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Autore: Iryael    01/02/2015    0 recensioni
Aprile 5402-PF, pianeta Veldin.
Lilith Hardeyns, diciottenne di Kyzil Plateau, trascorre la sua vita tra una famiglia inesistente, un coetaneo che la mette in difficoltà ad ogni occasione e un maestro di spada che per la giovane è anche un padre e un amico.
Sono passati sei anni da quando la ragazza ha incontrato Sikşaka, il suo maestro di spada, e Lilith ha acquisito un’esperienza sufficiente per poter maneggiare tutte le armi presenti nella palestra. Tutte tranne una: Rakta, una scimitarra che perde il filo molto raramente.
Lilith sa che quell’arma, il cui nome stesso significa “sangue”, richiede un’esperienza che ancora non ha.
Non sa che quella scimitarra ha origini molto più antiche di quel che sembra, né conosce il potere di cui è intrisa.
Ignora che qualcuno vuole averla ad ogni costo.
E nemmeno immagina che Rakta sta per diventare parte integrante della sua vita.
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[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Nuovo Personaggio (Lilith Hardeyns, Queen, Sikşaka Talavara)]
Genere: Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ Finale ]
Conseguenze
Cinque giorni più tardi, 15 Maggio 5402-PF, ore 9:45
Asteroid City, 12simo settore, Nohu Hospital
 
Uno sbuffo pneumatico.
Lo sguardo di Sikşaka corse alla porta. Era strano che la guardia non bussasse: era un segnale convenuto, una specie di “ehi, tranquillo, entra un amico”.
Rispondendo all’istinto, nel tempo in cui il battente scorreva, buttò giù le gambe. Lo sguardo si appuntò sull’uscio, il respiro si fece forzato. Chiunque fosse non lo avrebbe colto totalmente impreparato.
L’anta, con un unico impercettibile gemito, finì di aprirsi.
 
«Ehilà, na’ram! Vai da qualche parte?»
Sulla porta, allegro come un raggio di sole, c’era Matej.
Alla sua vista, l’ansia che l’aveva stretto svanì come neve al sole. Al suo posto, pungolante, si fece largo un bisogno tanto vecchio quanto abituale: quello di prenderlo da parte e sviolinargli una ramanzina.
«“Dove vado”?» domandò in tono bellicoso. «Ero pronto a prenderti a schiaffi! Se stessi un po’ meglio probabilmente ti avrei attaccato io per primo!» protestò. «Possibile che tu ancora non abbia imparato la base del vivere civile? Si bussa, per la miseria!»
«Eeeehh, suvvia... Lo sai che non sono abituato.» minimizzò l’altro, mentre la porta si richiudeva sbuffando. «E comunque sono un po’ di fretta.»
Poco dopo, seduto di fianco al lettino, disse: «Anzitutto devo comunicarti che abbiamo trovato il materiale.»
Sikşaka accennò con un dito al comodino, su cui poggiava il quotidiano del giorno. «Lo immaginavo.» borbottò, prima di cambiare argomento. «Avete già preso qualcuno di rilievo?»
Matej scosse la testa. «Però la finanziaria si muoverà a breve.»
Sikşaka gli scoccò un’occhiataccia. «“A breve” vi lascerà con un pugno di mosche.»
«Sì, ma io sono bassa manovalanza. Oggi faccio addirittura il postino.» replicò, prima di tendergli una lettera appena materializzata.
Sikşaka la prese e se la rigirò tra le mani. Sul fronte, sotto lo stemma della polizia, c’era il suo nome. La carta color avorio, però, era spessa e ruvida. Era decisamente troppo ricca per arrivare da Kyzil Plateau.
«Che cos’è?» domandò.
Matej fece spallucce. «Un regalo? Una scappatoia? Non lo so. Però il capo della finanziaria me l’ha data di persona.»
Dopo quelle parole Sikşaka fu certo che la busta non arrivasse dalla piccola centrale scalcinata della sua cittadina.
Strappò il bordo a lato e sfilò il foglio al suo interno. Di nuovo: carta pregiata, ripiegata con cura. Curiosità e timore si fusero nello strano desiderio di leggerla e, allo stesso tempo, rimetterla nella busta.
Represse quel mix di emozioni, trovandolo oltremodo infantile, e spiegò la lettera. Quando i suoi occhi si posarono sull’intestazione, le sopracciglia si avvicinarono tanto da disegnare una ruga verticale in mezzo alla fronte.
“Egregio signor Talavara”?
Scorse il resto delle righe con attenzione, facendosi via via più perplesso. Al termine della lettura alzò la testa e, confuso, domandò: «Che cosa significa?»
Il poliziotto materializzò altre due buste, identiche in tutto e per tutto a quella che gli aveva consegnato. Su una c’era il nome di Lilith e sull’altra, già brutalmente squarciata, si leggeva “Agente M. Zimmler”.
«Programma di protezione testimoni.» scandì con un sorriso leggermente tirato. «Significa che, per un po’, io te e quell’adorabile furia saremo una famiglia.»
 
Scese il silenzio.
Sikşaka portò le mani alla fronte e massaggiò le tempie. Una, due, tre volte, cercando di capire. Lui era un reo confesso e la polizia lo metteva sotto protezione, come una vittima. Non aveva senso.
Si trattenne dall’adocchiare le guardie fuori dalla porta, riportò le mani in grembo e, imponendosi la calma, domandò: «Cosa significa esattamente “saremo una famiglia”?»
Matej si sistemò meglio sulla sedia, cercando nel frattempo le parole più adatte.
«Me lo sono chiesto anch’io...» iniziò, incerto. «Ma da quel che ho capito è in senso letterale. Padre, padre, figlia. Con uno zio annesso.»
Sikşaka sgranò gli occhi.
Lo stava prendendo in giro, si disse.
Vedendogli quell’espressione sbalestrata, a metà fra la sorpresa e lo scorno, l’agente non riuscì a trattenere un sorriso sghembo.
«Già, ho fatto anch’io quella faccia lì quando me l’hanno detto. E per poco non ho tamponato quello davanti.»
«Non ha senso...» borbottò il maestro di spada. «Davvero: credevo che sarei stato considerato un criminale; che sarei finito in carcere e finita lì. Invece mi aspetta...cosa, di preciso?»
Matej percepì la sua confusione e si sentì dispiaciuto. Cercò le parole migliori per schiarirgli la visuale, e – arrivandogli subito – spiegò di getto: «L’hai detto tu stesso: eri uno di loro, al passato. Di sicuro dovrai scontare una pena, ma ci sono due attenuanti forti: prima di tutto, nel caso presente, sei una vittima. Tecnicamente tu, cittadino qualunque, ti sei difeso dall’aggressione di un criminale riconosciuto. E poi, in secondo luogo, sei un collaboratore. Questi due fattori ti mettono in una condizione molto particolare. Probabilmente dovrai scontare qualche anno di libertà vigilata, è vero, ma altrettanto probabilmente questo coinciderà con il periodo di protezione. Nessun carcere è sicuro per te, considerando cos’è successo.»
Sikşaka non rispose. Al contrario incrociò le braccia, pensieroso. Passarla quasi totalmente liscia: sembrava troppo bello per essere vero.
«Comunque: adesso ti lascio un chatter.» proseguì Matej. «Così ti faccio sapere quando ne so di più.»
 
Dieci minuti dopo il poliziotto uscì dalla stanza, diretto a Kyzil Plateau. Quando la sua schiena scomparve oltre la porta, Siksaka gettò uno sguardo al comodino, sul giornale squadernato. La prima pagina recitava: CROLLA IL SISTEMA DI KYZIL PLATEAU. QUINDICI ARRESTI NELLA NOTTE.
Sotto il titolo campeggiava una foto enorme con i volti degli arrestati. Guardandola, le sue spalle s’incurvarono sotto un peso invisibile.
Fare da padre a Lilith.
Un mese prima le aveva detto che lei aveva il diritto di avere qualcuno che l’aiutasse a compiere le sue scelte, ma quando lei gli aveva chiesto se lui fosse stato disponibile, aveva rifiutato. E in quel momento, anche se solo su carta, doveva assumere quel ruolo. Si sentiva un ipocrita.
Ma non era finita lì, perché doveva fare da padre a Lilith assieme a Matej.
Se la prima parte lo faceva sentire ipocrita, la seconda lo scoraggiava. Matej era indubbiamente più calmo rispetto all’84, ma alla base c’era un carattere volubile come quello di Lilith. Per cui poteva aspettarsi tutto e il contrario di tutto: da un tran tran tranquillo a un campo di battaglia domestico a (forse peggio ancora) una sorta di alleanza tra quei due.
Pensando all’ultimo scenario, a Sikşaka scappò un gemito impercettibile. Sarebbe stato un futuro terrificante, quello.
Non che gli altri fossero meglio, a ben pensarci. Scavando in profondità fra le sue ragioni, emergeva che qualunque futuro, in realtà, sarebbe stato terribile.
Anzi no: non terribile ma insopportabile. Non voleva che qualcun altro pagasse per le sue scelte, ma ben tre persone – indipendentemente dai suoi desideri – erano già coinvolte. Ecco perché, a confronto, avrebbe preferito il carcere. Quanto meno, là dentro, sarebbe stato a tu per tu con il suo avversario.
E quella era una situazione che l’Ardito avrebbe saputo gestire.
* * * * * *
Ore 11:20
Nascondiglio di Lilith
 
«Cioè, no, fammi capire: d’ora in poi sarò la figlia di due omo
Lilith, avvolta da una nuvola di capelli scarmigliati, sedeva a gambe incrociate sulla poltrona. Sulla camicia da notte giaceva la lettera color avorio, causa del broncio sulla sua faccia. Di fronte a lei, su un’altra poltrona, sedeva Matej, per nulla turbato.
«Dimentichi zio Steds.»
«Fotte sega di “zio Steds”! Che cazzo di lampadina s’è accesa in quelle teste piene di merda?»
«Puoi sempre vederla nel suo aspetto reale: sarai la finta figlia di un ex razziatore e un poliziotto, che a sua volta ha un finto fratello poliziotto.»
«Che è un’idea imbecille. Dimmi te se devo ridurre la mia vita alla trama di una sitcom!»
Matej non riuscì a trattenere un sorriso sghembo. Gli piaceva la descrizione usata dalla ragazza.
«È vero. Ma la procedura è chiara su questo punto. Come giustifichiamo un nucleo simile? Non possiamo certo dire di essere sangue dello stesso sangue. L’unico tratto comune è la nostra razza. Per il resto..–»
«Sì, me l’hai detto.» lo fermò lei, svogliata. «Siamo tutti diversi, non potete cambiare Steds e non si può cambiare te. Non c’è un’altra soluzione che funziona.» ripeté. Poi incrociò le braccia e sbuffò. Si sentiva stanca. Si sentiva incerta, confusa, arrabbiata. E l’unica persona con cui voleva sfogarsi le era preclusa da quasi un mese.
Decise che protestare non sarebbe servito a nulla. Se avesse lasciato perdere almeno quel frangente, forse, si sarebbe sentita un po’ meglio.
Sciolse le braccia conserte, spostò i capelli dalla faccia e sospirò: «Senti, lascia perdere. Dimmi solo quando si parte.»
 
Matej le scoccò un’occhiata indagatrice. La terza, da quando era entrato.
La prima gliel’aveva lanciata quando aveva aperto la porta della sua camera e l’aveva trovata dormiente, con la sveglia che proiettava le ore 11:00 sul soffitto.
La seconda gliel’aveva scoccata pochi minuti dopo, quand’era diventato ovvio che quella mattina la luna fosse storta. L’agente Steds si era sporto in cucina per avvisare che sarebbe uscito a fare la spesa e lei gli aveva risposto con parole al vetriolo.
E poi quell’uscita. Dopo la fase acida, quella arrendevole.
Era quasi un mese che la vedeva praticamente tutti i giorni e, anche se non poteva dire di conoscerla da una vita, aveva capito abbastanza da giudicare anomala quella serie di comportamenti. Soprattutto il modo in cui si era rivoltata alla sua guardia del corpo.
Denzel Steds era stato scelto perché, tra i candidati, era quello col carattere più compatibile. E la scelta si era rivelata buona oltre ogni aspettativa: il giovane si era adattato perfettamente ai suoi modi burberi. Non la punzecchiava e lei, di risposta, si dimostrava rispettosa e quieta. Fino a quella mattina, almeno, quando l’aveva scorticato a parole per la frase “esco a fare la spesa”.
Decisamente, quel giorno c’era qualcosa che non andava.
Sapendo che gli approcci larghi raramente piacevano alla ragazza, si appoggiò coi gomiti sulle ginocchia e scandì senza giri di parole: «Cos’è successo? Non t’ho mai visto così nervosa.»
Nelle iridi di Lilith passò un lampo.
«Non t’interessa.» ripose a denti stretti.
«Se Denzel è coinvolto mi riguarda eccome.»
«Steds ha detto la cosa sbagliata al momento sbagliato. Lascia perdere, sono incazzata per fatti miei.»
«E cosa mai può averti fatto sbalestrare in questo modo, qui, in questa situazione?»
 
Lilith serrò le labbra. Si sentiva una funambola, in bilico sul vuoto. Fidarsi o non fidarsi? Aprirsi o trattenersi?
Era stato lui a farle passare quelle due orribili notti in cella, in balia delle onde tachys. Era stato lui a stenderla con un taser, la notte del casino in palestra, impedendole così di ottenere una giustizia soddisfacente. Eppure era stato lui, sempre quella notte, a non riderle in faccia quando gli aveva descritto la situazione. Ed era sempre lui a farle visita, quanto meno a giorni alterni, per tenerla aggiornata e farle un po’ di compagnia.
I fatti, sulla bilancia, si equilibravano perfettamente, per cui Matej non era né oggettivamente meritevole né oggettivamente immeritevole di sapere. Ciò significava che, raccontandogli cos’era successo, si sarebbe presa un rischio.
E quando lo saprà starà dalla parte di mio padre. Come tutti. Come sempre. – concluse.
Però c’era un però.
Lui aveva fiutato che qualcosa non andava per il verso giusto. Ed era qualcosa che riguardava gli sviluppi prossimi venturi della sua vita. E lui era un poliziotto – il che non era necessariamente un lato vantaggioso, ma era uno dei due agenti (se non addirittura quattro) con cui avrebbe dovuto convivere per qualche tempo.
A ben pensarci il suo cruccio doveva essere un altro, perché quello non lasciava più la questione sul piano “glielo dico / glielo nascondo”, ma la portava direttamente sul “quando glielo dico”.
 
La rabbia la invase come una vampa di calore. Strinse i denti per non imprecare a voce alta, altrimenti gliene sarebbe uscita una sfilza tale da suscitare invidia a uno scaricatore di porto.
Forza Lilly, meglio tu ora che qualcun altro poi. – tentò di convincersi, riuscendo però solo a creare un senso di dovere molto vago.
Lanciò un’occhiata furibonda a Matej, che – ancora chino in attesa delle sue parole – le apparve come una vecchia comare impicciona. Il vago senso di dovere si prosciugò all’istante. Per rispondergli Lilith dovette letteralmente fare violenza a se stessa.
«Ho parlato con mio padre. Una litigata. Pesa.» borbottò tra i denti.
Matej si fece più attento.
 
Dopo l’esplosione del pacco bomba, la polizia aveva contattato Aaron Hardeyns per informarlo dell’accaduto e dell’andamento. Da quel momento in poi, la prima volta che Lilith aveva potuto contattarlo a sua volta era stata il giorno del suo trasferimento al rifugio. Voleva solo chiarire meglio quello che i poliziotti gli avevano raccontato, voleva rassicurarlo e avere una sana chiacchierata chilometrica per sfogarsi. Purtroppo, però, il dialogo sin da subito si era trasformato in una serie di accuse: era ignorante, era stupida, era deficiente, era una disgrazia, era coinvolta coi criminali, era una criminale lei stessa, era solo una fonte di preoccupazioni, era la causa di mansioni perse e – quindi – dei mancati introiti che lui avrebbe dovuto sopportare. Lilith non era riuscita a concludere una singola frase senza essere interrotta. L’agente Steds l’aveva vista piegarsi su sé stessa un poco alla volta, e quando infine la chiamata si era conclusa l’aveva vista raggiungere la camera con la testa china e le movenze di un robot.
Dopo un’iniziale fase depressiva, durata qualche giorno, secondo i rapporti del collega la ragazza aveva parlato col padre altre tre volte, sempre per telefono. Nessuna delle chiamate era andata a buon fine (citando il poliziotto) «a causa di un’accentuata manifestazione di aggressività da parte della ragazza.»
E poi quella, l’ultima. Per la fatica che aveva fatto a sputare quelle poche parole, poco ma sicuro, non era stata più tranquilla delle precedenti.
 
«È di nuovo per..?»
La ragazza gli scoccò un’occhiataccia.
Sì, sempre per quello! – avrebbe voluto gridargli. – Ma fatti i cazzi tuoi che non sai niente di come sto! Non sai un cazzo della mia vita, del buco che ho dentro il petto, di come vorrei prendere a schiaffi quel genitore coglione che ho! Sta’ zitto e fa’ il tuo lavoro, e basta!
«Se vuoi parlarne...» si offrì lui, lasciando intendere il seguito. Gli occhi di Lilith lampeggiarono.
«No.»
Al poliziotto bastò la durezza del tono. Capì che la ragazza necessitava di tempo. Ci rifletté rapidamente e decise di averlo: di certo, qualunque cosa fosse, non poteva interferire con il trasferimento.
«D’accordo.» capitolò pacatamente.
Lilith fu colpita dall’assenza di delusione nella sua voce. Significava ch’era sinceramente partecipe...e lei l’aveva allontanato. Si morse un labbro e desiderò sparire in un buco.
* * * * * *
Era quasi mezzogiorno quando, dopo aver comunicato le novità all’agente Steds, Matej prese le sue cose e uscì dall’appartamento.
Stava per chiudere il portone quando la voce di Lilith lo raggiunse.
«Aspetta!»
L’anta fece dietro front e la faccia tondeggiante del lombax fece capolino.
Lilith, ferma in mezzo al corridoio, aveva l’espressione di chi aveva compiuto una scelta sofferta. In effetti – questo Matej non lo sapeva – la ragazza aveva appena concluso uno dei suoi dialoghi interiori. Era stata una decisione tutto sommato difficile, una dimostrazione forzata di una fiducia che non possedeva.
«Gli ho detto che voglio iscrivermi all’Accademia.» spiegò, coi pugni chiusi attorno della camicia da notte e le dita che torturavano la stoffa. «A mio padre, intendo. Gli ho detto che voglio diventare un soldato della Flotta.»
Matej sentì le dita sulla maniglia farsi di pietra. Sentì i pensieri farsi di ghiaccio e il battito accelerare.
Non ci credeva. Quella era la replica della sua vita.
Fece per rispondere, ma sentì la gola secca.
«E...» schiarì la voce per darsi un tono. «È stato per questo che avete litigato?»
La ragazza annuì. Il poliziotto si umettò brevemente e labbra, prima di rientrare in casa. Certe cose non si potevano dire con un portone aperto.
«Ne sei sicura?» domandò, fissandola negli occhi. «È una scelta ponderata bene o è dettata da questi litigi?»
La ragazza alzò il mento con fare orgoglioso. La sua convinzione non era mai stata ferrea come in quel momento. Perciò sostenne il suo sguardo e rispose: «Mio padre – quel maledetto coglione – ha solo messo la parola fine a un pensiero durato un mese.»
Il poliziotto annuì. «Allora vedrò cosa si può fare.»
Dopodiché, colto da un’idea improvvisa, frugò nella tasca e tirò fuori il suo chatter. Armeggiò qualche istante col retro, mise una sim in tasca e porse il resto alla ragazza.
«Prendilo.» disse. «E poi chiama l’utente col mio nome. È Sik.»
Lilith guardò il poliziotto con diffidenza. Cos’era quella, pietà?
«Ho avuto anch’io problemi col mio vecchio.» spiegò lui. «Sik, ai tempi, è stato una spalla insostituibile. Sono sicuro che ascolterà anche te.»
Lilith afferrò il vecchio modello e lo strinse con delicatezza. Passò lo sguardo dall’oggetto al suo proprietario e sentì la diffidenza svanire, soppiantata da un misto melmoso di imbarazzo e gratitudine.
«Gr-grazie...» balbettò, ai limiti del sussurro. «Ma tu?»
Matej fece spallucce. «Me ne daranno un altro.»
Dopodiché, con la scusa ch’era veramente tardi, lasciò la casa.
Non era certo di aver fatto la scelta più sensata. Era in trasferta e si era privato del mezzo di comunicazione: il suo superiore l’avrebbe mangiato vivo, poco ma sicuro. Tuttavia era sicuro di aver appena compiuto una buona azione.
Forse, per il morale della sua nuova protetta, la migliore possibile.
* * * * * *
Ore 14:45
Kyzil Plateau, settore centrale, studio legale Shinagan
 
Cary mostrava la sua solita faccia sicura, ma in realtà sentiva il fiato sul collo. Aveva preso contatto con i superiori ad Asteroid City, aveva organizzato incontri, presieduto alle riunioni, smistato gli ordini.
Nel suo studio, in quel momento, osservava le pratiche che lo riguardavano. Le aveva fatte ratificare per prudenza quando Dragan l’aveva assunto e mai come in quel momento fu felice della sua scelta. Perché il nemico era la Flotta, e con quella non si poteva scherzare molto.
Se mai un ufficiale avesse bussato alla sua porta, avrebbe trovato un uomo che aveva divorziato e rinunciato alla custodia del figlio anni prima. E, se mai avesse fatto presente che il resto della sua famiglia aveva vissuto sempre lì, lui avrebbe dimostrato senza alcun problema come il conto in banca della moglie fosse cronicamente in rosso e quanto lui fosse stato buono nel trasformare de facto il suo divorzio in una separazione.
Una volta slegato dalla moglie – che poteva tranquillamente affermare di non essere a conoscenza dei traffici del marito – rimaneva solo una questione da chiudere per rendere completa la farsa, e riguardava Cole.
 
Il ragazzo sedeva dall’altra parte della scrivania. Era raro che suo padre lo convocasse nello studio, e la telefonata che aveva ricevuto a scuola non gli aveva dato elementi per fare congetture. Perciò attendeva qualcosa, senza sapere bene cosa.
Pensò che l’argomento potesse nascondersi nel plico di fogli che suo padre stava leggendo. Poi, adocchiata la cartellina sottostante, pensò che quella dovesse essere una pratica di lavoro.
Pensò che la scuola potesse aver chiamato e recriminato per quel gabinetto che Evrard aveva lanciato dalla finestra, dritto sulla macchina del vicepreside. Però lui in quella storia non c’entrava nemmeno di striscio. Aveva ghignato, quello sì, ma non aveva preso parte all’operazione.
Pensò che dovesse essere qualcosa d’importante, anche se non riusciva a focalizzare cosa potesse essere.
Poi suo padre, finalmente, posò il plico e svelò il mistero.
«Ho ricevuto una comunicazione da Silver City. Gli Archers hanno revocato la borsa di studio in seguito alla tua bravata.»
Il giovane lombax avvertì un tuffo al petto. La sua carriera sportiva si era stroncata ancor prima di cominciare.
«Ma è stata meno di un cagata!» protestò. «Insomma, lo sai! È stato poco più di uno scherzo!»
Le sue parole non fecero presa su Cary, che proseguì come se non avesse detto nulla: «Ora come ora gli unici che non hanno ritirato la proposta sono i Kerwan 88/Knights. Se accetti, sono disposti a pagarti la retta all’università di Metropolis, purché tu segua un corso compatibile con gli allenamenti.»
Cole si rabbuiò. I Knights non erano la prima scelta. A dire il vero il loro scout non gli era piaciuto neanche un po’, con le sue parole secche e il suo tono saccente.
«Ho tempo per pensarci?» domandò.
Suo padre guardò l’orologio. «Dieci minuti. Lo scout mi telefonerà alle tre.»
E questo lo chiama “avere tempo”???
Cary lesse la frase nel suo sguardo. «La vita è anche prendere le decisioni senza poterci pensare adeguatamente. O accetti il rischio o lo rifuggi. Sta a te deciderlo.»
Cole incrociò le braccia. Conosceva quel discorso parola per parola, ormai. Però i Knights non erano la sua prima scelta. I suoi idoli erano i Boldan Archers, e avrebbe fatto carte false per far parte della loro squadra juniores.
Peccato che la possibilità fosse sfumata perché Lucky aveva chiamato la polizia, quella sera. Non si sarebbe giocato il suo futuro se lui (e Lilly e quel vecchio maledetto) non si fossero uniti per rovinarglielo.
Però – si disse – forse c’era modo per arrivarci con un’altra strada. Se avesse fatto carriera, infatti, avrebbe potuto pur sempre approdare da loro come professionista. Ecco, quella era una prospettiva che gli piaceva. Sarebbe entrato in quella squadra, che a loro piacesse o meno!
«Digli che accetto.» borbottò.
Cary annuì e mostrò un sorriso soddisfatto. «Bravo il mio ragazzo.»
 
Se tutto fosse andato come sperava, Cole e la madre sarebbero partiti presto per Kerwan. E, con la guerra con la Flotta che incombeva, il fatto che i suoi familiari non gli fossero tra i piedi non era altro che un vantaggio.

Un parto. Podalico. Plurigemellare. Ecco cos’è stato questo capitolo. Perché Lilly e Sik sono in fase Seghe Mentali. Perché Lilly ha problemi col suo vecchio e Sik non vuole farle da papà (e oggettivamente io autrice non lo biasimo). Perché tutti hanno le idee confuse da Queen e ho finito per confondermi anch’io durante la stesura del capitolo. E perché Cole si deve togliere da Veldin. Cole che, in questo capitolo, è diventato una spina nel piede anche per me perché non sapevo bene come piazzarlo.
Hah!
In ogni caso, eccoci qui. Dopo ben 6 versioni e 64 ore di lavoro solo su quest’ultima, ecco il capitolo. Spero che non abbia deluso (o, nel caso, non troppo).
Annuncio: osservate bene in fondo al tunnel e vedrete una luce. Il prossimo capitolo, infatti, sarà l’epilogo.
 
Alla prossima!

 

   
 
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