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Autore: Ignis_eye    02/02/2015    0 recensioni
Non esiste solo un mondo, ce ne sono parecchi, o meglio, ce ne sono tanti raggruppati in uno solo, dove gli umani trascorrono tranquillamente la loro esistenza e dove le creature magiche vivono in armonia e talvolta si fanno la guerra.
Gli esseri magici svolgono le loro faccende quasi con normalità, tenendole nascoste agli uomini, ma... che cosa succederebbe se un terribile segreto venisse rubato e due razze si scontrassero?
Genere: Guerra, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Come facciamo a scappare? Prima leviamo le tende e meglio è».
«Non lo so, Sefora, ma se fuggissimo ora che ci credono deboli forse potremmo farcela».
«Elsa, io posso usare poco i miei poteri. Tu riesci a trasformarti?».
Quella domanda la colse impreparata: non aveva ancora provato a tramutarsi in lupo.
Prese un profondo respiro, si concentrò, ma non riuscì a guidare la sua energia. Era la capsula di argento che aveva sottopelle che faceva impazzire il suo mana, un po’ come un pezzo di ferro destabilizza l’ago di una bussola se messo troppo vicino.
«Non ci riesco» disse sconfitta «non ce la faccio».
Un’espressione di preoccupazione fece corrugare la fronte di Sefora: se tutte e due erano messe così male, le possibilità di successo erano prossime allo zero.
Notando lo sconforto della licantropa, le accarezzò il viso contuso e la costrinse a guardarla negli occhi.
«Elsa, non mi importa se restiamo qui. Se con me ci sei tu, potrò sopportare la prigionia».
«No invece!» sbraitò Elsa «Basterà a te, ma non a me!».
Si alzò barcollando e puntandole contro il dito, sentendo delle fitte in tutto il corpo.
«Non voglio marcire qui dentro proprio ora che ti ho ritrovata! Non lo accetto! Lo faremo, che tu lo voglia o no!».
«Elsa, calmati» le disse preoccupata dal suo sguardo stralunato «Siediti, sei ferita».
Lei scosse la testa come per scacciare dei brutti pensieri o per fare chiarezza nella sua mente, ma le botte e la capsula d’argento l’avevano intontita.
Sefora si alzò dal pagliericcio su cui sedeva e l’abbracciò per calmarla, notando solo ora come fosse più calda del solito. Troppo calda.
Le prese il viso tra le mani: era bollente, molto più di prima.
«Elsa, sdraiati» insistette allarmata «Ti è salita la febbre, scotti».
«Sto bene» protestò l’altra.
«Bugiarda».
La costrinse a sdraiarsi sulla paglia e le spostò delle ciocche ribelli dal viso pallido sul quale risaltavano le macchie violacee delle percosse.
Strappò un lembo di stoffa dal lenzuolo che ricopriva la paglia, lo bagnò con dell’acqua contenuta in una brocca (unica caritatevole concessione dei mannari) e le tamponò il viso accaldato.
«E’ uno degli effetti dell’ argento luciferino: finché il tuo corpo non lo avrà completamente eliminato avrai la febbre».
«Tu come lo sai?».
«Il piombo liquido che mi hanno iniettato tempo fa mi fece lo stesso effetto».
«Questo vuol dire che non possiamo andarcene».
«Già».
All’ultimo commento di Sefora seguì il silenzio perché nessuna delle due sapeva cosa dire per migliorare la situazione.
Quanto ci sarebbe voluto prima che Elsa stesse di nuovo bene? Sefora non lo sapeva, potevano volerci alcune ore o molti giorni, non sapeva nulla di certo se non che quelle capsule di argento e piombo andavano rimosse il prima possibile.
Il pezzetto di metallo che aveva sotto lo scalpo non era lo stesso della sua armatura, forgiato secondo una tecnica precisa e con formule magiche, ma era comunissimo piombo.
Era come l’argento per i licantropi, ma per fortuna su di loro non aveva lo stesso effetto che il metallo prezioso aveva sugli uomini-lupo: poteva ancora usare i suoi poteri ma a costo di molta energia e in quel momento le sue riserve erano a secco. Doveva riposare, ne aveva assoluto bisogno, ma aveva paura che i mannari andassero a prenderla per entrare ancora nella sua mente.
Lei avrebbe fatto resistenza come tutte le volte, e come tutte le volte loro l’avrebbero sfinita bombardandola di incantesimi.
«Sefora» la distrasse la licantropa.
«Dimmi».
«Devi togliermi l’argento che ho sottopelle».
La cercatrice le tamponò la fronte con delicatezza cercando di non fare pressione sugli ematomi.
«Sì, appena starai meglio ci proverò».
«No, intendo che devi farlo adesso, subito».
«Cosa?» rispose sconvolta «Non posso farlo! Stai malissimo!».
Con uno scatto, Elsa la prese per un braccio e l’attirò verso di sé, sdraiandosela sopra e abbracciandola per impedirle di rialzarsi.
«Elsa, ma cosa fa-».
«Sefora» la interruppe con tono perentorio «io qui non ci resto un secondo di più, chiaro?».
«Ma Elsa…».
«Niente ma» soffiò con voce arrochita dalla febbre, sfidando il suo sguardo con occhi stralunati e rossi come dopo un lungo pianto.
«E come potrei toglierlo? Mi servirebbe una lama d’argento per ferirti, ricordi?».
A quell’affermazione la licantropa mollò la presa, stupita. L’aveva dimenticato.
«Elsa» sussurrò appoggiandole la testa sul petto «la capsula sotto la tua cute ti indebolisce ma non sei abbastanza vulnerabile. Mi dispiace, non posso fare niente. Al massimo solo tu puoi ferirti da sola per asportare la capsula».
Sefora sentì rilassarsi il corpo sotto di lei e una mano cominciò a passare lentamente tra i suoi capelli, mentre ascoltava il battito del cuore di Elsa che rallentava.
Quante volte la ragazza-lupo aveva benedetto la sua invulnerabilità?
“E adesso mi sta ostacolando”.
Non poteva nemmeno fare affidamento sull’intelligenza perché la mente le giocava brutti scherzi a causa della febbre come capogiri e piccoli vuoti di memoria.
“Come facciamo a scappare da qui? Potrei anche riuscire a togliere il pezzetto d’argento però dopo… che farei?”.
«Elsa, stai tranquilla per qualche ora».
«Ma a che servirebbe?» soffiò rabbiosa «Per colpa dell’argento il mio corpo non guarisce abbastanza velocemente. Anche un insignificante umano si rimetterebbe prima di me».
A quel punto, Sefora capì.
«Non sei inutile» le sussurrò a fior di labbra.
«Sì, invece».
La bocca della cercatrice si posò su quella della licantropa, sfiorandola appena. Sefora lambì le labbra sottili dell’altra con la lingua, percependone le piccole ferite dal sapore ferroso. Elsa approfondì il bacio e insinuò una mano tra i capelli castani della maga.
A differenza del primo, questo bacio fu lento e delicato, privo anche della più piccola punta di lussuria.
Quando le bocche si separarono, Sefora sussurrò qualcosa all’orecchio della licantropa:
«C’è qualcosa che puoi fare».
«Cosa?» domandò speranzosa.
«Puoi scoprire chi è il traditore». Si appoggiò sui gomiti per non schiacciare troppo il corpo ferito di Elsa e la guardò negli occhi.
«Ho ancora abbastanza energie per trasportarti nella dimensione onirica».
«E a cosa servirebbe? Non è detto che il traditore sia lì».
«Non è lo stesso sogno. Dovrai solo fare attenzione a tutte le cose che vedrai, sono segni che interpretati potranno darci una risposta».
Elsa sospirò: ogni volta che sognava la sua angoscia cresceva a dismisura, non era ansiosa di chiudere di nuovo gli occhi.
«Se riuscirai al primo colpo non dovrai farlo mai più» le ricordò la cercatrice «concentriamoci e possiamo farcela».
«Adesso?».
«Adesso».
Sefora scivolò via dal suo corpo dolorante e ferito; la fece sistemare come più preferiva e le chiuse delicatamente gli occhi con i  polpastrelli freddi.
«Rilassati e dormi, al resto ci penso io».
 
 

 
Elsa si trovò improvvisamente nel deserto, ma in un deserto tutt’altro che comune.
La sabbia che lo formava era fatta di granelli trasparenti come il vetro che, ammassati, davano l’idea di camminare su un’immensa distesa di neve asciutta.
Dalle dune biancastre svettavano verso il cielo imponenti montagne di cristallo che riflettevano la luce solare accecando la licantropa.
«C’è nessuno qui?».
La sua voce si disperse nell’immensità del deserto ma allo stesso tempo rimbombò come se lei si trovasse in un’enorme stanza.
“A quanto pare sono sola. Ma dove diavolo sono finita?”.
Quel paesaggio irreale la metteva a disagio, le faceva venire la pelle d’oca.
“E poi perché tutto questo vetro? La mia situazione è tutt’altro che trasparente” pensò con ironia.
Mosse alcuni passi senza sforzo, fortunatamente affrancata dal dolore delle percosse. La sabbia scricchiolò sotto le sue scarpe e vi entrò dentro fastidiosamente.
“Non scoprirò nulla. Qui non c’è niente”.
Scoraggiata, si sedette su un masso trasparente e freddo ma questo si ritirò sotto la sabbia scomparendo all’improvviso, così come molte altre piccole rocce.
“Hey ma… che sta succedendo?!”.
La sabbia cristallina si muoveva di sua spontanea volontà, attirata da chissà cosa alle sue spalle; i granelli rotolavano l’uno sull’altro sempre più velocemente ritirandosi sottoforma di grosse onde verso l’orizzonte.
Elsa faticava a tenersi in equilibrio sul manto biancastro e cadde nelle sabbie che sembravano volerla inghiottire. Si sentiva soffocare sotto il peso della massa  candida e quando credette di rimanere schiacciata, toccò qualcosa con i piedi e la sua discesa si bloccò. In pochi secondi, tutto il vetro polverizzato scomparve, lasciandola su una perfetta e uniforme distesa di cristallo.
Guardò in basso e restò non poco stupita: poggiava su una lastra spessa chissà quanti metri che, a giudicare dalla trasparenza, galleggiava nel vuoto. Da questo pavimento terso spuntavano le montagne che aveva visto prima, creando un angolo retto con il terreno.
Era tutto stranamente troppo spigoloso e geometrico.
«Chi è stato?» disse voltandosi di scatto «Chi va là?».
Aveva sentito qualcosa, come un sibilo, provenire dalla parte in cui si era ritirata la sabbia.
Che fosse un mostro?
Improvvisamente il cristallo si illuminò di rosso: il pavimento, le montagne, i massi: tutto emanava una misteriosa luce rossastra e una risata gutturale risuonò nell’aria.
«Chi sei?! Fatti vedere!» ringhiò sfidando l’essere «Vieni fuori!».
La risata si fece sempre più rumorosa e cattiva, così assordante che Elsa fu costretta a tapparsi le orecchie.
«Ti ho detto di mostrarti!» gridò furibonda, ma come risposta ottenne solo altre risa.
La luce crebbe d’intensità fino a far sembrare incandescente il cristallo, poi, lentamente, si affievolì e si concentrò in un’enorme montagna rendendola simile a una torcia.
Si avvicinò correndo e sferrò un pugno potentissimo con l’intenzione di distruggerla ma il suo attacco non ottenne effetti.
Colpì con calci e pugni la vetta rossastra ma questa resisteva e sembrava non sentire proprio la potenza dei colpi della licantropa.
«Vieni fuori, traditore! Fatti vedere!».
Quello era solo un sogno, qualunque cosa si nascondesse lì non aveva una volontà propria, era solo un’immagine creata dalla mente di Elsa, ma non ne voleva sapere di mostrarsi.
«Accidenti, è durissimo, non riesco a romperlo!».
Colpì il cristallo gigante con un ultimo calcio e improvvisamente la risata cessò.
«Allora, hai deciso di farti vedere in faccia sì o no?».
«Non ce n’è bisogno» sussurrò una voce profonda che rimbombò tra le montagne cristalline.
«Perché no?» domandò stizzita.
«Perché tu sai già che faccia ho».
«Mi prendi in giro?».
«Tutto questo lo ha creato la tua mente e se ciò è possibile, significa che tu già sai chi sono io».
«Esci di lì!» e vibrò un altro pugno al cristallo «Cazzo, di cos’è fatto, diamante?».
«Sì».
«Eh?».
La luce si affievolì alle estremità e si concentrò al centro dell’enorme blocco sottoforma di un nocciolo rosso e luminosissimo. Questo nucleo incandescente si rimpicciolì sempre di più fino a raggiungere dimensioni e fattezze umane; sotto gli occhi stupefatti di Elsa si crearono le braccia, le gambe, la testa… in pochi secondi un intero corpo vermiglio viveva dentro il diamante.
La figura venne ricoperta di pelle e l’unico rimasuglio della potente luce cremisi erano gli occhi, splendenti come gemme; privo di volto e connotati, l’umanoide riprese la sua macabra risata aumentando sempre di più il tono di voce, poi bruscamente si arrestò.
La guardò fisso, con un’espressione folle sul viso pallido.
«Elsa… sto venendo a ucciderti».
 
 

 
«Ahhh!».
«Elsa, che succede?!».
«Sono nei guai, anzi, sono nella merda!» urlò alzandosi in piedi.
«Elsa, stai ferma!».
La licantropa aveva dimenticato di essere ferita e credeva di poter avere ancora tutta la libertà di movimento della dimensione onirica e si era dovuta appoggiare alla parete per tenersi in piedi.
«Sefora, dobbiamo andarcene».
«Calmati» le disse incatenandola con lo sguardo «Prima devi dirmi cosa hai visto».
La licantropa si asciugò un rivolo di sudore che le colava dalla fronte a prese a raccontare di ciò che aveva visto in sogno.
«Ma non sei proprio riuscita a vederlo in volto?» domandò con ansia la cercatrice.
«Macché! Però so che sta venendo qui e so che mi vuole morta».
Non c’era più tempo ormai, dovevano scappare subito. Prima che la maga cercatrice potesse fermarla, Elsa si conficcò le unghie nello scalpo e con uno strattone recise la pelle sopra il frammento d’argento. Trattenne un ringhio gutturale e con le dita sporche di sangue afferrò il piccolo pezzo di metallo e lo gettò a terra con rabbia.
Dalla ferita irregolare gocciolava sangue nerastro, scurito dall’argento luciferino di cui era ricoperta la capsula.
Sefora le versò dell’acqua sullo squarcio accorgendosi con disgusto di poter vedere la calotta cranica messa a nudo dalle unghie di Elsa.
«Ma cosa hai fatto?!» la sgridò con le lacrime agli occhi «Guarda come ti sei ridotta!».
«Prima o poi avrei dovuto farlo comunque» boccheggiò.
Bruciava tantissimo a causa dei rimasugli di veleno e perdeva molto sangue, tuttavia dopo pochi minuti l’emorragia si fermò: l’argento e la tossina erano stati completamente asportati e il suo corpo riprese a guarire alla solita velocità.
La ragazza-lupo strappò un lembo di stoffa da un lenzuolo e si fasciò la testa aiutata da Sefora, stando attente a far combaciare per bene i lembi di pelle.
Una volta finito di sistemare la ferita, Sefora la abbracciò.
«Sefora, va tutto bene, non preoccuparti. Tra poco il dolore sarà passato».
«Lo so, ma mi sono un po’ spaventata: il tuo sangue era insolitamente nero e denso».
«Tutta colpa dell’argento, ma adesso sto già meglio, credimi».
In risposta ottenne un bacio sulle labbra, gradito mille volte più di qualunque parola. Infilò una mano tra i capelli della cercatrice per tenerla più vicina, come se questo fosse stato possibile.
La sua lingua sfiorò le labbra della maga, poi esplorò quella bocca sensuale con desiderio mentre la stringeva in un abbraccio bollente. Le loro lingue danzavano maliarde mentre i loro corpi anelavano a fondersi in uno solo; la temperatura della cella parve salire improvvisamente fino a scottare la loro pelle ma le ragazze la ignoravano, coscienti che l’unica cosa bollente in quella stanzetta fosse il loro sangue.
Tra le pareti risuonò un sospiro: Elsa aveva baciato il collo della cercatrice che aveva liberato un gemito di piacere e si era avvinghiata alle spalle della licantropa.
I loro cuori battevano all’unisono, i battiti sembravano rimbombare nella cella e nessuna delle due si sarebbe fermata se un abbraccio troppo zelante della cercatrice non avesse fatto male ad Elsa, ancora dolorante per le botte dei mannari.
«Aio» sussurrò la ragazza-lupo.
«Scusa! Non volevo!».
Sefora si sentì in colpa e i suoi occhi da cucciolo lo dimostravano: grandi e lucidi, quegli occhi verdi fecero dimenticare ad Elsa qualunque dolore.
«Tranquilla, non è niente» la rassicurò «tempo un giorno o due e sarò come nuova».
Le accarezzò la guancia pallida passando il pollice sulle labbra che si schiusero appena al suo tocco gentile.
«Sefora» soffiò a pochi centimetri dalle sue labbra «starei qui a baciarti in eterno ma dobbiamo andarcene prima che vengano a controllarci».
«Lo so. Sei ancora debole, però…».
«Quando apriranno di nuovo quella porta sarà per ammazzarci. Non abbiamo altra scelta».
«Va bene. Ti seguirò».
Detto questo le lasciò un bacio sulla mano.
«Andiamo».
 
 

 
«Dici che si accorgeranno della porta?».
«No, Sefora. Ho spaccato la serratura ma ho rimodellato il metallo per non farlo notare».
«Secondo me si vede».
«Beh, diciamo che lo noteranno solo una volta che ci saranno davanti».
Soddisfatta della risposta, la cercatrice fece strada all’altra lungo il corridoio sporco tanto quanto la cella.
Non c’era nessuno di guardia.
«Sefora, come mai non ci sono mannari?».
«Non lo so, ma anche quando venivano a prendermi il corridoio era vuoto».
«Forse non sono abbastanza».
«Probabile. Magari credevano ci fosse impossibile scappare».
Salirono lungo una scala in pietra dai gradini sbeccati e polverosi. Erano al buio più completo, ma la vista sovrumana di Elsa le aiutava a non inciampare.
Si muovevano silenziosamente per non allertare eventuali mannari nascosti ma in assenza di ogni altro rumore lo scricchiolio della terra che sporcava i pavimenti sembrava assordante.
Sefora, guidata da un fioco fascio di luce che penetrava da una fessura nel muro, portò Elsa in una stanza al pianterreno dove si accorsero che due mannari stavano parlando.
Si guardarono: e adesso?
La maga stupì l’altra tirando fuori dalla tasca la capsula d’argento che Elsa si era asportata. Con indice e pollice la modellò sino a farla diventare lunga, sottile e affilata.
La licantropa capì al volo: avrebbe potuto usare quella minuscola arma in argento, lunga poco più di cinque centimetri, per combattere i mannari che come lei erano vulnerabili a quel metallo prezioso.
“Ma come faccio? Se attacco loro gli altri mi sentiranno” pensò “Dobbiamo trovare il modo di scappare senza farci vedere”.
Sefora intuì a cosa stesse pensando e le indicò una porta davanti a loro. Distava solo tre metri, ma era pericoloso. Dovevano trovare un modo per distrarre le guardie per qualche secondo.
Mentre aspettavano, poterono ascoltare la conversazione tra i due mannari.
«Macché, il libro della ragazzina non l’hanno ancora preso… sembra non sia a casa sua».
«Allora avranno scoperto cosa contiene e lo hanno nascosto. Il Gran Maestro si sbagliava».
«Hey, parla piano» lo sgridò l’altro «se qualcuno ti sente, ti farà uccidere!».
L’uomo sbuffò sonoramente.
«Va a finire sempre così: non dire questo, non dire quello… sembra che per voi il Gran Maestro sia infallibile».
«Perché lo è» replicò l’altro mannaro «lui ha parlato con Belphegor».
«Figurati».
«Con te non si può proprio parlare!» si stizzì il più credente «spera solo che nessuno venga a sapere quello che hai detto riguardo il Gran Maestro».
L’altro scosse la testa e se ne andarono insieme, non accorgendosi che le due ragazze sgattaiolavano dentro la porta.
Si ritrovarono nella sala principale della rocca in cui le avevano imprigionate: cinque gradini separavano il pavimento dal piano rialzato dove un tempo qualche nobile riceveva i sudditi; una scala di pietra portava a delle stanze nell’ala da cui erano venute, ma nessuna andava sopra il salone in cui si trovavano, infatti, quella stanza era così grande e il soffitto così alto che da sola occupava due piani.
Il tetto era caduto in alcuni punti e quello che rimaneva era tutt’altro che solido; pietre e calcinacci riempivano il pavimento rendendo difficili spostamenti silenziosi. Sulle pareti si vedevano i segni delle infiltrazioni d’acqua, alcune erbacce crescevano tra le mattonelle in pietra grigia e il sole del tardo pomeriggio si insinuava in ogni fessura illuminando la sala.
Pure quella stanza sembrava deserta, ma l’udito finissimo della licantropa captò dei passi al primo piano: qualcuno si stava avvicinando alle scale e se non si fossero nascoste sarebbero state scoperte.
Vide un grosso pezzo di tetto o di muro e ci trascinò dietro anche Sefora, facendole gesto di non parlare.
«Quando arriverà il Gran Maestro?» chiese un uomo.
«Stanotte» rispose una donna.
Dal ritmo dei passi sembravano vampiri, non mannari. Si muovevano con troppa eleganza.
«Bene. Ti ha detto se ha trovato il libro della cercatrice?».
«No, non ha detto nulla. È stato molto… sintetico».
«Non ci mette mai a conoscenza dei suoi piani».
«E’ il Gran Maestro, se lo fa c’è un motivo».
«Certo, ma noi gli siamo fedeli» si lamentò l’uomo «Abbiamo fede in lui e in Belphegor».
«Appunto: la fede è credere in qualcosa anche se non puoi vederla».
«Sarà».
Dopo qualche secondi di silenzio il vampiro riprese:
«Se non ha trovato il libro dovremo interrogare ancora la cercatrice».
«Certo».
«Io direi di farlo subito, così il Gran Maestro non perderà tempo».
«Cominciamo quando il sole sarà completamente calato, sarà più facile per noi».
E se ne andarono passando per la porta da cui erano venute le due ragazze. Elsa guardò Sefora: i mannari e i vampiri stavano cercando il suo libro, ma perché? Lei stessa l’aveva letto e non c’erano informazioni particolari sul Gal-luni o su Belphegor.
Quando furono certe che non potessero più sentirle, sgusciarono fuori dal loro nascondiglio e si diressero verso la porta principale, crollata in gran parte.
In quello che una volta doveva essere un giardino non c’era nessuno, ma davanti a una breccia nel muro che circondava il castello c’era un mannaro.
Uno grosso.
“Cazzo. E ha pure l’elmo magico”.
Sefora la guardò e alzò le spalle come per dire: “Questo qui dobbiamo proprio affrontarlo”.
Elsa si grattò il mento, pensosa. Dovevano arrivare fino a lui senza farsi sentire e dovevano metterlo K.O. abbastanza velocemente da non fargli lanciare l’allarme.
Notò che Sefora stringeva ancora in mano quella specie di chiodo che aveva ricavato dalla capsula d’argento.
Se lo fece dare e, indicandole di restare nascosta dietro un muretto, uscì allo scoperto. Con velocità sorprendente anche per un mannaro, lanciò il chiodo verso l’uomo che non si accorse nemmeno che il dardo d’argento gli si era conficcato in fronte uccidendolo all’istante.
Il suo cadavere si accasciò silenziosamente contro il muro e non si mosse più.
Elsa si girò verso Sefora, aspettandosi uno sguardo di paura e rimprovero per aver ucciso una persona, seppur fosse un mannaro, ma sul suo volto delicato non vide altro che una smorfia di odio e compiacimento per aver visto morire uno dei suoi rapitori e aguzzini.
Era diversa da tutte le altre ragazze, Sefora. Si aspettava che l’avrebbe giudicata per questo, che l’avrebbe odiata, disprezzata, invece la cercatrice non aveva mosso un dito.
Elsa si sentì sollevata per questo, non avrebbe sopportato di perderla per la morte di uno schifosissimo lupo mannaro.
Scosse la testa per allontanare quei pensieri: dovevano scappare.
La prese per mano e corsero verso quello che una volta doveva essere il cancello; l’erba attutiva i loro passi svelti e nessuno dentro il castello si accorse della loro scomparsa.
Una volta davanti alla guardia, la tirarono su e la impostarono al muro, così se qualcuno avesse guardato fuori, avrebbe visto solo un mannaro molto annoiato che riposava appoggiandosi alla parte.
Gli occhi erano ancor aperti e l’elmo gli era scivolato sulla fronte nascondendo l’arma d’argento.
“Da morti non sembrano così cattivi, ma la puzza è sempre la stessa” pensò Elsa con cattiveria. Detestava i mannari, li odiava con tutta sé stessa, ma non lasciò spazio alla rabbia, prese Sefora per un braccio e corsero via senza mai guardarsi indietro.
 
 

 
Il sole stava per tramontare completamente, avevano poco tempo prima che i vampiri si accorgessero della loro fuga, sempre che non l’avessero già scoperto, ovviamente.
Correvano senza sosta da almeno due ore e non ce la facevano più: Elsa per le ferite non perfettamente rimarginate e Sefora per il frammento di piombo che aveva ancora sotto la pelle.
Il bosco le avrebbe nascoste per un po’, ma non sapevano dove fossero e questo rendeva tutto più difficile. Per quel che ne sapevano, potevano anche essere fuggite dalla parte opposta di Villanova.
«Elsa… p-per favore… fermiamoci» boccheggiò la cercatrice «non… non ce la faccio più».
«Va bene, facciamo… una pausa».
Stremate si accasciarono a terra. Respiravano affannosamente e avevano molta sete ma non sentivano scorrere ruscelli nelle vicinanze.
«Elsa» attirò l’attenzione la cercatrice «Tu per caso sai dove stiamo andando?».
L’altra si mise a sedere con il busto contro un albero.
«No, a dire il vero pensavo di farti la stessa domanda».
Sefora annuì: si erano perse.
«Credi che dovremmo procedere dritto?» domandò.
«No, magari dovremmo andare verso valle e trovare dei paesi. Poi prenderemo i mezzi pubblici e torneremo a Villanova».
«Ok».
Lentamente i loro cuori rallentarono e il respiro si fece più regolare.
«Sefora, perché non si sono accorti di noi? Intendo, come hanno fatto i vampiri a non sentire il nostro odore?».
«Beh, i nostri nasi si sono abituati e quindi non lo sentiamo, ma puzziamo da mannaro».
«Cosa?» domandò allarmata la licantropa.
«Beh, io sono rimasta lì per giorni in mezzo alla polvere, all’umidità e alla muffa, e ogni volta i mannari dovevano trascinarmi via per leggermi nel pensiero, quindi… mi hanno attaccato addosso il loro odore rivoltante».
Fece una pausa per prendere fiato, poi ricominciò.
«Per te il discorso è lo stesso: tu sei stata legata e imbavagliata con corde che  avevano preso dal castello e ti hanno portata di peso nella cella».
La licantropa si mostrò disgustata: non sopportava di portarsi dietro il fetore dei lupi mannari che l’avevano rapita e imprigionata.
«Che schifo» sussurrò digrignando i denti.
Quei cani rognosi puzzavano di carne rancida anche in forma umana, erano disgustosi.
“Meglio se non ci penso”.
«Sefora, a quest’ora ci staranno cercando, dobbiamo continuare a correre».
La ragazza acconsentì, seppur non molto contenta: era deperita a causa della prigionia e non poteva resistere ancora per molto.
«Prometto che tra qualche chilometro ci fermiamo e passiamo la notte in qualche caverna o sotto un albero, ma dobbiamo camminare il più possibile».
«Lo so, Elsa. Dai, andiamo».
Ripresero con la loro corsa ma dopo pochissimo Sefora non riusciva neanche più a camminare: il frammento di piombo le succhiava via l’energia, non poteva più andare avanti.
“Cazzo, non possiamo fermarci” pensò Elsa con agitazione “se lo facciamo siamo fottute”.
Concentrandosi sulla propria energia interiore, si trasformò in lupo: sentì bruciarle le ferite, un calore intenso le attraversò lo stomaco e il cuore e la testa cominciò a pulsare; trattenne un ululato che avrebbe attraversato tutto il bosco e avrebbe guidato i vampiri fino a loro.
“Forse non è stata un’idea magnifica, ma quel che è fatto è fatto”.
«Elsa, che stai facendo?».
«Sali in groppa» disse con voce roca, mostrando i denti aguzzi «così faremo prima».
Stando attenta a non toccare la ferita sulla schiena della lupa, Sefora si aggrappò alla sua pelliccia castana mentre correva a tutta velocità attraverso il bosco ormai completamente buio.
Saltava con grande agilità tra le rocce e le piante, correva senza perdere il ritmo e ad ogni passo mostrava tutta la sua forza.
Fece un balzo più alto degli altri ma invece di atterrare con eleganza come le altre volte, cadde rovinosamente a terra sbalzando Sefora a qualche metro di distanza.
«Elsa, stai bene?».
«State indietro!» ringhiò la ragazza lupo.
«Ma cosa…».
Con orrore, Sefora vide che le zampe della lupa erano legate con dei lacci metallici.
«Non vi avvicinate o vi ammazzo!» urlò Elsa con rabbia.
Mostrò i denti bianchi e affilati, letali, da cacciatrice. Ruggiva e ringhiava senza sosta, ma alle persone dal volto coperto che avanzavano verso di loro sembrava non  importare.





Angolo dell'autrice:
Innanzitutto, scusatemi per l'immenso ritardo nell'aggiornare questa storia. Mi dispiace di farvi aspettare sempre di più, spero non accada ancora.
Comunque, parlando della storia, è stato aggiunto un personaggio: il Gran Maestro. Chi è quest'uomo misterioso?
Segreto ;)




Ignis_eye
 
  
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