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Autore: Lucrezia_95    13/02/2015    1 recensioni
One shot su Albafica dei Pesci, i suoi pensieri attraverso i suoi ricordi dei momenti che hanno segnato maggiormente la sua vita. Il mio ritorno sul fandom di Saint Seiya con un storia su un cavaliere che ha catturato subito la mia attenzione.
Dalla storia: Già da piccolo non frequentavo molto gli altri bambini presenti al Santuario, in seguito a questi avvenimenti tagliai definitivamente i ponti.
E le leggende su di me si diffusero velocemente. C’era chi credeva che fossi in lutto e che prima o poi mi sarebbe passata, chi mi dipingeva come un essere demoniaco. Nessuno di loro sapeva la verità sul mio isolamento.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Aries Shion, Pisces Albafica
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ANGOLO AUTRICE (scrivo ora almeno poi vi lascio alla lettura e non rompo più)
Ritorno sul fandom di Saint Seiya con una ff dedicata al cavaliere d’oro del mio segno. È una storia nata all’improvviso, dopo aver visto oggi, per l’ennesima volta ma finalmente con i sottotitoli in italiano, l’episodio in cui Albafica muore. Sapete che stanno trasmettendo tutto The Lost Canvas sul canale Man-ga di Sky e che lo potete trovare anche sul canale youtube della Yamato?
Comunque, ho voluto scrivere questa ff in onore di questo cavaliere che ho amato fin da quando sono venuta a conoscenza di The Lost Canvas. Ho cercato di stare il più possibile nell’IC, se sono sconfinata nell’OC perdonatemi. Non ho ancora letto il manga quindi non so come sia il carattere di Albafica lì.
Personalmente preferisco molto di più lui che Aphrodite, soprattutto l’Aphrodite della scalata alle dodici case, quello della serie Hades è un altro paio di maniche, come si dice comunemente. Non so esattamente per quale motivo abbia iniziato a odiarlo da bambina, forse la voce che non mi è mai piaciuta molto, non lo so.

Lasciate una recensione se vi va, a me farebbe piacere sapere cosa ne pensate.

 

 

QUANDO LA ROSA OGNI SUO FOGLIA SPANDE – PISCES NO ALBAFICA

Quando la rosa ogni suo foglia spande,

quando è più bella, quando è più gradita,

allora è buona a mettere in ghirlande,

prima che suo bellezza sia fuggita.

Sì che, fanciulle, mentre è più fiorita,

cogliàn la bella rosa del giardino.

Angelo Poliziano, I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino[1]

 

Non ricordo giorno, da quando giunsi alla casa dei Pesci, senza vedere queste rose. Rose bianche, rose rosse e qua e là, come a ricordare che l’ombra è sempre presente e mai sconfitta, delle rose nere,  il fiore più raro del giardino.
Il mio maestro mi portò qui che ero appena nato e mi crebbe come figlio suo, allenandomi giorno dopo giorno.
Tuttavia, finché non fui abbastanza grande, mi fu sempre vietato entrare nel giardino della casa. Lo osservavo a lungo chiedendomi cosa ci potesse essere di pericolo in quel luogo da essere interdetto alla mia persona. All’epoca non sapevo ancora il pericolo che celavano i fiori in esso contenuti, i miei occhi di bambino lo vedevano solo come un posto in cui mi sarei potuto distrarre dagli allenamenti quotidiani.
A sedici anni mi ritrovai nuovamente da solo. Dopo avermi spiegato la reale natura dei miei allenamenti, il mio maestro mi disse che era giunto il momento che io prendessi il suo posto come custode della dodicesima casa dello zodiaco. Per fare ciò ci saremmo dovuti scambiare il sangue. Mi disse che le rose del giardino erano velenose e che servivano a proteggere il Santuario ma, soprattutto, la dea Atena e che, in caso di pericolo, avrei dovuto stendere una distesa di rose rosse sulla scalinata tra noi e le stanze della nostra dea. La Demon Rose avrebbe impedito a qualsiasi nemico di arrivare a lei anche quando tutti i cavalieri ormai non erano più in grado di schierarsi a sua difesa. Passato il momento delle spiegazioni compimmo il rito.
Non ricordo con chiarezza quanto tempo impiegammo, ma nella mia mente è impresso a fuoco il cambiamento nella postura del mio maestro e nel suo volto. Rammento che, ormai quasi allo stremo delle forze, quando il suo sangue era quasi tutto in me, si accasciò tra le mie braccia.
«Sarai un grande cavaliere, Albafica dei Pesci, custode della dodicesima dello zodiaco.»
Lo tenni stretto finché il rito non terminò, finché il suo corpo non diventò freddo e i suoi occhi non si chiusero per sempre. Ero di nuovo solo, dopo sedici anni in cui avevo vissuto in compagnia di quell’uomo ero nuovamente da solo, e da quel momento avrei dovuto esserlo per sempre, non perché il mio maestro mi teneva sempre impegnato affinché non andassi a socializzare con gli altri bambini, ma perché da quel momento la mia vicinanza avrebbe potuto uccidere chiunque.
Mi ci vollero parecchi giorni per realizzare che da quel momento ero io il cavaliere dei Pesci e che il mio maestro era dovuto morire per questo.
Il corpo di Rugonis venne portato via dalle ancelle e solo quando uscii dal mio torpore fui messo a conoscenza del suo luogo di sepoltura in modo tale da poter portare, qualora volessi, un fiore sulla lapide di chi mi aveva cresciuto. Furono giorni scuri, fatti di lacrime e sangue. Cercai in tutti i modi di avvelenarmi con le rose ma ormai il mio corpo era un tutt’uno con il loro veleno e l’unica reazione che i fiori mi provocavano era un piacevole formicolio che mi attraversava le vene.
Già da piccolo non frequentavo molto gli altri bambini presenti al Santuario, in seguito a questi avvenimenti tagliai definitivamente i ponti.
E le leggende su di me si diffusero velocemente. C’era chi credeva che fossi in lutto e che prima o poi mi sarebbe passata, chi mi dipingeva come un essere demoniaco. Nessuno di loro sapeva la verità sul mio isolamento.
Io dovevo stare lontano da tutti, non potevo permettere che qualcuno si avvicinasse a me. Avrei voluto unirmi ogni tanto, per quelle ricorrenze in cui, di solito, si sta fra amici, ma non mi era concesso. Mi facevo vivo solo lo stretto e indispensabile, per le riunioni o quando dovevo attraversare una casa.
Fu di ritorno da una missione che volli, per capriccio o per semplice voglia di essere un attimo come i miei compagni, passare per Rodorio, il piccolo villaggio poco distante dal Grande Tempio.
Avevo vent’anni e, cresciuto con il solo affetto del mio maestro, non avevo mai saputo cosa volesse dire provare affetto per un ragazza.
Attraversando il villaggio mi imbattei in una ragazzina, all’epoca doveva avere non più di dodici anni. Pioveva a dirotto e lei correva disperata riparando in ogni modo possibile i fiori che aveva fra le braccia. Mi superò alla svelta, diretta anche lei al Santuario.
Sentendo il suo dispiacere per il fatto che i fiori si stessero rovinando, affrettai il passo e quando la raggiunsi mi sfilai il mantello per poggiarlo sulla sua testa.
Allontanandomi la sentii ringraziarmi.
Nei giorni successivi sentii dire dalle ancelle che quella ragazza aveva fatto delle domande e aveva capito chi fossi.
In una mattina di sole la vidi sulla soglia della mia casa, con il mantello fra le braccia. La guardai, cercando di incuterle timore ma lei si avvicinò a piccoli passi fino a posare il mantello sul tavolo davanti a me.
«Vi ringrazio per la premura dimostratami qualche giorno fa, signor Albafica.»
La sua voce ebbe il potere di farmi desiderare di non avere un sangue velenoso per chiunque. In quel momento avrei voluto alzarmi da quella sedia e provare a fare amicizia con lei, a passare del tempo insieme. Quella ragazzina sarebbe potuta benissimo essere mia amica. Tuttavia dovevo starle lontano, come da tutti. Questo pensiero mi fece irrigidire sulla sedia. Alzai lo sguardo su di lei, mi guardava, in attesa di una mia risposta.
«Mi auguro che i fiori non si siano rovinati.»
Sgranò gli occhi, stupita probabilmente dal fatto che proprio io, il cavaliere più schivo di tutti, quello sul quale correvano le storie più disparate, stessi intavolando una conversazione con qualcuno.
«No, affatto. Il vostro gesto è stato provvidenziale.»
Fece per sedersi anche lei, le lanciai uno sguardo di fuoco. Ero stato un’idiota, pensare che non cercasse di fare la mia conoscenza dopo che io stesso avevo avviato il discorso. Non dovevo lasciarla avvicinare. Non potevo io e non doveva lei.
Se quello che avevo sentito dalle ancelle era corretto lei aveva fatto domande perciò fu per quel motivo, credo, che non si stupì molto del mio gesto e si limitò ad andarsene. Mentre lasciava la mia casa sentii il suo dispiacere e la sua paura di avermi mancato di rispetto. Certo, era naturale che lo pensasse, dopotutto solo io conosco il motivo del mio vivere isolato.
Da quel giorno iniziai ad osservarla da lontano.
Venne l’estate. Di ritorno dall’Europa passai nuovamente al villaggio. Era stato un incarico particolare quello affidatomi qualche mese prima. Era stato stancante dover visitare molti posti per accertare la presenza effettiva del nemico che stava tornando. Però in tutto quel vagare ero capitato anche in Francia e avevo avuto modo di visitare i giardini della corte di Versailles rimanendo folgorato da una specie di rose mai viste.
Lei era fuori casa, impegnata a esaminare il contenuto di un cestino, non riuscii a trattenermi, l’affetto nei suoi confronti mi spinse a regalarle quella rosa. L’avevo raccolta con l’intento di piantarla alla dodicesima e provare a creare una nuova specie di rose avvelenate.
Da quel giorno Agasha, anche io avevo fatto le mie ricerche per scoprire come si chiamasse, conserva il fiore gelosamente, non stupendosi del fatto che è sempre fresco, il giorno in cui lo strappai alla vita del suo cespuglio.

 
Sono passati tre anni da quell’avvenimento. Io non sono cambiato caratterialmente, lei neppure. Ciò che è diverso è la situazione che tutti noi ci troviamo ad affrontare.
Questa notte è venuto da me il cavaliere della prima casa, Shion dell’Ariete ad informarmi che l’esercito di Ade sta arrivando.
«So per quale motivo tu non abbia mai cercato di istaurare un rapporto con noi, Albafica, ma ti chiedo, in nome della dea che entrambi serviamo, di disporre le tue rose a difesa della scalinata che da questa casa conduce alle sale del Sacerdote. I servitori di Ade arriveranno a breve e tenteranno di arrivare fino alla dea per ucciderla.»
«Shion, credimi se ti dico che tante volte avrei voluto unirmi a voi, ma non potevo. Stanne certo, il nemico non metterà piede nelle sale del Sacerdote e, spero, neanche alla casa dell’Ariete.»
Ho visto il mio compagno confuso dalle mie parole. Non poteva certo sapere cosa mi era venuto in mente nel momento in cui mi diceva dell’avanzata dell’armata degli Inferi.

Ora sono qui, nella gola che precede la prima casa, circondato da un distesa rosso sangue, in attesa del nemico. Ho disposto le mie rose sulla scalinata, proprio come mi ha chiesto Shion, poi sono venuto qui. Se devo combattere lo farò da subito. Voglio dimostrare a tutti che dietro alla bellezza di un fiore spesso si cela la sua pericolosità. Ed io sono così, bello eppure estremamente pericoloso.
Mi domando cosa avrebbe fatto il mio maestro in una circostanza simile. Probabilmente si sarebbe posto a difesa della dodicesima e avrebbe atteso il suo momento. Lui non aveva bisogno di dimostrare il suo valore, era amato da tutti, avrei voluto chiedergli come facesse a stare in mezzo alla gente senza far loro del male ma non ne ho avuto tempo.
Io sono sempre stato molto diverso da lui e ho scelto di schierarmi per primo a difesa di ciò in cui credo e di coloro a cui tengo. Atena e Agasha. L’una è consapevole del mio amore e della fedeltà, l’altra spero abbia intuito il mio affetto nei suoi confronti, non si è mai trattato di amore, mai. Le ho sempre voluto bene come se ne vuole a un’amica o ad una sorella, e ho sempre desiderato, da quando l’ho conosciuta, poterla avvicinare. In tutti questi anni però, non ho mai smesso di vegliare su di lei da lontano, proteggendola e osservandola crescere.
Ora sono qui, su questa colonna e sento il cosmo dei nemici farsi sempre più vicino. Che vengano pure, non ho paura di loro perché so che se morirò lo farò combattendo da cavaliere senza il timore di sporcarmi di sangue o rovinare il mio aspetto.

 


[1] L’interpretazione complessiva della ballata è legata al tema dei piaceri della giovinezza e del carpe diem tipico della letteratura sviluppatasi nella Firenze medicea. In quest’ultima stanza è presente un velo di malinconia che contrasta l’allegria generale. Ho voluto dedicare questa stanza al cavaliere Albafica dei Pesci, perché quando ho visto la scena della sua morte ho subito pensato a questo testo.

   
 
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