«Vedi,
Bella, io sono sempre stato quel
tipo di ragazzo. Nel mio mondo ero già un uomo.
Non
ero in cerca dell’amore...no, ero troppo impaziente di arruolarmi: pensavo
soltanto alla gloria idealizzata dalla guerra, quella che ci vendevano per
convincerci ad entrare nell’esercito. Ma se avessi trovato...». S’interruppe e
inclinò la testa. «Stavo per dire se avessi trovato qualcuno, ma non lo dirò.
Se avessi trovato te, so come avrei
agito, senza alcun dubbio. Io ero quel tipo di ragazzo che, non appena avesse
scoperto che tu eri ciò che stava cercando, avrebbe chiesto la tua mano, in
ginocchio. Ti avrei voluta ugualmente per l’eternità, anche se la parola non
avrebbe avuto le stesse connotazioni di adesso.»
-
Edward
Cullen a Bella Swan, Eclipse,
capitolo 12, pag. 228 –
Dedicata a Zoe chan,
colei con cui parlo ore ed ore di
Twilight. <3
Un’altra vita, la stessa storia
-
1917,
Scapa Flow, Scozia –
Mimi18
©
Stephenie Meyer ©
Osservai distrattamente il cielo nuvoloso al di là
della finestra opaca, macchiata di gocce di fango, probabilmente sollevate
dalle continue folate di vento che imperversavano i piccoli e rari spiazzi di
terreno di Scapa Flow, baia situata nell’arcipelago delle isole Orcadi, in
Scozia.
Sbattei le palpebre più volte, cercando di ignorare
la pioggia che picchiettava insistente contro il tetto malridotto di casa.
Mi ero trasferita quindici anni prima da Chicago in
quella piccola città, abbandonando un clima decisamente più caldo e più adatto
a me per raggiungere mio padre, Charlie, ed iniziare a vivere con lui.
Mia madre, Reneè, era rimasta a Chicago insieme al
suo nuovo compagno Phil; trovai che l’idea di andarmene per lasciare loro un
po’ di privacy fosse una scusa ottima per allontanarmi da loro.
Phil era in gamba, ma sapevo benissimo di non poter
vivere con lui. Avevamo due caratteri completamente opposti, quasi come quelli
di Charlie e Reneè – che avevano fatto durare il loro matrimonio si e no sette
anni – e idee troppo contrapposte per sopportarci in questo clima di
guerriglia, soprattutto ora che l’America aveva deciso di prendere parte al
conflitto.
Scapa Flow era un posto pericoloso, oltre che
freddo: la base navale più grande della flotta britannica si trovava a due
passi – figurativamente – da casa mia e, ogni tre per due, veniva attaccata da
aeroplani tedeschi, nemici della Bretagna in questa guerra.
Charlie era un tenente e quindi capitava spesso che
non fosse in casa durante il giorno ma che si trovasse proprio sul luogo dei
numerosi attentati.
Passai decisa lo straccio bagnato sul ripiano sporco
della cucina, ben attenta a ripulire i resti di sugo rimasto dopo il mio
pasticcio – nel vero senso della parola – di carne.
Non ero una gran cuoca, ma Charlie era molto più
imbranato di me e, essendo la donna di casa, la cucina era il mio regno.
L’orologio batté le sei meno un quarto quando finii
di rassettare casa e mi stupii di averci messo così tanto: non che fossi un
razzo – era parecchio imbranata -, ma solitamente finivo molto prima.
Afferrai con un gesto secco il lembo della lunga
gonna in stoffa pesante che indossavo, in modo di agevolare i movimenti mentre
mi dirigevo veloce fuori di casa, diretta verso il pollaio sul retro.
«Bella?!», sussultai sentendo la voce di mio padre
chiamarmi a qualche ventina di metri di distanza. Correva a perdifiato, con le
guance paffute che sbatacchiavano per la velocità e il sudore che imperlava la
sua fronte: dietro di lui, un uomo dai capelli di un biondo quasi bianco e di
una bellezza eterea lo seguiva senza il minimo sforzo, nonostante l’ingombrante
valigetta di pelle che teneva fra le mani.
Inarcai teatralmente le sopracciglia interdetta,
cercando di ricordare se Charlie, quella mattina, mi avesse accennato di ospiti
per pranzo; l’unica cosa che mi venne in mente fu un “Ricordati di lavarmi la divisa, Bells”, quindi non mi sentii
completamente in colpa quando furono di fronte a me. Ero certa che si trattasse
di un invito improvvisato.
Inclinai educatamente il capo in segno di saluto.
Mia madre mi aveva educato scrupolosamente quando abitavamo insieme a Chicago:
il rispetto per una nuova conoscenza
era tutto per lei.
L’uomo allungò una mano pallidissima verso di me,
sorridendo cordialmente e ricambiando impercettibilmente il saluto.
«Carlisle Cullen. Piacere di conoscerti, Isabella».
La prima cosa che pensai fu che ,oltre al viso, possedesse anche una voce
stupenda, dal chiaro timbro e senza alcun accento. Non avrei mai saputo dire di
primo impatto da dove provenisse.
«Il Dottor Cullen ha accettato il mio invito a cena,
Bells. Che ci preparerai di buono?»
Se l’ospite fosse stato qualcuno di spiacevole avrei
risposto con un mugugno insoddisfatto a quella domanda; invece il Dottor Cullen
mi piaceva – e di solito non ero il tipo che gettava pareri come nulla -,
quindi preparai volentieri lo stufato di carne per tutti e tre.
Non era nulla di speciale, lo sapevo bene, ma
entrambi si complimentarono delle mie doti culinarie fino a farmi arrossire e
voler nascondere il mio viso – pallido, su cui il rossore risaltava ancora di
più – dietro le ciocche dei miei capelli color cioccolato, come mi capitava
ogni qual volta mi trovavo in una situazione simile.
Ascoltai rapita le informazioni che il dottore e mio
padre si scambiarono di fronte a me, quasi non fossi presente.
Parlavano di truppe alleare. America, forse?
Rabbrividii al pensiero di altri soldati in paese,
ma con un po’ di ottimismo, pensai che con l’entrata in guerra dell’America
tutto si sarebbe risolto al più presto.
Quando mi alzai di scatto, Charlie mi fissò con un
sorriso.
«Si immagina, dottore? La mia Bella che s’innamora
di un soldato americano!», esclamò con una risata, che contagiò anche Carlisle.
«Non dovrebbe sottovalutare il fascino degli yankee,
sa?»
Io sorrisi divertita, lasciando perdere quella
conversazione che mi riguardava da vicino, ben sicura che mio padre fosse in
torto – come suo solito.
* *** *
Strinsi con maggiore forza la borsa di vimini fra le
mie mani, prendendo fiato ed avanzando con lentezza lungo la strada
acciottolata di Scapa Flow. Tenevo gli occhi ben piantati di fronte a me ed
inciampai un paio di volte prima di arrivare di fronte alla bancarella della
verdura. Solitamente era Charlie a ritorno dal lavoro che si fermava a fare la
spesa, ma quella mattina, dopo essersi rimpinzato di muffin, mi aveva
chiaramente detto che non l’avrei rivisto prima di mezzanotte, a causa
dell’arrivo delle truppe americane.
Truppe americane significava una cosa: soldati.
Soldati che non avrebbero rivisto le loro terre per non sapevo quanti anni.
Nessuno – me compresa – poteva immaginare quando
sarebbe avvenuta la fine di quella Guerra che aveva portato un numero
incalcolabile – almeno per me – di vittime.
Solo un mese e mezzo prima le truppe marine tedesche
avevano affondato il transatlantico inglese Lusitania, ancorato nel porto di
New York, provocando diverse migliaia di morti.
Charlie, quella sera, non era tornato a dormire. Per
giorni era rimasto chiuso in un muto silenzio – più del solito, almeno,
sconfitto dall’idea di aver perso un numero così vasto di popolazione, americana
o inglese che fosse.
Era così che l’America aveva deciso di partecipare a
questo massacro, schierandosi al fianco dell’Inghilterra.
Ed era così che si era giunti all’accordo di mandare
truppe di sostegno agli eserciti inglesi, da quanto avevo appurato un paio di
sere prima, durante la cena con il dottor Cullen.
Per quanto mi riguardava, provavo una certa
avversione per i soldati inglesi: quando andavo in paese mi osservavano con uno
sguardo orribile. Sorridevano
ammiccanti nella mia direzione – o di qualunque donna che passasse di lì –
urlando qualche complimento che di buono non aveva nulla, se non la volontà.
Avere soldati americani poteva essere sì un
vantaggio per i britannici, ma sicuramente una dolorosa aggiunta ai già
numerosi animali che ormai popolavano questa zona.
Per di più, sapevo per esperienza [mia madre, in
tutta sincerità] che i soldati americani erano molto più rozzi di quelli
inglesi. E più grossi; ma questo era solo un mio sciocco pensiero, che nasceva
dai libri che avevo letto sulla guerra – libri di Charlie, perlopiù.
Velocizzai il passo quando arrivai di fronte alla
locanda dove avevo visto spesso le divise blu dei soldati della marina inglese
bere in compagnia. E non parlo solo di compagnia maschile.
Charlie mi aveva pregato pi volte di fare attenzione
ed io non ero di certo disposta a negargli l’occasione di non preoccuparsi.
Bramavo casa come non mai, quando intravidi fra le
figure vestite di blu alcune divise verdastre. Aumentai il basso e non ci fu
mai errore oltre a questo che amai di più nella mia corta ed insulsa – almeno
fino a quel momento – vita.
Come una scena vista più volte, inciampai in un
sasso, forse messo apposta sul mio cammino dal destino che, per una volta,
aveva deciso di baciare il mio capo.
Caddi in avanti, lasciando rovinare a terra la cesta
in vimini che svuotò il suo contenuto facendo sporcare di terra l’insalata
verde appena acquistata.
Io non raggiunsi mai il suolo come di solito facevo.
Due mani forti mi avevano afferrato il busto,
tenendomi saldamente in piedi e al sicuro, lontana dal terreno fangoso che mi
aveva sporcato le scarpe.
«Attenzione», disse la voce vellutata del mio
salvatore dietro di me, con una nota maliziosa che non mi infastidì per nulla.
Ingoiai un boccone, prima di sollevare gli occhi su
di lui. Sapevo già che non si trattava di un uomo qualsiasi, ancor prima di
incrociare gli occhi d’ambra di quel giovane soldato americano che ruppe tutte
le mie supposizioni sulla stazza degli yankee.
Volevo ringraziarlo, ma dalla mia gola fuoriuscì
solamente un rantolo basso, più simile ad un ringhio che a quant’altro.
Lui ridacchiò di nuovo, notando le mie guance
imporporate non solo a causa della nostra eccessiva – ma piacevolissima –
vicinanza.
Mi lasciò andare con mia somma riluttanza, ma ciò mi
permise di abbassare il volto e di poterlo ringraziare come si deve, visto che
non lo vedevo negli occhi che mi avevano fatto perdere un battito. Battito che
era inevitabilmente accelerato una volta che mi ero resa conto della totale
situazione.
«Non si è fatta male, vero signorina?», scossi con
forza il capo sempre con gli occhi piantati a terra, nonostante desiderassi con
tutta me stessa rivedere il suo viso.
Mi azzardai ad un’occhiata furtiva e lui era lì, che
mi fissava con un sorriso sghembo meraviglioso che fece martellare
ulteriormente il mio cuore, già provato dal contatto delle sue braccia.
«No. Sto bene, credo», mi congratulai mentalmente
con me stessa per non aver fatto tremare la voce come una qualsiasi ragazzetta
dodicenne.
«Allora perché non solleva lo sguardo?»
Io sussultai. Non mi aspettavo di certo una domanda
così diretta, soprattutto da uno sconosciuto qualsiasi, per l’altro soldato.
Poi avevo anche le guance arrossate. Sembrava quasi
che quel colorito volesse persistere per tutto il resto della mia vita.
Tuttavia non resistetti. Ed incrociai il mio sguardo
cioccolato al suo, unendo i nostri occhi. Sentire una scarica elettrica
attraversare il mio corpo non mi stupì. Nemmeno desiderare ardentemente le sue
mani intorno alla mia vita mi colse di sorpresa.
Sembrava uno di quei – come li chiamavano nei
romanzi di Reneè? – colpi di fulmine.
«Decisamente meglio», sussurrò compiaciuto, passandosi una mano fra i
capelli color bronzo; impressi quel gesto nella mia mente, come il sorriso
sghembo di pochi attimi prima. Se non l’avrei più rivisto mi sarei beata di
quel ricordo in eterno.
«Io sono Edward Masen, delle truppe americane. Ma credo che questo lei
l’abbia già capito, signorina...?», aprii due volte la bocca, prima di riuscire
a rispondere alla sua domanda: ero stupita che gli interessasse il nome di una
che manco riusciva a spiccicare parola di fronte a lui.
«Bella Swan. Piacere di conoscerla», chinai il capo educatamente, facendolo
sorridere [e facendo rimbalzare il mio cuore].
«Il piacere è solo mio, signorina Swan», s’inchinò leggermente,
dimostrandosi molto più educato di tutti i vari soldati con cui avevo avuto a
che fare da tre anni a quella parte.
Non fui stupita del fatto che il classico campanello d’allarme – che
solitamente scattava in compagnia di un uomo in divisa – stesse facendo le
fusa, in quel momento.
Edward Masen era decisamente una persona affascinante.
Oh, e bellissima.
«Bella andrà benissimo, signor Masen», sorrisi in sua direzione, sperando
di non sfigurare di fronte a tanta bellezza.
Lui ricambiò simultaneamente, mostrandomi una fila
di denti bianchissimi e splendenti.
«Allora andrà benissimo anche per me Edward, Bella»,
e sorrise di nuovo, mentre la mia mente esultò per quell’assurda possibilità da
chiamarlo per nome.
Rimanemmo in silenzio per un periodo infinito, dopo
quello scambio infimo di battute – infimo non per me, ovviamente – fino a che
Edward non mi afferrò audacemente per un gomito, prendendomi con disinvoltura
sottobraccio e conducendomi verso la locanda gremita di soldati di fronte a
noi.
«Che ne pensa di farmi compagnia per il pranzo?», domandò con
un’innocenza tale che non dubitai nemmeno per un secondo delle sue intenzioni.
Annuii docilmente, cercando di ignorare gli sguardi insistenti che i
soldati premevano contro il mio petto ben coperto dalla stoffa pesante del mio
corsetto bianco.
Edward sorrise, cingendomi la vita con un braccio e conducendomi
all’interno di quel territorio che, accanto a lui, non aveva più nulla di
infernale.
Rimasi stupita da quanto mi sentissi piacevolmente a mio agio accanto a
lui, nonostante la titubanza iniziale.
Edward mi riempì di domande che, forse, fatte da un’altra persone mi
sarebbero sembrate opportune per un primo incontro come quello; tuttavia,
risposi con entusiasmo ad ogni sua curiosità, beandomi del suo viso di una
bellezza assurda e del calore delle sue gambe sotto il tavolo, che sfioravano
le mie.
«Sei americana?», domandò con stupore quando accennai al mio
trasferimento. Annuii divertita dal suo stupore, che aumentò notevolmente
quando dichiarai di essere originaria di Chicago proprio come lui.
Non sapevo perché, ma avere qualcosa in comune con lui mi fece piacere. O
meglio, mi fece scaldare il cuore.
«Tuo padre è Charlie Swan?», domandò curioso, bevendo un sorso di birra
dal boccale sotto il mio sguardo incuriosito.
Ovviamente, era ovvio che traesse delle conclusioni, visto che anche
Charlie era come me americano. Non potevano esserci molti americani da quelle
parti con il cognome Swan. Quello che mi stupì fu il suo acume.
Avevo già capito che si trattasse di un ragazzo intelligente, ma ne
rimasi colpita.
«Già. Hai per caso avuto a che fare con lui?», domandai sorseggiando il
mio thè caldo.
Edward annuì, sorridendo in mia direzione e facendomi arrossire.
«Si è occupato lui del nostro arrivo, poche ore fa. A quanto pare oggi
era destino che venissi a conoscere tuo padre e te, Bella», adoravo il modo in
cui pronunciava il mio nome, senza accenti ne sbavature relative alla pronuncia
americana, diversa da quella inglese.
Io stessa i primi tempi avevo avuto non pochi problemi con la pronuncia
differente. Era stato quello il motivo per cui Charlie aveva iniziato ad
occuparsi della spesa.
Ringraziai con tutta me stessa Charlie che, involontariamente, aveva
fatto avvenire quell’incontro.
Ridacchiai al pensiero di me che gli presentavo Edward, suo subordinato.
Quest’ultimo, con sguardo incuriosito, mi domandò la causa di tanta ilarità e
io risi ancora più forte.
* *** *
Edward venne regolarmente a farmi visita dopo quel
pranzo passato insieme.
Parlavamo spesso del suo ruolo di soldato e il
pensiero di dovermi separare da lui, un giorno, mi intristì più di quanto fosse
lecito.
Andavamo d’accordo. O almeno, io la pensavo così,
visto che i momenti trascorsi insieme a lui passavano veloci come un minuto,
nonostante si trattassero di ore ed ore di conversazione.
Sembrava quasi che avessimo argomenti inesauribili.
Diciotto anni di vita da raccontare. E non mi stancavo mai.
Non ero mai stanca di vedere il suo viso sulla
soglia di casa mia, alle due puntualmente di ogni giorno. Non mi sfiorò nemmeno
per un secondo l’idea di non voler più vedere il suo sorriso sghembo che tanto
amavo.
Amavo la sua compagnia più di
ogni altra cosa, in quei momenti.
Da quando era apparso, sembrava quasi che le
giornate si fossero accorciate, che il tempo volasse senza motivo.
Mi ritrovai in estate che non me n’ero minimamente
accorta; mi sentivo ancora in piena primavera...e
non parlo solo della stagione.
Quel giorno Edward sarebbe rimasto a pranzo con me e
Charlie. Con grande sollievo avevo scoperto che fra i due si era instaurata una
sorta di reciproca stima, visto le capacità fuori dalla norma di Edward ed il
grado di mio padre.
Inoltre, anche l’inaspettata amicizia fra il dottor
Carlisle ed Edward aiutò a far crescere il rapporto fra lui e mio padre, che
sembrava quasi convinto che fra di noi ci fosse qualcosa di più che una
semplice amicizia.
Sapevo benissimo che Edward non poteva volere di più
da una come me: ero una ragazza normalissima, quasi banale oserei dire, il cui
unico punto di stono in questa normalità era la smania di inciampare su
qualsiasi strada mettessi piede – ed Edward mi sgridava sempre, quando
accadeva, accusandomi di non essere troppo accorta.
Edward ed io eravamo agli antipodi, almeno a livello
fisico. Quando camminavamo l’uno accanto all’altra in paese notavo le occhiate
bramose che le donne lanciavano audacemente sul suo viso, corpo, spalle,
capelli. Lo mangiavano – letteralmente – con gli occhi.
E chi ero io per farlo innamorare? L’anonima figlia
del tenente. Oh, sì. Un ruolo importante, nella vita di Edward. La figlia del
capo.
Voci maligne avrebbero sicuramente detto che Edward
passava le giornate in mia compagnia solo per ottenere una promozione.
Tuttavia quello era un punto di cui non mi
preoccupavo: Charlie mi aveva chiaramente detto che Edward aveva rifiutato
tutte le proposte di salire di grado con educazione.
Nonostante tutti questi pensieri ad affollarmi la
mente, non potei fare a meno di sorridere quando lo vidi comparire svestito
dell’anonima divisa militare per una camicia e dei pantaloni verdi sulla porta
di casa, una bottiglia di vino rosso stretta fra le mani.
Arrossii contraccambiando il suo sorriso caloroso e
facendolo entrare.
Mi stupii ancora una volta di quanto fosse semplice
colloquiare con lui: perfino Charlie, poco incline alla conversazione – o
meglio, meno incline di me – era a suo agio con lui.
Nonostante il loro principale argomento fosse la
guerra che sembrava ormai agli sgoccioli, non mi annoiai nemmeno per un attimo
e stetti ad osservare incantata ogni singola sfumatura del volto meraviglioso
di Edward.
Ed in
quel momento capii.
«Bella, ti senti bene?», sussultai trovandomi a
pochi millimetri dal viso che poco prima aveva quasi bloccato il flusso
circolatorio del mio sangue, rischiando di uccidermi.
Trovai – non so come – la forza di annuire e di
accettare la mano che mi porgeva per recarci insieme in giardino, lasciando
Charlie a riposare in pace sul divanetto del salottino.
Quando sfiorai la superficie liscia e vellutata del
suo palmo il cuore accellerò e mi morsi un labbro, colpevole.
Di tre cose ero del tutto certa.
Primo, Edward era un soldato americano che, se fosse
stato necessario, avrebbe preso parte alla guerra, rischiando la sua vita.
Secondo, una parte di lui – chissà quale e quanto
importante – era interessata a me.
Terzo, ero totalmente, incondizionatamente
innamorata di lui.
E, cosa peggiore, la cosa non mi preoccupava per
nulla, nonostante il rischio di perderlo era tanto alto quanto era la
probabilità che inciampassi lungo una strada piena di buche.
«Bella, desidero parlarti», disse ad un tratto,
bloccandosi di fronte a me.
Io deglutii a fatica, tentando di respirare. Cosa
alquanto difficile visto che Edward mi stava fissando intensamente negl’occhi.
«Certo...di che cosa?», avevo contato mentalmente
fino a dieci prima di riuscire a spiccicare parola. Ed ero fiera di me.
Lo sentii prendere fiato e la cosa non mi piacque
per nulla: Edward non aveva mai problemi a dirmi qualcosa, anche se si
trattava di uno sterminio da parte di aerei tedeschi nella nostra Chicago,
luogo in cui ancora soggiornava mia madre.
«Probabilmente Bella ti sembrerò un idiota a dirti
queste cose senza che ti abbia lasciato intendere nulla, ma sappi che quello
che sentirai sarà soltanto la verità». Ora iniziavo seriamente a preoccuparmi.
Edward stava straparlando e non era sicuramente a causa del vino, visto che ne
aveva bevuto si o no due bicchieri mezzi vuoti.
Tuttavia ogni dubbio sparì come neve al sole quando
le sue mani avvolsero le mie, stringendole in una morsa ferrea da cui non avrei
avuto via di fuga – ma tanto non avevo la minima intenzione di liberarmene.
«Bella, io sono un soldato, con stipendio precario e
una vita appesa ad un filo. Tuttavia, non riesco ad allontanarmi da te, per
quanto ci abbia provato. Da quanto ti ho vista la prima volta così imbranata mi sono subito affezionato a
te, e quando ti ho conosciuto questo affetto non ha fatto che aumentare, fino a
portarmi ad oggi», trattenni il fiato e quasi divenni blu, nonostante fossi sfacciatamente
felice di quella piccola ed enorme al tempo stesso dichiarazione.
Lui accarezzò dolcemente il dorso della mia mano
notando il mio sguardo e poi, con un gesto talmente veloce che mi fece venire
un capogiro, s’inchinò di fronte a me, stupendomi.
«Bella Swan», proclamò con voce forte e chiara,
nonostante fossi lì con le mani intrecciate a lui ad un centimetro o poco più
del suo corpo, «ti amo. Vuoi diventare
mia moglie?»
E per poco non svenni.
M’inchinai di fronte a lui con le lacrime che
pizzicavano dispettose i miei occhi già gonfi, pronte a sgorgare ed allagare
quella baia che, nell’ultimo periodo, non mi era mai sembrata tanto bella.
Edward mi osservava in attesa, le sopracciglia
bronzee inarcata in un gesto di dubbio.
Presi il coraggio a due mani e, con un gesto che non
avrei mai più osato fare, lo baciai.
Sentii subito le labbra di Edward schiudersi per
approfondire quell’inconfondibile risposta affermativa.
Mi afferrò la vita tirandomi sopra di lui, sdraiato
sull’erba umida, senza interrompere il contatto fra le nostre labbra.
Rimasi piacevolmente stupita dalle sensazioni che
quel primo bacio mi diede. Prima di Edward, non avevo mai sfiorato né violato
le labbra di nessun uomo.
Tuttavia, sembrava quasi che le nostre bocche
fossero all’unisono, oltre che incastrate alla perfezione. Come se le mie
labbra fossero nate appositamente per rimanere appoggiate contro quelle di
Edward.
Rotolammo con una risata, invertendo le posizioni.
Edward mi fissò dall’alto della sua posizione,
accarezzando le mie guance.
«Adoro quando arrossisci», sussurrò, baciando
nuovamente le mie labbra, per poi scivolare lungo il mio mento, il collo, il
petto.
Appoggiò con delicatezza il suo orecchio all’altezza
del mio cuore e capii che lo sentiva battere all’impazzata. Sollevò il volto su
di me, sorridendo.
Ed in quel momento lo imitai piegando le mie labbra,
ignorando le guance rosse a causa dell’imbarazzo ed allungando una mano,
andando ad accarezzare il suo viso, i suoi zigomi, le sue labbra, i suoi
capelli, il suo petto. Tutto ciò che era Edward passò sotto il tocco tremante
delle mie dita, facendolo sospirare e chiudere gli occhi.
Bloccai la mano sul suo cuore, sentendolo battere
all’impazzata quanto il mio e in quel momento seppi cosa dire. L’unica cosa che
non avrebbe stonato in mezzo a quelle effusioni.
«Ti amo, Edward»
E di nuovo, le nostre labbra si unirono.
Canticchiai
stonata una canzone, cullando fra le braccia quello che era il frutto del mio
amore per Edward.
Da
quel giorno sul prato erano passati due anni, la Prima Guerra Mondiale era
finita.
Edward
aveva abbandonato l’esercito per dedicarsi a me e Renesmee, la nostra bambina,
suscitando svariate proteste dai superiori – escluso mio padre -, nonostante il
suo viso non avesse mai visto un campo da guerra.
In
un tacito accordo, avevamo deciso di trasferirci in un paesino situato nella
penisola di Olympia, nel nordovest dello stato di Washington, Forks.
Un
posto tranquillo, in cui solamente noi eravamo una novità, ma questo non dava
fastidio né a me né ad Edward.
Sorrisi
quando sentii le mani delicate di mio marito stringermi in vita, mentre il
cuore accelerava di un battito, come sempre.
«Si è addormentata?», domandò
osservando la piccola di sottecchi.
Annuii impercettibile, posando
dolcemente Renesmee nel suo lettino.
Edward le lanciò una
mezza occhiata, prima di stringermi in un abbraccio.
«Ti amo», sussurrai al
suo orecchio, perfettamente sicura che mi avesse udito.
«Anch’io, Bella. Ora e
per tutto il tempo in cui vivremo.»
Mai
parole sarebbero state più sincere.
* *** *
...*smile*
Occhei, sì. È un’idea assurda che mi frulla in testa dall’altra sera,
quando mi sono soffermata per una decina di minuti sulla frase da cui questa
Fic trae spunto.
Mi sono immaginata un’altra vita per Edward e Bella – quella che hanno
vissuto nel libro è più che perfetta, nulla da obbiettare – in cui non lo
vedevo come un vampiro, ma come l’essere umano di cui lui parla.
Ho cercato di mantenerli il più IC possibile, soprattutto Bella. E ho
sempre cercato di mantenere quell’atmosfera romantica che c’è fra di loro,
nelle scene zuccherose che spesso condividono lungo tutta la saga.
Io mi sono impegnata. Se vi piacerà almeno un po’ mi farà molto piacere.
Se non vi piacerà...bhè, vorrà dire che la prossima volta mi impegnerò di
più – soprattutto sulla prima parte, che è esageratamente noiosa.
Mi sono divertita ad inserire qualche frase di Twilight – come quella
introduttiva. Inoltre, l’ultima frase della parte in corsivo e una mia
interpretazione della frase di introduzione. Non so se si nota. *smile*
Mimi