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Autore: Dew_Drop    18/01/2015    1 recensioni
“Prima d’ora non avevo mai sentito di un prete e di un poeta che si fossero improvvisati Holmes e Watson. Pertanto non sono disposto a credere che ciò sia successo”.
Eppure, in una Londra ormai prossima al Novecento, accadde davvero. Sulle tracce di un uomo che morì vent’anni prima di diventare un omicida.
[ I Classificata al Contest "Sangue e Pazzia", indetto da Yuko Chan]
Genere: Introspettivo, Suspence, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Epilogo - L'ordine delle cose






EPILOGO:

L’ORDINE DELLE COSE

 

    Mio padre adorava quella scrivania, forse perché la prese con un anticipo di poche settimane dalla morte della mamma. Il sorriso di lei mi sfiorò le mente mentre abbassavo il coltello d’intaglio segnando anche quella superficie, lentamente, con chirurgica freddezza. Ignoravo che i mobili di quella scenografia non appartenevano all’uomo che ricordavo. Da dove mi trovavo, lì su un lato del tavolo da lavoro, la linea che saliva sulla parete di fronte a me era in perfetta parità con quella che incidevo.
    Sullivan sedeva lì dietro, le braccia abbandonate sui fianchi e il capo reclinato su una spalla. I suoi occhi sgranati esprimevano l’immobilità di una bambola di pezza. Si era presentato due mesi prima dalla Powell, sfilandosi il cappello mentre entrava e sfoggiando nel contempo quel grande e pieno sorriso degno di ogni americano.
“Buongiorno”, aveva detto, la pronuncia masticata quanto bastava per farmi capire che non era di Londra. E io l’avevo guardato, avevo visto la terribile somiglianza con George Patrick. Cecil non voleva continuare a scrivere, benché io glielo chiedessi con insistenza. Diceva che era tutto troppo violento, che sembrava un’accusa a chi il denaro lo ha ma non vuole spartirlo. Non potevo dirgli che leggere quella storia su carta avrebbe potuto salvare me dal mio bisogno di espressione. Se solo l’avesse conclusa, non mi sarei mai ridotto a questa soluzione.
    Adoravo lo zio. Era sempre stato così gentile con me, così presente, benché non fosse ricco, benché non avesse moglie e figli. Non mi aveva mai detto della profonda invidia che provava per papà, che aveva tutto quel che lui desiderava: denaro, famiglia, stabilità. Solo crescendo avevo capito che gli aveva sparato in fronte perché era un debole e altro non poteva fare. Ricordavo ancora il momento in cui era entrato con papà, quello in cui avevano preso a discutere. E poi la pistola gli era comparsa in mano, così, e gli aveva sparato, un colpo solo, dritto in testa, e un ventaglio rosso era esploso sulla parete dietro a mio padre e io avevo visto tutto, vedevo dietro la griglia delle ante. Allora mi ero raggomitolato in un angolo senza fare rumore, le braccia attorno al corpo, e c’era un singulto, in gola, un nodo di fuoco che mandai giù a forza, con tanta rabbia da farmi male.

    Fu allora che cominciai a chiedermi cosa si muove dietro alle righe di una trama a griglia. Ci si guarda attraverso, ad un motivo del genere, ma non sai cosa c’è là dietro i contorni scuri dei quadrati o dei rombi. Forse il mondo smette di esistere? Forse, dietro le linee che ti impediscono la vista, la realtà è grigia, vuota, e continua a scorrere solo negli spazi che riesci a vedere? Mentre estraeva la pistola, lo zio era così irreale, tante erano le righe che lo scomponevano. E così era papà, così pure l’ufficio, così tutto quel che era lì dentro con loro.

    Il coltello lavorò bene anche sull’americano. Fu un poco più difficile mantenere quella geometria, fare in modo che le linee sulle pareti e sui mobili combaciassero, ma ce la feci. Impiegai tutto il pomeriggio, non avevo fretta. Nessun altro occupava la palazzina e c’erano ben poche possibilità che qualcuno avesse udito il colpo.

    La famiglia che mi aveva adottato desiderava davvero che diventassi un poliziotto. Mi avevano battezzato, mi avevano costretto a portare il loro cognome, ma quel che provavo per loro era affetto sincero. Mi avevano portato via da quel ricordo, per qualche anno avevo persino creduto di aver scordato quella griglia scura e il delitto che dietro si era consumato. Cecil Goldwine era stato un incontro non programmato; ci conoscemmo a teatro, perché a lui piaceva così come piaceva a me. Adorava Shakespeare e Oscar Wilde. Poi scoprii che scriveva, che sognava la stessa carriera, e allora gli avevo consigliato una tragedia. L’idea gli piacque, all’inizio.

    Tagliai e incisi fino a sera. Benché mi fossi dovuto spostare per tracciare ogni linea, sapevo che la griglia era perfetta da una sola angolazione. Avevo lavorato con solo quell’immagine in testa e ora mi meritavo il posto d’onore. Così mi spostai su un lato della scrivania, lì davanti all’armadio in cui anni prima mi ero nascosto, e vidi che le righe parlavano, esprimevano una rigida e frastornante eloquenza. Quella geometria, se in un primo momento mi disse che era stato bravo, che lo ero stato davvero, un secondo più tardi mi artigliò la coscienza con le gelide dita dello sconforto.

    Forse così si era sentito lo zio. Dio, avevo ucciso un uomo. Avevo ucciso un uomo innocente, quasi per certo con una famiglia, con tanto denaro. Avevo ucciso, ma questa volta sapevo che forse qualcuno aveva visto qualcosa. Dentro all’armadio, quel guscio di noce. Mi pulii la mano insanguinata sui pantaloni prima di voltarmi e portarla sulla maniglia di legno. Poi, dopo un respiro, lo aprii. Là dentro non c’era nessuno. Non esisteva più quel bambino che si era raggomitolato sul fondo con, nella gola, un grido strozzato e un conato di pianto. Fu più forte di me.

    Rimasi a guardare l’interno buio per un altro pugno di secondi, poi richiusi l’anta, mi voltai, mi lasciai scivolare a terra, la schiena contro l’armadio e le ginocchia piegate.

    «
Papà», biascicai. La voce flebile, vulnerabile. In una mano reggevo il coltello imbrattato di schegge di legno e sangue. Piangevo.

    Nel momento in cui poggiai la nuca contro l’armadio e chiusi gli occhi, scoprii che la griglia che mi aveva tormentato non c’era più. Ora, nel buio, riuscivo a vedere tutto quanto.

 

2.

 

    Non era inusuale che i treni fossero in ritardo. Cecil ne aveva presi pochi in vita sua, ma quelle esperienze gli erano bastate per scendere a patti con il destino. Così si era arreso e si era sistemato sul suo bagaglio, gomiti sulle ginocchia e pugni sotto al mento, ignorando i sedili liberi che tappezzavano la banchina.
    Per un istante il silenzio di quegli attimi lo riportò indietro, a due settimane prima, quando Marcel era uscito di scena come desiderava. No, non Marcel, si corresse. Peter, Peter Moore. C’era stata una frazione di nulla prima dello sparo e per un momento aveva creduto che a premere il grilletto fosse stato Barrymore. Non se ne sarebbe nemmeno sorpreso: l’abito non fa il monaco, e quell’investigatore, immaginava, doveva razionare la pazienza come polvere d’oro. Non poteva dire di conoscerlo, ma la breve collaborazione con lui gli aveva fatto capire che quell’uomo la fermezza la tarava con un metaforico contagocce. Gli sarebbe quindi parso ragionevole che fosse stato lui a sparare per primo, vuoi per intenzione vera e propria, vuoi perché l’indice gli si era irrigidito d’istinto.
    Invece no. Barrymore non aveva mosso un muscolo e la pistola di Moore aveva tuonato per prima. Lì nell’aria a tratti affannata di quella piccola stazione di periferia, Cecil si ricordò di come l’esplosione si era infranta sulle pareti, su fino alla cupola, prima di sbriciolarsi verso il basso in invisibili schegge di vetro. Gli erano ronzate le orecchie, una volta, violentemente. L’eco l’aveva reso sordo alle grida che si erano alzate quasi in contemporanea, neanche la sala del teatro fosse diventata una cerchia di anime infernali.
    Inferno e Paradiso. Essere e non essere. Si mosse un poco, quasi a disagio, frugando nel taschino della giacca per estrarre un vecchio orologio. Il sole del mezzogiorno era alto e incise un fastidioso riflesso bianco sul vetro del quadrante. Aveva deciso di lasciare Londra e tornarsene a Finnsbury per un periodo, là dove abitavano i suoi genitori. Era un villaggio piacevole, lontano dalle fabbriche, dal viavai delle carrozze e dagli interessi dei gran signori.
    Una mano si posò sulla sua spalla tanto improvvisamente da farlo sobbalzare. Fu quando si girò e vide un volto amico che sul suo viso si allungò un sorriso in bilico fra imbarazzo e sollievo.
    «Padre Wilfred.»
    «Goldwine. Il vostro bagaglio è tanto comodo da farvi evitare la panchine?»
    C’era qualcosa di ironico, in quella domanda. Cecil vi spese un sospiro divertito mentre si alzava. Qualche giorno prima lo aveva informato della sua partenza. Sarebbe stato bello poterlo salutare, aveva detto. Effettivamente il suo confessore la pensava allo stesso modo.
    «Veramente, padre, avevo avvisato anche il signor Barrymore, ma vedo che non è con voi.»
    «Si tratta di una di quelle persone che si capiscono con un colpo d’occhio. Vi è grato per la collaborazione nel caso Sullivan, ma non lo ammetterà. L’ha affermato lui stesso quando sono passato a casa sua per commentare l’articolo in cui si parlava del suicidio di Moore. “Prima d’ora non avevo mai sentito di un prete e di un poeta che si fossero improvvisati Holmes e Watson. Pertanto non sono disposto a credere che ciò sia successo”. Ha detto proprio così.»
    Cecil si strinse nelle spalle con un sorriso a labbra strette. Volgendo uno sguardo in lontananza, lungo i binari, scorse le luci del treno in arrivo. Due signore e un giovanotto che erano seduti sulle panchine cominciarono a raccogliere le loro cose.
    «Stavo ripensando al teschio», disse, a nessuno in particolare. «È poi innegabile che ognuno ne ha uno in mano. Come Amleto, credo. E ci parla, ci parla giorno e notte, coscientemente e non, mentre lui ti guarda e tu cerchi di capire se dentro le sue orbite vuote ci sia o meno la ragione della tua esistenza. È questo un gioco di sguardi che dura tutta la vita. Penso che quel ragazzo sia esistito più come Marcel Redmayne che come Peter Moore. Penso che le sue domande si siano fermate quando ha visto suo padre morire, e che da allora ha smesso di chiedere, di pretendere spiegazioni, di conoscersi. Davanti al suo teschio non è cresciuto, è sempre rimasto un bambino raggomitolato nell’angolo di un armadio. Così è morto in uno spazio buio e angusto, dietro una beffarda trama a griglia.»
    «Non dovete farvene una colpa, Goldwine. Sono dell’idea che l’avrebbe fatto anche se voi aveste terminato di scrivere quel che voleva leggere.»

    I freni del treni fischiarono con prepotenza. Erano piuttosto lontani dai binari, ma il penetrante odore di ferro, vapore e calore si spinse fino a loro.
    «Quella di cui vi occupate è una grande forma di espressione», riprese padre Wilfred non appena il rumore calò di tono, «ma non credo avrebbe salvato Moore dai suoi propositi. Penso si tratti di psicologia. Ci sono cose che l’arte non può cambiare.»
    «Questa è la parte in cui mi dite che dove l’arte non riesce, interviene Dio?» Goldwine, notando che il sacerdote aveva colto e apprezzato il velo d’ironia con cui aveva posto la domanda, sventagliò la mano in un gesto leggero, sorridendo appena. «Non fa nulla, lasciate stare.»
    Si chinò per raccogliere il bagaglio e se lo caricò su una spalla. Dovette impegnarsi un poco, dedusse Wilfred, dal momento che le sue braccia erano sottili ed eleganti. Si avviarono entrambi verso il treno, che nel frattempo si era fermato sbottando nervosamente come un vecchio viaggiatore. Da uno dei vagoni era saltato sulla banchina un controllore, fischietto al collo e cappellino rigido in testa. Si fece avanti al piccolo trotto per aiutare le due signore con i bagagli.
    «Lo zio di Moore ha ucciso il fratello per denaro», disse a quel punto Cecil, muovendosi con passo tranquillo. «Moore ha fatto lo stesso, almeno in chiave simbolica, con Sullivan. Non ha agito per crudeltà, padre; si è espresso per volontà del trauma.»
    «Purtroppo questo ha fatto di lui un ragazzo che ha tolto la vita ad un innocente.» Padre Wilfred si fermò al suo fianco, davanti alla porta di uno dei vagoni. «Questa è la lettura che riesce più facile alla giustizia umana. Ma quella divina, Goldwine... quella divina saprà salvarlo. Il desiderio per il denaro è destinato è diventare uno spietato modello di vampirismo, in futuro più che mai; per denaro, fratello toglie a fratello e amico toglie ad amico. È sempre stato così e ora, alle porte di questo tanto atteso Novecento, si aggirano già i vampiri del nuovo secolo.»
    «Come sempre, padre, le vostre parole sanno di profezia», se ne uscì il ragazzo, con un sorriso a suo modo divertito. Gli tese la mano, gli occhi leggermente stretti per via del sole che, riflettendosi sul treno, gli pizzicava fastidiosamente le pupille. «Arrivederci, dunque. Conto di tornare, quando me la sentirò. Portate un saluto alla vostra bella St. Jerome.»
    Il sacerdote accettò la stretta di buon grado, avvolgendo le dita forti attorno a quel palmo così giovane e leggero. «Possa Dio seguirvi, Cecil. Sarete sempre il benvenuto.»
    Le labbra di Cecil Goldwine si sollevarono per metà, complice un involontario istinto d’affetto e gratitudine. Salì sul vagone poco dopo avergli lasciato la mano e non si voltò quando, già accomodato accanto al finestrino, sentì le porte richiudersi. Era un treno piuttosto piccolo, niente scomparti, solo due file di sedili per ogni lato. Lasciò il bagaglio per terra, in un angolo, prima di togliersi il cappello e poggiarselo in grembo, sistemando la nuca sul poggiatesta. Seduto a quel modo, il pomo d’Adamo disegnava un profilo spigoloso e insolito sul suo collo snello. Aveva già recuperato il biglietto, ma dubitava che il controllore sarebbe passato prima di venti o trenta minuti di viaggio.
    Davanti a lui, accanto a quella che poteva essere sua madre, sedeva un bambino di forse cinque, sei anni. Se ne rese davvero conto solo quando il treno si mosse, scivolando sui binari con la dolcezza di un’amante prima di buttare nell’aria un appassionato soffio di vapore. Era rimasto a guardarlo per un momento, con l’attenzione estatica di ogni bimbo, come se in lui avesse riconosciuto qualcuno. Le sue piccole gambe ciondolavano teneramente dal sedile e le sue labbra erano schiuse in un’espressione di infantile ingenuità.
    «Ciao», gli disse.
    Goldwine gli sorrise con paziente benevolenza. Si sentiva improvvisamente stanco. Stanco e sollevato. «Ciao, piccolo.» Quasi sentì la sua stessa voce come un mormorio.
    Dio riporta tutte le cose al loro ordine naturale, aveva detto padre Wilfred. E Barrymore, caro, brusco Barrymore, aveva annunciato a Cecil che effettivamente qualcuno che portava il nome del suo amico c’era davvero. Ebbene, quel bambino che sedeva su quel treno al suo posto era eccome. Ce l’aveva piazzato Dio, o la scienza, o l’arte.
    Il suo nome era Marcel Redmayne.
 



 

* * *



Questa storia è stata, ripeto, un esperimento bello e buono, anzi non evito di confermare che si è trattata di una sfida vera e propria. Non sono esperta del genere, ma tutto sommato mi sono divertita a vedere i fatti e i personaggi svilupparsi da sé; soprattutto, me la sono spassata disseminando indizi.
Vi lascio quindi una lista di tutte quelle piccole "coincidenze" che ho voluto seminare qua e là.

- St. Jerome [chiesa di padre Wilfred]: nella traduzione italiana è "Gerolamo" o "Girolamo". Si tratta del Santo protettore degli orfani; in effetti, Peter Moore è orfano.
- Jonathan Barrymore: ho scelto questo nome per richiamare John Barrymore. A lui si deve la storica interpretazione di Hamlet, a Londra, nel 1924. Dal momento che la storia richiama esplicitamente e in più passi l'Amleto almeno nel messaggio, ho trovato carino proporre questo parallelismo.
- Eugene T. Sullivan: questo collegamento è stato casuale. La coincidenza ha sbalordito anche me xD Avevo già scelto il suo cognome e quando mi sono informata circa la tragedia di Shakespeare, ho scoperto che Barry Sullivan, attore, interpretò a sua volta Hamlet, sempre a Londra, ma nel 1852.
- "The Pirates of Penzance" [opera in scena nel penultimo capitolo]: opera comica in due atti, realmente esistente. Riguardo questa mia scelta, ci sono due appunti da fare; per prima cosa, un altro Sullivan, questa volta Arthur Sullivan, fu uno dei compositori che si occuparono della musica. Per seconda cosa, il manifesto per come l'ho descritto è esistito davvero, così come la frase, "I am an orphan boy", che accompagna il titolo. Il poster è datato 1880. In ogni caso, la citazione è un altro espediente per far cadere l'attenzione sul tema degli orfani - e quindi, ancora una volta, sul colpevole del delitto.

Credo di aver scritto tutto. Dico "credo" perché ho la sensazione di aver dimenticato qualcosa - ma se anche fosse, questi quattro punti riassumono le coincidenze più importanti, quelle di primo impatto. E sì, ho dovuto fare qualche ricerca per poter seminare nei capitoli queste informazioni, ma mi sono divertita anche a fare questo. C'è qualcosa di più vivo nelle storie che ti convincono alla curiosità di saperne di più, e scrivere questo racconto mi ha in effetti insegnato qualcosa.
Ringrazio chi si fermerà <3
Dew_

 




   
 
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