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Autore: Sam Vega    10/02/2015    3 recensioni
Storia a quattro mani con SidRevo.
“No Excuses”. Nessuna scusa.
Scritto a caratteri cubitali e netti sopra lo stipite della porta. Un monito bianco su sfondo blu, a ricordare che, oltre quella soglia, nessun tipo di giustificazione è accettata. Non per una partita persa, un goal mancato, un passaggio sbagliato.
“No Excuses”. Un mantra che ogni giocatore deve ripetere nella propria testa, da seguire ciecamente ogni secondo trascorso a graffiare la lastra fredda sotto i propri pattini, e per cui abbassare la testa nell’assumersi le proprie responsabilità, senza sconti, come singolo e come squadra, per poi rialzarla e affrontare con orgoglio la successiva sfida.
Due semplici parole e una storia centenaria su cui cementano, fatta di vittorie e sconfitte, imprese al limite dell’impossibile, ed eroi che sfrecciano sul ghiaccio: esempi intoccabili, da ammirare e imitare; da ricordare con una nota nostalgica in bocca e il desiderio bruciante di raggiungerli, lassù sull’Olimpo degli sportivi.
“No Excuses”. Un significato che ti entra sotto la pelle e ti plasma da dentro e lega a filo doppio con chi condivide quel tuo stesso credo, in una squadra dove il logo sulla maglia è più importante del nome scritto sulla schiena.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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2nd Period. "Les Habs" 





Era trascorso parecchio tempo dall’ultima volta in cui la sua mente gli aveva riproposto immagini della sua terra natia. Ricordi perfetti, nitidi e mai svaniti, neanche smangiucchiati o scoloriti, come invece sarebbero state una sfilza di vecchie foto sciupate dal tempo.
Nella sua testa tutto era incredibilmente calibrato. Le luci candide e accecanti, e i giorni dove la neve scendeva copiosa a imbiancare ogni cosa e dove cielo e terra andavano ad abbracciarsi e confondersi sulla linea dell’orizzonte, i dettagli di quel grigio metallico che ornavano le strade spesso ricoperte da una patina di ghiaccio o i vicoli inghiottiti dall’ombra. I mesi di completa luce, con le notti bianche, e quelli invece in cui il sole non riusciva che a mostrare solo a fatica i propri raggi, regalando appena un lieve assaggio del suo caratteristico e giallo splendore.
Ricordava perfino le pieghe sfumate delle aurore boreali, che dal blu schiarivano fino all’azzurro più vivo, passando poi ad amalgamarsi con pennellate di verde, talvolta di rosso e di viola. Si stagliavano nel manto notturno come pezzi di soffice stoffa, nastri abbandonati a comporre gli strani archi di uno spettacolo ogni volta ammaliante e unico, anche per chi, come lui, aveva avuto la fortuna di considerarle care compagne nelle notti gelide dell’inverno.
La sua Russia era tutta lì, nel fondo dei suoi occhi, in ogni più piccolo e insignificante particolare, quasi li avesse appena aperti su quel panorama pallido.
Ben quattro anni si erano invece susseguiti dall’ultima volta in cui aveva messo piede in quell’enorme landa. Aveva persino ringraziato il cielo per quel piccolo infortunio di un paio d’anni prima, che gli aveva precluso i campionati Mondiali tenutesi proprio tra Mosca e Mytišči.
Non era stato poi così male: aveva finto un po’ quel dolore al ginocchio e si vergognava al solo pensiero della vigliaccata commessa, ma gli si strozzava il respiro anche solo a provare d’immaginare di farvi ritorno. Un grumo d’aria che si formava nei polmoni e sembrava squarciarglieli, dilagando a dismisura.
Eppure, paradossalmente, gli mancava.
In ogni fibra del suo essere, in ogni sua cellula, sentiva il richiamo di quel posto lontano miglia e miglia da Montréal.
Non era certo per la mancata visita alla capitale russa, anzi... quel posto lo aveva sempre disgustato. E non era neanche per Jaroslavl’, la città dove aveva vissuto per gli ultimi anni prima di approdare in America, e a cui doveva il suo primo, vero incontro con l’hockey e l’inizio di quell’amore che non l’aveva mai abbandonato.
Il suo pensiero volava invece ad Archangel’sk, la fredda cittadina che sorgeva in uno dei punti più a nord del mastodontico e vecchio territorio sovietico, così inospitale nei mesi invernali, quando la Dvina – il fiume che la attraversava nel cuore – rallentava la sua corsa verso il Mar Bianco fino a cristallizzarsi allo scorrere del tempo, tramutandosi in una lunga e sinuosa lingua di ghiaccio.
Era quella città che da sempre sentiva come “casa”, i cui bordi venivano inghiottiti da una natura ancora incontaminata, troppo simile ai luoghi incantati delle fiabe che lo avevano cullato da bambino.
Archangel’sk, fatta di colori sbiaditi, di rocce e ghiaccio a circondarla, e dove perfino il mare su cui si affacciava si trasformava in una vasta pianura bianca che si estendeva a perdita d’occhio verso il Polo.
Gli sembrava di sentirla ancora addosso quell’aria gelida, come se fosse ormai parte integrante del suo essere. Il freddo secco che soffiava e sembrava capace di trapassargli la pelle e le ossa, di trafiggerlo da parte a parte e invaderlo, per riempire anche lui di quelle cristalline stalattiti che ornavano ogni tetto ed ogni finestra, e rilucevano sotto i deboli fasci di luce.
Se si concentrava poi, poteva quasi udire i tipici suoni provenienti dal caotico porto: dalle voci dei marinai, agli ingranaggi metallici arrugginiti dalla salsedine che stridevano tra loro, e alle casse di legno ricolme, accatastate l’una sull’altra con schianti secchi.
L’odore di pesce fresco che andava ad amalgamarsi alla brezza marina e si spingeva con le nuvole nell’entroterra, come se il mare volesse abbracciare quella cittadina con i suoi profumi; come se, durante le sue abituali passeggiate lungo il molo a godere di quello spettacolo unico, quello stesso Mar Bianco che da sempre ammirava volesse portarlo via con sé e avvolgerlo nella stretta delle sue onde scure.
Archangel’sk era sempre lì, pronta a irrompere nella sua mente in ogni momento, a invadere i suoi sogni e lasciargli quell’ormai abituale sentore di nostalgia che lo afferrava e si annodava attorno al suo torace. Lo stritolava un po’, gli svuotava i polmoni e lo stomaco, gli gelava le ossa come le rigide temperature della sua città e poi, proprio come quelle, lentamente lo lasciava andare svanendo a poco a poco, per dargli un po’ di pace e lasciarlo a realtà più miti.
Archangel’sk non lo avrebbe mai abbandonato, così come non l’avrebbe fatto la struggente voglia di tornare a calpestare il malridotto asfalto crepato dal ghiaccio. Ma non lo abbandonavano neanche i suoi doveri, gli impegni presi e l’indomabile voglia di continuare a giocare a hockey, che l’aveva portato a sbarcare prima nella “terra di stelle e strisce”, poi in Canada.
E ora che era lì, in quella città enorme, moderna e viva, completamente diversa da quella natia che pareva essere costantemente aggrappata al passato, non poteva far altro che chiudere ancora una volta sul fondo della propria mente le sue origini e andare avanti.
Già, doveva farlo, anche quando avrebbe di gran lunga preferito scappare, gettandosi come un pazzo in mezzo al traffico. Proprio come in quel momento in cui, non appena le ruote della sua spider si erano fermate, attendendo l’apertura dei cancelli, una decina di flash erano sopraggiunti ad abbagliarlo, nonostante la protezione degli occhiali da sole.
Chiuse gli occhi e respirò a fondo, ripetendosi come un mantra che no, non poteva affatto farli volare tutti in aria come birilli, neanche quando si spalmavano letteralmente sul cofano perfettamente lucidato per ottenere uno scatto migliore. Per questo si limitò a stringere con più forza il pomello del cambio, per scaricare quella snervante frustrazione, e a far rombare il motore come monito a togliersi celermente di torno, prima che i suoi buoni propositi venissero meno e si decidesse ad asfaltarli tutti.
Per loro fortuna però, i giornalisti parvero intendere immediatamente e si scostarono di fretta – pur continuando a scattare con foga – e lo lasciarono sfilare via, badando a non oltrepassare i cancelli.
Al sicuro da fotocamere, telecamere e domande invadenti, Sergej si rilassò per un attimo sul sedile in pelle, respirando a fondo e mantenendo ben salde le mani sul volante.
Quella era decisamente una delle cose che odiava dell’hockey: cambiare squadra significava ricominciare tutto da capo, ma non per quanto riguardava rapporti o amicizie, piuttosto il contrario. Doveva nuovamente mettere in chiaro il suo essere restio a qualunque forma di cameratismo di squadra e pregare che nessuno dei suoi nuovi compagni fosse tanto insistente dal non volersi arrendere a una sua prima, gelida occhiata; doveva nuovamente sottolineare quanto non desiderasse affatto alcun tipo di noioso rapporto, se non quel minimo – purtroppo – indispensabile per poter giocare.
Voleva semplicemente essere lasciato in pace. Poteva comunque svolgere il suo ruolo anche senza patetiche cenette di squadra tra una partita e l’altra o qualunque altro programma avessero in mente. Nel momento in cui udì un incerto picchiettare sul finestrino laterale, cominciò però a intuire che forse non avrebbe avuto vita facile e che le sue speranze non sarebbero state immediatamente soddisfatte.
Nell’aprire gli occhi difatti, incrociò lo sguardo con quello che doveva essere un inserviente del campo d’allenamento: un uomo sulla sessantina, dai capelli appena sfumati di grigio sulle tempie e le rughe d’espressione piuttosto accennate, che lo fissava come se volesse sincerarsi che stesse bene. Fece quindi un cenno con la testa perché questo si scostasse e, seppur di malavoglia, sfilò le chiavi dal cruscotto e aprì la portiera.
Prima o poi avrebbe comunque dovuto affrontare quella tortura.

«Salve, signor Nevskij» lo salutò immediatamente questo, abbozzando un sorriso. Era più che evidente che una parte di lui provava qualcosa di molto simile al disagio nel trovarselo davanti, e non solo perché lo superava in altezza di almeno una spanna, «e benvenuto. Spero che quelli là fuori non l’abbiano importunata» commentò poi, riferendosi al gruppetto di giornalisti e fotografi che ancora non avevano abbandonato la loro postazione.

«Nessun problema» si limitò a sospirare in risposta, sforzandosi d’ignorare quel fastidioso “click” in lontananza.

«Venga, l’accompagno all’entrata» gli sorrise e non aspettò una risposta né un cenno da parte sua, prima di avviarsi.

Sergej si passò una mano tra i capelli, cercando di dare una parvenza di senso a quell’esplosione di ciuffi e, dopo essersi sincerato di aver chiuso la macchina, prese a seguirlo con passo blando, sperando che tutte le conversazioni che avrebbe dovuto sostenere dì lì in seguito si riducessero drasticamente al minimo. Niente di più sbagliato, ovviamente.

«Allora, signor Nevskij» esordì difatti l’uomo, voltandosi appena per guardarlo, «mi auguro si trovi bene qui. Montréal è una gran bella città, un po’ freddina d’inverno, ma per un russo non dovrebbe essere chissà quale novità» si lasciò andare a una breve risata e poi aggiunse: «Anche Boris... mi scusi, volevo dire il signor Volkov, è russo come lei ed è uno dei pochi che non si lamenta mai.»

Poi si voltò di nuovo, come se si aspettasse una risposta o un commento da lui, e Sergej cominciò a percepire l’imminente arrivo di un’emicrania che l’avrebbe tormentato per il resto del giorno.
Decise comunque di concedergli un altro cenno, affiancato da un mugugno scarsamente interpretabile, nella speranza che questo gettasse la spugna ma, per l’ennesima volta in pochi minuti, contò proprio sulla cosa sbagliata.

«Sa, questa è una squadra piuttosto affiatata. Sono più che certo che i ragazzi sapranno accoglierla e vedrà, fin da subito si sentirà come a casa.»

«Mh» fu il solo suono che uscì dalle labbra di Sergej e quasi sospirò di sollievo quando riuscì a vedere chiaramente la porta a vetro scorrevole dell’entrata. Tra sopportare il cicaleccio fastidioso e interminabile di quell’inserviente e il gettarsi in pasto alla marea di persone che se ne stavano lì davanti a fissarlo come un alieno, la seconda opzione risultava il male minore, e questo la diceva lunga sul livello di esasperazione a cui era arrivato.

«Be’, eccoci arrivati» commentò ancora l’ovvio il logorroico inserviente, rallentando di un poco il passo, quasi volesse trattenersi per qualche altro istante in quella conversazione privata, seppur fosse evidentemente a senso unico.

Sergej però, senza saperselo spiegare, rallentò con lui. In realtà non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quel tipo – di sbarazzarsi di tutti loro per poter tornarsene a casa – ma le sue gambe decisero per proprio conto di muoversi più lentamente e attendere quell’ultima frase sospesa su quelle labbra.
Restò a osservarlo attraverso le lenti scure a goccia dei suoi occhiali, finché questo gli rivolse uno strano sorriso, come se fosse appena diventato consapevole di qualcosa che a lui, evidentemente, sfuggiva.

«Buona fortuna, Serge» gli disse semplicemente infine.

Sergej aggrottò la fronte per quello strano nomignolo: la storpiatura del proprio nome, con una netta pronuncia francese, non gli era piaciuta affatto, come il resto di quell’uomo, d’altronde.
Non ebbe però il tempo di replicare – e comunque, in fin dei conti, non l’avrebbe neanche fatto – quando la voce entusiasta di un’altra persona arrivò a conquistare la sua attenzione: «Eccoti, finalmente! Eravamo tutti in trepidante attesa.»

Il tempo appena sufficiente perché i suoi occhi mettessero a fuoco l’occhialuta presenza di uno dei manager della squadra, Richard Green, che una sua fastidiosa pacca arrivò a schiantarsi su una delle sue spalle. Gesto che, ovviamente, si sarebbe ampiamente risparmiato.

«Scusate» si sforzò di rispondere, come se qualcuno gliele stesse strappando una a una, quelle lettere. Una fastidiosa pinza che martoriava la sua lingua a ogni suono emesso, «sono rimasto un po’ bloccato nel traffico.»

«Figurati, non preoccuparti» gli rispose questo, continuando a mantenere il proprio braccio a circondargli le spalle. «Vieni dentro. Meglio se le conoscenze le facciamo lontano da flash di cui non abbiamo proprio bisogno.»

Sergej chiuse nuovamente gli occhi, in quello che si poteva definire quasi un tic, un gesto incondizionato che eseguiva ogni volta in cui si trovava a fronteggiare situazioni poco gradite e doveva imporsi in qualche modo di restare calmo.

«Siamo tutti giocatori della National Hockey League» commentò poi lentamente, ben sapendo di avere gli occhi di tutti puntati addosso, «e so benissimo chi sono. Sarebbe un po’ improbabile il contrario. Non credo di aver bisogno di presentazioni.»

In realtà, non avrebbe voluto suonare così supponente, né usare proprio quelle parole. Il suo voleva essere un semplice appunto per far notare l’inutilità della cosa, soprattutto considerando che non sarebbe stato difficile per lui elencare il nome e cognome di ognuno di loro, con tanto di definizione del ruolo e che, per contro, nessuno lì presente avrebbe certo avuto bisogno di essere erudito sulle sue credenziali anagrafiche.
Semplicemente, quei pensieri gli erano sfuggiti senza che se ne rendesse conto, tramutandosi in parole. Spesso si ritrovava a dar la colpa di quegli inconvenienti al suo essere tanto restio all’intavolare una conversazione degna di tale nome, con un qualsivoglia soggetto pensante. Si divertiva quasi a supporre di aver disimparato a filtrare ciò che non poteva essere pronunciato... proprio lui poi, che per anni era stato attento anche a non fiatare troppo rumorosamente, per paura di infastidire qualcuno.

«Oh» sentì comunque pronunciare in replica, in un tono che non avrebbe saputo definire se “sconcertato” o “infastidito”. Forse un mix di entrambi. «Capisco, ma i ragazzi ci tenevano comunque a conoscerti. Sai, per rompere il ghiaccio.»

I suoi occhi a quel punto puntarono il nutrito gruppo rimasto a osservarlo e, passandoli su ognuno, con suo enorme sollievo, si rese immediatamente conto della venatura d’astio che era andata a formarsi negli sguardi della maggior parte dei presenti.
Alla fine dei conti, pur non essendo stata una mossa studiata o desiderata, non c’era voluta poi tutta la fatica che temeva perché capissero l’antifona; perché comprendessero che la sua permanenza in quella squadra dipendeva esclusivamente dal suo ruolo sul campo ghiacciato e nulla di più. Non gli importava affatto fare una buona impressione come persona, in fondo. Quel che contava era esclusivamente il risultato alla fine della partita e che il suo nome proseguisse nella sua scalata alla gloria, simpatico o meno che fosse.
Quando però arrivò a concludere quel sondaggio visivo, si rese conto di un paio di particolari che decisamente stonavano nello stato d’animo del gruppo. Fra tutte quelle occhiate decisamente infastidite, fintamente indifferenti o deluse, c’erano un paio di occhi limpidi e sicuri che lo fissavano con una chiara espressione di sfida, dall’alto della propria esperienza e saggezza.
Ørjan Bäckström – per tutti “Jan”, nonché suo nuovo capitano – continuava a osservarlo con l’accenno di un sorriso soddisfatto a piegargli le labbra, quasi si stesse trattenendo a sento dallo scoppiargli a ridere in faccia.
Se ne stava appoggiato al muro a braccia conserte, con quelle iridi cerulee e pungenti fisse su di lui. Lo guardava vagamente interessato, neanche fosse un animale nella gabbia di uno zoo, in attesa di qualcosa, di vederlo fare o borbottare altro, o forse, in attesa di vederlo esplodere come quella Supernova a cui l’avevano associato.
Come se non bastasse poi, di fianco a lui e parecchi centimetri più in basso, stava un ragazzetto moro, dai capelli decisamente più disordinati dei suoi e le pupille dilatate in un’inconfondibile, quasi esagerata ammirazione nei suoi confronti, come se non avesse minimamente udito la sua antipatica uscita.
Ecco, lui lo esaminava davvero neanche fosse una strana stella, così luminosa da non riuscire a interrompere quel suo inquietante scrutare in ogni minimo dettaglio, e tutta quell’immotivata stima non fece che metterlo più a disagio di quanto già non fosse.
Quello strano ragazzino rispondeva al nome di Kyle Jacques Delon e, nonostante i loro sguardi si stessero incrociando già da un pezzo e che probabilmente il suo arrivo in squadra gli avrebbe precluso un bel po’ di minuti sul campo, lui continuava ad ammirarlo con quell’inquietante purezza di chi vede per la prima volta, in carne e ossa, uno dei suoi idoli.
Sergej, per un attimo, si era sentito vacillare davanti a quella devota attenzione, posto di fronte allo scoglio di un esame che, già lo sapeva, avrebbe fallito nel disperato tentativo di superarlo.
Quando quegli occhi avessero finalmente visto e compreso cosa si celava sotto la letale eleganza e forza con cui le sue gambe si muovevano sul campo, quando l’impertinente curiosità che scaturiva da quello sguardo sarebbe arrivata a grattare con insistenza la superficie dietro cui proteggeva tutto se stesso e avrebbe scorto il marcio accumulato e dilagato nel fondo del suo essere, allora quella stima sarebbe sfumata via. La triste disillusione l’avrebbe sostituita e quegli occhi puri gli avrebbero rivolto solo un’occhiata carica di delusione e amarezza.
In fondo il suo naturale talento e il suo sconfinato amore per l’hockey erano sempre stati la sua croce e la sua salvezza. Gli davano la forza di restare ancorato con i piedi alla realtà, di resistere al tumore d’incubi e ricordi che lo mangiava da dentro, ma lo teneva anche costantemente al centro dell’accecante isola di luce emessa da quel faro chiamato “fama”. Lo costringeva a essere circondato da persone, a una convivenza forzata anche con sagome di cui non conosceva alcun tratto ma che, per contro, potevano scoprire qualsiasi cosa di lui e additarlo e condannarlo in ogni momento. Potevano innalzarlo tra quelle stelle a cui una parte di sé sentiva e voleva appartenere e, l’istante successivo, trasformarsi in nemici e boia di cui non sapeva assolutamente niente e lasciarlo schiantare giù, al suolo, con un botto tanto forte che gli avrebbe spezzato le ossa e da cui non sarebbe più riuscito a risollevarsi.
Mantenere le distanze da chiunque diventava allora una necessità, un compromesso per salvarsi dalla terra che tremava sotto i suoi piedi, in modo costante, per rammentargli in ogni momento che il piedistallo su cui si ergeva non era e non sarebbe mai stato abbastanza solido. Fare terra bruciata e impedire al resto del mondo di avvicinarlo era l’unico patto possibile per far sì che nessuno riuscisse a raggiungere quei brandelli infetti della sua anima.
Niente e nessuno sarebbe arrivato tanto a fondo dal riesumare fatti e memorie che dovevano restare sepolte. Niente e nessuno, tanto meno un paio di occhioni innocenti e densi di venerazione, a cui rivolse un’occhiata neanche poco celatamente ostile, prima di saturare i propri polmoni con un profondo respiro per far dissipare quel momentaneo, viscido panico da cui era stato avvolto, e ricomporre la gelida patina dietro cui da ormai troppo tempo era abituato a nascondersi.

«Ok» biascicò poi semplicemente, con un tono venato di una fatica che non era scaturita tanto dall’insofferenza del dover spendere il proprio tempo in quel contesto, ma dallo sforzo di mantenere impeccabile la propria preziosa facciata.
Quella sofferta risposta però sembrò bastare almeno per Richard che, dopo essersi sistemato gli occhiali con la punta dell’indice in un gesto che sapeva di tic nervoso, lo affiancò con un sorriso per scortarlo oltre le porte scorrevoli del Complexe Sportif Bell, seguito dal resto del gruppo.
 
 
******
 
 
Suo fratello l’avrebbe ucciso.
Non esisteva alcuna possibilità, né una misera scusa, che potesse dissuaderlo dall’usarlo come bersaglio umano.
Probabilmente l’avrebbe strangolato, oppure l’avrebbe finito a colpi di bastone per poi seppellire il suo cadavere nel retro dell’edificio, o magari l’avrebbe avvolto in un sacco nero, legato a un masso e gettato nel fiume di San Lorenzo, dove probabilmente nessuno l’avrebbe mai più ritrovato.
Insomma, di modus operandi per mandarlo all’altro mondo ne aveva tra cui scegliere. L’unica costante tra i vari scenari restava quindi la sua morte per quell’ennesimo ritardo che Wayne non gli avrebbe perdonato.
Era morto.
Imbottigliato nel traffico e morto.
Cole Dryden batté il palmo sul volante. Un colpo frustrato dopo aver lanciato un’altra occhiata all’orario sul display ed essere letteralmente sbiancato nel realizzare che il suo ritardo ammontava a una quarantina di minuti abbondanti.
Sbuffò e continuò a tamburellare con le dita, per la smania di trovare un modo per tirarsi fuori da quel macello, quando si decise ad afferrare il cellulare e tentare una chiamata al proprio capitano. Non che Jan potesse effettivamente fare qualcosa per toglierlo da quell’impiccio, ma aveva bisogno di inveire contro qualcuno, di urlare la sua agitazione e magari, nel frattempo, scoprire anche quante minacce di morte avesse già avanzato Wayne nei suoi confronti.
Avviò la chiamata ed esultò per un istante quando la stramaledettissima fila in cui si era andato a impilare si mosse un poco. Non mancavano che un centinaio di metri perché lui potesse finalmente raggiungere l’uscita e imboccare la strada che l’avrebbe condotto al campo, ma quella manciata d’asfalto sembrava non voler finire mai.
Ci sarebbe invecchiato su quell’autostrada, e anche se sarebbe stata comunque una sorte migliore di quella di affrontare l’ira di suo fratello, non avrebbe potuto immaginare una fine più indegna, triste e banale di quella.
Sbuffò annoiato e appoggiò la testa al finestrino, quando Jan si decise a rispondere: «Dove diavolo ti sei cacciato? Muoviti, che hai ancora qualche possibilità di salvezza.»

Cole aggrottò la fronte. «Eh? Non c’è ancora una taglia ad incombere sulla mia testa?»

«Tuo fratello non è ancora arrivato. Pare sia bloccato in autostrada perché deve esserci stato un incidente o qualcosa del genere» gli spiegò, facendogli tirare un enorme sospiro di sollievo. «Magari, se ti dai una mossa, possiamo anche provare a fingere che tu non sia in uno schifoso ritardo come al solito.»

«Sono incastrato in questo macello anch’io! Non è colpa mia!»

«Stando a te, non è mai colpa tua.»

«Ti sembra davvero questo il momento in cui rimbeccarmi?» grugnì in risposta. Non bastava Wayne a strigliarlo un giorno sì e l’altro pure. Perfino Jan pareva avere una predilezione per farlo. «Mi manca poco all’uscita. Se solo si decidessero a premere sull’acceleratore! Perché diavolo non mi sono comprato un elicottero?!»

«Perché hai paura di volare» fu la sarcastica risposta del suo capitano, «ed è il mio braccio che stritoli, o quello di Sean, ogni volta che dobbiamo prendere un aereo.»

«Ah-ah. Molto divertente, Cap» borbottò, ingranando la marcia per avanzare a passo d’uomo, quel tanto che gli era sufficiente per sopraggiungere all’agognata uscita per Brossard. «Piuttosto, parlando di cose serie, prime impressioni su Nevskij? È già arrivato, no?»

«Sì. Un ghiacciolo.»

Cole ridacchiò per quella sentenza tanto secca. Tutti sapevano che non sarebbe stato affatto facile, ma doveva ammettere che una minuscola parte di sé aveva sempre preferito restare su una previsione cautamente ottimistica.
I giornali, i commentatori, i bollettini delle precedenti stagioni non gli davano grandi motivazioni in cui sperare e a cui potersi aggrappare ma, come Jan, aveva prediletto la politica del “non giudicare”, o almeno di non farlo prima di trovarsi faccia a faccia con quel russo tanto chiacchierato. In fondo si augurava di riuscire a gettare una più o meno decente base per un futuro rapporto e poco importava che tutto il mondo dell’NHL avesse già dato per naufragato il loro tentativo.
Per questo, nell’udire quella risposta, non seppe davvero come incassare la notizia.
Jan non era certo il tipo da indorare la pillola ed era sempre stato piuttosto franco, senza tanti fronzoli e giri di parole ad abbellire le proprie opinioni, ma c’era anche da dire che quello era il loro primo “scontro” con la scorza dura di Nevskij, quindi non necessariamente si sarebbe rivelato un completo fiasco.

«È andata così male?»

«È sempre Sergej Nevskij, Cole» ribatté lui, e lo immaginò scrollare le ampie spalle, com’era solito fare quando non aveva una vera e propria risposta da dare. «Non è che le notizie arrivate finora sul suo conto fossero completamente inventate. Non potevamo aspettarci un abbraccio collettivo e un pianto di commozione, come per una vecchia e grande famigliola felice che si riunisce. Non contavo di andare a cogliere margherite per i campi a braccetto con lui.»

«Dio, che immagine disgustosa» mugolò con una smorfia schifata. «Gli altri che dicono?»

«Mah, niente di che. Non ho parlato con tutti, ma Xavier, Boris e Jayden la pensano esattamente come me. Non si aspettavano poi molto da questo primo incontro. Carter ha già iniziato a borbottare e ringhiare, Michael è troppo interessato ai suoi capelli per prestare attenzione e Kyle farà molto presto una brutta fine se non la pianta di starnazzare come una mocciosetta in preda a un attacco ormonale.»

Cole scoppiò a ridere nell’udire gli improperi che Jan aveva lanciato nei confronti dell’impertinente ragazzino del gruppo, già pregustandosi l’esaurimento nervoso che presto avrebbe colpito il capitano nel vano tentativo di placare quell’insana adorazione che Kyle pareva avere nei confronti del nuovo arrivato.
Era certo che gli avrebbe causato un bel po’ di guai, specie per la consapevolezza che avevano riguardo a Nevskij e alla sua, più volte esternata, reticenza nell’instaurare veri e propri rapporti con i suoi compagni di squadra.
In tutto ciò, c’era però anche il parere di un’altra persona che gli premeva conoscere, quella di un altro dei suoi migliori amici, nonché instancabile compagno di linea[i], che avrebbe dovuto condividere la propria presenza sul campo con quella decisamente ingombrante del russo.

«Impressioni dal nostro Revolver?» gli chiese difatti, chiamando Sean con quel soprannome che giornalisti e fan avevano adottato proprio dopo che lui stesso l’aveva battezzato in quel modo durante un’intervista, in seguito a quella che probabilmente era stata la sua migliore partita della stagione.

«Sean è preoccupato. Più di quanto pensassi, a dire il vero. Lo sai com’è. Lui è quello che più ne risente dell’umore e dello stato della squadra. Quando le cose non vanno non carbura.»

«Staremo a vedere» sospirò allora, con un po’ di rassegnazione.

Ciò che aveva detto Jan era vero: Sean si dimostrava estremamente emotivo, recettivo e vulnerabile verso i problemi all’interno della squadra. Sergej, per contro, sembrava non essere interessato a un bel niente. A una prima impressione pareva quindi impossibile trovare una valida combinazione per quelle due personalità, eppure non avevano altra scelta. Quei due avrebbero dovuto collaborare in un modo o nell’altro, e che gli piacesse o meno poco importava.
Come se non bastasse a rendere problematiche le cose poi, molto probabilmente sarebbe toccato a lui fare da tramite, stando in mezzo a quei due fuochi.
Un altro profondo sospiro si levò dalle sue labbra, come muto commento a quella consapevolezza che si era fatta strada nella sua testa, mentre i contorni dell’enorme edificio squadrato del Bell Sports Complex si facevano sempre più netti e visibili.

«Sono quasi ai cancelli» mormorò pertanto, avvistando il gruppo di giornalisti appostati all’esterno. «Ci vediamo dentro.»

«Muoviti, disastro» lo apostrofò invece Jan, prima di riagganciare e lasciarlo in balia di macchine fotografiche e microfoni ventolati davanti al parabrezza e ai finestrini.

Ci vollero una manciata di minuti perché i cancelli riuscissero ad aprirsi, e altrettanti ancora perché il suo SUV potesse avanzare e superarli senza investire nessuno. Oltrepassata quella “barriera umana”, Cole parcheggiò in malo modo il bestione scuro di cui andava tanto orgoglioso, occupando quelli che erano almeno due o tre posteggi, e si precipitò di corsa all’interno dell’edificio.
Superarne l’atrio e trovarlo così innaturalmente vuoto gli fece uno strano effetto. In genere quel posto era gremito di fan nei giorni in cui era loro concesso di assistere agli allenamenti della propria squadra, e altrettante erano le presenze quando il centro sportivo veniva semplicemente aperto al pubblico.
Quello però era un evento particolare, un incontro riservato a pochi, e Cole si rese immediatamente conto dell’atmosfera tesa che regnava fra quelle mura, nel momento in cui raggiunse l’ampio bar centrale dove si erano dati appuntamento.
Tutta la squadra era lì, assieme a qualche prospect[ii] e alla maggior parte dei dirigenti, ma tra tutti, una sola persona spiccava davvero.
Leggere di lui sui notiziari od osservarlo sugli highlights delle partite, vederlo dalla panchina a sfilare sulla lastra di ghiaccio e affrontare e scartare come se niente fosse un’altra linea della propria squadra – per quanto frustrante fosse – era un conto, trovarselo davanti in quella situazione, con tutta quell’inquietante aura che gli era stata cucita addosso a filo doppio negli anni, era decisamente un altro paio di maniche.
Sergej era di poco più basso di lui eppure, per il modo in cui lo stava fissando – impassibile e col mento lievemente sollevato – sembrava sovrastarlo come un’austera montagna.
Le voci poco elogianti che si rincorrevano sul suo conto gli parvero improvvisamente molto più reali, tangibili, soprattutto per quella sua chiara espressione di totale insofferenza, per altro ulteriormente accentuata dal modo in cui, con le mani affondate nelle tasche dei jeans, a malapena simulava interesse per la conversazione in cui Gerard Jodoin, assistente allenatore, e Martin Murreau, direttore dello sviluppo dei giocatori, cercavano inutilmente di coinvolgerlo. Nonostante le domande di cortesia che gli venivano rivolte difatti, il massimo che avevano ricevuto i due uomini erano stati un paio di cenni d’assenso col capo e qualche parola messa in fila per comporre la risposta più breve possibile. Lo sguardo del russo si posava svogliatamente sui loro volti solo quando sentiva nominare il proprio nome, ma finiva inevitabilmente per tornare sul grande orologio di metallo che ticchettava su una delle pareti del bar, come se sperasse che, fissando le lancette nere, il tempo potesse scorrere più velocemente liberandolo da quell’impegno così sgradito.
Nonostante tutto, Cole si decise comunque a raggiungere il trio e, posando le braccia sulle spalle dei due connazionali, rese noto il suo arrivo.

«Martin, Jerry, vedo che non avete perso tempo a tormentare il nuovo acquisto con le vostre strategie!»

«E io vedo come certe abitudini sono dure a morire» replicò l’assistente allenatore. «Tu, non dovevi essere qui quasi un’ora fa?»

«Se arrivassi puntuale non potrei più sorprenderti con le mie entrate trionfali! E si sa che, senza un po’ di sorpresa, la fiamma dell’amore si spegne» ammiccò sollevando le sopracciglia, per poi arricciare le labbra e fingersi seriamente intenzionato a valutare la cosa, «e poi, senza il tuo amore mi troverei a fare come minimo un centinaio di flessioni in più al giorno e…»

Un sonoro scappellotto gli impedì di completare la frase.

«Ahia! Non sapevo ti piacessero le cose violente! E comunque, calma, tigre, che mi stai facendo fare brutta figura» brontolò, rivolgendo un’occhiata di sfuggita verso Sergej che, per la prima volta da quando era arrivato, si era degnato di rivolgergli uno sguardo che durasse più di un paio di secondi scarsi. Approfittando di quella sua inusuale attenzione, gli porse la mano e disse: «Ad ogni modo, io sono Cole Dryden.»

«Lo so» rispose secco l’altro, squadrando quella mano tesa in modo indecifrabile prima di stringerla con scarsa convinzione. «Ci siamo scontrati la scorsa stagione.»

«Da avversari a probabili compagni di linea, allora!» esclamò Cole, tentando un nuovo approccio, a cui corrispose solo un freddo cenno d’assenso da parte dell’altro.

Spiazzato dall’assenza di una vera e propria risposta, si strofinò poi la mano sui corti capelli castani, gesto così abituale per lui, che i compagni di squadra lo rimarcavano sempre nel dilettarsi in qualche sua ridicola imitazione. Quello che gli altri non sapevano però, era che in realtà quel gesto altro non era che un modo per esorcizzare il nervosismo e l’insicurezza che si celava dietro alla sua perenne facciata spavalda.
A dispetto di quello che dicevano le malelingue infatti, condividere il DNA con una delle grandi leggende dell’hockey non l’aveva aiutato nella carriera, ma anzi, lo aveva sempre ostacolato. Qualsiasi sforzo da fare, per Cole doveva essere doppio, per convincere gli altri e se stesso di meritarsi quel posto, e di non essere lì solo in qualità di fratello minore di Wayne Dryden. Per questo motivo aveva sviluppato un carattere tenace e grintoso – fin troppo, secondo il parere di buona parte dei giornalisti sportivi – che sul campo si sfogava in una rissosità sempre in bilico tra la correttezza e il fallo, e fuori in battutine ironiche degne di un quindicenne con un’ostentata ricerca di attenzione.
Era sempre quindi troppo impegnato a camuffare la sua battaglia personale contro se stesso e il suo non essere mai abbastanza, perché qualcuno potesse davvero metterlo in soggezione, e, generalmente, le persone che riuscivano nell’impresa potevano essere contate sulle dita di una mano. Tuttavia, da cinque minuti a quella parte, Sergej era ufficialmente entrato in quel gruppo a pieno titolo, e non sembrava intenzionato a esserne escluso tanto facilmente.
Cole tentò comunque di ignorare quella fastidiosa sensazione, convincendosi che parte di quella freddezza fosse dovuta ai pregiudizi che erano stati instillati in lui dalle voci che giravano sul nuovo compagno di squadra, e ritentò un approccio che, secondo la sua bizzarra psicologia, sarebbe dovuto risultare amichevole: «Tra l’altro, scusa per quel pugno durante l’ultima partita. Ma sai come si dice, no? Prendi la boxe, aggiungi il ghiaccio e avrai l’hockey!»

Martin e Jerry ridacchiarono nervosamente, a differenza del nuovo arrivato che sembrò quasi non registrare la battuta, ancora impegnato a fissare imperterrito l’orologio. Cole però, aveva ormai preso il silenzio dell’altro come una sfida personale che solo la sua parlantina avrebbe potuto vincere, quindi proseguì: «Allora, come ti pare Montréal finora?»

«Stessi palazzoni che a Washington, solo più a nord» mormorò glaciale Sergej, evidentemente stanco di rispondere a una domanda che dovevano avergli fatto centinaia di volte. Probabilmente per lui le città nordamericane si assomigliavano tutte, e di certo non in maniera positiva. Grattacieli su grattacieli, e appena fuori, autostrade su autostrade. Dalla sua espressione era poi chiaro che confidava nel fatto che quella risposta secca lo avrebbe finalmente fatto tacere, non sapendo quanto in realtà Cole stesso sperasse nell’apparizione magica di una qualsiasi bevanda alcolica che gli avrebbe permesso di riprendersi da quella conversazione.

«Dryden!»

“Dio benedica l’abitante della terra di Narnia” pensò sollevato Cole, mentre si congedava velocemente dagli altri tre, e si affrettava a raggiungere l’artefice della propria salvezza nonché colui che rispondeva al nome di Jayden Price: osannato primo portiere dei Montréal Canadiens, dai riflessi portentosi, che non venivano dimostrati solo sul campo da gioco, ma anche lontano dal ghiaccio, sia nel dilettarsi in gare di shots a cui Cole lo sfidava che nello schivare abilmente i ceffoni che prontamente arrivavano da parte di esponenti del gentil sesso, ogni volta che, dopo le suddette gare, decideva di sfoggiare quelle che lui definiva “frasi dall’effetto assicurato”. A onor del vero, un effetto l’ottenevano sempre... peccato che questo fosse ben lontano da quello sperato.

«Tieni, mi sa che ti serve per scaldarti dopo il freddo che avrai preso a stare accanto a quel muro di ghiaccio» rise quello, porgendogli un bicchiere di vino. «Per poco non svenivi per ipotermia, e io non avrei saputo dove trovare un San Bernardo per recuperarti!»

«Cristo, faccio dialoghi più costruttivi con il vetro della mia doccia! E no» interruppe prontamente l’amico, «ogni riferimento a fatti che potrebbero essere avvenuti dopo un paio di mojito di troppo è puramente casuale. E sono ancora fermamente convinto del fatto che tu stia mentendo sul mio aver dichiarato amore alla mia doccia il mese scorso!»

«Qualsiasi cosa ti faccia preservare la tua dignità, amico! Tanto io so qual è la verità, considerando che è toccato a me riportare il tuo culo a casa.»

Jayden però non fece in tempo ad aggiungere altro, che il dorso della mano di Cole andò a sbattere contro il suo stomaco, lasciandolo momentaneamente senza fiato.

«Manesco come al solito?»

«Io invece ti sento un po’ cambiato! Messo su qualche chiletto? Il mio schiaffetto ha fatto un bello schiocco contro il tuo stomaco. Fa’ sentire qua quanta ciccia hai messo su!» esclamò in risposta, prendendo a pizzicotti il torso del povero Jay, che cercava contemporaneamente di difendersi dai suoi attacchi e di salvare il prezioso contenuto del proprio bicchiere.

«Io ti salvo in pieno stile principe azzurro a cavallo e tu mi ricompensi riempiendomi di lividi. Mi congratulo per la tua integrità ed etica sportiva, Dryden!»

Cole fece per rispondere a tono, come in ogni loro infinita diatriba, quando l’arrivo del tanto atteso allenatore li fece zittire all’istante. Wayne Dryden fece il suo ingresso nel bar, togliendosi gli occhiali da sole e rivolgendo un distratto cenno generale. Passò spavaldo in mezzo a lui e Jayden, tirando uno scappellotto sulla nuca di entrambi, e proseguì senza battere ciglio verso il resto del gruppo, salutando con vigorose strette di mano i dirigenti, e con amichevoli pacche sulle spalle un paio di giocatori e i suoi colleghi allenatori.

«Molto bene» prese allora la parola Marc Durant, il general manager che da anni ormai gestiva le fila dei Montréal Canadiens. «Visto che adesso ci siamo proprio tutti, penso che potremmo cominciare a parlare di cose serie.»

«E non si tratta di un aumento ai vostri stipendi» intervenne Richard, col risultato di ottenere scherzosi mugugni di disapprovazione e qualche risata.

«Be’ no. Direi proprio di no!» proseguì l’altro, scorrendo i suoi occhi chiari e gentili su tutti i componenti di quella squadra che aveva da sempre dimostrato di amare con tutto se stesso, fino ad arrivare a incrociare quelli apatici dell’ultimo, enigmatico arrivato.

«Vorrei innanzitutto rinnovare il mio benvenuto a Sergej, prezioso acquisto per la prossima stagione. Sono più che certo che la sua presenza apporterà un enorme contributo a questo gruppo già ben assortito e affiatato, e sono altrettanto convinto e fiducioso che troverà il proprio posto tra di voi.»

Gli rivolse un sorriso sincero, forse nella speranza di poterlo esortare a dire qualcosa, ma ottenne in risposta nient’altro che un ennesimo e sterile cenno con la testa, quasi gli costasse un’immensa fatica starsene lì impalato in mezzo ad altra gente.
Non che Cole si fosse aspettato grandi reazioni da quel – come l’aveva definito Jan – “ghiacciolo” russo, ma notare la sua insistente sociopatia e il fastidio che evidentemente provava nell’essere interpellato e messo al centro dell’attenzione, gli fece accendere un campanello d’allarme e l’irrefrenabile desiderio di afferrarlo per le spalle e dargli una sacrosanta scrollata, anche solo per sincerarsi che fosse almeno in grado di cambiare espressione.
In definitiva, quella era l’ennesima conferma che non sarebbe stato affatto facile interagire con quel tipo, ma Marc, probabilmente grazie alla sua esperienza nel trattare con giocatori di ogni tipo, glissò sull’atteggiamento di Sergej e proseguì con il suo “sproloquio”, come se nulla fosse.

«Non vorrei tediarvi a lungo con i soliti discorsi infiniti e filosofici. Sapete tutti quanto tenga a questa squadra, quanto vorrei mantenere alto l’onore di questo nome, che ormai da quasi cento anni fa parte del mondo dell’hockey. I Montréal Canadiens sono parte integrante della storia di questo sport, ma mi piacerebbe che questo non appartenesse solo al passato. Vorrei sinceramente che voi continuaste a scrivere quella storia, aggiungendovi quello per cui siamo tutti qui oggi. La gloria, la vittoria, i risultati...» si soffermò per un breve istante e, con un sospiro quasi sognante, sorrise, «... e perché no, anche una Stanley Cup[iii] che manca da Montréal da troppo tempo.»

Qualcuno dei presenti a quella dichiarazione annuì con veemenza, soprattutto tra quei giocatori più giovani che proprio non riuscivano a fare a meno di trattenere il fomento e l’entusiasmo dato dall’essere assieme ai componenti più importanti dei Canadiens, affamati com’erano di sogni, fama e discorsi motivanti come quello.
Cole sorrise di rimando a quell’innocente e genuino fervore che gli era a sua volta appartenuto quando era poco più di una matricola davanti a quel mondo di sfavillanti promesse. Un fervore che, in fondo al suo animo, ancora continuava ad alimentare il desiderio mai svanito di innalzare il premio più ambito.
Spostò poi lo sguardo sino a incontrare quelli altrettanto infervorati di Jayden e Kyle, che a stento si trattenevano dal mettersi a gridare, e quello calmo e sicuro dell’incrollabile capitano. Passò sull’espressione placidamente rilassata di Xavier, sul sorriso grintoso di Boris che lo affiancava, e su quello splendidamente genuino e solare di Sean, che sembrava sempre capace di trarre energia vitale dall’esaltazione delle persone.
Guardò a uno a uno i componenti di quella che davvero poteva definirsi una famiglia; compagni di quella che, per certi versi, poteva considerarsi una vera e propria scalata alla gloria. Un’unica nota stonata alla fine, l’elemento che si differenziava in modo netto dal resto, il gelo totale che pervadeva gli occhi di Sergej Nevskij.

«Non sarà facile» riprese poi all’improvviso il manager, e quelle parole lo riportarono alla realtà, facendolo scrollare e dissuadendolo ancora una volta dalla voglia di sbatacchiare il suo nuovo compagno. «Non lo è mai, ma, come ogni stagione, punto tutto su di voi. Sono certo che ve la saprete cavare. Ho piena fiducia nelle vostre capacità e so che non mi deluderete» si soffermò ancora una volta, allargando le braccia con un sospiro, e infine aggiunse: «Sono davvero fiero di voi, ragazzi. So che anche l’anno scorso ci avete messo il cuore, l’anima, la mente...»

«Le ossa» mormorò Jayden in un sussurro all’orecchio di Cole, ma tornò immediatamente al suo posto, immobile come un soldatino, quando si rese conto che Wayne lo stava fissando con un’aria che non prometteva nulla di buono.

«... e che avete combattuto a testa alta in ogni partita, facendovi onore...»

«Avrei giusto un paio di partite con cui contestare questo discorso. Tipo quella volta in cui...»

«Jayden» sibilò l’allenatore, in un tono decisamente poco amichevole, e lui tornò a tramutarsi in una perfetta statua di sale. Una versione anche migliore di quella offerta da Nevskij.

«Insomma, che dirvi di più, ragazzi? Ancora una volta sono felice di avervi in questa squadra. E sono ancora più orgoglioso di avere qui al mio fianco la leggenda dell’hockey, un uomo che, sono certo, saprà finalmente condurvi alla gloria che meritate.»

Terminato il suo discorso, il general manager annuì con convinzione per le sue stesse parole, lasciando stampata sulla faccia dei presenti un’espressione un po’ confusa, prima di voltarsi verso l’allenatore ed esortarlo a parlare.

«Wow» commentò Wayne, prendendo la parola con un po’ d’incertezza. «Marc, direi che Leonida dovrebbe venire a lezione da te, su come fare un’arringa alle truppe! Ma vi prego di trattenere i vostri spiriti battaglieri per qualche minuto, evitando magari di saltare sul bancone urlando 'Questa è Montréal'!»

A quelle parole, nella sala si levò un coro di risate, sovrastate dal disperato lamento di Kyle, che non si perdonava il non aver pensato prima a quella geniale citazione.
«Farò il più in fretta possibile» proseguì quindi il coach mentre si spegnevano gli ultimi accenni di risa, «perché so che state tutti scalpitando per andarvene, visto che vedrete questo posto abbastanza durante la stagione. Pertanto vi dirò solo che mi dispiace per voi, ma non l’avete scampata neanche quest’anno. Sarete di nuovo alle mie direttive e sono sicuro che qualcuno se ne pentirà. Soprattutto chi arriverà in ritardo

Pronunciò questa ultima frase volgendo lo sguardo a Jayden e Cole stesso che, resisi conto dell’attenzione rivolta a loro, si scambiarono occhiate fintamente sbalordite.

«Perché guarda noi, coach?» chiese con sguardo innocente Price.

«Infatti, non capisco questa insinuazione. Ero qua puntuale oggi… io!» continuò lui, il secondo chiamato in causa da quella poco amichevole occhiata.

«Se proprio devi mentire, abbi almeno un po’ di astuzia nel coprire le tue tracce, Cole» rispose, sospirando con esasperazione, Wayne. «Parcheggeresti il tuo prezioso catamarano in quel modo solo se si trattasse di una questione di vita o di morte!»

«Dannazione!» esclamò l’altro in risposta, tra le risate degli altri presenti, mentre Jayden cercava di consolarlo con una cameratesca pacca sulle spalle.

«Ad ogni modo» riprese suo fratello, tornando a rivolgersi anche al resto dei presenti, «concordo con Marc nel dire che non ho dubbi sul fatto che andrete tutti d’accordo. Anche perché, in caso contrario, so per certo che René apprezzerebbe una mano nel pulire gli spogliatoi dopo il vostro passaggio. Quindi, bando alle ciance, divertitevi stasera finché siete in tempo, perché ho in mente grandi progetti per voi. Grazie!» concluse infine, congedando i giocatori, che si espressero in una breve ovazione.

Ancora intento ad applaudire, Cole notò come a quelle parole Sergej avesse finalmente mostrato un’espressione diversa rispetto a quella mantenuta lungo tutto l’incontro. Sembrava quasi avesse un mostro alle calcagna per quanto in fretta si era staccato dal muro a cui si era appoggiato in precedenza, troppo svogliato persino per reggersi in piedi senza sostegno alcuno. Con un passo spedito, più simile a una vera e propria fuga, aveva poi raggiunto la metà della sala, quando una mano si era protesa ad afferrare il suo braccio, bloccandolo.

«Sergej, potresti restare un attimo? Vorrei scambiare due parole con te» gli si rivolse con un sorriso cordiale Wayne. «Sbrigo solo un paio di faccende con coloro che ci mettono i soldi per mandare avanti la baracca. Tra mezz’ora nel mio ufficio?»

Nell’udire quelle parole, Cole non riuscì a trattenere un sorriso sornione. Sapeva bene quanto quello sguardo amichevole da parte di suo fratello potesse invece nascondere molto di più.
La Supernova e le sue maniere avevano trovato pane per i loro denti.
E non gli sarebbe affatto piaciuto.


 
[i] “Linea” sta per “linea d’attacco”. Nell’Hockey, in base alle necessità durante le partite, alle strategie, ma soprattutto all’affiatamento dimostrato, i vari giocatori vengono divisi in quattro gruppi di tre componenti ciascuno, due ali e un centrale. Si formano così quattro linee: prima, seconda, terza e quarta, ovviamente in ordine di importanza per prestazioni e per la quantità di tempo in cui dovranno restare in campo. Generalmente, la prima linea è quella che ottiene più “ice-time”, ovvero più minuti da giocare dei sessanta totali, ed è generalmente composta dagli attaccanti migliori.
[ii] I prospect sono giocatori delle leghe junior o universitarie che vengono selezionati dalle squadre durante gli NHL Entry Drafts. Quando vengono selezionati, i loro diritti passano alla squadra che li ha scelti, anche se non necessariamente giocano per quel club immediatamente, in quanto possono essere comunque mandati in altre leghe o alla squadra AHL (American Hockey League) affiliata. In parole povere, sono quelli che probabilmente diventeranno futuri giocatori di quella squadra.
[iii] La “Stanley Cup” è il trofeo della NHL vinto ogni anno dalla squadra vincitrice dei playoffs. È uno dei trofei sportivi più ambiti, visto che particolarmente difficile da vincere data la struttura del campionato.
 
 





 

Ok, lo sappiamo.

A chiunque sia abbastanza coraggioso da seguire questa storia, dobbiamo già chiedere perdono per il ritardo che abbiamo avuto nel pubblicare questo secondo capitolo.

A nostra discolpa possiamo dire che avevamo preventivato di pubblicare un capitolo ogni due settimane, perché siamo abbastanza incasinate, e volevamo abbastanza tempo per fare tutto e sistemare e modificare giusto quelle settordici volte ogni singolo paragrafo. L’infinita dannazione di essere due petulanti puntigliose. 

Nonostante ciò però, abbiamo appurato che il Dio dell’Hockey probabilmente ci odia, perché esattamente un paio di giorni dopo la pubblicazione del primo capitolo una delle due ha ricevuto la definitiva conferma di aver trovato un lavoro, l’altra è stata gentilmente sommersa da altre consegne per l’università, come se non ci fossero già abbastanza impedimenti.

Ecco spiegato il perché di queste tre settimane d’attesa. Motivo per cui, ci teniamo fin da ora a specificare che gli aggiornamenti varieranno tra le due alle tre settimane.

Detto questo, siamo abbastanza dispiaciute se qualcuno di voi aveva avanzato speranze su una storia almeno seria. In realtà, era partita pressoché come tale, poi sono nati Cole e Jayden e… be’, ecco, come avete già potuto constatare da queste righe su di loro, non sono esattamente l’apoteosi della serietà. Diciamo pure che la loro missione principale è rovinare ogni momento di serietà, tranne sporadiche e disagiate occasioni. 

Almeno non vi verrà la depressione per colpa di quel concentrato di sociopatia che è Sergej!

Stupidaggini a parte, desolate di comunicarvi che i personaggi non sono finiti, perciò posteremo presto – sia qui, in qualche modo, che sul gruppo di Facebook: QUI  – una lista di personaggi, con caratteristiche e una loro mini descrizione, tanto per non farvi perdere ogni 3x2 su chi è imparentato con chi, chi gioca o giocava con chi e chi proviene da dove e blablabla…

Nel caso in cui ci sia tra voi qualche appassionato di hockey, credo che parecchi nomi risultino in qualche modo familiare. In effetti, questa storia è nata come una sorta di tributo. 

Grazie a chiunque ha avuto il coraggio di arrivare fin qui e non mollare a metà capitolo per colpa degli istinti omicidi verso il carciofo.

Sam e Sid 



 


 
 
   
 
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