universo.

“No, no. E’ che… non ricordavo più come fosse un tramonto”, mormorai, lambendo l’ennesimo bicchiere vuoto appoggiato al bancone. Lei rispose con una piccola curva della bocca.

Erano ormai passate due ore dal nostro incontro, ma Chiara sembrava aver appena messo piede della sala. Dalla piega perfetta dei capelli che le accarezzavano la guancia, alla brillantezza del rossetto sulle sue labbra fin ad ogni suo più impercettibile, delizioso gesto, era ancora impeccabile. Praticamente abbagliante. Inoltre, non sembrava per nulla annoiata né da me, né dai movimenti calcolati e pigri della gente intorno a noi.

“Allora siamo in due. Non ho più tempo da dedicare a cose del genere”, disse, gettando nel mentre un’occhiata malinconica alle tonalità dorate che si riflettevano fra i grattacieli di Imperial City. “Se soltanto… ”.

Fu allora che si fermò. Improvvisamente, troncando quella frase a metà. Io, che nel mentre ero tornato a guardarmi le mani chiuse ai lati del mio drink, risollevai lo sguardo su di lei, sorpreso da quel brusco silenzio. Chiara stava fissando il vuoto, mentre i lineamenti del suo bellissimo volto erano contratti. Era tesa, ed era evidente. Ogni fibra del suo essere sembrava esser passata in stato dall’erta, allarmata da qualcosa che io non potevo vedere.

La farfalla mi stava sfuggendo dalle dita, ancora una volta. Mi sporsi verso le sue braccia bianche, ma non feci nemmeno in tempo a chiamarla per nome che ogni cosa finì, proprio come era accaduto più volte all’inizio del nostro incontro, quando l’avevo vista perdersi nelle mille strade di quella sua mente imperscrutabile. Lontana anni luce da questi sgabelli, da questa vetrata, da questi bicchieri vuoti ma ancora pregni dell’aromatico profumo del Terrysh.

“… io… mi sono accorta che è tardi. Davvero… davvero tardi… ”, disse poi, riprendendosi quasi dolorosamente da quello strano stato di estraniazione. Si appoggiò con forza al ripiano del bar per rimettersi in piedi, ed io la osservai confuso, triste. Anche lei lo sembrò. Per un attimo.

“Son stata bene, Kyle Denom”, mormorò allora, volgendo i suoi occhi color smeraldo sul mio viso. Li strinse un poco, e dopo aver raccolto la borsa abbandonata sul banco sorrise dolcemente. “Scusami. Scusami, se puoi”.

Non credo di averla mai più vista, in seguito, così bella come mi apparve in quell’esatto momento, illuminata debolmente dai colori della sera. Così riconoscente, vulnerabile, e sincera. Perché quelle sue richieste di scuse non si riferivano semplicemente al fatto che era costretta ad andar via, ne ero certo. Chiara mi stava implorando di perdonarla per molto, molto altro.

La guardai allontanarsi tra gli ospiti del salone dopo averle risposto con un sorriso simile al suo, allargando appena le labbra. Non le dissi nulla, ma tenni invece una mano leggermente aperta, col gomito appoggiato al ginocchio, in segno d’addio, fino a quando non scomparve completamente dalla mia vista.

 

> - <

 

Trascorsero giusto un paio di minuti prima che mi rendessi di nuovo conto di dove mi trovavo, e della ragione per cui ero lì. Il che coincise sorprendentemente con l’entrata in scena del mio obiettivo, che con passo altero prese ad avanzare tra gli aristocratici che affollavano il palazzo. Un consistente gruppo di alieni si raccolse immediatamente intorno a lui e al suo nauseante seguito di servitori, rivolgendogli parole ammirate e infinite sequenze di saluti ossequiosi.

Rimasi ad osservare dall’angolo del bar quell’esibizione di spudorata falsità, disgustato. Teri’r Jarim era un Twi’lek appartenente ad uno dei più potenti clan di Ryloth - il pianeta sul quale viveva, da sempre, la sua infida razza – che aveva fatto fortuna con il contrabbando e l’esportazione di ryll, attività in realtà considerata quasi normale per tutti i Twi’lek. Le famiglie aristocratiche erano inoltre i principali clienti con cui le tribù di Ryloth facevano affari, vista l’elevata diffusione dello stupefacente negli ambienti snob e benestanti dei grandi centri urbani della galassia. I Karjam non facevano eccezione, e tra loro e la tribù di Teri’r Jarim esistevano da anni torbidi e illegali rapporti, sia commerciali che non. Oltre al traffico della droga, infatti, i Twi’lek erano tristemente famosi anche per la vendita degli schiavi ai migliori offerenti che atterravano su Ryloth e, non da ultimo, per la loro abilità come spie e sicari di organizzazioni criminali.

Quella dei Karjam lo era, senza alcun dubbio. L’avevo sperimentato sulla mia pelle, in cinque anni di ricatti ed estorsioni compiute dai capi clan verso la mia famiglia. Verso mio padre, colpevole soltanto di aver accettato, in un momento difficile, quello che gli era sembrato un prestito senza rischi e facilmente restituibile, ma che nel giro di poco tempo era divenuto invece, con l’aggiunta di interessi altissimi, un debito insanabile.

Io e la mia famiglia iniziammo così a vivere nell’angoscia, e nonostante mio padre lavorasse il doppio delle ore per poter restituire tutto quello che ci chiedevano era chiaro a tutti che non sarebbe mai riuscito a raccogliere quella cifra astronomica. Ma lui continuò ugualmente, per mesi, con la vana speranza di farcela. Fino a quel maledetto giorno. Quando, sulla strada di casa, Teri’r Jarim lo uccise con due, precisi colpi di blaster. Era stato assoldato dalla famiglia dei Karjam. Loro, naturalmente, non avevano voluto sporcarsi le mani.

Si presero la nostra casa, e tutto quello che ci era rimasto.

 

Erano passati quattro anni da allora. Adesso, Teri’r Jarim aveva abbandonato l’attività di sicario, preferendo ad una vita fatta di rischi ed incertezze un redditizio e ben più sicuro futuro attraverso il solo commercio di ryll fra le alte sfere di Coruscant. Lui stesso era diventato un perfetto, spocchioso snob che raramente decideva di tornare sul suo pianeta d’origine. Le buie notti del roccioso e arido Ryloth, in effetti, dovevano di certo aver perso ogni attrattiva di fronte ai luminosi e corrotti salotti dei grattacieli di Imperial City.

Io, però, non avevo dimenticato. Non avrei mai potuto dimenticare.

 

Abbassai lo sguardo sui miei piedi, riuscendo a trattenere a stento le lacrime. Quelle risate ipocrite e il vociare dei lacché di Teri’r Jarim mi perforavano le orecchie, facendomi venir voglia di alzarmi, accendere la vibrolama e correre verso di lui per affondandogliela nel collo, senza curarmi delle conseguenze. A causa sua, ora mia madre era costretta a mendicare, e mio fratello minore a servire un lurido mercante di pezzi di ricambio contraffatti. E’ vero, le colpe erano in realtà di Jarim quanto del clan dei Karjam, ma non ero ancora così pazzo da pensare di riuscire a vendicarmi di entrambi. Non adesso, almeno, e non certo da solo.

Il Twi’lek era l’unico alla mia portata. E sì, l’avrei ucciso senza pensare a nient’altro se non ci fosse stata la mia famiglia da proteggere. Non potevo lasciare che seguisse lo stesso destino di mio padre. Dovevo raggiungere il mio scopo senza metterla in pericolo.

Di me, invece, non m’importava.

 

Nonostante la mia risolutezza la paura era però tornata a farsi sentire, e prima di alzarmi dallo sgabello feci un lungo, profondo respiro. Salutai l’Ithoriano dopo avergli pagato i drink, e con fare all’apparenza rilassato cominciai a passeggiare per il palazzo, tenendomi ad una certa distanza da Jarim. La mia idea era quella di seguirlo nelle stanze private che di sicuro i capo clan gli avevano preparato per il soggiorno in città, ma avrei dovuto aspettare con pazienza il momento in cui si sarebbe ritirato dal noioso ricevimento in corso.

E così feci, occultando il mio attento studio dei suoi movimenti con superficiali chiacchierate con alcune ballerine e cameriere Twi’lek, di sicuro schiave vendute dallo stesso Jarim ai Karjam in occasione della festa. Con mia grande sorpresa non passò molto prima che il mio uomo cominciasse a congedarsi con le varie personalità presenti in sala, in un modo anche piuttosto frettoloso. Avvicinatosi all’uscita che conduceva ai piani riservati agli ospiti illustri si consultò quindi con i suoi servitori, che parlando animatamente tra loro suscitarono, per qualche istante, la sua irritazione. A quella violenta reazione ognuno di loro smise di parlare, e dopo un rispettoso, pentito inchino si allontanarono uno ad uno per lasciarlo, solo, vicino alla porta aperta.

Era l’occasione che aspettavo, e mi si era presentata con una facilità insperata. Presi coraggio, e dopo che Jarim se ne fu andato dal salone lo seguii. Nessuno mi vide.

 

> - <

 

Sgusciai nel corridoio silenziosamente, guardandomi intorno con circospezione. Era deserto, se si escludeva la presenza di un droide operaio intento a lavare un angolo del pavimento. Sembrava un ASP-7, di tipo umanoide. Quando gli passai accanto mi salutò, e io gli risposi con un cenno del capo.

Non riuscivo a capire dove fosse finito Teri’r Jarim. Non poteva aver percorso l’intero corridoio in meno di dieci secondi, e l’unica ipotesi possibile era che fosse entrato in una delle porte situate ai lati. Sembravano fatte dello stesso materiale perlaceo delle pareti, e si aprivano mediante card magnetica.

Mi accostai alla prima, appoggiando l’orecchio sulla superficie. Voci di donne che ridevano, e nient’altro. Mi allontanai, proseguendo con la seconda stanza, quindi con la terza. Soltanto quando arrivai alla quarta riconobbi subito il timbro acuto di Jarim risuonare attraverso il sottile spessore della porta. Stava sicuramente parlando con qualcuno, ma sul momento non riuscii a sentire nient’altro che una piccola risata femminile in risposta ad una sua confusa domanda. Attesi ancora. Dei passi che si allontanavano, alcuni prodotti da dei tacchi alti. Altre risate, poi il silenzio.

Indietreggiai con un sospiro, fissando preoccupato la sottile fessura che risultava essere l’unico elemento che componeva la serratura. Mi passai una mano tra i capelli. Come avrei fatto ad entrare senza card?

In quell’istante il droide di prima si mosse di qualche metro cigolando, e giunto dinanzi ad una delle porte tese un braccio. Dal polso meccanico spuntò un piccolo rettangolo scuro, che andò ad inserirsi nell’apertura destinata alle cards d’ingresso. La serratura scattò.

“Ehi, amico”, dissi allora illuminato dalla più ovvia delle idee, appena prima che il droide entrasse nella camera per proseguire le sue pulizie. “Ho l’impressione di aver perso la mia card durante il ricevimento. Qui fuori, sai… c’era una tale confusione. Deve essermi scivolata fuori dalla tasca, e adesso ho una fretta terribile. Non è che potrei approfittare del tuo pass?”.

L’ASP-7 parve perplesso, forse impreparato ad una richiesta simile. I droidi operai erano in effetti dotati di una semplice programmazione di base, che li rendeva limitati ed anche piuttosto stupidi. Decisamente il mio tipo di interlocutore ideale, in quel momento.

“Oh-oh, certo signore”, gracchiò poi, facendo dei buffi movimenti rigidi con le braccia. Erano anche molto educati, nonostante la poca intelligenza. “Ma in seguito dovrà andare a denunciare la perdita della sua card al personale addetto. Potrà quindi richiederne un’altra”.

Mi raggiunse rapidamente, ed io sorrisi.

“Naturalmente”, risposi, facendomi da parte per permettergli di aprirmi la porta. “Grazie infinite. E’ solo per questa volta. Sono atteso in salone, e non posso proprio tardare”.

La lastra color avorio di fronte a noi scivolò verso destra, ed immediatamente il doide si voltò per tornare al lavoro. Io, invece, oltrepassai l’ingresso.

 

Quelle che i Karjam avevano riservato a Jarim erano tutt’altro che un paio di semplici stanze. Mi trovavo, infatti, in una delle più lussuose suite che avessi mai visto, e che ben poco aveva a che fare con lo stile regolare, asettico e monocolore dell’età Imperiale. Velluti dalle tinte calde, tappeti arabescati e tavoli di cristallo dalle fini intarsiature d’oro mi circondavano, insieme a innumerevoli manufatti posti in ogni angolo della camera, inutili quanto indubbiamente preziosi.

Per qualche secondo rimasi senza parole, incredulo di trovarmi davanti ad oggetti che avevo potuto ammirare una sola volta, da bambino, in un’area del Museo Galattico interamente dedicata alla cultura della Vecchia Repubblica; ma alla fine scossi la testa. Sbuffai, storcendo le labbra. Di sicuro era stato Jarim a volere quel tipo di arredamento per la durata della sua permanenza ad Imperial City. Inoltre, con ogni probabilità, tutti i pezzi racchiusi tra quelle pareti dovevano risultare rubati. Non mi era difficile immaginarlo. Ero certo che i Karjam li avessero comprati da un qualche contrabbandiere di opere d’arte che era abilmente riuscito a sottrarli all’Impero durante i primi anni o forse, chi lo sa, addirittura all’organizzazione del Sole Nero.

Scossi la testa, quindi cominciai ad ispezionare la stanza. Come avevo previsto era ormai vuota, ma nonostante avessi distintamente udito Jarim allontanarsi verso una seconda camera non sembrava esserci alcuna traccia apparente di un collegamento ad un ambiente attiguo.

Feci qualche altro passo, senza riuscire a capire. E proprio mentre sfioravo un’alta tenda scarlatta appesa ad una delle pareti del salotto notai che pochi passi più in là, alla mia sinistra, un altro drappeggio molto simile pareva coprire un passaggio.

Con cautela mi avvicinai. Il tessuto era molto spesso, e solo quando giunsi ad un palmo dal panneggio mi accorsi della voci provenienti dall’altra parte. C’era anche una leggera musica, dai ritmi vagamente etnici.  

“… e se invece di continuare a ballare ti sedessi qui, sulle mie gambe? Mia cara… ”.

“… Arica. Il mio nome è Arica, Lord Jarim… ”.

“Arica. Un bellissimo nome, davvero… ”.

“Oh, lei mi lusinga… ”.

Al suono delle parole pronunciate dell’accompagnatrice di Jarim dovetti appoggiarmi alla parete, pesantemente. E mentre sentivo le gambe cedere, scostai la tenda di poco. Quel tanto che bastava per assistere ciò che non avrei mai voluto vedere.

Arica, ovvero Chiara, era semidistesa sulle ginocchia di Teri’r Jarim, il quale si trovava comodamente seduto su un lungo divano azzurro di seta ricamata. Lo spacco del vestito che indossava le lasciava completamente scoperta una gamba, piegata sensualmente contro il ventre del Twi’lek. Lui la stava osservando con occhi a dir poco lascivi, mentre le sottili mani dalla lucida pelle color sabbia non perdevano tempo, salendo veloci lungo la sua coscia fino alla linea morbida del seno prorompente, continuamente. Per tutta risposta Chiara lo stringeva sempre più a sé, accarezzandogli piano i tentacoli che, acconciati elegantemente con un sottile nastro nero, gli incorniciavano il collo.

Riuscii a reggere quelle immagini soltanto per pochi secondi. Lasciai ricadere il velluto, portandomi subito una mano alla bocca in preda alla nausea più totale. Sentivo il sudore scendermi dalle tempie fino al mento, ed il cuore battermi all’impazzata. Nella mia testa, una sola domanda era riuscita a prendere forma. Perché?

In realtà ci sarebbero state infinite risposte logiche di fronte a quello che avevo appena visto, ma rifiutavo di accettarle. Non volevo nemmeno considerarle delle possibilità. Perché non potevano far parte delle scelte compiute dalla stessa donna che avevo conosciuto quella sera. Non potevano. Anche se…

Ci sono molte cose ingiuste. Certe volte ci sono… delle responsabilità. Io ne ho molte…

Quelle parole mi tornarono alla mente, improvvisamente.

Posso sacrificare me stessa, non ho problemi. Bisogna sacrificarsi, quando si hanno delle… priorità.

Quelle frasi pronunciate con un tono che sapeva di triste, e amara determinazione.

Sospirai, confuso. Non sapevo più, esattamente, a cosa pensare, ma nonostante tutto tornai faticosamente con gli occhi sul piccolo salotto. Chiara era ora in piedi accanto al divano, a pochi passi da Jarim. Si stava sistemando le spalline dell’abito sotto lo sguardo sempre più eloquente del Twi’lek ed io, osservandolo, non potei fare a meno di provare un moto di pura repulsione nei suoi confronti.

Verme, pensai, stringendo i pugni. Sei soltanto un verme viscido e strisciante.

Non sapevo cosa sarei stato capace di fare se Jarim avesse toccato Chiara. Non sapevo come avrei potuto reagire davanti a una scena simile. E la consapevolezza che sarebbe avvenuta con ogni probabilità di lì a pochi minuti mi rendeva totalmente incapace di pensare.

Quasi d’istinto portai però la mano nella tasca, prendendo tra le dita gelide la vibrolama naturalmente ancora spenta. Chiusi gli occhi, ed il cuore iniziò a risuonarmi con estrema chiarezza nella testa. Sarebbe un altro buon motivo per farlo fuori, mi dissi. Sì, sarebbero delle valide, incontestabili ragioni. E’ un assassino, un molestatore, un trafficante di droga e di schiavi. Se lo farò fuori, questo mondo avrà un criminale in meno.

Sfilai il coltello dalla giacca lasciando ricadere il braccio lungo il fianco, poi risollevai il capo. Teri’r Jarim aveva ora la grossa testa deforme appoggiata contro lo schienale del divano, le braccia mollemente allargate sul tessuto azzurro. Ridacchiava rilassato mentre, alle sue spalle, Chiara sorrideva gettandogli di tanto in tanto delle brevi occhiate. Ad un certo punto, continuando a seguire attentamente le parole dell’alieno, si chinò su di un piccolo carrello dorato, dove due fini coppe di cristallo e una caraffa colma di vino scuro brillavano sotto la luce artificiale delle lampade della stanza. Prese uno dei calici, e dopo averlo riempito se lo portò al petto. Guardò un’ultima volta in direzione di Jarim, dopodichè sorrise ancora. E fu in quel momento che, confuso, la vidi estrarre dalla generosa scollatura del vestito una minuscola capsula argentata, per poi aprirla e versarne il contenuto - un’impalpabile polvere bianca - nel bicchiere.

Lo scosse leggermente, e il misterioso ingrediente si dissolse immediatamente nel liquido.

“Sarai assetato… ”, mormorò dopo un attimo con voce suadente, tornando accanto al divano per sedersi su uno dei piccoli braccioli. Porse il vino al Twi’lek e questi, curvando maliziosamente le labbra, chiuse la coppa tra le dita di una mano, mentre l’altra si allargava piano sulla pelle liscia della gamba nuda di Chiara. Lei, però, sembrò non curarsene. Si versò invece una piccola quantità di vino, voltandosi verso il carrello e inclinando lentamente la caraffa. Quando i suoi occhi si posarono nuovamente su Jarim, sollevò il proprio bicchiere verso l’alto.

“A te”.

“Mh… no, no mia cara… a noi… ”.

Io, che per quell’ultimo minuto ero rimasto immobile con la vibrolama spenta stretta nel pugno, alla vista delle dita ossute del Twi’lek che salivano avidamente verso l’interno coscia di Chiara mi sentii ribollire dall’odio. Accesi il generatore ultrasonico pronto a gettarmi su Jarim, ma in quell’istante lui attirò violentemente il viso di Chiara a sé, baciandola.

Contemporaneamente, alle mie spalle, un sibilo improvviso ruppe il silenzio. Spaventato mi volsi di scatto, scordandomi però della lama ormai accesa. Una parte della tenda di velluto rosso cadde ai miei piedi con un rumore ovattato, mentre a grandi passi entrava nella stanza il droide operaio.

“Oh-oh, mi dispiace signore”, sillabò guardandomi vitreo. Reinserì nel braccio il piumino della polvere, già pronto per la pulizia della suite. “Non avevo intenzione di disturbarla”.

“Merda”, mormorai tra i denti, corrugando la fronte con gli occhi chiusi. “Merda!”.

Dietro di me, un fruscio brusco di vestiti.

“Chi diavolo sei tu?”.

Feci un respiro profondo. Sono un idiota, pensai. Un idiota.

Mi girai lentamente verso Jarim e Chiara, preparandomi al peggio. Erano in piedi, ad un passo dal divano. Lei mi stava fissando a dir poco scioccata, con gli occhi sbarrati e una mano premuta sul petto. Jarim, invece, indugiò a lungo sul mio viso, per poi correre con i suoi piccoli occhi gialli sul mio braccio.

“Mpf, avevi forse intenzione di uccidermi?”, disse con voce monocorde, dopo aver notato la vibrolama. Ridacchiò divertito, e da sotto il mantello che aveva sulle spalle estrasse con la mano libera un blaster. Lo puntò verso di me con estrema calma.

 “Povero illuso”.

Anche se avevo la gola arida e a malapena mi reggevo in piedi, feci ugualmente per rispondere. La mia sorte era ormai segnata, lo sapevo, ma per nulla al mondo mi sarei tolto il gusto di dire in faccia a Jarim quanto lo detestavo e in quali mille, fantasiosi modi avrei voluto vederlo morto.

Inaspettatamente, però, Chiara si fece avanti, avvicinandosi al Twi’lek e stringendosi contro di lui.

“Potrei offendermi, sai… ”, sussurrò con un tono che avrebbe fatto desistere qualunque criminale dai suoi obiettivi. Gli avvicinò il calice di vino alla guancia, accarezzandola col vetro freddo. “… allora ti basta un po’ di baccano per distrarti da me?”.

“Mia cara… ”, replicò l’altro senza distogliere il suo sguardo di ghiaccio dal mio, furioso. “No, naturalmente no”.

“E allora brindiamo”, continuò lei facendo tintinnare il proprio bicchiere contro quello del Twi’lek, che ancora lo teneva sollevato con la mano sinistra. “A noi. Di questo piccolo, insulso scocciatore ti occuperai dopo”.

 Jarim, allora, finalmente la guardò. Mosse il braccio per avvicinare il vino alle labbra, senza però rendersi conto di stare abbassando anche l’altro. Io, invece, dopo aver istantaneamente rimosso le parole appena usate da Chiara per descrivermi, mi resi conto che la mia vendetta sarebbe potuta avvenire soltanto in quel momento… o mai più.

Con uno scatto veloce in avanti balzai verso l’assassino di mio padre, deciso ad ucciderlo con un netto taglio alla gola. Nell’attimo di sferrare la coltellata, però, sentii il manico della vibrolama tremarmi nel palmo, e surriscaldarsi d’improvviso. E mentre l’arma mi cadeva dalle mani spegnendosi, vidi Chiara gettarsi contro Jarim con un grido.

Entrambi caddero sul divano. Il bicchiere di Chiara si rovesciò sulla seta del rivestimento rompendosi poi in mille pezzi ai miei piedi, ma quello del Twi’lek rotolò sul suo addome magro, fasciato da una elegante casacca rossa.

In ginocchio, stringendomi la mano ancora dolorante e senza riuscire minimamente a capire cosa stesse accadendo, osservai il vino allargarsi sulla veste di Jarim con un debole crepitio. Un filo di fumo grigio si alzò da sotto il suo naso, e lui lanciò un urlo di dolore. Quando riaprì gli occhi al posto di una normale macchia di vino c’era, inspiegabilmente, una profonda bruciatura. Un’ustione, che aveva consumato sia il tessuto dell’abito che la pelle del Twi’lek.

A quel punto Chiara, che in parte era ancora sopra l’alieno, si scostò di colpo. Si mise in piedi, fissandolo. La sua espressione era cambiata repentinamente ed io, con un brivido, scorsi di nuovo qualcosa di familiare. La vidi spostare gli occhi sul carrello, dove era posata la sua borsa. Schiuse le labbra, quindi tornò su Jarim.

“Dannata… dannata puttana!”, ringhiò lui una volta che ebbe realizzato, aggrottando cupamente l’altissima fronte gialla. I suoi tentacoli iniziarono a muoversi impercettibilmente. “Sarai tu a morire!”.

Stretto ancora nella mano dell’alieno, il fulminatore si mosse subito nella direzione di Chiara, quindi sparò. Io gridai, ma un bagliore improvviso mi costrinse a chiudere gli occhi.

“Io non credo proprio”.

Il tono sicuro di quelle parole risuonò nel buio della mia testa, accompagnato da un ronzio strano. Risollevai le palpebre, dovendo poi sbatterle un paio di volte per essere sicuro di non stare sognando. Davanti a me Chiara sorrideva, le braccia piegate in posizione di difesa. Tra le mani stringeva un’arma che non avevo mai visto prima, composta da un’impugnatura metallica e una lunga lama d’energia viola. Il fascio laser le illuminava il viso fiocamente, facendole sfavillare i bellissimi occhi verdi.

No… lei non era in grado di provare paura.

Di nessun tipo.

Feci scorrere piano lo sguardo. Jarim aveva ora le dita premute sulla propria spalla destra, e osservava Chiara con uno sguardo ancor più torvo di quello di prima, un misto tra sofferenza e ira. Il blaster era a terra, lontano dal Twi’lek. Capii allora che il colpo partito dall’arma era stato parato dalla spada d’energia di Chiara, rimbalzando indietro e ferendo di striscio l’alieno.

“Le spie non escono vive da questo posto”, sussurrò questi a denti stretti. Avvicinò un polso alla bocca, attivando velocemente il comlink integrato in un bracciale. “Allarme generale, accorrete immediatamente! Due intrusi si sono introdotti nelle mie stanze!”.

Con un gesto fulmineo allungò un braccio verso gli stivali, tirando fuori una piccola pistola stordente. A quella vista, Chiara indietreggiò.

“Addio, dolcezza”, le disse Jarim con un sorriso.

Non passò mezzo secondo che mi sentii sollevare da terra con un forte strattone. Udii il colpo immobilizzante partire, ed un suono elettrico provenire subito dopo da un punto imprecisato piuttosto vicino al mio orecchio. Senza capire come, un attimo dopo ero in piedi accanto a Chiara.

“Muoviti!”, mi urlò, tirandomi bruscamente per un braccio e cominciando a correre verso l’uscita della suite. “Tra meno di venti secondi ci ritroveremo inseguiti da tutte le guardie del palazzo, grazie a te! Dobbiamo andarcene da qui, e alla svelta!”.

Sotto lo sguardo curioso del droide operaio, Chiara si fermò soltanto un attimo per abbandonare le scomode scarpe che indossava sulla soglia della camera. Ed in quei pochi secondi di calma prima della fuga io mi ritrovai, invece, a fissare sempre più disorientato le sue dita strette intorno al mio polso. Possedevano una forza insospettabile, nonostante fossero incredibilmente belle e affusolate. Sapevano essere gentili, ma anche capaci di graffiare.

Lanciai un’ultima occhiata oltre la tenda bruciacchiata dalla mia vibrolama, in fondo alla stanza. Jarim giaceva svenuto sul divano, stordito dal colpo che lui stesso aveva sparato.

Ci sono andato così vicino, riuscii soltanto a pensare, prima di mordermi un labbro e scappare.

 

Attraversammo a perdifiato l’intero corridoio, mentre intorno a noi gli allarmi incominciavano a suonare uno dopo l’altro. Chiara riaccese la spada laser, aumentando la velocità. Nel tentativo di starle dietro incespicai più volte, ma al momento di crollare rovinosamente a terra, svoltato il primo angolo, ci dovemmo bloccare entrambi. Davanti a noi una decina di alti uomini vestiti con l’uniforme blu delle guardie dei Karjam stavano accorrendo dai piani inferiori del palazzo, dotati di carabine blaster e lunghe spade fissate alla cintola.

“Dannazione”, esclamò Chiara arretrando. “Per di là!”.

Sfrecciammo nella direzione opposta, evitando miracolosamente la pioggia di spari alle nostre spalle. Passammo prima per una diroccata scala di servizio, poi per un paio di locali che dovevano essere stati, un tempo, delle cucine. All’uscita dell’ultima sala ci ritrovammo faccia a faccia con una coppia di guardie, che dopo averci squadrati ci puntarono contro le pistole. Chiara, però, fu più veloce. Con delle gomitate ben assestate li stese a terra, poi si chinò per raccogliere le loro armi.

“Lo sai tenere in mano un fulminatore, ragazzino?”, mi disse, lanciandomi uno dei blaster. Io, ancora intimidito per le scene appena viste e senza quasi più respiro per la corsa di prima, biascicai qualcosa di simile ad una risposta faticando a reggere il suo sguardo.

“Cer… certo che lo so!”.

“Bene, perché tra poco dovrai usarlo”.

Si assicurò una delle cinture dei soldati alla vita sistemando il fulminatore rimasto nella fondina, poi mi afferrò di nuovo il braccio. E fu esattamente a quel punto che, senza sapere esattamente perchè, le opposi resistenza.

“Devi fidarti di me, Kyle”, mormorò allora lei, con tono improvvisamente calmo. Anche i suoi occhi si erano fatti comprensivi; per un istante, di nuovo semplicemente umani. “Ce la faremo, e avremo tempo per parlare ancora. Te lo prometto. Davanti ad un bicchiere di Terrysh, se vorrai”.

Con lentezza tornai sulle sue dita, lunghe e quasi feline. Non sapevo di cosa avessi avuto timore, ma qualcosa mi suggerì che non avrei più dovuto dubitare di lei. Probabilmente dovevo soltanto abituarmi all’idea che una donna potesse essere più forte di me. O, forse, che una donna così bella potesse essere in grado di possedere la mia stessa rabbia…

“Okay”, dissi, sollevando deciso il blaster e guardandola con un lieve sorriso. “Se mi prometti anche una cena insieme, però”.

A quell’ultima frase, Chiara sollevò un angolo della bocca.

“Accordata, ragazzino”, rispose con tono divertito. “Ma adesso diamoci da fare”.

Annuii. Ricominciammo a correre, e ad ogni porta che superavamo ci ritrovavamo di fronte nuove guardie. Non capivo come potesse essere possibile, ma tutte le volte riuscivamo a passare tra quelle orde di soldati completamente illesi. Certo, io ferivo diversi uomini e così anche Chiara, che inoltre deviava i blaster con la spada laser, ma mi sembrava decisamente troppo facile. All’ingresso dell’ennesimo livello, mentre lei trafficava con i fili del pannello di controllo per cercare di aprire le porte, mi appoggiai contro la parete per riposare. La osservai.

“Perché stiamo salendo?”.

“Per raggiungere l’hangar degli airspeeder. Mancano ancora due livelli. Fuggiremo con uno di quelli”.

“Dobbiamo rubarne uno?”, esclamai stupito. “Credevo ti fossi organizzata!”.

Vidi le sue spalle affilate bloccarsi, e la testa scarlatta piegarsi un attimo verso terra. Si voltò.

“Prima che un ragazzino arrivasse a rovinarmi un piano praticamente perfetto, sì, in effetti ero organizzata”, mi disse pungente, mettendosi le mani sui fianchi. “Sai, non avevo messo in conto di dover scappare, invece di uscire da dove ero entrata. Lo spazioporto per i veicoli degli invitati è venti piani più giù, e non ci arriveremmo vivi nemmeno se avessimo le ali”.

Abbassai lo sguardo, colpevole. Lei allora sospirò.

“Beh, non importa. Ormai il piano è un altro”. Si girò di nuovo verso la porta. “Tra un secondo la apro”.

Rimasi un attimo in silenzio. Mi schiarii la voce.

“Non ti ho ancora ringraziato. Io… ”.

“Non adesso. Quando sarà tutto finito”.

Le lastre metalliche si schiusero con un sibilo. Questa volta non c’era alcun soldato ad attenderci. Sospirai, e proseguimmo.

Percorremmo gli ultimi corridoi, arrivando alla fine delle corsie senza problemi. L’andatura di Chiara si era fatta più lenta, ma non sapevo, però, se per prudenza o stanchezza.

Davanti a noi un ultimo spiazzo ci divideva dal passaggio che ci avrebbe permesso di raggiungere l’hangar. Sembrava un deposito merci, ma di sicuro controllato da degli addetti armati. E noi dovevamo attraversarlo senza autorizzazione.

“Ci son delle postazioni di controllo, là in alto”, dissi a bassa voce, sbirciando da dietro un ammasso di casse. “Ma non vedo guardie. Non è strano?”.

Chiara si accostò a me. Sentivo chiaramente il calore delle sue braccia scoperte contro la mia schiena. Era una sensazione piacevole.

“Più che strano. Tieni gli occhi aperti”, mormorò, stringendo il fulminatore tra le dita. Aveva spento da tempo la spada laser. “Non mi fido”.

Restai a guardarla mentre chiudeva gli occhi per una manciata di secondi. Si massaggiò la fronte, e quando notai quel gesto strinsi le labbra. Qualcosa non andava.

“Tutto… a posto?”, chiesi, preoccupato.

Lei fece un lento respiro, che forse nascondeva una punta di esasperazione. Piegò il braccio sul ventre, ma dandomi l’impressione di fare quasi fatica. Come se il blaster fosse diventato, improvvisamente, pesantissimo. Vedevo il suo sterno, dalle clavicole ben delineate, alzarsi e abbassarsi velocemente. Troppo velocemente.

“Certo”, rispose alla fine, senza guardarmi. “Forza, cerchiamo di arrivare dall’altra parte senza attirare l’attenzione. Passiamo dietro alle casse delle ultime file”.

Detto questo, mi superò. Corse fino al primo rimorchiatore carico di merce, fermo a qualche metro da noi, e una volta accucciatasi a terra mi fece segno di imitarla. La raggiunsi. La cosa si ripeté altre due volte, senza che un solo rumore si alzasse nell’aria del magazzino. Quando fummo ad una decina di metri dalle porte d’uscita mi aspettò dietro l’ultimo ammasso di casse.

“Mi serve qualche minuto per riuscire ad aprirle”, sussurrò, tirandosi indietro i capelli che le ricadevano sul viso. “Tu, intanto, rimani qui”.

“Come? Non se ne parla!”. Mi avvicinai a lei, e la fissai. Non intendevo starmene con le mani in mano. “Devo coprirti le spalle mentre lavori!”.

“Nessuno si è accorto di noi, finora. Probabilmente mi sbagliavo. Forse non pensavano saremmo passati di qua. E visto la particolarità della serata, credo che per oggi i Karjam abbiano sospeso i loro traffici commerciali”.

Diede un’occhiata alla porta, e prima di raggiungerla mi rivolse un breve sorriso.

“Non preoccuparti, Kyle”.

Il retro del suo abito scuro si gonfiò appena mentre correva. Scossi la testa, deglutendo. Non era soltanto per il fatto che avrei voluto dimostrarle che sapevo cavarmela. La verità era che non mi sentivo per niente tranquillo, e come se non bastasse lei sembrava non stare bene, nonostante continuasse a negarlo.

Mi appostai sull’angolo col fulminatore pronto, continuando a spostare gli occhi dalla sua figura di schiena agli ingressi del magazzino. Erano aperti, ma senza l’ombra di una guardia. Anche le postazioni di controllo in alto, almeno in apparenza, continuavano a sembrare deserte. Mi passai una mano sulla fronte, e sorridendo mi dissi che forse eravamo davvero sul punto di farcela. Magari mi stavo preoccupando troppo. Magari, di lì a poco, sarei stato sul serio con Chiara in un qualche ristorante di Coruscant, a bere Terrysh e a chiederle se quello che faceva ogni giorno la costringeva a baciare spesso viscidi Twi’lek…

“Obiettivo uno localizzato! E’ laggiù, accanto alla porta! Sparate a volontà!”.

In un istante tornai nel tempo presente, bruscamente. L’ordine si ripeté più volte nell’aria, amplificato dall’eco del magazzino semivuoto, e quando uscii allo scoperto col braccio tremante teso verso gli ingressi vidi arrivare nella mia direzione una raffica di colpi azzurrini. Riuscii a restituirne solo qualcuno, poi con una goffa corsa mi riunii a Chiara, che fortunatamente era riuscita a ripararsi oltre la rientranza del muro prima della porta. Tastai il solido cemento comparso alle mie spalle con i polpastrelli delle dita, e facendoci aderire la schiena madida deglutii. Fino a pochi giorni prima non avrei mai pensato di potermi trovare nel bel mezzo di una sparatoria. Nel ruolo di protagonista, poi…

“Stai bene?”, gridai a Chiara con una certa fatica, cercando di trovare uno spazio accanto a lei senza intralciarle i movimenti. Stava lavorando sul pannello di apertura. “Ti hanno… ti hanno ferita?”.

“No”, rispose subito, gettandomi un’occhiata da oltre le spalle inarcate. “Maledizione, lo sapevo! Mi dispiace, probabilmente ci hanno ritrovati con le telecamere di sorveglianza del magazzino. Come ho fatto a non pensarci?”.

Io, che nel frattempo mi ero sporto un paio di volte dal muro per tentare di rispondere ai colpi, alla terza fui raggiunto da uno sparo. Mi prese di striscio ad una mano, centrando invece in pieno il fulminatore che venne sbalzato a terra, a qualche passo da me. Gridai accasciandomi al suolo, e Chiara mi chiamò lanciandomi uno sguardo allarmato.

“Tranquilla, è… solo un graffio”, dissi, cercando di controllare la voce per mascherare sia la vergogna che lo spavento. Mi rimisi in piedi, chiedendomi come diavolo mi fosse venuto in mente di giocare a fare il bersaglio in movimento con un gruppo di soldati addestrati ad uccidere. Il dorso della mano mi bruciava tremendamente, ma cercai di ignorarlo. Poteva andarmi molto peggio. “E’ meglio che ti sbrighi, però. Stanno arrivando. Sanno che mi hanno disarmato”.

Sentii infatti le grida delle guardie, provenienti dall’ingresso del magazzino, farsi concitate. Uno di loro ordinò qualcosa, e immediatamente cominciarono tutti a muoversi. Passi pesanti, accompagnati dal rumore metallico delle armi. Stavano correndo verso di noi.

“Ce l’ho fatta!”, esclamò però vittoriosa Chiara, con mio grande sollievo, nello stesso momento. Le porte si aprirono, e lei si voltò verso di me. “Andiamo!”

Varcammo l’ultimo livello, veloci. Quando ci girammo, i primi soldati cominciavano già ad apparire tra le casse. Fissai agitato la mia compagna di fuga, ma lei impugnò il blaster.

“Credo proprio che dovranno cercarsi un’altra strada”, disse con un sorriso compiaciuto. Bruciò con uno sparo il pannello di controllo delle porte, e queste si chiusero immediatamente per effetto del corto circuito.

Dall’altra parte, dopo qualche secondo, udimmo solo un brusio vago, dei colpi e qualche voce seccata imprecare più volte.

Ci scambiammo un’occhiata soddisfatta, poi corremmo in direzione dell’hangar.

 

> - <

 

“E’ soltanto un soldato con un fulminatore. A me sembra semplice”.

“No, non lo è”.

Chiara chinò la testa, e fissò pensierosa l’arma che ancora stringeva tra le dita. Al di là dell’angolo dietro cui eravamo nascosti, davanti all’ingresso dell’hangar posto diversi metri più avanti, un ragazzo stava, immobile, con le braccia conserte. Alla cinta aveva soltanto un blaster, e non sembrava far parte delle guardie personali dei Karjam. Era certamente molto giovane.

“Non uccido indiscriminatamente. Non uccido se non ce n’è bisogno”, mormorò Chiara, tornando a guardarmi. Rimase in silenzio, per un attimo. “O se… lui… non me lo ordina… ”.

A quell’ultima, cupa frase aggrottai la fronte, mentre un brivido di gelo mi percorreva inspiegabilmente la schiena.

“Lui… ?”, ripetei, piano.

Chiara si scosse, distogliendo gli occhi verdi dal punto indefinito su cui si erano fermati, assenti.

“No… no, niente”, si affrettò a dire, facendo un breve movimento di negazione con la testa. Cercò con le dita la fibbia della cintura che le circondava la vita sottile, e dopo qualche secondo me la ritrovai in mano. Fulminatore compreso.

“Questo non mi serve più”, affermò con sguardo concentrato. Io, incredulo, la fissai.

“Ma sei pazza?”, sussurrai, avvicinandomi al suo viso. Era più alta di me di circa cinque centimetri, e soltanto allora mi resi conto che, praticamente, la stavo guardando dal basso verso l’alto. Mi sentii un po’ in soggezione. Non portava nemmeno più i tacchi. “Come credi… come diavolo credi riusciremo ad entrare?”.

Lei sorrise. Si lisciò il vestito con le mani, poi si ravvivò i capelli.

“Resta qui fino a che non ti chiamo”, mi raccomandò seria. Il suo tono era tranquillo. “Capito?”.

Io annuii senza aggiungere altro, sorpreso dalla sua aria decisa, ma quando la osservai uscire nel corridoio, camminando in un modo sorprendentemente elegante nonostante i piedi nudi, pensai che dopo tutta quella fatica avremmo finito per morire ad un passo dalla salvezza. Il cuore riprese a battermi veloce e, oramai pronto al peggio, chiusi rassegnato gli occhi.

“Salve… ”.

Il timbro caldo di Chiara mi raggiunse con la solita, dolce inesorabilità le orecchie, facendomi tornare alla mente l’attimo in cui mi aveva rivolto la parola per la prima volta, giù nel salone. Anche se sapevo che al momento non c’era molto di cui stare allegri, mi venne istintivamente da sorridere. Voleva cercare di sedurre anche la guardia?

“S… salve… ”.

Un tredicenne. Un adolescente impacciato. Quel tipo doveva avere all’incirca la mia età, ma la mia voce era mille volte più virile. Indubbiamente.

“Cosa fai… mh, fermo qui davanti?”.

“Io… controllo l’ingresso. Faccio passare solo chi ha l’autorizzazione, e… e appunto, devo chiederle di spiegarmi cortesemente che ci fa qui, signorina. Agli ospiti non è consentito il transito in quest’area del palazzo”.

Allungai di nuovo le labbra. Uhm, un ragazzo ligio al dovere.

“Oh, ma io voglio solo dare un’occhiata. Qui in giro, e… ”. Una breve pausa, nella quale ebbi l’impressione che il silenzio si fosse impregnato di un’energia invisibile. Trattenni il respiro. “… anche all’interno di questo hangar. E tu mi farai entrare. Farai entrare me e un mio amico, senza chiederci altro. Ci lascerai partire con uno degli airspeeder e non avvertirai nessuno. Sono stata chiara, dolcezza?”.

“Naturalmente. La farò entrare. Con il suo amico. Non chiederò nulla, no. Non avvertirò nessuno”.

Mi precipitai ad affacciarmi sul corridoio con gli occhi sgranati. Avevo… avevo sentito bene?

Chiara era in piedi davanti al soldato, con un sorriso beffardo disegnato sulle belle labbra rosse. Lo stava fissando con una mano sul fianco e l’altra posata, seducente, sulla gamba appena piegata.

“Splendido”, disse allegra, mentre il soldato le apriva le porte digitando un codice alfanumerico sulla tastiera fissata al muro, accanto a sé. “Sei un tesoro”.

Mi aggrappai alla parete, piuttosto vicino allo shock, e lei si voltò nella mia direzione. Mi fece cenno di raggiungerla.

“Ma come… ”, balbettai una volta giunto davanti all’ingresso, fissando il soldato come se avessi avuto davanti uno spettro. Aveva lo sguardo imbambolato, e sembrava quasi non essere cosciente. “Non può… non può essere…”.

Chiara mi spinse impaziente oltre la soglia aperta, scuotendo piano la testa.

“Influenzare le menti deboli è semplice, ma non durerà molto. Dobbiamo muoverci”.

 

L’hangar era piuttosto grande, pieno di ogni genere di velivolo a repulsione. L’apertura del pannello dal quale decollavano i mezzi si attivava tramite un quadro comandi posto in un angolo del locale, nascosto in parte da altre apparecchiature, e che tuttavia Chiara individuò immediatamente.

“Scegli un airspeeder, mentre cerco di aprire il portellone”, mi disse, allontanandosi di corsa. Io presi allora ad osservare con più attenzione la fila di mezzi parcheggiati accuratamente a pochi passi da me, notando subito come, a differenza dei tanti che si potevano trovare per i livelli poveri di Imperial City, quelli fossero incredibilmente lucidi e privi di ammaccature, ruggine o riparazioni evidenti. Ne sfiorai uno con le dita, e stringendomi nelle spalle alzai un angolo della bocca. Mi trovavo davvero in un altro mondo, da qualunque punto di vista.

Fui poi attirato da un airspeeder particolare, estremamente aerodinamico nella forma e verniciato sia sul muso che sui postbruciatori con alcuni motivi geometrici rossi. Tutti gli altri erano infatti privi di qualunque decorazione, praticamente identici tra loro. Mi chiesi per quale ragione ce ne fosse uno diverso tra tanti probabilmente acquistati in blocco, ma oggi mi piace pensare che quell’airspeeder fosse lì proprio per noi. Per me, e per Chiara.

Comunque, ricordo che lo scelsi subito, istintivamente. Dopotutto, non ero mai stato fatto per l’omologazione.

Mi avvicinai per aprire la cabina, mentre di fronte a me il portellone cominciava a schiudersi con un forte cigolio. Alla vista delle luci dei grattacieli della città, sorrisi.

“Voltati… voltati lentamente c-con le mani alzate e identificati!”.

Una voce maschile alle mie spalle. Fredda, ma decisamente titubante.

“Io sono un… invitato al ricevimento del clan… ”, scandii il più chiaramente possibile.

Mi girai. Un blaster era puntato contro di me, distante solo un paio di metri dal mio naso. Tremava nell’aria, e la canna metallica luccicava fioca. Rimpiansi amaramente sia il fulminatore che avevo perso nel magazzino che il cinturone lasciatomi dalla mia compagna di fuga. Ovviamente abbandonato nel corridoio.

“Non… non dire balle! Se tu lo fossi, non saresti qui. Non potevi arrivare a questo piano!”.

Cercai con gli occhi Chiara, ma nell’angolo comandi non c’era. Sentii lo stomaco stringersi in una morsa.

“Ti assicuro che lo sono. Se solo tu mi lasciassi prendere l’invito dalla tasca interna della giacca… ”.

“Se ti azzardi ad abbassare le braccia, g-giuro che sparo!”.   

La guardia era vestita esattamente come quella che avevamo lasciato fuori dalla porta. Forse si trattava di un collega, allontanatosi qualche minuto dall’hangar per una breve pausa. Pareva giovane e inesperto come il primo soldato, ma anche sprovveduto, e terribilmente spaventato. Di sicuro quella del militare non era l’occupazione dei suoi sogni. Lo si vedeva dal suo sguardo smarrito ma buono, quello di un uomo semplice, che avrebbe dovuto stare in un giardino a coltivare fiori invece che al servizio di uno spietato gruppo di criminali. Magari odiava con tutte le sue forze il palazzo dei Karjam. Magari detestava eseguire ordini, ed essere un burattino nelle mani di qualcuno che avrebbe voluto soltanto disprezzare. Magari odiava tenere in mano un’arma. Ma doveva. Doveva, e di fronte ad una qualunque minaccia l’avrebbe usata. Per difendere se stesso, e per combattere contro la paura.

“Amico, sono… disarmato, e… ho l’invito proprio qui, davvero… ”.

Deglutii. Non potevo farmi prendere ad un passo dalla libertà. Ma soprattutto non potevo, non volevo non rivedere più Chiara…

“N… non ti credo! ”.

Mossi la mano destra, cosciente che le probabilità di arrivare all’invito erano molto poche. E infatti, proprio come avevo immaginato, al mio gesto il ragazzo sgranò gli occhi, tendendo esasperato le braccia e stringendo le dita intorno al calcio del fulminatore, convulsamente. Il suo volto era madido di sudore, e paonazzo.

“… Fermo!”.

Chiusi gli occhi. Rimasi in attesa dello sparo e del dolore che, lo sapevo, sarebbe salito velocemente  dal petto fino al cervello, ma né quello né alcun rumore mi raggiunsero, nei cinque secondi in cui rimasi al buio. Udii invece un debole, familiare ronzio, seguito subito dopo da un rantolo soffocato. Infine, il suono di qualcuno che cadeva pesantemente a terra precedette il ritorno del silenzio.

Prudentemente risollevai le ciglia. Appena gli occhi misero a fuoco quello che avevo davanti un senso di déjà-vu mi fece correre, violento, un brivido lungo la schiena, ma guardando meglio mi accorsi che c’era qualcosa di diverso rispetto alla scena a cui avevo assistito poche ore prima.

“C-Chiara… ”.

Sussurrai il suo nome con un filo di voce, e lei spostò solo di pochi centimetri le luminose iridi verdi dal punto invisibile che stava fissando. Era leggermente piegata con la schiena, e qualche ciuffo scarlatto le ricadeva sul viso, scomposto. La spada laser, a poche spanne da me, pulsava di luce viola, ed il suo riflesso illuminava debolmente sia le guance pallide di Chiara che il corpo senza vita della guardia, riversa sul pavimento.

Trascorse un’altra manciata di secondi, poi la lama di energia si spense. Avevo continuato a guardare Chiara per tutto il tempo, e lei non aveva battuto ciglio. Solo quando riabbassò il braccio lungo il fianco, rimettendosi dritta, chiuse gli occhi. Stringendoli con forza fece un lungo, profondo respiro, e sotto il tessuto dell’abito vidi i suoi seni tremare. Provai ad avvicinarmi a lei per metterle una mano sulla spalla, ma si scansò. Non disse nulla. Fece solo un passo indietro, tenendo lo sguardo basso. Ritirai la mano.

Lentamente, coprì lo spazio che la separava dall’airspeeder. Si accostò alla cabina, poi la aprì.

A quel suono mi voltai, e lei finalmente mi guardò.

“Andiamo”.

 

> - <

 

 

La fuga procedette senza imprevisti, e in meno di venti minuti fummo dall’altra parte della città. Una volta scesi dall’airspeeder seguii Chiara tra vie che non conoscevo, cunicoli e rampe di scale semidistrutte, risalenti ad almeno mezzo secolo fa e mai ristrutturate.

“Particolare… ehm… questo posto… ”, dissi piano, stando attento a non appoggiarmi a nulla per paura di vedermi cadere addosso calcinacci e pezzi di intonaco. Avanzavo con una certa difficoltà, ma lei non si fermò nemmeno un attimo, né si voltò.

Dopo qualche minuto stavo guardando i miei stivali, coperti dalla polvere, avanzare nella stanza più diroccata della locanda più economica in cui avessi mai messo piede. Oltre ad un letto dal materasso sporco e sdrucito addossato contro la parete ed un vecchio tavolo nell’angolo, non c’era nient’altro.

Ascoltai il suono dei miei passi risuonare più volte nel vuoto, in un eco sordo. L’aria sapeva di chiuso, e di umido.

“Qui almeno non ci troveranno”, disse Chiara. Mi domandai se stesse indovinando o leggendo i miei pensieri. “Il proprietario è un mio vecchio amico. Per stanotte siamo al sicuro”.

La sagoma morbida del suo corpo si stagliò, netta, contro il rettangolo chiaro della finestra posta al centro della parete di fondo. Per quanto assurdo, le luci dei livelli superiori di Imperial City riuscivano a raggiungere persino i bassifondi più malfamati della città. Feci un altro respiro, storcendo il naso quando avvertii anche uno strano odore agro insieme a quello, sopportabile, della muffa. Nemmeno la mia famiglia aveva mai vissuto in un posto del genere.

Chiara si sporse un po’ fuori, appoggiando i gomiti sul davanzale di cemento grigio, e osservandola in silenzio nella penombra della camera dimenticai, in un attimo, tutto il resto. Assaporai quel momento di calma rendendomi finalmente conto, da quando eravamo arrivati, che Jarim e i Karjam erano ormai molto, molto lontani. Io ero vivo, e lo ero unicamente grazie a lei. Ma anche se ce l’avevamo fatta, anche se eravamo lì insieme, sapevo che c’era qualcosa di dolceamaro in quello che avevamo conquistato. Sapevo che qualcosa si era incrinato, e che la mia farfalla era stata ferita.

Mi avvicinai al centro della stanza, lentamente.

“… Grazie”, esordii. “Oggi… ho perso il conto di quante volte mi hai salvato la vita”.

Alle mie parole la vidi nascondere la testa nelle spalle, che si strinsero. Guardai allora il pavimento, alla ricerca delle prossime parole da dire. Non ero sicuro che ce ne fossero.

“Chiara, quello che è successo all’hangar… ”, tentai dopo un po’.

“E’ stato un errore”.

Una pausa. Lunga. Poi, le sue braccia che si distendono.

Avanzai di un altro passo.

“Quel soldato mi avrebbe… ”.

“No. Non era sicuro”.

Si girò, di colpo. Non ero in grado di distinguere nitidamente il suo viso, ma la poca luce proveniente dall’esterno bastò per delinearle i lineamenti e farle brillare, debolmente, gli occhi lucidi. Le sue sopracciglia sottili erano corrugate in un’espressione di rabbiosa, dolorosa colpa. Un’espressione cupa, che significava soprattutto rimprovero, e una severa condanna per se stessa.

“Avrei potuto minacciarlo, farlo arretrare. Avrei potuto stordirlo. E invece… ”.

Si arrestò. Si sfiorò le labbra con le dita, portandole poi alla fronte.

“… invece… l’ho ucciso… ”, concluse con un filo di voce. Strinse la bocca tra i denti fino a farla diventare bianca. “Anche se non avevo più forze per il controllo mentale, c’erano altri modi per evitare che ti facesse del male. Quell’uomo… non era malvagio. Non… meritava di… ”.

Spostò lo sguardo a lato, continuando a mordersi un labbro. Io resistetti con fatica all’impulso di avvicinarmi ulteriormente a lei per abbracciarla. Sapevo che mi avrebbe respinto un’altra volta, se l’avessi fatto. Feci allora un sospiro silenzioso, iniziando a riflettere sulle sue parole a proposito dell’influenza della mente. Solo in quell’istante, infatti, avevo capito il motivo per cui mi era apparsa debole e stanca, all’arrivo nel magazzino. E come mai fossimo riusciti a tenere testa alle truppe dei Karjam, durante la nostra corsa tra i livelli del palazzo. Per non parlare, poi, del surriscaldamento della mia vibrolama…

Sorrisi. Quella donna era incredibile, e non sapevo come e quando avrebbe smesso di stupirmi.

“Non sono… poi tanto diversa da Jarim… ”.

D’un tratto riprese a parlare, distogliendomi dai miei pensieri.

“In fondo anch’io sono un sicario. Ho ucciso, e continuerò a farlo. Anche quando non vorrò, succederà comunque. Forse… forse è semplicemente nella mia indole… ”.

Tornò verso la finestra, ma non si appoggiò. Gettò invece un’occhiata fuori. Io la osservai indeciso se parlare oppure no, ma quando la vidi riabbassare lo sguardo a terra scossi la testa.

“Non dire assurdità”, mormorai con dolcezza, raggiungendola. “Se fossi come Jarim, a quest’ora non sarei qui”.

Allargai gli angoli della bocca, e lei volse il viso per cercare il mio, in attesa che continuassi.

Avrei potuto… e invece… ”, proseguii, inclinando un poco il capo. “E’ vero. C’era la possibilità che le cose andassero diversamente. Ma non solo all’hangar. Anche alla suite. Infatti avresti potuto lasciarmi lì, alla mercè delle guardie dei Karjam. Avresti potuto abbandonarmi al mio destino, alla mia incoscienza, ai miei errori. Avresti potuto scappare senza di me. Ma non l’hai fatto”.

Per qualche secondo solo il brusio proveniente dall’esterno riempì il silenzio che cadde, d’improvviso, tra di noi. Ed in quel silenzio dolce guardai i suoi occhi, smeraldini e bellissimi, fissi nei miei. Lei era riconoscente, io ero felice. Perché sapevo di essere riuscito a curare, seppur in minima parte, la farfalla.

“Mh, non potevo lasciare un ragazzino imbranato come te nei guai. Mi facevi troppa pena”.

Rise. E quel tono spensierato, quello che avevo sentito soltanto per un attimo, quel pomeriggio, tornò a risuonare nella stanza buia, cristallino. Risi con lei, e risi di cuore.

“Troppo gentile”, dissi poi, incrociando le braccia. Feci una smorfia colpevole con la bocca. “Mi dispiace soltanto averti fatto saltare il piano. Non avevo idea… si, insomma… ”.

“Non pensarci. E comunque… sono una brava attrice, lo so”, rispose Chiara con un pizzico di orgoglio, andando a sedersi sul letto. Le molle cigolarono piano. “Avevo bisogno di un diversivo nell’attesa, e quando ti ho visto al bar ho pensato subito che saresti stato perfetto allo scopo”.

A quella frase mi finsi offeso, e lei rise ancora.

“Tranquillo… le cose, dopo, son cambiate. Nel senso… mh, nel senso che eri simpatico”, disse ancora, allacciando le dita sotto il mento. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia, e dopo averle guardate a lungo risollevò le folte ciglia nere sul mio viso. “E’ stato… bello parlare con te, Kyle. Davvero”.

Feci un breve cenno con la testa. “Anche per me”, risposi, allungando le labbra. “… davvero”.

Chiara restò per un po’ senza dire nient’altro, poi mi fece segno di andare a sedermi accanto a lei.

“Perché… volevi far fuori Jarim?”, mi domandò una volta che gli fui vicino. “Non credo… beh, che tu sia una spia”.

Io unii le mani sulle gambe. Giocherellai coi pollici.

“Lui… ha ucciso mio padre”, mormorai, serrando le dita e premendole sulla pelle. “Ma è… una storia lunga”.

La vidi annuire appena, con la coda dell’occhio.

“Capisco”, commentò a voce bassa. “Mi dispiace”.

“Ti ringrazio”.

Sollevai gli occhi sul soffitto scrostato, poi li ripuntai a terra.

“Posso… chiederti anch’io una cosa?”.

“Certo che puoi”.

“Ecco… ”. Mi schiarii la voce. “All’inizio… per me, eri misteriosa. Non riuscivo a capirti. Mi sembravi… come dire, divisa in due. Volutamente ruvida, ma in realtà dolce. Come una rosa dalle spine appuntite, ma anche dai… petali di velluto. Forte, ma a volte fragile. Una guerriera praticamente perfetta da una parte, e una ragazza normale dall’altra. Che desiderava cose semplici. E adesso… adesso so che era la verità. Sei tutto questo, e probabilmente molto di più. Ma vedi, non capisco ancora… ecco, quale di queste persone vuoi essere. Quale vita… vuoi vivere”.

Esitai un istante. La guardai.

“… perché… perché continui a fare tutto questo, Chiara?”.

Probabilmente si aspettava una domanda simile, perché quando finii di parlare il mio sguardo implorante incontrò subito il suo, pieno invece di triste tranquillità. Di chi è perfettamente consapevole dell’immutabilità della propria esistenza.

“Ho già risposto a questa domanda, oggi”, mi disse. “Conosci il perché, Kyle. Lo sai meglio di me”.

Io dischiusi le labbra, sorpreso. Stetti immobile a pensare, senza riuscire a capire subito a cosa si stesse riferendo. Per un po’ fissai l’aria davanti a noi, poi raddrizzai la schiena.

“Perché… ‘bisogna sacrificare se stessi, quando si hanno delle priorità’…”, sillabai piano.

Alla mia citazione, lei sorrise malinconica.

“Esatto. Ci son delle cose che devo fare. E non esistono… alternative. So che ti sembrerà assurdo, ma…”. Serrò un’altra volta la bocca, poi la inumidì. Dei capelli le ricaddero sul viso, coprendo in parte il suo profilo. “Anche se provassi a spiegarti, non capiresti. E’… difficile”.

“E allora non farlo. Non spiegarmelo”, le sussurrai stringendole una mano che aveva abbandonato tra di noi, sul letto. “Credo… di aver sempre saputo anche questo. Che era difficile, intendo. Ci son delle cose che solo noi riusciamo a ritenere giuste. E a fare. Perché in quel preciso momento sono le uniche che ci danno la possibilità di respirare, e di andare avanti”.

Mentre parlavo, mi accorsi che lei stava rispondendo energicamente alla mia stretta. Percepii le sue dita diventare pian piano calde tra le mie fino a che, inaspettatamente, avvertii un nodo salirmi alla gola. Chiusi gli occhi, cercando di deglutire.

“Però… ”.

La mia voce era appena udibile.  

“… vorrei… vorrei che tu fossi felice, Chiara. Felice… senza pensieri, senza ruoli e senza compromessi”.

Lei mi guardò, e portò il mio braccio sul suo grembo. Mi coprì il dorso della mano con la sua.

“Forse lo sarò, Kyle. Un giorno”.

Osservai le nostre dita intrecciate. Quello era un momento che non avevo mai sperato potesse arrivare, ma che avevo sognato mille volte in quella strana giornata. Amavo Chiara, la amavo senza sapere esattamente di quale tipo e forma di amore, eppure non mi importava scoprirlo. Come non mi era mai importato davvero sapere chi fosse realmente. Adoravo quello che vedevo di lei e quello che avevo imparato a conoscere, e mi bastava. Mi sarebbe bastato.

E quando mi accostai al suo viso pallido, piano, posando delicatamente le mie labbra sulle sue e ricevendo indietro la stessa, tenera dolcezza, pensai che anche quel bacio sarebbe stato più che sufficiente. Non l’avrei mai creduto, fino a poco prima.

Poco più tardi ci stendemmo sul letto. C’era una sola coperta, e ce la tirammo fin sotto il naso. Chiara tenne gli occhi sul soffitto per un po’ prima di mettersi sul fianco.

“Possiamo… dormire abbracciati?”, mi chiese alla fine. Io, per tutta risposta, sollevai il braccio per farle spazio. Lei si accoccolò contro di me, ed il fresco profumo dei suoi capelli, sparsi sul mio petto, mi arrivò subito alle narici. Era delizioso.

“Ma non farti strane idee, ragazzino”, rise, sentendo la mia mano ferma sul suo fianco. Me la spostò leggermente più su, sulla vita. “Devi crescere ancora un po’ prima di poter andare oltre a questo, con me… ”.

“Non mi permetterei mai!”, risposi in tono ironico, gettando indietro la testa. Il letto cigolò ancora, e noi scoppiammo a ridere un’altra volta. Quando finimmo e nella camera tornò il silenzio, Chiara si sollevò dal materasso per guardarmi.

“Sai, prima dicevi che vorresti che io fossi felice… ”.

“Sì”.

Chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì, sorrideva lieve.

“Sappi che adesso… lo sono”.

Io le passai una mano tra i ciuffi che mi solleticavano le guance. Sentivo il sonno arrivare, posandosi sulle mie palpebre con leggerezza.

“Lo siamo tutti e due”, sussurrai. “E lo saremo per tutto il tempo che vorrai”.

Chiara, allora, si abbassò. Mi accarezzò il viso percorrendone i lineamenti, poi tornò ad adagiarsi contro il mio petto. Il suo corpo era tiepido e morbido, e confortante come quello di una madre. Chiusi gli occhi, cullato da quelle sensazioni. Insieme eravamo riusciti a spegnere la rabbia che ci dominava, almeno per quella notte.

 

Quando la mattina dopo mi svegliai e non trovai Chiara accanto a me, non me ne stupii.

Rimasi seduto sul letto, con gli occhi socchiusi e la bocca impastata. Passarono un paio di minuti prima che mi decidessi ad alzarmi per andare a recuperare camicia e giacca, abbandonati la sera prima, vista la mancanza di sedie, sul tavolo.

Giunto dall’altra parte della stanza mi appoggiai con una certa malagrazia alla superficie grigia e opaca. Afferrai i vestiti e feci per tornare verso il letto, ma quando mi staccai dal tavolo notai uno strano oggetto scuro rotolare, veloce, verso di me. Lo presi al volo, appena prima che toccasse a terra. Probabilmente era stato nascosto sotto la mia giacca.

Lo osservai. Sembrava un piccolo, minuscolo proiettore olografico. Me lo rigirai un po’ tra le mani, poi riuscii ad accenderlo. Ad un palmo da me comparve, immediatamente, un luminoso primo piano di Chiara. Mi sorrise, poi cominciò a parlare.

 

Ciao, Kyle. Mi hai detto che avremmo potuto essere felici per tutto il tempo che avessi desiderato, ma non posso permettermi il lusso di sognare per più di una notte. Mi dispiace.

Devo portare a termine la mia missione, e lo farò molto presto. Oh, non temere, non mi accadrà nulla. Alla fine, questo è un lavoro facile. Molto più facile di tanti lavori che ho dovuto affrontare in passato. E lo porterò a termine anche per te, e per tuo padre.

Sei troppo giovane per buttare via la tua vita, ragazzino. E troppo generoso per portarti dentro tanto odio. Dimentica il passato, e vivi una vita felice. Cercati un lavoro onesto, sposati una brava donna e fai dei bambini. Sarai un buon padre, lo so.

Io me la caverò. Non so se ci rivedremo. Lo spero, però. Forse… forse chi lo sa, il giorno in cui finalmente catturerò la mia gioia senza compromessi ti incrocerò per strada, e tu mi sorriderai. E poi… andremo a festeggiare. Ti regalerò la cena che ti ho promesso, e berremo tanto Terrysh fino a crollare ubriachi’.

 

L’ologramma si offuscò lievemente, ma dopo qualche secondo il sorriso triste di Chiara tornò nitido. Sospirò, scuotendo i lunghi capelli rossi. I suoi grandi occhi verdi, dopo un attimo di silenzio, ripresero ad osservarmi con affetto.

 

‘Cerchiamo di guardare più tramonti d’ora in avanti, ok? Per questo… per questo lo troverò, il tempo. Troviamolo tutti e due, e guardiamoli. Ne vale la pena, non credi?

Non ti dimenticherò, Kyle. Mai. Grazie… ’.

 

Vidi la sua spalla alzarsi, come nell’atto di spegnere la registrazione, ma all’ultimo momento si fermò.

 

‘Dimenticavo. Il mio vero nome è Mara, Mara Jade. Addio, ragazzino’.

 

La sua immagine scomparve. Strinsi nel pungo l’oloproiettore, premendolo forte sul petto.

Quando riaprii la mano, mi voltai. La luce del giorno filtrava dalla finestra, a pochi metri da me. Non era particolarmente brillante o viva, ma perlomeno portava con sé un po’ di calore.

Osservai il rettangolo chiaro che aveva disegnato sul pavimento. Camminando piano vi entrai, e dopo aver sollevato il viso verso la finestra capii che dovevo andare.

A cercare tramonti, ed un futuro da vivere.

 

> - <

 

Son trascorsi diciassette anni da allora.

Per intere giornate ho continuato a guardami quella registrazione, non lo nego. Anzi, settimane. Perché per settimane, per mesi, lei è rimasta dentro di me. Il profumo dei suoi capelli era sulla mia pelle, la sua voce nella la mia testa.

Ma poi… poi, le ho dato ascolto.

In poco tempo son riuscito a trovare lavoro come autista di aerotaxi, con il quale ho potuto risollevare le sorti della mia famiglia e far andare le cose, finalmente, davvero bene. O almeno fino al giorno in cui, su quel taxi, è salita una donna, Neyra. Una ragazza dolce e bellissima, più giovane di me di un paio d’anni e figlia di un bravo artigiano di Naboo. Da quel momento, in effetti, le cose sono andate ancora meglio.

Ci siamo sposati dopo cinque mesi di fidanzamento, e adesso abbiamo una bambina di otto anni. Bionda, con dei grandi occhi azzurri. Il suo nome è Chiara.

 

Due giorni dopo la mia avventura nel palazzo dei Karjam, ascoltando un notiziario, seppi che Terir’Jarim era stato assassinato. L’ipotesi più probabile risultò essere quella di una vendetta politica ad opera dell’Impero, ma il sicario non fu mai trovato. Le voci più insistenti parlarono però di una spia esperta, un uomo abile e spregiudicato mandato direttamente dall’Imperatore Palpatine. Se ne chiacchierò per molto tempo.

 

Un anno più tardi, tutti i mondi della galassia esultarono alla clamorosa notizia che l’Allenza Ribelle aveva distrutto la seconda Morte Nera, conseguendo contemporaneamente un’importante vittoria anche sulla Luna Boscosa di Endor. Fu l’inizio di una nuova era.

Dopo aver respinto sull’orlo esterno ciò che era rimasto della flotta imperiale, infatti, un nuovo governo democratico si insediò nell’antico Palazzo Imperiale di Coruscant. Nacque la cosiddetta Nuova Repubblica, e la Principessa Leia Organa, ex senatrice e protagonista della Ribellione, fu eletta a voto unanime Capo di Stato. Suo fratello Luke Skywalker, invece, da eroe della lotta contro l’Impero divenne insegnante, fondando su Yavin 4 l’Accademia dei Cavalieri Jedi con lo scopo di riunire e rifondare un nuovo ordine di custodi della Repubblica e della pace.

Durante quel periodo le battaglie furono ancora tante, ma pian piano la confusione si placò, fino al completo annientamento di ciò che restava dell’Impero.

 

Oggi, in qualche modo, quell’antica guerra tra Ribelli e Imperiali è finita un’altra volta.

Passeggio per i Giardini Botanici di Skydome, e mentre sollevo lo sguardo verso il cielo più terso che abbia mai visto a Coruscant ho l’impressione che anche l’aria sia diversa. Intorno a me gruppi di visitatori vociano allegri, forse contagiati dalla mia stessa sensazione di serenità e dall’atmosfera di festa che tutti i pianeti della Repubblica, dopo tanti anni di tensione, stanno vivendo.

Guardo l’ora, e getto uno sguardo alla collina fiorita sotto di me. In lontananza, vicino all’ingresso dei Giardini, una decina di persone sta avanzando con passo calmo verso la scalinata centrale. Fra tanti colori distinguo chiaramente una figura slanciata, vestita di bianco. E’ luminosa, quasi abbagliante.

Mi appoggio alla ringhiera del livello panoramico, mettendomi ad osservarli con le braccia incrociate sul metallo satinato. Camminano un altro po’, si fermano, si raccolgono in un angolo del prato e restano immobili davanti ad una persona vestita di scuro. Passa qualche secondo, poi tornano sul sentiero. Avanzano ancora, quindi la scena si ripete una volta, e un’altra ancora.

Sulla collina si alza un vento tiepido. Io allargo la linea delle labbra. So che stanno facendo delle olografie, e son sicuro che verranno bellissime. Spero tanto di poterle vedere.

Attendo pazientemente che raggiungano la scalinata principale. Man mano che salgono i gradini di pietra comincio a distinguere i loro volti, illuminati gentilmente dal sole caldo del pomeriggio. Sono tutti sorridenti, elegantissimi, e guardandoli ammirato riesco a riconoscere qualcuno. Leia Organa Solo, Capo di Stato. Han Solo, suo consorte, eroe della Ribellione ed ora Generale della Repubblica. Kam Solusar, illustre Cavaliere Jedi. Wedge Antilles, pilota di caccia e altro importante protagonista della lotta contro l’Impero. Insieme a loro ci sono anche alcuni bambini, e delle giovani signore. Ridono.

Mi stacco dalla balaustra, facendo qualche passo sul ciottolato dello spiazzo. Riesco a sentire quello che stanno dicendo.

“Ehi, qui se ne possono fare altre!”.

“Mirax ha ragione, guardate che bel panorama!”.

“Incredibile, sono a Coruscant da anni e non ero mai venuta a Skydome… ”.

“Han, tieni d’occhio Jacen! E’ capace di salire su un albero e non venire più giù”.

“Ma mamma, torno tra un attimo!”.

“Come no, giovanotto. Avanti, che la mamma è capace di lasciarci qui tutti e due se ti perdo… ”.

E mentre una piccola folla si raduna intorno al gruppo, attirata dai tanti volti celebri, l’ultima coppia giunge finalmente sul piazzale dopo essersi attardata sui gradini a fare altre olografie.

Mi accorgo di essere agitato. Per tutto il giorno ho osservato il suo viso sugli schermi di tutta Imperial City, ma poterlo ammirare di nuovo dal vivo, dopo tanti anni, è decisamente un’altra cosa. Averla a pochi metri da me, ancora più bella di come la ricordavo.

“Tesoro, questo posto è perfetto!”.

I suoi denti bianchi brillano sotto il sole, così come le sue labbra, lucide di rossetto perlato. Si tiene il velo che le copre i capelli raccolti sulla nuca con una mano, forse per paura che voli via, ma l’uomo che ha appena chiamato glielo sistema subito ridendo. Si avvicinano quindi al ragazzo che scatta le olografie, iniziando a discutere con lui delle prossime vedute.

L’uomo è Luke Skywalker, e questo pomeriggio lui e Mara si sono sposati.

La cerimonia è stata trasmessa in diretta su tutti i pianeti della Nuova Repubblica. Il matrimonio tra lo Jedi che ha messo fine alla lotta contro L’Impero e colei che una volta era considerata il Braccio Destro dell’Imperatore ha sancito, per molti, l’unione tra due fazioni che per anni sono state in guerra. Alcuni credono si sia trattato di una mossa politica astuta, ma i più lo vedono come un semplice atto d’amore, che poterà, finalmente, pace duratura in tutti i mondi.

Anch’io la penso così. Perché Mara ha l’aria di chi sta camminando nel cielo.

“Io credo che dovremmo… ”.

Mi sono avvicinato ancora un po’, piano. La sento iniziare a dire qualcosa sulle olografie da scattare, ma appena si accorge della mia presenza si blocca. Guarda nella mia direzione, ed immediatamente incrocia il mio sguardo. Io ho le mani affondate nelle tasche, ed un sorriso che sognavo da tempo di mostrarle.

“Scusatemi… scusatemi un attimo… ”.

Lascia il neomarito alle prese con il ragazzo, e mi raggiunge. Rimane a fissarmi a lungo con i suoi splendidi occhi verdi, truccati di matita nera. Poi, dolcemente, pronuncia il mio nome.

“Kyle… ”.

Per un attimo il nostro abbraccio mi pare quasi irreale, così come la sensazione della seta liscia del suo abito sotto le mie dita. Ho l’impressione che Mara si sia fatta più sottile, ma quando la sua stretta si prolunga e percepisco la forza delle sue braccia chiuse intorno a me, capisco che in realtà non è poi cambiata di molto.

Ci stacchiamo. Più in là, fermi tra qualche visitatore e due grandi siepi, i suoi amici non sembrano aver notato il nostro incontro.

“Sei diventato così… alto… ”, mormora incredula, osservandomi. I suoi occhi ridono, e mentre mi allarga le braccia per squadrarmi da capo a piedi fa qualche passo indietro. “Ma in fondo è passato tanto tempo. E il ragazzino si è fatto uomo”, conclude, con una nota di nostalgia nella voce.

Io sollevo un angolo della bocca.

“Tu invece sei rimasta la stessa. Gli anni non son trascorsi, per te”.

Lei inclina il viso, guardandomi di traverso ma con dolcezza.

“Adulatore… ”.

Rido. Fisso i sassi del selciato, poi rialzo la testa. Le fronde degli alti alberi dietro di noi si muovono nel vento, frusciando piano. La corrente calda ci investe il viso più volte, ed io faccio un lungo respiro rilassato. Quando riapro gli occhi e li sposto su Mara, lei mi sta sorridendo. Restiamo a guardarci.

“Ho seguito la cerimonia dalla Piazza del Senato”, dico infine. La porto alla ringhiera su cui ero appoggiato prima. Si mette accanto a me.

“E’ stata meravigliosa, e lo eri anche tu. Lo sei”, proseguo, contemplando il suo profilo stagliato contro la collina. “Ah, e non dar retta ai giornalisti. Vedono la politica ovunque”.

Mara unisce le mani sul vestito, coperte da lunghi guanti bianchi.

“Grazie”. Trascorre qualche secondo. “Allora… beh, insomma… immagino tu sappia tutto di me, adesso”.

Annuisco.

“Ho risentito il tuo nome per la prima volta dopo la sconfitta del Grand’Ammiraglio Thrawn. E dopo che hai iniziato a collaborare stabilmente con la Nuova Repubblica e a frequentare l’Accademia Jedi su Yavin 4, beh… in effetti, non c’era nessuno a Coruscant che non sapesse chi eri”.

Tendo la schiena, allungando le braccia sul corrimano. Con la coda dell’occhio ho notato che, alle mie ultime parole, Mara si è irrigidita. Credo di sapere a cosa sta pensando.

“Ma credimi, non c’è stato un solo momento in cui abbia cambiato idea su di te… ”, le dico allora. Lei solleva le sopracciglia, cercando i miei occhi.

“Dici sul serio?”.

“Certo. Quando son venuto a conoscenza del tuo passato, ho capito davvero a cosa ti stavi riferendo, quella volta. Era sicuramente… difficile, ed immagino lo sia stato in ogni momento. Però hai sempre trovato la forza per continuare, e per rialzarti ad ogni caduta. Anche quando credevi di essere rimasta sola. Quando sei rimasta senza guida, e senza priorità da seguire… ”.

Le prendo una mano, sollevandola tra di noi.

“Dicevi che te la saresti cavata, Chiara Lorn, e te la sei cavata. Egregiamente”.

Lei non dice nulla, ma mi stringe le dita. Getto quindi uno sguardo verso la siepe, oltre le sue spalle.

“E hai visto? Alla fine, l’hai catturata… ”.

Mara segue i miei occhi, tornando poi a fissarmi interrogativa.

“Cosa?”.

“La tua gioia senza compromessi. Mh, me la immaginavo bruna e un po’ più alta a dire il vero, ma va bene anche così… ”.

Scoppia a ridere. Rimane voltata in direzione del marito, ancora impegnato a parlare con l’olografo.

“Sì, l’ho catturata. E pensa… ”. Torna su di me. “Quando ho deciso che il mio futuro sarebbe stato con la Repubblica e con Skywalker, ero sopra un grattacielo di Imperial City, e… stavo guardando un tramonto. Un bellissimo tramonto”.

Inclino la testa con un sorriso.

“Allora, ne è valsa davvero la pena”.

Mara mi restituisce la stessa piega delle labbra. Questa volta, ha colto subito il riferimento.

“Già… ”.

Il velo le si solleva nell’aria, andandole in parte davanti al viso e sfiorando il mio. Sento qualcosa di tiepido e vago attraversarmi all’altezza del petto, ed improvvisamente mi scopro felice. Felice in un modo nuovo, che non avevo mai conosciuto prima. Felice per aver ritrovato dentro di me, intatto, l’amore che avevo provato diciassette anni prima per questa donna. Qualcosa di perfetto, limpido, privo sia di domande che di pretese. Sono felice di poterlo di nuovo toccare. Ma, soprattutto, sono felice di sapere di poterlo conservare così. Per sempre.

“Mh, mi domandavo se mia moglie avesse già deciso di ripensarci… ”.

E’ una voce ironica ed energica quella che ha appena parlato. Vedo Mara ridacchiare, fissarmi e poi girarsi. Luke Skywalker avanza verso di noi con passo lento ed elegante. Il suo sguardo è magnetico, ma gentile.

“… però, a dire il vero, stavo pensando ad una fuga. Invece ti ritrovo qui, mano nella mano con un altro uomo… ”.

Imbarazzato, lascio le dita di Mara. Lei però ride ancora, e stringendo il marito gli posa un bacio veloce sulle labbra.

“Scusami, Luke. E’ che ho incontrato un vecchio e caro amico. Ti presento Kyle, Kyle Denom”.

“Molto lieto, Kyle”.

Skywalker mi tende la mano, ed io gliela stringo, un po’ impacciato.

“L’onore è mio, Maestro Skywalker”, rispondo, accennando un inchino. “Le faccio le mie felicitazioni per il suo matrimonio con Mara”.

“Ti ringrazio. E’ stata una giornata un po’ turbolenta, ma anche la migliore della mia vita”.

Guardo Luke, poi Mara.

“Non ne dubito. Lei è un uomo fortunato… molto fortunato”.

Lui increspa la bocca, fissandomi con occhi benevoli.

“Lo so. Non potrei essere più felice”.

In quel momento, dall’altra parte del piazzale, gli amici degli sposi iniziano a chiamarli a gran voce. Li avvisano che sono leggermente in ritardo. La coppia si scambia un’occhiata, poi Luke agita un braccio nell’aria. Si rivolge alla moglie.

“E’ meglio che andiamo. Abbiamo ancora alcune olografie da scattare”.

Mara annuisce. Fa per seguirlo, ma poi si volta ancora verso di me.

“Che ne dici di unirti a noi, Kyle?”, mi chiede con tono speranzoso. “Abbiamo organizzato un grande banchetto al Palazzo Imperiale. C’è posto per tutti, te lo assicuro. Tu mi devi raccontare ancora un sacco di cose, ed inoltre ci terrei moltissimo a farti conoscere i miei amici”.

Attende un attimo, quindi sorride. Ed è un sorriso che sembra venire da un posto lontano, remoto. L’ultima volta che l’ho visto era sul viso di una ragazza che non aveva paura di nulla. Bellissima, forte ma piena di rabbia triste. Credeva che non sarebbe mai riuscita a lasciarsela alle spalle.

“… E se non mi sbaglio, ho ancora una cena da offrirti, ragazzino. Insieme ad almeno una decina di Terrysh”.

Sento un’altra stretta al cuore. Gli occhi mi bruciano un po’, ma forse è soltanto il vento.

E poi, non vedo perché dovrei piangere. Sono certo che adesso quella ragazza sta bene. Forse potrà cominciare ad aver paura di molte cose d’ora in poi, forse un giorno si sentirà fragile e stanca davanti ai sentimenti. Ma non penso si pentirà mai della strada che ha intrapreso.

“Non me lo faccio ripetere due volte”, rispondo con una risata. “E’ da secoli che non ne bevo più!”.

Sento le braccia di Mara circondarmi le spalle. Ci incamminiamo a passo veloce verso il gruppo che sta ricominciando a chiamarla, ed il sole per un attimo mi abbaglia. Mi copro la fronte con una mano, percependo il calore sulla pelle.

“… Mara?”.

“Sì?”.

“Auguri”.

Alla fine, la farfalla si è librata di nuovo nel cielo. E adesso vola lontano, dove davvero desidera andare. 

 

 

. the end .

 

 

 

 

Ed eccomi di nuovo qui per le note finali…

 

Innanzitutto, un grande grazie alla mia sis Miyae che ha seguito la crescita di questa storia nel tempo :) inoltre, mi ha suggerito l’uso del mitico oloproiettore (e registratore, presumo… ma si chiama così, boh :P) nella parte finale della fic. Grazieeee!! Il © è tutto tuo! :D

 

Come dicevo all’inizio, anche parte del finale è inventato… ovvero la gitarella ai Giardini Botanici di Skydome. E’ invece vero, verissimo il matrimonio fra Luke e Mara… con mia grande, infinita disperazione ç_ç infatti dovete sapere che se c’è una cosa in cui Lucas m’è caduto è stata decidere di far mettere insieme sti due -_- per i mille motivi che troverete scritti nella pagina del mio sito segnalata fra le prime note. La cosa tremenda è che mi rendo conto che di aver reso l’infausto avvenimento parte integrante della storia, con anche un sacco di riferimenti sparsi qua e là… ma come si dice, i personaggi poi vanno per conto loro e l’autore non ha più alcun potere. E vabbèèè :P vorrà dire che inizierò a farmene una ragione, e forse prima o poi accetterò questa meravigliosa unione *_*; (sis, non picchiarmi… e spero che tu sia riuscita ad arrivare fin qui dopo le ultime, melense righe di Mara e Luke tra fiori e uccellini :DDDD).

 

Ultimissima cosa: dedico questa fic a Fra/Shrinka, la mia gemellina genovese ;) tra le tante passioni in comune, c’è anche, naturalmente, Star Wars… ti adoro!!

 

Grazie per la vostra pazienza :) se vi va, attendo ansiosa feedback…

Leia

  
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