ANGOLO
AUTRICE (scrivo ora almeno poi vi lascio alla
lettura e non rompo più)
Ritorno
sul fandom di Saint Seiya con una
ff dedicata al cavaliere d’oro del mio segno. È
una storia nata all’improvviso,
dopo aver visto oggi, per l’ennesima volta ma finalmente con
i sottotitoli in
italiano, l’episodio in cui Albafica muore. Sapete che stanno
trasmettendo
tutto The Lost Canvas sul canale Man-ga di Sky e che lo potete trovare
anche
sul canale youtube della Yamato?
Comunque, ho voluto scrivere questa ff in
onore di questo cavaliere che ho amato fin da quando sono venuta a
conoscenza
di The Lost Canvas. Ho cercato di stare il più possibile
nell’IC, se sono
sconfinata nell’OC perdonatemi. Non ho ancora letto il manga
quindi non so come
sia il carattere di Albafica lì.
Personalmente preferisco molto di più lui
che Aphrodite, soprattutto l’Aphrodite della scalata alle
dodici case, quello
della serie Hades è un altro paio di maniche, come si dice
comunemente. Non so
esattamente per quale motivo abbia iniziato a odiarlo da bambina, forse
la voce
che non mi è mai piaciuta molto, non lo so.
Lasciate
una recensione se vi va, a me
farebbe piacere sapere cosa ne pensate.
QUANDO
LA ROSA OGNI SUO FOGLIA SPANDE – PISCES NO ALBAFICA
Quando
la rosa ogni suo foglia spande,
quando
è più bella, quando è più
gradita,
allora
è buona a mettere in ghirlande,
prima
che suo bellezza sia fuggita.
Sì
che, fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn
la bella rosa del giardino.
Angelo
Poliziano, I’ mi trovai, fanciulle,
un
bel mattino[1]
Non
ricordo giorno,
da quando giunsi alla casa dei Pesci, senza vedere queste rose. Rose
bianche,
rose rosse e qua e là, come a ricordare che
l’ombra è sempre presente e mai
sconfitta, delle rose nere, il
fiore più
raro del giardino.
Il mio maestro mi
portò qui che ero appena nato e mi crebbe come figlio suo,
allenandomi giorno
dopo giorno.
Tuttavia, finché non
fui abbastanza grande, mi fu sempre vietato entrare nel giardino della
casa. Lo
osservavo a lungo chiedendomi cosa ci potesse essere di pericolo in
quel luogo
da essere interdetto alla mia persona. All’epoca non sapevo
ancora il pericolo
che celavano i fiori in esso contenuti, i miei occhi di bambino lo
vedevano
solo come un posto in cui mi sarei potuto distrarre dagli allenamenti
quotidiani.
A sedici anni mi
ritrovai nuovamente da solo. Dopo avermi spiegato la reale natura dei
miei
allenamenti, il mio maestro mi disse che era giunto il momento che io
prendessi
il suo posto come custode della dodicesima casa dello zodiaco. Per fare
ciò ci
saremmo dovuti scambiare il sangue. Mi disse che le rose del giardino
erano
velenose e che servivano a proteggere il Santuario ma, soprattutto, la
dea
Atena e che, in caso di pericolo, avrei dovuto stendere una distesa di
rose rosse
sulla scalinata tra noi e le stanze della nostra dea. La Demon Rose
avrebbe
impedito a qualsiasi nemico di arrivare a lei anche quando tutti i
cavalieri
ormai non erano più in grado di schierarsi a sua difesa.
Passato il momento
delle spiegazioni compimmo il rito.
Non ricordo con
chiarezza quanto tempo impiegammo, ma nella mia mente è
impresso a fuoco il
cambiamento nella postura del mio maestro e nel suo volto. Rammento
che, ormai
quasi allo stremo delle forze, quando il suo sangue era quasi tutto in
me, si accasciò
tra le mie braccia.
«Sarai un grande
cavaliere, Albafica dei Pesci, custode della dodicesima dello
zodiaco.»
Lo tenni stretto finché
il rito non terminò, finché il suo corpo non
diventò freddo e i suoi occhi non
si chiusero per sempre. Ero di nuovo solo, dopo sedici anni in cui
avevo
vissuto in compagnia di quell’uomo ero nuovamente da solo, e
da quel momento
avrei dovuto esserlo per sempre, non perché il mio maestro
mi teneva sempre
impegnato affinché non andassi a socializzare con gli altri
bambini, ma perché da
quel momento la mia vicinanza avrebbe potuto uccidere chiunque.
Mi ci vollero
parecchi giorni per realizzare che da quel momento ero io il cavaliere
dei
Pesci e che il mio maestro era dovuto morire per questo.
Il corpo di Rugonis
venne portato via dalle ancelle e solo quando uscii dal mio torpore fui
messo a
conoscenza del suo luogo di sepoltura in modo tale da poter portare,
qualora
volessi, un fiore sulla lapide di chi mi aveva cresciuto. Furono giorni
scuri,
fatti di lacrime e sangue. Cercai in tutti i modi di avvelenarmi con le
rose ma
ormai il mio corpo era un tutt’uno con il loro veleno e
l’unica reazione che i
fiori mi provocavano era un piacevole formicolio che mi attraversava le
vene.
Già da piccolo non
frequentavo molto gli altri bambini presenti al Santuario, in seguito a
questi
avvenimenti tagliai definitivamente i ponti.
E le leggende su di
me si diffusero velocemente. C’era chi credeva che fossi in
lutto e che prima o
poi mi sarebbe passata, chi mi dipingeva come un essere demoniaco.
Nessuno di
loro sapeva la verità sul mio isolamento.
Io dovevo stare
lontano da tutti, non potevo permettere che qualcuno si avvicinasse a
me. Avrei
voluto unirmi ogni tanto, per quelle ricorrenze in cui, di solito, si
sta fra
amici, ma non mi era concesso. Mi facevo vivo solo lo stretto e
indispensabile,
per le riunioni o quando dovevo attraversare una casa.
Fu di ritorno da una
missione che volli, per capriccio o per semplice voglia di essere un
attimo
come i miei compagni, passare per Rodorio, il piccolo villaggio poco
distante
dal Grande Tempio.
Avevo vent’anni e, cresciuto
con il solo affetto del mio maestro, non avevo mai saputo cosa volesse
dire provare
affetto per un ragazza.
Attraversando il villaggio
mi imbattei in una ragazzina, all’epoca doveva avere non
più di dodici anni.
Pioveva a dirotto e lei correva disperata riparando in ogni modo
possibile i
fiori che aveva fra le braccia. Mi superò alla svelta,
diretta anche lei al
Santuario.
Sentendo il suo
dispiacere per il fatto che i fiori si stessero rovinando, affrettai il
passo e
quando la raggiunsi mi sfilai il mantello per poggiarlo sulla sua testa.
Allontanandomi la
sentii ringraziarmi.
Nei giorni successivi
sentii dire dalle ancelle che quella ragazza aveva fatto delle domande
e aveva
capito chi fossi.
In una mattina di
sole la vidi sulla soglia della mia casa, con il mantello fra le
braccia. La
guardai, cercando di incuterle timore ma lei si avvicinò a
piccoli passi fino a
posare il mantello sul tavolo davanti a me.
«Vi ringrazio per la
premura dimostratami qualche giorno fa, signor Albafica.»
La sua voce ebbe il
potere di farmi desiderare di non avere un sangue velenoso per
chiunque. In
quel momento avrei voluto alzarmi da quella sedia e provare a fare
amicizia con
lei, a passare del tempo insieme. Quella ragazzina sarebbe potuta
benissimo
essere mia amica. Tuttavia dovevo starle lontano, come da tutti. Questo
pensiero mi fece irrigidire sulla sedia. Alzai lo sguardo su di lei, mi
guardava, in attesa di una mia risposta.
«Mi auguro che i
fiori non si siano rovinati.»
Sgranò gli occhi,
stupita probabilmente dal fatto che proprio io, il cavaliere
più schivo di
tutti, quello sul quale correvano le storie più disparate,
stessi intavolando
una conversazione con qualcuno.
«No, affatto. Il
vostro gesto è stato provvidenziale.»
Fece per sedersi
anche lei, le lanciai uno sguardo di fuoco. Ero stato
un’idiota, pensare che non
cercasse di fare la mia conoscenza dopo che io stesso avevo avviato il
discorso. Non dovevo lasciarla avvicinare. Non potevo io e non doveva
lei.
Se quello che avevo
sentito dalle ancelle era corretto lei aveva fatto domande
perciò fu per quel
motivo, credo, che non si stupì molto del mio gesto e si
limitò ad andarsene.
Mentre lasciava la mia casa sentii il suo dispiacere e la sua paura di
avermi
mancato di rispetto. Certo, era naturale che lo pensasse, dopotutto
solo io
conosco il motivo del mio vivere isolato.
Da quel giorno
iniziai ad osservarla da lontano.
Venne l’estate. Di
ritorno dall’Europa passai nuovamente al villaggio. Era stato
un incarico
particolare quello affidatomi qualche mese prima. Era stato stancante
dover
visitare molti posti per accertare la presenza effettiva del nemico che
stava
tornando. Però in tutto quel vagare ero capitato anche in
Francia e avevo avuto
modo di visitare i giardini della corte di Versailles rimanendo
folgorato da
una specie di rose mai viste.
Lei era fuori casa,
impegnata a esaminare il contenuto di un cestino, non riuscii a
trattenermi, l’affetto
nei suoi confronti mi spinse a regalarle quella rosa. L’avevo
raccolta con
l’intento di piantarla alla dodicesima e provare a creare una
nuova specie di
rose avvelenate.
Da quel giorno Agasha,
anche io avevo fatto le mie ricerche per scoprire come si chiamasse,
conserva
il fiore gelosamente, non stupendosi del fatto che è sempre
fresco, il giorno
in cui lo strappai alla vita del suo cespuglio.
Questa notte è venuto
da me il cavaliere della prima casa, Shion dell’Ariete ad
informarmi che
l’esercito di Ade sta arrivando.
«So per quale motivo
tu non abbia mai cercato di istaurare un rapporto con noi, Albafica, ma
ti
chiedo, in nome della dea che entrambi serviamo, di disporre le tue
rose a
difesa della scalinata che da questa casa conduce alle sale del
Sacerdote. I
servitori di Ade arriveranno a breve e tenteranno di arrivare fino alla
dea per
ucciderla.»
«Shion, credimi se ti
dico che tante volte avrei voluto unirmi a voi, ma non potevo. Stanne
certo, il
nemico non metterà piede nelle sale del Sacerdote e, spero,
neanche alla casa
dell’Ariete.»
Ho visto il mio
compagno confuso dalle mie parole. Non poteva certo sapere cosa mi era
venuto
in mente nel momento in cui mi diceva dell’avanzata
dell’armata degli Inferi.
Ora
sono qui, nella
gola che precede la prima casa, circondato da un distesa rosso sangue,
in
attesa del nemico. Ho disposto le mie rose sulla scalinata, proprio
come mi ha
chiesto Shion, poi sono venuto qui. Se devo combattere lo
farò da subito.
Voglio dimostrare a tutti che dietro alla bellezza di un fiore spesso
si cela
la sua pericolosità. Ed io sono così, bello
eppure estremamente pericoloso.
Mi domando cosa avrebbe
fatto il mio maestro in una circostanza simile. Probabilmente si
sarebbe posto
a difesa della dodicesima e avrebbe atteso il suo momento. Lui non
aveva
bisogno di dimostrare il suo valore, era amato da tutti, avrei voluto
chiedergli come facesse a stare in mezzo alla gente senza far loro del
male ma
non ne ho avuto tempo.
Io sono sempre stato
molto diverso da lui e ho scelto di schierarmi per primo a difesa di
ciò in cui
credo e di coloro a cui tengo. Atena e Agasha. L’una
è consapevole del mio
amore e della fedeltà, l’altra spero abbia intuito
il mio affetto nei suoi
confronti, non si è mai trattato di amore, mai. Le ho sempre
voluto bene come
se ne vuole a un’amica o ad una sorella, e ho sempre
desiderato, da quando l’ho
conosciuta, poterla avvicinare. In tutti questi anni però,
non ho mai smesso di
vegliare su di lei da lontano, proteggendola e osservandola crescere.
Ora sono qui, su
questa colonna e sento il cosmo dei nemici farsi sempre più
vicino. Che vengano
pure, non ho paura di loro perché so che se
morirò lo farò combattendo da
cavaliere senza il timore di sporcarmi di sangue o rovinare il mio
aspetto.
[1] L’interpretazione complessiva della ballata è legata al tema dei piaceri della giovinezza e del carpe diem tipico della letteratura sviluppatasi nella Firenze medicea. In quest’ultima stanza è presente un velo di malinconia che contrasta l’allegria generale. Ho voluto dedicare questa stanza al cavaliere Albafica dei Pesci, perché quando ho visto la scena della sua morte ho subito pensato a questo testo.