Blaze Sunshine, il medico dello stabilimento, era pazzo. Non
pazzo della serie ‘un po’ eccentrico’: era proprio un pazzo piromane.
Anni prima era uscito dall’università di medicina ed era
divenuto un dottore. Dicevano che, più che essere bravo, tenesse molto alle
persone.
Un giorno scoppiò un incendio nell’ambulatorio: Blaze,
tentando di salvare i pazienti, rimase intrappolato e subì delle ustioni di
secondo grado. Dopo pochi mesi si riprese.
Poi, un anno dopo, uccise la sua ex-fidanzata. La ragazza
era stata legata e Blaze si era portato da casa l’arma del delitto, un
coltello: la pena fu ovviamente l’omicidio premeditato, ovvero l’ergastolo.
Tuttavia già allora c’era qualcosa che non andava, nel
comportamento di Blaze. Sorrideva, come se fosse felice. Continuava a dire che
quella sera era andato dalla ragazza per sposarsi- ed effettivamente la
scientifica aveva trovato un anello, al dito di lei.
Allo psicologo della prigione che visitò Blaze bastò una
seduta per chiedere che fosse trasferito ad un manicomio criminale: ciò che
mosse davvero i giudici, comunque, fu l’incendio che Blaze fece scoppiare nella
mensa della prigione.
Il medico venne in seguito prelevato dalla Coma, ma quando
poi vennero a sapere del precedente lavoro decisero di sfruttarlo in altra maniera-
dopo, ovviamente, aver capito quanti problemi potesse dare.
Così Blaze era tornato ad esercitare, allegro come non mai.
Veniva seguito da uno psicologo che faceva in modo prendesse le sue medicine e,
non contenti, gli avevano messo un collare che liberava una scossa
elettrica se tentava di fare del male a qualcuno.
Erano in molti a pensare che una cosa del genere fosse
esageratamente crudele, ma Blaze sembrava adorare quel collare e d’altronde non
c’era mai stato il bisogno di azionarlo.
Isaac non aveva mai avuto problemi a trattare con il medico.
Si limitava a presentarsi per chiedere le ricette di alcune medicine e ad
andarsene dopo poco, ringraziando.
Tuttavia c’era qualcosa che lo inquietava e quella era la
passione di Blaze per il fuoco. Non che avesse paura che questo potesse, un
giorno, decidere di far scoppiare un incendio all’intero stabilimento-
semplicemente reputava seccante doversi difendere da un medico che vedeva
nella cauterizzazione la risposta ad ogni male.
Senza contare che reputava il dover fare una visita medica
incredibilmente seccante. Non che avesse mai desiderato evitarle, ma ai dottori
bastava guardarlo di sfuggita per trovare milioni di problemi. Carenza di
calcio, valori sballati, anemia- era piuttosto irritante, contando che in tutti
gli anni che si portava dietro tali problemi non gli era mai successo nulla.
Era come se i medici, vedendolo, volessero salvarlo da un male che non l’aveva
mai disturbato.
Quel giorno Blaze fece solo un breve accenno a quanto pallido fosse Isaac, poi lo fece sdraiare e si dedicò ad Andrè, che ancora non si era ripreso dalla siringa di tranquillante che gli era stata iniettata.
“Fredde, immobili, insensibili siringhe. Fuoco, Isaac! Il
fuoco può risolvere molte cose- malattie, cicatrici, legami.”
Nora tentò di mantenere il suo sorriso, ma non riuscì a
nascondere una smorfia.
A lei e ad Andrè Sunny piaceva. Era folle, sì, ma c’era
qualcosa, nella sua personalità, che attirava le persone. Era ciò che rimaneva
di un fascino ormai sepolto sotto la pazzia, la prova di quale magnifico medico
doveva essere stato.
Quello però non voleva dire che Blaze non riuscisse a farli
rabbrividire.
“Per quanto io sia solamente un biologo, Blaze, devo farti
notare che il fuoco non gli curerà l’occhio.”
Isaac, al contrario, non aveva mai nessun problema. Sunny poteva dargli il nervoso, a volte, ma non lo spaventava. Non sembrava mai colpito dalle parole del medico.
Nora scostò lo sguardo pensando che, a dire il vero, Isaac non sembrava mai colpito da niente.
Blaze ridacchiò con quella sua risatina malata che non voleva dire
nulla, scostando una ciocca di capelli dal volto. “Il fuoco cura tutto, Isaac!”
Con la coda dell’occhio Nora poté vedere Sick mentre,
scrollando le spalle, si lasciava cadere sul lettino, decidendo che il suo mal
di testa aveva più importanza del delirio del medico.
A volte le dispiaceva davvero per Isaac. Le sue emicranie
dovevano essere davvero forti, visto il modo in cui, a volte, sembrava
dimenticare di essere una persona fredda e lasciava trasparire una smorfia di
dolore.
Ma in quel momento non riusciva ad interessarsi a Sick.
Lui aveva iniettato qualcosa ad Andrè e lo aveva fatto
mentre questo lo stava ringraziando
perché gli aveva salvato la vita. Non contento, poi l’aveva anche minacciato.
Non riusciva a capirlo. Ci provava, ma davvero, Nora non
riusciva a capirlo. Avevano sempre cercato di fargli capire che lo
consideravano un amico, tentavano sempre di essere gentili- e lui continuava a comportarsi in quel modo.
“Nora?”
Sentendo pronunciare il suo nome lei si voltò verso l'amico, sorpresa. Andrè aveva ripreso un minimo di conoscienza e la fissava con un occhio socchiuso, ancora troppo assonnato per riuscire a spalancare completamente le palpebre.
“Mhmnhhmostro…?”
biascicò lui con fatica.
Nora inarcò un sopracciglio, tentando di capire il perché di
quella offesa gratuita alla sua persona- poi si rese conto che, probabilmente,
stava parlando della cavia.
Scosse le spalle. Non aveva il cuore di dirgli che la cavia,
dopo due ore, ancora non era stata trovata: Andrè aveva già avuto una reazione
penosa quando le aveva detto che era scappata, non voleva fargli ripetere l’esperienza mentre era ancora
in stato di veglia.
“Occhio…?”
Andrè portò una mano alla benda, accarezzandola con la
leggerezza che solo una dose di tranquillante riusciva a dare.
Nora sorrise. “Dovremmo fare qualcosa per quell’antiestetica cicatrice.”
Qualcosa, dietro la spessa coltre di sonno nell’occhio di
Andrè, sembrò illuminarsi di quella gioia quasi infantile che tanto lo animava
mentre faceva esperimenti.
“Adoro... cicatrici. Sono... fantastiche.”
Come la testa si posò sul cuscino, Andrè tornò a dormire.
Nora portò una mano alla bocca, soffocando a malapena una
risata. Una persona normale avrebbe quantomeno ragionato sul fatto di avere una
cicatrice sul volto, ma lui era solamente contento.
A volte il comportamento dell’amico era disarmante.
“Il fuoco lo curerebbe.”
Dovette metterci alcuni secondi per capire che sì, Blaze
aveva parlato e sì, per un qualche strano motivo sembrava avesse voluto rispondere al
suo pensiero.
Nora lo fissò, confusa. “Eh?”
Blaze sorrise, poi girò su se stesso, apparentemente solo
per il piacere di vedere il suo camice gonfiarsi.
“Uh… di cosa stavi parlando?”
“Il tuo amico!” Blaze si fermò, tenendo le mani dietro la
schiena e chinandosi verso di lei, la testa leggermente inclinata verso
sinistra in quello che sembrava persino uno sguardo affettuoso. “Il fuoco cura
tutto, mia cara. Il fuoco brucerebbe le stranezze di Andrè e lo purificherebbe
nel processo!”
Nora aprì e richiuse la bocca, tentando di capire quale
delle diverse cose che il medico aveva appena detto fosse più inquietante.
Era abituata al fatto che Blaze considerasse il fuoco la
cura definitiva. Era agghiacciante, comunque, notare che aveva praticamente
proposto di portare al rogo il suo migliore amico.
Il tutto, comunque, scompariva di fronte al fatto che Blaze
era riuscito, in un qualche modo, a leggerle il pensiero.
Si sforzò di sorridere, tentando di ragionare.
“Ho… ho pensato ad alta voce, uh?”
Ridacchiò, tranquillizzandosi: sì, era ovvio che avesse
pensato ad alta voce. Non doveva essere troppo strano.
Blaze scosse la testa, divertito.
“No, l’ho letto sopra.”
Nora distese la fronte, comprensiva. Qualsiasi cosa
intendesse dire Blaze era meglio non contraddirlo.
Un brivido le corse lungo la spina dorsale mentre ragionava
sul fatto che Andrè e Isaac erano sotto la tutela del medico per un giorno
intero. Blaze era simpatico e affascinante, certo, ma a volte Nora non riusciva
a non inquietarsi di fronte alla scintilla di follia che sembrava illuminargli
lo sguardo.
Doveva andarsene e portare con se i due colleghi.
“Oh, per me puoi portare via Andrè quando vuoi, ma Isaac
purtroppo deve rimanere qui.”
Eppure Nora non poteva non rimanere affascinata. Assieme
alla follia Sunny sembrava aver sviluppato un qualche tipo di telepatia. Se solo
quello fosse stato il suo ambito, Nora avrebbe speso del tempo a fare ricerche
su Blaze.
Era assolutamente affascinante. Agghiacciante, certo, ma
veramente affascinante.
Isaac non sembrò notare quel lato della situazione mentre si
sedeva sul letto, appoggiandosi faticosamente sui gomiti. Un
comportamento curioso: di solito la priorità dello scienziato
era quella di analizzare le
cose e notare ciò che poteva essere interessante. A quanto
pareva, l’istinto di sopravvivenza aveva la meglio anche
sulle menti più fredde.
“Cosa? Blaze, questo è- io sto bene. Dammi qualcosa
contro il mal di testa e starò anche meglio. Non ho bisogno di rimanere qui.”
Il medico continuò a sorridere, imperturbabile. “Hai subito un trauma cranico. E se il mal di testa fosse solo un sintomo di qualcosa? Devo tenerti sotto osservazione per questa notte: domani potrai andare.”
Isaac scosse la testa, gli occhi sbarrati in un espressione
che sembrava persino spaventata. Nora sbatté più volte gli occhi, tentando di
convincersi che era sveglia e che davvero il suo collega, il suo capo non
ufficiale, stava mostrando un’emozione che andava al di là della semplice
rabbia.
“Blaze, il mal di testa lo avevo da prima. Io… Blaze…”
Nora strabuzzò gli occhi, incredula. Aveva sentito bene?
Aveva visto bene?
Isaac aveva davvero quell’espressione sconfortata sul volto?
Era davvero apprensione quella che Nora riusciva ad intravedere nel suo
sguardo?
E quell’inflessione nella sua voce- stava davvero
supplicando il medico?
Non era possibile. Si stava ovviamente sbagliando, quello non
era possibile.
Blaze inclinò la testa verso un lato, le mani congiunte dietro la schiena e il sorriso mutato in una smorfia totalmente folle.
“Potrei metterti la testa nel fuoco e far evaporare gli
accumuli di sangue che possono essersi formati nel tuo cervello.”
Isaac crollò sul letto, soffocando a malapena un gemito
frustrato.
Non ne poteva più. Blaze voleva bruciarlo
mentre dormiva? Facesse pure.
In quel momento era solo stanco e sì, la giornata non era
ancora finita, sì, probabilmente c’era di peggio… ma fin dal mattino il destino
sembrava aver agito con il solo scopo di farlo crollare e Isaac non ne poteva
più. Andava bene, quindi, si arrendeva: accettava di buon grado la sconfitta e
chiedeva solamente di essere lasciato in pace.
Un minimo di pace che avrebbe usato, ovviamente, per ragionare su come avesse tradito la fiducia della Coma lasciandosi sfuggire una cavia.
-:-*-*-:-
*
Rabbia. Quella era stata l’unica cosa che aveva provato,
prima.
Le sue risibili speranze andate in frantumi, attaccato da
gente che non conosceva, la sua prima reazione era stata quella della furia.
Era stato incredibilmente facile colpirli. Sembrava quasi
che l’ira avesse migliorato le sue capacità: chi colpiva andava a terra, senza
nessuna esclusione.
Poi si era voltato e aveva visto i tre scienziati e la
rabbia aveva distrutto quella poca logica che gli era rimasta. Non cercava un
piano, non voleva più fuggire: voleva ucciderli.
Uccidere quei due idioti che non facevano altro che mangiare
e scherzare e torturarlo, uccidere quel tizio alto dagli occhi azzurri che lo
aveva avvelenato e l’aveva tradito.
Le grida del primo erano sembrate una musica celestiale, il
sangue che si era ritrovato sulla mano una specie di dono divino. Avrebbe
voluto fermarsi, affondare le mani – artigli? – nella sua carne, colpire il suo
cuore fino a che non fosse ridotto ad una poltiglia informe, ma l’aveva
sorpassato. Non solo lui doveva soffrire.
Ma poi qualcosa l’aveva colpito e quel dolore – una cosa
risibile, davvero – l’aveva distratto, aveva spostato l’oggetto della sua
furia. Non più quell’idiota che gemeva e singhiozzava, ma l’altro- il biondino.
Quel biondino che lo guardava con quello sguardo freddo. Quello sguardo freddo
che gli ricordava qualcosa- cosa?
Non lo sapeva. L’aveva colpito, deciso a sfondargli la cassa
toracica a suon di calci- poi era fuggito.
Si era nascosto in un condotto d’aria. Faceva freddo ed era
stretto e buio e non faceva altro che scivolare, grattando le unghie sul
metallo. La furia era scomparsa e al suo posto era rimasta la più totale
disperazione.
Frammenti di immagini continuavano a tormentarlo, rendendo i
suoi pensieri persino più confusi di quanto già non fossero.
Di chi era la colpa? Chi lo aveva portato lì? Perché?
Avanzava, strisciando e intanto la sua mente veniva invasa
da un turbinio di ricordi, da parole senza senso, da volti che ricordava a
malapena. La mafia, la sorella, i genitori: quelle persone, quei nomi che in
quel momento erano solamente dei concetti senza senso, cos’erano? Era ciò che
aveva perso o la risposta a quelle tre domande che lo tormentavano?
Era da solo, nel buio, al freddo e non riusciva a capire.
Non riusciva a riflettere. Quelle tre domande erano l’unico barlume di sanità
che gli rimaneva e lui non riusciva a rispondere coerentemente.
La mafia. Non c’era, non era ancora venuta a salvarlo. Gli
scienziati. Gli avevano fatto qualcosa. La bambina…
Odio, paura, disperazione, sensi di colpa. Turbinavano, si
mescolavano, rendevano caotico ciò che già in principio non era ordinato e
creavano qualcosa. Crampi di coscienza.
Dolorosi, fastidiosi, insopportabili crampi di coscienza che
non lo mollavano.
Di chi era la colpa? Chi lo aveva portato lì?
“Lui e l’uomo alto ti stanno avvelenando” aveva detto.
Quel tizio con i capelli biondi che lo aveva guardato con
quell’espressione strana. Non spaventato, solo sconcertato.
Quel tizio così alto che gli aveva dato un minimo di
speranza e poi gliel’aveva strappata via.
Quel tizio che gli aveva iniettato qualcosa al polpaccio.
Che lo aveva distratto.
Quegli occhi azzurri che lo squadravano. Freddi, stanchi,
eppure con una scintilla di sadico divertimento.
“L’uomo alto ti sta avvelenando”, aveva detto.
*
*.-*-.*
*
Era sera. Doveva esserlo, visto che c’era la replica di
Sogni d’Amore alla televisione.
Andrè mangiucchiava una ciambella, assaporando la glassa che
la circondava. Aveva una benda che gli copriva l’occhio, quasi non gli era
sembrato vero all’inizio.
Aveva rimirato la propria immagine allo specchio per cinque
minuti buoni, eccitato come un bambino. Una benda all’occhio, continuava a
ripetere, era così forte.
Poi Nora l’aveva portato via. Diceva che era per il suo bene
e lui non aveva capito, all’inizio. Decise che probabilmente centrava Blaze,
così l’aveva seguita senza tante storie.
La giornata di lavoro era ben lungi dall’essere terminata,
così si erano rintanati nella sala relax. Nora aveva portato i dolci, aveva
coperto i turni ed aveva portato delle riviste. Non era una cosa troppo strana,
probabilmente Nora si comportava così gentilmente perché era rimasto ferito.
Quello zelo era comprensibile, in fondo.
Eppure c’era qualcosa nel modo in cui la collega scherzava
che lo faceva sentire strano. Era come se stesse fingendo di essere così
allegra.
All’inizio non capiva perché. Nora gli stava nascondendo
qualcosa, era ovvio: la ragazza semplicemente non riusciva a mentire. Eppure
non riusciva a capire cosa stesse tentando di nascondergli.
Poi aveva notato che non gli aveva mai accennato della cavia
e Andrè, finalmente, aveva capito.
Andrè si pulì le dita con un fazzoletto, ingoiando a fatica la ciambella. Nora non era più riuscita a continuare e alla fine si era zittita, fingendo di essere stata ipnotizzata dalla televisione.
“Come l’ha presa Sick?”
Nessuna risposta. Nora non diede nemmeno segno di averlo sentito.
Per pochi attimi Andrè si chiese se quella domanda non
l’avesse solo pensata. Poteva essere logico, dopotutto, anche se non
esattamente normale.
Poi lei abbassò lo sguardo, giocherellando distrattamente
con una ciocca di capelli e Andrè capì.
“Sarò fortunato
se morirò, giusto?”
Nora rabbrividì ma non rispose. Non sarebbe riuscita a mentire e, anche se ci fosse riuscita, non sarebbe riuscita a convincerlo.
“Verrò degradato. Verrò licenziato. Verrò…” La voce gli
mancò all’ultimo momento. Chiuse gli occhi, colto da un’improvvisa vertigine.
Il suo lavoro, i suoi amici, la sua stessa vita, tutto gli
stava inesorabilmente sfuggendo dalle mani e non poteva fare nulla per
evitarlo.
Non voleva fare nulla per evitarlo.
Aveva la nausea. Aveva lavorato così tanto, aveva fatto così
tanto- e per cosa? Un errore e il castello di carte gli crollava attorno. Era
un fallimento così catastrofico che qualsiasi tentativo di fermarlo era
ridicolo, destinato alla sconfitta dall’inizio- troppo faticoso per essere
pensabile.
Sarebbe stato degradato. Sarebbe stato licenziato. Sarebbe stato torturato. Gli interessava e non gli interessava- non lo sapeva. Non lo capiva.
“Mi viene da vomitare.”
Nora sospirò, alzando un braccio nel tentativo di afferrare
Andrè prima che scappasse: si trovò solo ad agitare una mano nel vuoto, il
collega ormai uscito dalla stanza.
Il braccio le ricadde sul divano e lei si lasciò sfuggire un
secondo sospiro, frustrata. Aveva davvero cercato di essere gentile, di
distrarlo e le cose stavano andando così bene fino a quando- cos’era successo?
Era diventato di nuovo triste e patetico ed aveva la sgradevole sensazione che
fosse stata colpa sua.
Il cercapersone trillò.
Chiunque sapeva di poterla trovare in sala relax, motivo per
cui nessuno usava mai quel- coso per chiamarla: ormai si era persino
dimenticata di possederlo.
Prese il cercapersone, portandolo all’altezza degli occhi.
‘Infermeria’'
*************************************************Vorrei ringraziare Vitani per aver commentato l'ultimo capitolo. Ti adoro così tanto! Vorrei inoltre scusarmi per l'immenso ritardo. Il computer si è formattato, la scuola è cominciata e io non riuscivo più a scrivere nulla. Non mi piace per niente l'inizio e la fine non mi entusiasma ma... santo Cielo, adoro la parte in cui parlo di Felix. Ad ogni modo, mi dispiace. Sono in ritardo per molte cose e... mi dispiace. Prima o poi... non lo so. Mi dispiace veramente tanto...