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Autore: _White_    14/02/2015    0 recensioni
La vita di Irina potrebbe essere un racconto, infatti gli ingredienti necessari ci sono tutti: lei è la goffa eroina e vive accanto a Thomas, il classico bel ragazzo solitario e distaccato che la tratta come un suo pari. Ma si sa che le apparenze ingannano... Una piccola love story cresce sotto il cielo della Liverpool universitaria.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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8. I just don't wanna miss you tonight

 
Hannah non aveva mai dato molta importanza al suo aspetto esteriore. Non passava ore davanti allo specchio in cerca del trucco perfetto e men che meno rivoltava ogni giorno l’armadio per decidere cosa indossare. Lei amava la semplicità e la comodità. Quella mattina però era diversa, forse perché lei si sentiva diversa. Dopo anni che si alzava dal letto aspettandosi una triste giornata, oggi finalmente sorrideva. La sua immaginazione già correva verso l’incontro che la stava aspettando per colazione. Sognava il volto del ragazzo che avrebbe incontrato, la dolce melodia della sua voce, bassa e sensuale, e i suoi occhi intensi e profondi, ma che non erano in grado di mentirle.
Era una situazione nuova, quella, e anche il modo in cui si sentiva non le era familiare: era ipertesa e avvertiva uno strano formicolio allo stomaco. Sembravano gli stessi sintomi che avvertiva prima di un esame, ma in questi non c’era alcuna ansia negativa ma solo positività. Che fossero queste le cosiddette “farfalle”?
La ragazza non aveva mai dato una straordinaria importanza al suo aspetto esteriore, ma oggi lo stava facendo. Si sciolse freneticamente la crocchia in cui aveva raccolto i ricci e ci passò una mano per scompigliarli e donargli un po’ di volume. Era indecisa sul tipo di acconciatura col quale si sarebbe presentata: era meglio legarli, in modo che si vedesse bene la faccia, o tenerli sciolti e rischiare di sembrare un leone? Dopo svariati minuti passati a vagliare qualsiasi opzione, optò per tirare indietro soltanto le ciocche laterali: un valido compromesso.
Per quanto riguardava l’abbigliamento, invece, portava una gonna a balze e una maglia di lana dal collo alto. Ai piedi calzava un paio di stivali, da sotto i quali spuntavano delle lunghe calze bianche. Hannah temeva di apparire troppo civettuola vestita in quella maniera: non era abituata alle gonne o agli stivali con tacco, anche se di pochi centimetri. Soprattutto non era abituata ad uscire con i ragazzi. Thomas era il primo e voleva fargli una buona impressione, anche fisicamente. Si guardò un’ultima volta allo specchio del bagno, per controllare il trucco: il rossetto non era finito sui denti, il fard era stato sparso bene e l’ombretto si notava poco dietro le lenti degli occhiali, ma non era un dettaglio fondamentale, dato che aveva scelto un tono neutro, giusto di un grado di colorazione più intenso rispetto alla sua carnagione naturale. Per la prima volta si sentiva carina. Si fece un cenno d’assenso con il capo per prendere coraggio e, presa la borsa e abbottonatasi la giacca, chiuse la porta dell’appartamento e si diresse verso le scale.
Thomas era arrivato con circa dieci minuti di anticipo davanti al portone d’ingresso del dormitorio in cui alloggiava Hannah e stava lì, fermo, con le mani affondate nelle tasche del cappotto. Avrebbe potuto citofonarle e farle sapere che la stava aspettando, ma non voleva darle l’impressione di essere un tipo impaziente, così attese. Ingannò il tempo osservando le persone che passavano: universitari che stavano andando a lezione, festaioli che stavano tornando adesso a casa, signori in auto alla ricerca di un parcheggio o che si stavano dirigendo in ufficio. Era una mattina come tante altre, insomma, ma lui non l’avvertiva come tale.
Era il terzo appuntamento con Hannah, avvenimento alquanto incredibile, dato che normalmente non usciva con la stessa donna per più di due volte. Tuttavia Hannah era diversa: grazie al suo carattere dolce, si trovava bene in sua compagnia. Era vero, non era stato semplice farla parlare di sé, timida com’era, ma in poco tempo lei aveva cominciato ad aprirsi e si erano scoperti più affini di quanto Thomas sperasse: amavano entrambi la grande letteratura e il cinema in bianco e nero, i pittori espressionisti francesi e il caffè americano a colazione. Tutti interessi che né i suoi amici dell’università né Irina condividevano. Avevano anche una situazione famigliare simile: nessuno di loro due aveva il pieno appoggio dei parenti.
Erano capitati su quell’argomento spinoso per caso durante il loro secondo appuntamento. Era sabato e Thomas si stava domandando perché lei avesse deciso di restare in città, piuttosto che fare un salto a Stirling dai suoi genitori. Hannah rimase inizialmente scioccata dalla domanda, formulata apparentemente per portare avanti la conversazione, ma infine decise di essere sincera con il ragazzo e gli spiegò il difficile rapporto che aveva con la sua famiglia. Thomas la ascoltò attentamente, sinceramente interessato alla sua storia personale, che in un certo modo gli ricordava anche la sua. Convinto dall’onesto discorso, pure Thomas si confidò. Non aveva mai reso partecipe nessuno del dolore che lo attanagliava, nemmeno la sua migliore amica, ma con Hannah sembrò così semplice e naturale farlo. Lei lo capiva, così come lui capiva lei. Aveva finalmente trovato la sua “persona amica”, quella con cui poteva mostrarsi per chi era davvero. Perché con Hannah si sentiva così: con lei poteva essere sé stesso, senza riserve.
Thomas controllò l’orologio da polso. Erano passati soltanto cinque minuti, ma a lui erano parsi lunghi come l’eternità. Forse doveva mandare un messaggio alla ragazza, per avvertirla che era già sotto casa sua e che l’avrebbe aspettata per tutto il tempo necessario, ma non ce ne fu bisogno. La porta a vetri del condominio si aprì, lasciando uscire una graziosa fanciulla dai riccioli rossi.
- Sono in ritardo? – domandò Hannah, quasi sussurrando. Nonostante lei stesse imparando a fidarsi del ragazzo che la stava aspettando, aveva ancora il timore di fare qualcosa di sbagliato, compiere un passo falso che lo avrebbe definitivamente allontanato da lei e che avrebbe chiuso la loro storia prima ancora che essa fosse realmente iniziata.
- No, non sei affatto in ritardo. – la rassicurò lui, avvicinandosi al punto sotto la tettoia dell’edificio grigio in cui la ragazza si era fermata. – Stavo per inviarti un messaggio, dicendoti che sono arrivato con una decina di minuti di anticipo e di finire le tue cose con calma, che non abbiamo nessuna fretta. – continuò Thomas, prendendosi la libertà di appoggiare le mani sui fianchi di lei e di attirarla più vicina a sé. Fu un gesto inusuale, dato che avevano sempre mantenuto una certa distanza fisica: Thomas aveva intuito fin dal loro primo incontro l’imbarazzo e la poca confidenza con l’altro sesso che Hannah aveva e non voleva metterla a disagio in alcun modo, ecco perché nelle uscite precedenti non l’aveva mai presa per mano mentre camminavano fianco a fianco o abbracciata. Prima voleva essere certo che lei si sentisse al sicuro con lui. In quel momento però quella regola che si era dato venne infranta. La faccia turbata di Hannah e la sua voce insicura gli avevano mosso una tale tenerezza, che per il ragazzo sorse naturale tranquillizzarla con un gesto affettuoso. Quando si accorse di ciò che aveva fatto, ormai era troppo tardi per staccarsi da lei e chiederle scusa, ma per sua gran fortuna, non era necessario farlo: Hannah stava ricambiando l’abbraccio. Sul suo viso non c’era traccia di sorpresa o paura, ma un grande e caloroso sorriso che gli fece capire di non aver sbagliato niente e che molto probabilmente lei fantasticava da tempo un momento simile.
I due rimasero a guardarsi per un po’, senza dire una parola. A loro bastava essere lì, accoccolati l’uno tra le braccia dell’altra, a leggere la felicità traboccante negli occhi della persona di fronte per capire che tutto stava andando bene e che niente sarebbe potuto andare meglio.
Thomas si fece coraggio e lentamente avvicinò il suo viso a quello di Hannah, finché la punta del suo naso non sfiorò quella della ragazza.
 
- Ti prego, spiegamelo un’altra volta. – supplicò Irina, ancora più confusa dopo la terza dimostrazione di come far funzionare la macchina per l’espresso. Era il suo primo giorno di lavoro al pub Net e il capo, Joel, l’aveva fatta arrivare un’ora prima dell’apertura pomeridiana per aiutare l’altro cameriere di turno, Eddy, ad organizzare il locale e ricevere le prime istruzioni su come svolgere bene il lavoro. Dopo aver scoperto il settore in cui operava e aver esplorato ogni zona del bancone, adesso i due si stavano occupando della teoretica preparazione delle bevande elencate nel menu, in particolare del caffè. Irina aveva una macchinetta a casa, ma non era minimamente paragonabile a quel mostro da sei beccucci che aveva davanti. Oltretutto, era un modello straniero, italiano per la precisione ed era risaputo che gli italiani avevano un concetto differente di “caffè” rispetto al resto del mondo.
- D’accordo, ma sia chiaro che questa è l’ultima volta. – rispose secco Eddy, ammonendola con un gesto dell’indice, puntato verso di lei. Il ragazzo inserì il portafiltro con l’immaginario caffè macinato nell’apposito scomparto, lo spinse con forza per incastrarlo per bene e infine finse di premere il terzo bottone dall’alto, quello con il disegnino di una tazza fumante a lato. – Quando la bevanda arriva a circa un terzo dal bordo, spegni la macchina premendo questo. – e indicò il pulsante successivo – E servi il caffè. Stai attenta quando è in erogazione: il caffè potrebbe annacquarsi troppo se non spegni la macchina al momento giusto.
- Quindi posso capire quando è pronto guardando il livello della brodaglia nella tazza?
- Esattamente. Dai, studi italiano: non credo che ti sia sconosciuto il loro caffè espresso!
- C’è una bella differenza tra conoscerlo e saperlo fare. Nei lettorati ci insegnano la lingua e un po’ di cultura, mica la dose perfetta per un ristretto decente.
- Invece dovrebbero. – s’intromise Joel, apparso dal retro con in mano una grossa cesta di plastica bianca contenente le stoviglie appena lavate. – Fare un buon caffè all’italiana è un’arte. Dovrebbero promuoverlo Patrimonio dell’Umanità.
- A me non sembra un caffè così eccezionale. – dichiarò la ragazza, voltandosi verso il suo capo. Joel aveva appoggiato il cesto sopra il tavolo da lavoro del bancone e stava per sistemare un piatto da aperitivo nella rastrelliera lì sotto, quando udì l’enorme eresia.
- Un caffè non così eccezionale? – ripeté lui, sbracciandosi platealmente con ancora il piatto in pugno. – È un capolavoro! Devi assaporarlo in Italia per poter capire la sua eccezionalità. Non so come facciano gli italiani a fare un caffè così buono, ma ti giuro che è la fine del mondo! – e finalmente posizionò il piatto nello scolapiatti.
- Va bene, allora cercherò di convincere la lettrice ad insegnarci i segreti per fare un buon espresso. – concluse Irina, cercando di sembrare seria, anche se in realtà aveva solo voglia di ridere, più per lo sguardo e il tono da discorso importante che aveva assunto Joel nel suo elogio.
- Fallo e ti assumo. – le rispose il capo, dandole una pacca d’incoraggiamento sulla spalla sinistra prima di tornare in cucina per un altro carico di stoviglie pulite.
- Ma era davvero serio o stava scherzando? – Irina tornò a rivolgersi a Eddy, il quale era rimasto muto e in disparte durante tutta la conversazione.
- Stava scherzando… Almeno spero che stesse scherzando. Se non fosse così, sarebbe spionaggio industriale, non trovi? – fece il ragazzo di rimando, cercando di infilare una battuta vagamente divertente nella frase. Era quasi del tutto convinto che Irina non avrebbe capito lo scherzo, dopotutto lui non era capace di raccontare barzellette né tantomeno storielle buffe. Non gli veniva naturale essere la persona carismatica della propria compagnia di amici, tuttavia si ostinava ancora a fare giochi di parole che nessuno capiva, sperando sempre che qualche pazzo ci arrivasse. Perché bisognava per forza essere dei pazzi, per poter capire cosa gli passasse per la testa. Finché teneva le sue battute solo ed esclusivamente per i suoi amici, andava bene: prima lo guardavano male, poi cambiavano discorso, dimenticandosi della gaffe. I guai veri arrivavano quando corteggiava le ragazze: l’aspetto fisico non bastava per conquistare una donna, quindi puntava tutto sul suo carattere dinamico e simpatico. Inevitabilmente ogni volta arrivava il momento giusto per fare una battuta e inevitabilmente la morosa di turno non l’afferrava. D’accordo, questo suo piccolo difetto non era il solo fattore che gli mandasse a monte le uscite romantiche, però cercava di subissare le altre valide ragioni con la mancanza del senso dell’humor. Aveva pur sempre un’autostima da difendere.
- Già. – annuì lei, ridacchiando. Eddy sorrise, fiero che il tentativo di essere spiritoso fosse riuscito per una volta con una ragazza che le piaceva, ma per sua sfortuna, Irina era già tornata a pensare ad altro.
Lei guardava vacuamente la porta che conduceva al retro del pub, rimuginando sull’ordine del suo giovane capo e la sua conseguente uscita alquanto raccapricciante. Irina aveva capito al primo incontro che Joel era un tipo strano, ma non si aspettava che lo fosse così tanto!
- Fa sempre così? – chiese infine la ragazza, indicando l’uscio e alludendo così al boss.
- Sì, è il suo carattere tipicamente californiano che esplode. Ammetto che all’inizio sembra abbastanza particolare, ma vedrai che col tempo ti ci abituerai. – la rassicurò Eddy e le passò uno straccio di stoffa per asciugare il servizio fresco di lavastoviglie.
- Non sapevo venisse dalla California. – esordì lei, colmando il silenzio che era calato tra di loro. Ripensandoci bene, la provenienza del trentenne era evidente. Innanzitutto, il suo modo di vestire costituiva un grande indizio: indossava una camicia beige di cotone con le maniche arrotolate fino ai gomiti e la teneva sbottonata, in modo da mostrare una canottiera bianca, e larghi jeans scuri. Poi veniva il suo taglio di capelli: tenuti abbastanza lunghi e pettinati in una specie di ciuffo-cresta grazie a quantità industriali di gel. Sicuramente erano tinti, o comunque schiariti, perché erano di un biondo troppo pallido e spento per essere naturale. L’ultimo dettaglio che lo tradiva era la pronuncia, più lenta e dolce rispetto all’inglese britannico, anche se lui cercava di mascherarla il meglio che poteva.
- Sì, è di Santa Monica. – confermò l’altro, mentre stava lucidando il bancone.
- Lo conosci da molto? – chiese la ragazza, sinceramente incuriosita dalla storia personale del suo capo. Non si vedevano molti americani gironzolare per Liverpool, soprattutto gestori di pub e questa novità la stuzzicava. Joel la stuzzicava. Voleva sapere tutto su di lui e il suo sesto senso femminile le diceva che le notizie che desiderava le aveva in mano Eddy.
- Da tutta la vita, direi: è mio cugino. – confessò il barista, senza neanche un attimo di esitazione.
- Tuo cugino? – ripeté lei, incredula. Di tutte le risposte che la bionda si aspettava, quella era sicuramente la meno probabile, anzi una parentela tra i due ragazzi non l’aveva nemmeno considerata. Joel era alto, bello, biondo e americano, mentre Eddy… Eddy era un tipico ragazzo inglese con nessuna caratteristica speciale.
- Esattamente: sua madre è la sorella minore di mio padre. Entrambi sono nati e cresciuti qui, ma la zia Judy si è dovuta trasferire negli Stati Uniti per lavoro quando aveva circa ventisei anni, mentre mio padre è rimasto nella buona e vecchia Inghilterra. Zia Judy ha fatto carriera in fretta e si è trovata un uomo in fretta con cui creare una bella famigliola. – spiegò il cameriere con naturalezza, come se la storia della sua famiglia non fosse una faccenda privata. Evidentemente decine di persone gli avevano già fatto la stessa domanda altrettante volte, tanto da ritenere quell’interesse normale e raccontare la verità senza imbarazzo, pensò Irina.
- Come mai adesso è qui? Sua madre si è ritrasferita ed è tornata a vivere nel Regno Unito? – ipotizzò la ragazza, sempre più affascinata dalle vicende dei cugini.
- No, nulla del genere: la zia vive ancora nella calda e soleggiata Santa Monica con il marito. Ci sta troppo bene per voler tornare nella grigia e umida Liverpool. Se fossi in loro, anche io non mi muoverei da lì! Joel è diverso, sotto questo aspetto: a lui piace viaggiare e non sa stare nello stesso luogo per più di un anno. Gli piace cambiare, ecco perché è qui.
- È uno spirito libero. – concluse Irina, annuendo. Sì, quella definizione gli calzava proprio a pennello: Joel era un concentrato di energia. Lo si vedeva bene dal modo che aveva di porsi con la gente, così spigliato e accomodante, abituato a trattare in continuazione con persone sempre diverse. Quella era un’abilità che non si poteva apprendere restando seduti tutto il giorno dietro una scrivania, ma con l’immersione costante in culture diverse. Irina si chiese in quanti Paesi stranieri aveva vissuto, tuttavia non pose la domanda ad alta voce: probabilmente Eddy non se li ricordava tutti e poi avrebbe oltrepassato la linea di confine tra la semplice curiosità e l’interesse morboso. Non voleva dare l’idea di essere una stalker del suo capo, tra l’altro appena incontrato. Avrebbe ottenuto maggiori informazioni, ne era certa, ma dopo un periodo di ulteriore conoscenza e una futura amicizia. Lei non era aggressiva con le persone, come era invece un certo vicino di casa di sua conoscenza.
Eddy fece un cenno d’assenso con la testa, sollevato per la fine della conversazione. Forse era solo una sua impressione, ma aveva intuito nel tono di voce della ragazza che dietro quella chiacchierata non c’era soltanto cortesia. Adesso però non aveva tempo di preoccuparsene: l’orario di apertura era giunto. Controllò per l’ennesima volta che tutti i bicchieri, le tazze, i piattini e le posate fossero al loro posto e, deciso che non mancava niente all’appello, si precipitò alla porta per girare il cartellino che annunciava che il pub era aperto.
- Ora non ci resta altro da fare che aspettare i clienti. – spiegò il ragazzo alla sua compagna, una volta tornato dietro al bancone. – Nel frattempo, che ne dici se ingannassimo il tempo con queste? – propose lui, afferrando un mazzetto da poker dal fondo di un cassetto pieno di penne, blocchi per le ordinazioni e persino qualche elastico, e iniziando a mescolarlo.
Fecero un paio di partite, tutte quante vinte da Eddy, finché le lancette dell’orologio da parete dietro di loro segnarono le quattro e un quarto, momento in cui entrarono i primi avventori del pomeriggio. Si trattava di un gruppetto di tre studenti di Ingegneria, appena usciti da una devastante lezione di Fisica e che volevano farsi una birra per rimpiazzare la noia abissale calata durante la spiegazione del professore. Eddy eseguì la comanda in presenza di Irina, in modo che la ragazza potesse avere un esempio pratico di cosa avrebbe dovuto fare coi prossimi clienti. Dopo alcuni servizi, il ragazzo lasciò che fosse lei a occuparsi delle ordinazioni, ovviamente sotto il suo controllo, e infine decise di lasciarla lavorare da sola.
Dentro al locale, il riscaldamento era tenuto alto, così chiunque ci entrava poteva abbandonare la sensazione di freddo che lo attanagliava. Infatti all’esterno il clima non era dei migliori. Oltre alla consueta pioggia e alla terribile umidità che portava con sé, quel pomeriggio tirava anche del vento. Hannah ne era stupita, considerando la piacevole mattina che aveva trascorso all’aria aperta, nonostante le temperature basse e il cielo nuvoloso che ci furono. Adesso era impensabile poter passeggiare per strada tranquillamente: non bastavano le gocce che cadevano dalle nubi e le macchine che schizzavano acqua dalle pozzanghere, ma c’era anche vento. La corrente d’aria era talmente forte da far rivoltare gli ombrelli, rendendoli un inutile riparo dalla pioggia, e inoltre deviava la traiettoria delle gocce d’acqua, infradiciando i poveri pedoni. Fortunatamente non doveva fare molta strada per raggiungere il bar nel quale una sua amica stava affrontando il primo turno di lavoro.
Il campanello che sovrastava la porta d’entrata del Net tintinnò non appena la rossa l’aprì. La ragazza fu subito accolta da un’ondata di caldo e dal cameriere, lo stesso presente la prima volta che era venuta in quel pub. La maggior parte dei tavoli era vuota, così lui la fece accomodare dove voleva lei. Hannah si guardò intorno, cercando la sua amica. Voleva parlare con lei, era venuta lì apposta, ma non sapeva se le era concesso intrattenersi con i clienti durante il turno. Però non c’erano molti avventori, quindi era possibile che il suo supervisore chiudesse un occhio per dieci minuti di pausa, giusto il tempo per dirle la grande notizia del giorno. Hannah avrebbe potuto telefonarle dopo il lavoro per raccontare cosa le era successo, ma non ce la faceva ad aspettare ancora per molto, ecco perché aveva sfidato le intemperie ed era giunta al bar. Era euforica, bastava osservare il grande sorriso che le spuntava in faccia per capirlo. La sua mente non faceva altro che ripensare a quella mattina, a quel ragazzo e a quel…
- Benvenuta al Net! Sei pronta per ordinare? – il tono allegro della nuova cameriera la riportò all’interno del pub. Hannah non si era accorta dell’arrivo di Irina: era troppo occupata a rivivere la scena da sogno accaduta qualche ora prima. Aveva paura che era tutto frutto della sua immaginazione e, parlandone con l’amica, magari si sarebbe convinta della sua realtà.
- Un the, per favore. – rispose la cliente, allungando all’altra ragazza il menu che il suo collega le aveva portato precedentemente. Irina segnò tutto diligentemente: aveva un’aria molto professionale, si disse Hannah. Da come sembrava serena, il suo primo giorno da cameriera stava andando alla grande e la rossa cominciava a dubitare della scelta di venir fin lì a disturbarla per una sciocchezzuola, infatti temeva di metterla nei guai se l’avesse fermata a chiacchierare. La verità era che non aveva il coraggio di raccontarle tutto. Mentre era nel suo appartamento, si era immaginata mentre entrava nel locale, chiedeva all’amica di prendersi una pausa perché aveva una cosa sensazionale da dirle, come iniziava il discorso e tutti i commenti che le due ragazze si sarebbero scambiate. Ma quando quel momento stava per diventare realtà, Hannah si bloccò e lasciò che l’amica se ne tornasse in cucina. Ancora una volta quella maledetta timidezza aveva rovinato i suoi piani.
- Scusa, va tutto bene? – Irina tornò al tavolo della rossa dopo alcuni minuti con una teiera colma di the bollente in infusione e una tazza vuota e si accorse dello stato emotivo in cui versava l’amica: Hannah era turbata da qualcosa, Irina lo aveva capito dallo sguardo perso nel vuoto dell’altra e che prometteva lacrime imminenti e dal labbro livido, morso quasi a sangue. Le due ragazze si conoscevano da poco, ma Irina aveva una spiccata sensibilità nel riconoscere l’infelicità degli altri: aveva consolato innumerevoli volte le sue migliori amiche del liceo per questo o quel problema, ormai si considerava un’esperta nell’individuare i segnali fisici del malumore.
Hannah si ridestò dal rimprovero che si stava facendo mentalmente quando udì la voce allarmata dell’amica. Irina la stava guardando con un’espressione attonita, ma preoccupata: qualcosa nel suo comportamento l’aveva spaventata.
- S-sì, va… Va tutto bene, ecco… - Hannah balbettò qualche breve parola, giusto per rassicurare l’altra. Non capiva bene cosa stesse succedendo, ma a giudicare dalla velocità con cui Irina era sgusciata nella panca imbottita di fronte a lei e dal mondo in cui le aveva preso una mano doveva essere qualcosa di grave.
- Hannah, se hai qualche problema, puoi dirmelo. Non bisogna tenersi tutto dentro. Puoi dirmi quello che vuoi, sono tua amica: puoi contare su di me.
- Ma veramente… Non è successo niente di male, anzi! – precisò l’altra, appena intuì la piega melodrammatica che stava prendendo il discorso. Evidentemente Irina aveva frainteso qualcosa.
- Come è possibile? Avevi una faccia da funerale quando sono tornata con il the, non puoi venirmi a dire che non è successo niente di orribile. Coraggio, cosa c’è non va? – la spronò a parlare la bionda, incredula nei confronti dell’affermazione dell’amica.
Se Irina si era sorpresa a trovare Hannah in uno stato pietoso, ora invece era Hannah che si stava preoccupando del comportamento dell’altro. Le sfuggiva il dettaglio fondamentale per capire quello strano malinteso. Ripensò a ciò che era accaduto dal suo arrivo nel pub, compresi i suoi viaggi mentali. Ecco, la chiave doveva essere sicuramente l’attimo in cui aveva esitato ad accennare al suo momento meraviglioso e a come si era colpevolizzata per averlo lasciato sfumare. Presa dalla foga, aveva assunto un’aria triste e Irina, vedendola, si era immaginata che le fosse capitato qualcosa di terribile.
- No, ero solo sovrappensiero. È vero che sono venuta per parlarti, ma non di qualcosa di brutto. – spiegò la rossa, aggiustandosi gli occhiali. – Sono qui per parlarti, non ce la facevo ad aspettare fino a stasera. È successo qualcosa di veramente bello e ho voglia di raccontarlo ad un’amica, così sono venuta qui a dirtelo, ma avevo paura che al tuo capo non piacesse il fatto che ti prendessi una paura per parlare con me, così mi sono tirata giù di morale. – continuò lei di getto. Disse questo senza prendere fiato, arrossendo addirittura per l’imbarazzo di rivelare pensieri così intimi. Date le circostanze, la cosa giusta da fare al momento era essere sincera, così Hannah non tralasciò alcuna riflessione che aveva fatto.
Irina seguì il chiarimento fino alla fine e poi scoppiò a ridere. Non rideva per Hannah, ma per sé stessa: stava morendo di vergogna per aver malinteso il comportamento dell’amica. Si sentiva proprio una stupida. Forse non era così brava a capire le persone come lei credeva: la prossima volta non avrebbe giudicato così in fretta il comportamento di Hannah.
Dopo aver lasciato alla nuova cameriera il compito di prendere le ordinazioni e servirle ai clienti, Eddy si era occupato principalmente della sorveglianza della preparazione delle comande, della sistemazione delle stoviglie pulite, della pulizia dei tavoli e della supervisione degli altri dipendenti. Voleva dimostrare a Joel che sapeva gestire quel posto anche senza di lui, ecco perché stava controllando tutto e tutti. Stava tornando alla sua postazione dietro il bancone dopo aver raccolto i boccali da birra usati dagli studenti di Ingegneria, quando sentì una forte risata calorosa provenire dai tavoli con panche accanto alla vetrata laterale. Lui non era un impiccione, ma quel riso aveva così attirato la sua attenzione, che si voltò verso la direzione da cui proveniva e vide Irina, la sua nuova collega, seduta a chiacchierare con un’amica. Se fosse stato un capo più intransigente e se fosse stato il servizio serale, non si sarebbe fatto tanti problemi nello sgridarla, ma il bar era praticamente deserto e nessuno aveva bisogno dei camerieri in quel preciso istante. Una pausa non avrebbe creato danni, tuttavia non poteva lasciare l’apprendista lì.
- Ragazze, se avete voglia di chiacchiere, vi consiglio di spostarvi al bancone. Non è etico che una cameriera in servizio sieda con una cliente. – le rimproverò Eddy nel modo più amichevole possibile, che nel frattempo si era avvicinato al tavolo. Hannah cercò di prendersi la colpa, ma Irina non glielo lasciò fare, assumendosi tutta la colpa e scusandosi un milione di volte col suo supervisore. Quando il ragazzo fece capire loro che non era adirato, le due seguirono il suo ordine e si sistemarono al bancone: Hannah sedeva sugli alti sgabelli dalla parte degli avventori, mentre Irina stava dal lato dei dipendenti, asciugando i bicchieri appena lavati per farsi perdonare l’errore e contemporaneamente ascoltando l’eccezionale vicenda dell’amica.
Eddy invece stava passando lo straccio sul legno di uno sei tavoli e sorrideva: mentre le due ragazze se ne stavano andando aveva udito chiaramente quella dai ricci rossi dire alla compagna: “Secondo me, tu gli piaci.”
 
Irina si accasciò sul letto, distrutta. A parte il piccolo incidente con Hannah, pensava di non essersela cavata male come primo giorno di lavoro e Eddy le aveva promesso che non avrebbe detto nulla di quel rimprovero a Joel, il vero boss dell’attività, perché lo considerava come l’errore che tutti i dipendenti avevano fatto appena arrivati. Lei non ne era così sicura e forse aveva ragione Hannah in quel caso: Eddy aveva chiuso un occhio, perché era interessato a lei. Ripensandoci, era un’assurdità, ma che altra spiegazione poteva esserci? Sbuffò, scontenta di quella conclusione così azzardata. Aveva bisogno di un’opinione maschile, ma il vicino di casa non era nei paraggi.
Già, prima di rincasare aveva bussato alla sua porta, ma non lo aveva trovato. Yuki, sua madre, non sapeva dove fosse, come al solito. Thomas non diceva mai ai suoi genitori dove andava quando usciva. Gli piaceva fare il misterioso.
Irina aveva addirittura sperato di incontrarlo al Net mentre era di turno, ma lui non si era presentato, proprio come aveva affermato quando lei lo aveva informato del lavoro. Se lei credeva che Thomas la sostenesse in qualche maniera, forse si stava confondendo con un Thomas che esisteva soltanto nei suoi sogni. A volte si chiedeva il perché dell’atteggiamento così scostante che il ragazzo aveva nei confronti di lei, ma Irina si era sempre ripetuta che lo faceva perché era un uomo, quindi un essere impossibile da capire. Eppure adesso aveva bisogno di lui, ma lui non c’era.
Dopo attimi di controversie tra la parte di lei che voleva vederlo e quella che lo voleva snobbare per ripicca, giunse alla conclusione di inviargli un messaggio sul cellulare per vedere se era troppo impegnato per risponderle o no: “Il primo giorno è andato. Non ho rotto niente, quindi sentiti tranquillo di venire nei prossimi turni.”.
Come si era immaginata, lui non rispose.
   
 
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