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Autore: FlyingBird_3    09/02/2015    5 recensioni
Berlino, 1938
La capitale tedesca è in fermento, viva più che mai grazie alle abili mani dei gerarchi nazisti; tra le sue strade però, le persone comuni svolgono la vita di tutti i giorni.
Tra queste vi è Gerda, una giovane ragazza berlinese amante della moda e della libertà; la sua routine quotidiana è scandita dal lavoro, da feste e chiacchiere con le amiche.
Tutto sembra perfetto finché un giorno, improvvisamente, fa la sua ricomparsa un’importante figura nella vita di Gerda: Andreas.
Andreas Lehmann è un ragazzo tutto d'un pezzo, reso una proiezione di sé stesso grazie ai tempi della dittatura; all’apparenza è freddo, distaccato dai rapporti umani, dedito solo al lavoro. Ma dietro la sua corazza, nasconde un passato di sofferenze e dolore che solo l’amore più sincero può guarire.
I due, amici dall'infanzia, si rincontreranno così dopo molti anni, scoprendo che non c'è via di fuga al loro destino.
Genere: Angst, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
Capitoli:
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23 Settembre, 1938
 
Sentii i passi leggeri di mia madre venire verso la mia stanza; il pavimento di legno scricchiolò un pochino quando si fermò davanti alla porta. Feci finta di essere ancora addormentata quando la aprì.
< < Gerda, è ora di alzarsi > >
La sua voce era un po’ troppo forte per essere svegliati dolcemente, e il modo in cui successivamente mi apriva le finestre, non era da meno.
Un venticello fresco entrò subito nella stanza, portando con sé l’odore dei fiori ancora freschi del giardino.
Vidi mia madre uscire dalla camera, lasciandomi il tempo di alzarmi e prepararmi per andare a lavoro: era ancora Settembre, quindi il distacco dalle coperte non era difficile.
Senza appoggiare i piedi a terra, presi le scarpe e me le infilai; andai a sciacquarmi il viso ed il petto con l’acqua fresca che avevo preparato la sera prima, e infine aprii l’armadio. Quel giorno scelsi un bel completo beige in cotone, comodo ma elegante: era venerdì, e come ogni venerdì sarei rimasta fuori dopo l’orario di lavoro per andare al bar con le mie colleghe.
Misi un velo di rossetto rosso mela sulle labbra, un tocco di nero sulle ciglia e abbastanza cipria per sistemare le imperfezioni della mattina.
Mentre mi guardavo allo specchio, mi fermai un attimo ad osservare la foto autografata di Marlene Dietrich, che mio padre mi aveva fatto miracolosamente trovare per il mio compleanno, tre anni prima.
È inutile, per quanto passi ore ed ore davanti a questo specchio, non sarò mai bella come te.
Le mie labbra erano troppo fini per essere dolci e piene come le sue; gli zigomi non erano abbastanza pronunciati, e il viso era troppo tondo per assomigliare a quello della diva.
Nonostante ciò, continuavo ostinatamente ad ispirarmi a lei per curare la mia persona; in quel periodo lavoravo in un elegante negozio di abbigliamento per donna, quindi la mia apparenza doveva essere curata nei minimi dettagli, se volevo che la clientela mi prendesse sul serio quando affermavo che una pelliccia di visone era molto più azzeccata di un semplice ed economico mantello di lana per l’inverno.
Tolsi la retina dai capelli, li ravvivai con un gesto e finalmente andai al piano di sotto per la colazione: scesi le scure scale di legno, facendo scorrere la mano sull’imponente corrimano di mogano, arrivando nella sala da pranzo. Trovai mio padre già seduto in cucina che sorseggiava il caffè, leggendo il giornale e ascoltando la radio, contemporaneamente. Si perché, ogni volta che si mangiava, i momenti di silenzio dovevano essere riempiti dalle notizie dell’ultima ora.
< < Gerda, prendi il pane finché è ancora caldo. Non puoi uscire anche oggi bevendo solo caffè > >
La mamma stava armeggiando con i mille utensili che papà le aveva comprato per la cucina; dopo che nacqui io, abbandonò la sua carriera di attrice di cabaret per prendersi cura della sua nuova famiglia.
I capelli corti e scuri non si muovevano di un millimetro mentre correva da una parte all’altra della cucina; e nonostante indossasse un vestito di buon mercato e un grembiule macchiato di caffè, ancora conservava quella eleganza magica che hanno di natura le attrici.
< < Mi hanno invitato ancora a quella conferenza, come l’anno scorso. Guarda ne parlano proprio qua. Non so ancora se andarci o no, sai Charlotte? Lo sai che odio stare in mezzo a troppa gente > >
Mia madre non smise di andare avanti e indietro per la cucina mentre mio padre le parlava: si era messa in testa che i fiori sul davanzale dovessero essere annaffiati a specifiche ore della giornata.
< < Caro, lo so bene. È per questo che ti trovavo sempre al bancone del bar quando venivi a vedermi > >
Lo vidi abbassare il giornale e successivamente la testa, osservando prima me e poi mia madre da sopra gli occhiali, in quel modo che mi faceva sempre sorridere.
< < Ti ho spiegato molte volte che ero là solo perché era il posto in cui ti vedevo meglio > >
Tornò a leggere il giornale, ed io, dopo aver aspettato che il latte si scaldasse, mi sedei a tavola spalmando della marmellata su una fetta di pane.
< < Certo, certo > > rispose intanto mia madre, sventolando una mano per aria come se fosse una cosa di poco conto.
< < Comunque, prima che mi dimentichi… Gerda, non fare troppo tardi stasera. Lo sai che dobbiamo andare a teatro, e per fortuna tuo padre ha trovato i biglietti per quello spettacolo. Dio solo sa la fortuna che abbiamo di uscire ogni tanto da questa casa > >
Prima che potessi rispondere, mio padre iniziò a parlare da dietro il giornale.
< < Non fare la vittima Charlotte. Ti ho portata al cinema lo scorso mese. Lo sai che sono stanco alla sera > >
Mia madre si fermò di colpo in mezzo alla stanza, ed in quel momento capii che era ora di andare.
< < Mamma, papà, io vado… > >
Finii in velocità il caffèlatte, alzandomi e sgattaiolando fuori dalla cucina, proprio mentre mia madre cominciava con le lamentele sul fatto che papà non la portava mai fuori la sera.
Mi avvicinai all’appendiabiti dell’ingresso e presi una giacca leggera, i guanti di cotone morbido nero, ed il mio cappello preferito, nero con un po’ di velo per coprire il viso.
Lo sistemai di traverso sul capo, combattendo con alcune ciocche di capelli che non ne volevano sapere di rimanere al loro posto; mi diedi, poi, un’ultima occhiata allo specchio vicino alle scale per controllare se tutto fosse in ordine.
< < Gerda? > >
Mio padre comparve dal nulla, facendomi sussultare.
< < Papà! Cosa c’è? > >
Lui si tolse gli occhiali dal naso, con fare un po’ sorpreso.
< < Mi chiedevo se devi vedere qualcuno di… particolare oggi > >
Lo guardai dubbiosa; perché gli era venuta in mente un’idea del genere?
< < No perché? > >
Lui alzò le spalle e le sopracciglia, guardandomi da capo a piedi.
< < Sei molto bella oggi. Tutto qua. > >
D’istinto sorrisi e lo abbracciai, e lo sentii darmi dei colpetti sulla schiena.
< < Grazie papà, ma non preoccuparti, non devo vedere nessuno… vado solo a lavoro. Saluta mamma, ci vediamo stasera > >
Aprii la porta prendendo al volo la borsetta e mi strinsi nella giacca, sentendomi più serena dopo quel complimento che avevo appena ricevuto.
Camminando lungo il marciapiede, vidi gli abitanti della mia via prepararsi per la nuova giornata lavorativa: anziane signore mettevano fuori casa bottiglie di latte vuote, pronte per essere riempite; padri di famiglie ricche scaldavano le macchine che li portavano a lavoro, e gente normale come me andava a prendere la metropolitana.
Adoravo quella parte di Berlino, la sentivo familiare non solo perché c’era casa mia, ma perché era la più verde e colorata. Splendidi edifici della fine dell’Ottocento riempivano la strada alla mia destra e sinistra, con rampicanti appesi alle facciate; vetrate rimandavano luci allegre all’interno di alcuni dei palazzi più aristocratici.
Gli alberi si piegarono un po’ alla brezza settembrina, e alcune foglie caddero davanti a me; quella mattina mi sentivo particolarmente allegra, e Karl, il collega che aspettava papà al bar della metropolitana, se ne doveva esser accorto, appena mi vide.
< < Signorina Pfeiffer! È splendida oggi! Qualche buona nuova? > >
Scossi la testa, e lo salutai educatamente con un cenno: dovevo muovermi se non volevo perdere la metro.
Scesi le scale che portavano sottoterra, e vidi la locomotiva che rombava sui binari; feci in fretta i pochi metri che ci separavano e presi finalmente posto, sistemandomi i capelli ed il trucco attraverso il portacipria a forma di conchiglia che la nonna mi regalò tempo prima.
Feci un profondo respiro e girai la testa verso il finestrino, ammirando lo spettacolo del giardino e degli alberi in autunno, attraverso i vetri della fermata di Schönberg.
Ripensai al complimento di papà, e poi al signor Karl. Fu lui a trovare il nuovo lavoro di papà.
Quando avevo diciassette anni, giusto un anno prima di riuscire a finire il liceo, mio padre perse il lavoro come banchiere alla Darmstätter und Nationalbank , ed io e mia madre dovemmo trovarci un’occupazione.
A fatica riuscii a finire la scuola superiore, passando da quella privata a quella pubblica, e contemporaneamente sgobbai come una domestica dal pomeriggio alla sera.
Ero sempre stata abituata ad una vita agiata: mia madre era riuscita a mettere via abbastanza soldi per contribuire alla nuova casa e mio padre, uomo molto benestante, ci ha sempre viziate in tutto e per tutto. Sembrava che nulla potesse rompere quell’idillio, invece non fu così.
Nei primi tempi fu davvero duro: non sapevo cosa volesse dire lavorare, e la sola cosa che mi impedì di non licenziarmi fu la minaccia della mancanza di un tozzo di pane a casa.
Passò circa un anno, nel quale mio padre non uscì di casa per la vergogna di farsi mantenere dalle donne della sua famiglia; poi mia madre incontrò un vecchio amico (Karl appunto), ed egli propose a mio padre un lavoro in una nuova banca. Non era un posto di prestigio come quello che aveva prima, ma di certo era meglio della situazione in cui stava vivendo.
Io non volli lasciare il lavoro per continuare a studiare: il fatto di guadagnare dei soldi e riuscire a metterli da parte per pagare le cose che volevo, mi dava un po’ alla testa. Mi sentivo indipendente e forte, quindi decisi di trovare un lavoro più consono a me: dopo aver lavorato in un panificio, una profumeria e come cameriera in un ristorante, finalmente trovai il posto giusto. Nella boutique di Madame Stephanie Chevalier per l’appunto.
Madame (io e le mie colleghe la chiamiamo così), un’elegante donna di origini francesi, sposò un commerciante tedesco, conosciuto in una cittadina vicino a Parigi. Trasferitasi a Berlino con il marito, aprì la boutique vicino ad Alexanderplatz, uno dei posti più frequentati della capitale; il negozio non era molto grande, ma comunque non potevo negare che Madame avesse buon gusto in fatto di arredamento e scelta dei capi.
Ci lavoravo da quasi un anno, insieme a Beth, una ragazza riccia e minuta di diciannove anni, e Jutte, una ragazza un po’ più grande di me, bionda e dal fare un po’ libertino.
Tutte e due le ragazze sono simpatiche a loro modo, e abbiamo trovato un equilibrio di lavoro nella boutique, sopportando insieme i giorni lunatici di Madame.
Alla fermata di FriedrichStrasse, la carrozza della metropolitana era talmente piena che dovetti trattenere il respiro per poter uscire dalla folla che si stava riversando sui binari; salii le scale di buona lena e arrivai ai tornelli dove mostrai il biglietto al bigliettaio.
Fui fuori in una manciata di minuti, mentre la boutique di Madame mi stava aspettando per una nuova giornata di lavoro.
Appena arrivai, vidi Beth spazzare il pavimento dell’entrata: era sempre lei che arrivava per prima alla mattina.
< < Buongiorno Gerda > > disse, in quel suo tono sempre dolce e pacato.
La salutai a mia volta, appoggiando i guanti, il cappello e la borsetta nel retro, dove trovai anche Jutte.
< < Oggi Madame arriverà un po’ in ritardo… > > disse quest’ultima, appena mi vide arrivare.
Ci scambiammo un’occhiata d’intesa: Madame era sempre in ritardo, per un motivo o per un altro.
Senza che dicessi niente, Jutte continuò il suo discorso.
< < Ha detto che doveva convincere una sua cara amica, moglie del console tedesco in Francia, a venire a provare la nuova collezione invernale… anche se personalmente non credo che accetterà. Ricordi l’anno scorso come è finita? Madame le aveva fatto vedere tutta la collezione, e alla fine non ha provato neanche un vestito. Secondo me ha comprato quel completo solo perché non voleva andare via senza comprare niente e dare un dispiacere a Madame. Tu che dici? > >
Mi avvicinai a Jutte, aiutandola a tirare fuori dagli scatoloni appena arrivati, i vestiti per la nuova stagione.
< < Anche secondo me. Qualche volta Madame è talmente insistente che se le dici di no, potrebbe prendersela veramente tanto > >
< < A proposito di prendersela… Beth! Ora che c’è Gerda puoi dirci questa “grande” notizia? > >
Mi girai verso Beth che stava chiudendo la porta d’entrata; il dolce campanellino risuonò all’interno, sovrastando sorprendentemente la confusione del centro città.
Mentre si avvicinava a noi, la vidi passarsi i palmi delle mani sulla gonna a tubo grigia, come se fosse nervosa.
< < Beh ecco, in verità avrei voluto aspettare fino a stasera per dirvelo… > >
Mi girai verso Jutte senza capire; lei continuava a fissare Beth con aria ovvia e un po’ annoiata.
< < Hasso mi ha chiesto di sposarlo > >
Rimasi a bocca aperta, e scommetto che lo stesso fece anche Jutte; ci lanciammo di scatto ad abbracciarla, a farle le congratulazioni e a tempestarla di domande.
Così, tra le chiacchiere delle mie colleghe e qualche cliente, passò un’altra giornata alla boutique.
  
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