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L’uomo
sulla soglia rimase in silenzio per qualche istante prima di decidersi ad
aprire bocca, tentando un insicuro eppur comprensibile approccio con la lingua
inglese. «La signora che lei cerca è
morta cinque anni fa.»
Lì di fronte, ai piedi dei pochi gradini che portavano al portone
d’ingresso, la ragazza dai capelli castani accolse quella risposta con l’imbarazzato
atteggiamento di chi è consapevole d’aver disturbato per errore un perfetto
sconosciuto. In mano reggeva un borsone azzurro, sottobraccio una sciarpa
pesante e il berretto di lana che si era sfilata non appena il padrone di casa le
aveva aperto la porta. Dimostrava ventitré anni, se non qualcosa in più. O
forse, ipotesi molto probabile, era la luce del sole che scendeva obliqua nell’aria
a disegnarle in volto ombre e segni che non c’erano.
«Mi dispiace», disse, riparando a sua volta sull’inglese. «Mi
spiace averla disturbata.»
Gli occhi dell’uomo si erano posati sul suo borsone e avevano già
tratto delle conclusioni. Era uno sguardo castano, vicino alle cinquanta
primavere, eppure ancora capace di un considerevole acume. Lei se n’era già
accorta.
«Lei vuole fermarsi», disse, e non fu una domanda.
«Pensavo che la zia di mia madre abitasse ancora qui. È da molto
che non le facevo visita; avrei dovuto informarmi.»
«Ora abito io qui. Questa è la mia casa.»
«Ho capito, signore.»
Inglese. Collante fra popoli.
«Ha fatto un lungo viaggio. Spagna?»
Lei scosse la testa. Il vento si era fatto più feroce. Si domandò
se lì soffiasse sempre così gelido. L’uomo dovette intuire il corso dei suoi
ragionamenti, perché si scostò dalla porta e la invitò ad entrare.
Viveva da solo, ma non si faceva mancare nulla. Si trattava di un
appartamento piuttosto spazioso, dall’aspetto non necessariamente straniero. Le
servì un tè e le disse quel che sapeva riguardo la scomparsa della proprietaria
che l’aveva preceduto; poco, a onor del vero.
«Voleva farle una sorpresa?», le domandò ad un certo punto, in
quel suo inglese un poco spigoloso. «Per questo non l’ha avvisata?»
«È così», fu la pronta, bugiarda risposta. «Da bambina venivo a
trovarla spesso. Abbiamo poi perso i contatti.»
«Mi dispiace che sia venuta a sapere della sua morte in questo
modo.»
Lei annuì e basta, senza sforzarsi di tradurre nei minimi
dettagli una frase di cui aveva indovinato a grandi linee il messaggio. Non le
interessava troppo della zia di sua madre; in realtà l’aveva vista due volte
sole e aveva ripreso in considerazione la sua esistenza solo tre mesi prima,
ponendola sullo stesso piano di un’opportunità di fuga. Dettagli.
«Ha degli euro con sé? Denaro?»
In un’altra circostanza sarebbe di certo passata per una domanda
scortese. L’uomo l’aveva difatti posta con un certo grado di cautela, con un
disinteresse dovuto più al rispetto che alla diffidenza vera e propria.
«Sì.»
«Qui la moneta non è quella. Dovrà cambiarla, se vuole restare.»
«Non so come si fa.»
Lui sembrò rigirarsi un sorso tè in bocca, come a pensare. «È una
situazione imbarazzante. Non voglio che lei alloggi in hotel, sarebbe scortese.
Io affitto piccoli appartamenti», rivelò alla fine. «Questo palazzo è mio. I piani
superiori sono in affitto.» C’era qualcosa di comico nel condurre un dialogo in
quell’inglese stentato, ma funzionava ugualmente. «Dipende da quanto ha con sé»,
aggiunse.
La giovane donna continuava ad osservarlo in silenzio. Aveva
capito ogni cosa che le era stata detta, così come aveva intuito che l’uomo, da
parte sua, aveva fiutato la possibilità di fare affari. Si era presentata alla
porta di casa sua e ora lui, da bravo proprietario, le proponeva il colpaccio.
Non era uno stupido; gli si era consegnata travestita da occasione d’oro. Ammetteva
a se stessa che stare in un hotel non le sarebbe convenuto, soprattutto perché
in quella città non voleva fermarsi solo per una settimana o due. Sarebbe stato
bello fermarsi lì per tutta la vita.
«Le basterà darmi una certa somma d’anticipo», insisteva lui nel
frattempo. «Conosco chi offre del lavoro in zona. Anche se non parla la lingua,
la imparerà. Per quanto ha intenzione di fermarsi, signorina?»
«Il più possibile.»
«Allora le sconsiglio la permanenza in un hotel.»
«Appunto. Ha ragione.»
«Non gliel’ho ancora chiesto, sono davvero un maleducato. Io sono
il signor Szekeres.»
«Io sono Veronica», rispose lei. Aveva finito il tè, che del tè
aveva solo il nome. A confortarla era il pensiero che nella città in cui si
trovava si mangiavano un sacco di dolci. Dolci e paprika. «Quanto verrebbe a
costare l’affitto?»
* * *
A
distanza di tre anni, ancora si chiedeva come il signor Szekeres facesse di
nome. Non gliel’aveva chiesto, né in fondo sentiva il bisogno di saperlo. Nel
palazzo lo conoscevano tutti per cognome e ciò bastava a confermarle che fra
quelle quattro pareti si sopravviveva anche senza quel che veniva prima.
Condurre l’esistenza in un appartamento fra altri cinque non era
male. Non aveva stretto troppo con i vicini, eccezion fatta per le festività.
Szekeres approfittava di occasioni simili per organizzare un pranzo da lui, e
di rado qualcuno rifiutava l’invito – sostanzialmente perché, pensava Veronica,
si mangiava senza mettere mano al borsellino. Gli affitti non rientravano in
effetti negli standard di approvazione di tutti quanti, ma in un modo o
nell’altro si trovava sempre il trucco per far quadrare le cose. Il padrone di
casa era piuttosto severo sui pagamenti e non apprezzava le inesattezze nel
conteggio; non si faceva problemi a sbattere fuori chi non pagava per due volte
di seguito.
Budapest era una città indolente. Sembrava starsene immobile,
rilassata e solenne come un gatto persiano, mentre i suoi cittadini si
affaccendavano per correre dietro alla quotidianità. Con il passare del tempo
aveva cominciato a credere che a muovere il Danubio fosse un’energia
particolare, simile al dondolio del valzer viennese o alla furia appassionata
di un giovane pittore. Quando aveva espresso questa sensazione al signor
Szekeres, si era vista rispondere con una risata.
“Signorina, Vienna è un punto nero in confronto a questa città”,
le aveva detto con un sorriso a trentadue denti. Ventinove, considerando i tre
che gli mancavano. “Ma lei lo sa che anche qui, come là, abbiamo i nostri caffè
letterari? Ha già visitato il Caffè Hungaria?”
Si era presto abituata all’idea che fra Vienna e Budapest
corresse un certo grado di insofferenza, lo stesso che, immaginava, correva fra
Milano e Roma o fra Parigi e Londra. Era sempre così quando si paragonavano due
città e si cercava di decidere quale fosse la più bella. Nonostante ciò, non
voleva fare a meno del pensiero che il Danubio recasse con sé qualcosa
dell’Austria. Concluse che, se proprio non le erano concessi paragoni fra
signorilità austriaca e solennità ungherese, le rimaneva pur sempre il diritto
di affermare che il Danubio, poiché sfilava fra glorie di quella portata, era
il fiume più fortunato e maestoso del mondo.
Quanto alla sua, di fortuna, Veronica si riteneva ben piazzata.
La palazzina di Szekeres si trovava non troppo lontano dal centro storico, in
un’area calda e viva. Aveva fatto fatica ad abituarsi alle colazioni consumate
di fretta, ai brodi vegetali o di pollo che quasi sempre precedevano qualsiasi
pasto della giornata, alle insalate servite di rado o solo su richiesta. Non
aveva ancora imparato ad apprezzare il gulasch, forse perché la sua assoluta
preferenza andava alla zuppa di pesce – halaszle,
traduceva stupidamente ogni volta che ci pensava -, ma per il resto poteva
dirsi integrata. Poi c’era la lingua. Discorso a parte.
Se aveva imparato qualcosa in ungherese? Sì, certo. Szekeres
l’aveva subito messa a lavorare, più per essere certo che lei pagasse l’affitto
con regolarità che per fare un favore a lei, così si era adattata alle
circostanze: lavanderia, tabaccheria, bar dietro l’angolo. Aveva presto
scoperto che i salari in Ungheria erano tradizionalmente bassi e che in genere
gli uomini avevano più opportunità di lavoro rispetto alle donne. Provenendo
dall’Italia, non era qualcosa che la sconvolgesse.
Tre anni dopo faceva ricorso all’inglese solo rare volte. Sapeva
sostenere un dialogo, conosceva le formule di saluto, aveva imparato le
espressioni tipiche. Il suo rapporto con la lingua andava così a gonfie vele
che le capitava di parlare ungherese anche quando telefonava ai suoi genitori
rimasti a Milano.
Loro avevano appoggiato solo a metà la sua decisione di
andarsene. A casa era rimasto il figlio Stefano, minore della sorella di cinque
anni, e Veronica immaginava che su di lui mamma e papà riversassero
un’attenzione eccessiva per compensare quella che non potevano scaricare su di
lei. A volte si sorprendeva, la mattina, a cercare la macchinetta del caffè o a
usare uno strofinaccio che nella sua immaginazione era a quadri blu e bianchi,
ruvido e spesso come quello che aveva sua nonna. Non si era scordata della
tovaglia antimacchia e del perenne odore di pasta al sugo che si infilava su
per le scale quando lei, ancora in camera, attendeva di scendere per il pranzo
della domenica. Erano immagini e percezioni che avvertiva con frastornante
chiarezza, odori che se ne restavano impigliati nelle narici e suoni che le
ronzavano nelle orecchie, e tutto ciò benché fossero trascorsi tre anni.
Oddio, cominciava a pensare. Oddio, mi sto ammalando. Mi sto ammalando di nostalgia.
Era davvero un male così grande? Aveva sentito di persone che
viaggiavano per tutta la vita senza mai trovare nulla, senza riuscire a sanare
il desiderio di fuga e ricerca in cui si sentivano confinate. Certi cittadini
del mondo erano bottiglie di vetro che si muovevano per il mare, persuasi solo
dalle onde che promettevano loro un approdo definitivo. Veronica non voleva
viaggiare; era scappata una sola volta e lì sul Danubio voleva fermarsi, morire
di nostalgia, se necessario, e convincersi che erano quelle le rive su cui
costruire.
Qualcosa doveva pur succedere. Qualcosa doveva pur muoversi,
qualcosa doveva pur dirle che se n’era andata per un buon motivo, che il suo
non era stato il capriccio di una donna un po’ troppo testarda. Qualcuno doveva
pur raccoglierla dal mare.
Poi il Danubio le consegnò Jòzsef Varga.
* * *
«Devi farmi entrare.»
Doveva essere la terza volta che lo ripeteva. Veronica gli aveva
aperto la porta qualche attimo prima, convinta, più che dall’intenzione vere e
propria di accogliere un ospite, dal pensiero che lui sarebbe stato altrimenti
in grado di scardinare l’uscio a suon di pugni. Lo guardò di nuovo come se
fosse la prima volta, indagando nei suoi grandi occhi scuri una buona
motivazione per dargli ascolto.
Il ragazzo sembrava sulle spine. Si guardava furiosamente
attorno, frugava con lo sguardo giù per la rampa di scale, respirava
pesantemente come se avesse corso per chilometri. Doveva avere poco più di
vent’anni, a giudicare dalla zazzera riccia che gli copriva la fronte. Lei
balbettò qualcosa in un disperato tentativo di articolare subito qualcosa in
ungherese, ma a precederla fu un’imprecazione, un latrato che sfrecciò su per
la rampa di scale come il rombo di un tuono. Il signor Szekeres.
«Marhasàg! Marhasàg!» 1
I suoi passi che slittavano sui gradini, le sue dita grosse e
nodose che si arrampicavano sul corrimano. Stava correndo. Stava seriamente correndo su per le scale, e
lo stava facendo con la delicatezza di un mastino imbestialito.
Il ragazzo non ci pensò due volte; scansò Veronica, s’infilò
sotto il suo braccio e si buttò dentro. Lei, rispondendo per istinto a quella
sua rocambolesca reazione, fece una piroetta e si chiuse l’uscio alle spalle,
girando la chiave senza scostare la schiena dalla porta. Per la fretta, alcune
ciocche castane le erano finite in bocca, eppure rimase immobile. Non si mosse
nemmeno il suo inaspettato ospite, che tese solo l’orecchio alle falcate di
Szekeres. I suoi passi pesanti scivolarono sul pianerottolo prima di buttarsi
sulla rampa seguente. Le sue generose imprecazioni si allontanarono sottoforma
di eco insieme alla corsa forsennata dei piedi.
Solo allora Veronica si rese conto d’aver trattenuto il respiro.
Lo buttò fuori, addolcì la presa sulla maniglia. Non aveva ancora scostato gli
occhi dal ragazzo, ora fermo in mezzo al piccolo salotto. La televisione andava
ancora, anche se lei nemmeno ricordava più cosa stesse guardando. Sul tavolino lì
vicino c’era ancora la tazza di tè che si era preparata dopo aver mangiato un
panino. Giusto, ecco un altro complicato dettaglio della vita ungherese: lì il
pranzo non era tenuto in gran considerazione.
«Prima che tu cominci a chiedere», esordì lui, sollevando un poco
le mani. «Posso spiegarti tutto quanto. Non sono un criminale.»
Ora che aveva il tempo di osservarlo, Veronica avvertì una
piccola sensazione di dèjà-vu. Impiegò qualche attimo per riordinare le idee. «Non
ti sei trasferito qui qualche mese fa? Non stai all’ultimo piano?»
«Sto avendo dei problemi con l’affitto. Szekeres non apprezza, ma
posso rimediare; tra qualche settimana potrò dargli i soldi che cerca.»
«Sono qui da tre anni e ti garantisco che al
signore non piace aspettare.»
«Infatti.»
«Infatti?»
«Infatti vuole che me ne vada», concluse
lui. «Non mi va di perdere casa in questo modo. Sono un lavoratore onesto. Un
po’ sfortunato, ma onesto.»
Veronica provò un lieve moto di simpatia per
quel ragazzo che le aveva quasi distrutto la porta. Il signor Szekeres adorava
sbattere gente fuori dalle sue palazzine quasi quanto trovarsi nuovi clienti
con cui riempirli di nuovo. Si stancava presto di chi tardava con l’affitto,
anzi sembrava vivere soltanto nell’attesa che qualcuno un giorno bussasse al pian
terreno e gli dicesse: “Mi dispiace, ma per questo mese non riuscirò a darle i
soldi.” Non impiegava mai troppo tempo per decidere di farsi riconsegnare la
chiave dell’appartamento e per offrirla a qualcun altro. Aveva la fortuna di
vivere in un angolo della città piuttosto frequentato, oltre a quella di essere
in un Paese invaso stagionalmente dal turismo.
Così, raccolti questi ragionamenti, provò a
stendere un sorriso cordiale. «Resta qui per un po’. Vuoi una fetta di torta?»
La somloi
galuska era uno di quei dolci per cui impazziva. Poco elaborata, a dire il
vero, ma le ricordava la prima volta che l’aveva assaggiata per caso in uno dei
caffè che Szekeres le aveva proposto di visitare. Così associava ancora
l’avvolgente gusto del cioccolato ai suoi primi e difficili tempi a Budapest,
tempi in cui anche solo chiedere lo scontrino ad una cassa le era quasi
impossibile. Togliamo il “quasi”.
Il ragazzo si chiamava Jòzsef. Raccontò di
essersi trasferito per cause di forza maggiore, adducendo ad una madre un po’
troppo affezionata all’alcol e ad un padre che gli aveva consigliato di
trovarsi un altro posto in cui stare.
«Presumo perché ero d’impiccio», ipotizzò,
trafficando con i pezzetti di torta che aveva metodicamente tagliato e sparso
nel piatto. Veronica vide dell’ingenuità nel modo in cui cincischiava con la
forchetta osservando con insensata concentrazione i bocconi di dolce prima di
sceglierne uno e infilarselo in bocca. Stava forzando una superficialità che
non era altro se non una profonda e recalcitrante voglia di reagire e
rivoltarsi contro il mondo. Tipico degli adolescenti. Senza un motivo per
preciso, si ritrovò a pensare ad una frase con cui suo nonno avrebbe di certo
commentato.
El
gh’ha el dun de Dio de capì nagott. Ha il dono di Dio di non capire niente.
Jòzsef si trovava in quell’imprecisato
momento della vita umana in cui si ha l’impressione che il destino pizzichi la
tua serenità solo per l’insano divertimento di rovinarti l’esistenza senza una
buona ragione. Veronica si astenne dall’osservare che probabilmente il padre
l’aveva allontanato per risparmiargli la brutta influenza di sua madre; non era
mai stata brava a sostenere dialoghi di una certa portata, peraltro con
qualcuno che aveva conosciuto da poco. Così annuì e basta, con in volto un’espressione
che persino a lei sembrò quasi inebetita, e si costrinse a non provare
compassione.
Tra un boccone e l’altro, il ragazzo passò
il testimone e le domandò il motivo del suo trasferimento. Lei, che si era
aspettata il contropiede, si scoprì spiacevolmente chiamata in causa.
«Avrei dovuto sposarmi», disse.
«Ma?»
«Il mio fidanzato non si è presentato in
chiesa.»»
La televisione andava ancora e benché la
ragazza avesse abbassato il volume per poter parlare con Jòzsef, nell’attimo di
silenzio che seguì la voce della presentatrice parve salire di tono. Il ragazzo
sollevò gli occhi dal piattino disseminato di briciole e la guardò
intensamente. «Oh», gli sfuggì.
Oh?
Che razza di commento è “oh”?
«Quindi ho preso e me ne sono andata. Dovevo
cambiare aria», proseguì lei, soffocando il disagio che le stava montando
dentro. Sotto al tavolo aveva cominciato a pizzicarsi le dita, così si impose
di smettere.
«Ah. Okay.»
In faccia gli si era stampata un’espressione
che in altre circostanze avrebbe potuto definirsi comica, così come comica era
stata la pronuncia del suo “okay”. Veronica, maledicendolo per tutte quelle
risposte monosillabiche, riprese a parlare. «Però qui mi trovo molto bene. Non
pensavo che Budapest fosse così bella.»
Finalmente il volto di Jòzsef si aprì in un
sorriso. Fu un gesto improvviso e spontaneo. «È una città molto caotica. Ti sei
più spostata?»
«Come?»
Lui alzò le mani e impugnò un immaginario
volante. «Viaggiare», disse poi. «Hai visitato altri luoghi?»
«No, no», si affrettò lei, sistemandosi i
capelli castani dietro le orecchie. «Non ho la macchina. Non ne ho bisogno, ho
sempre lavorato qui vicino.»
«Se vuoi posso farti conoscere altri posti.
Posti belli.»
«A Budapest?»
«Anche.» Il ragazzo aveva posato il mento
sui pugni chiusi e la osservava con una certa aspettativa, con quegli occhi
d’ebano ombreggiati dalle ciglia corvine come la zazzera di capelli che gli
coronava la testa. «Tanto resto lo stesso nel mio appartamento. Il signor
Szekeres ce l’ha, la macchina.»
Lei non fu sicura di aver capito quel che
aveva appena detto. Mancava un nesso logico. Jòzsef, che doveva aver intuito la
sua implicita richiesta di delucidazioni, si frugò nella tasca dei jeans e le
mostrò la piccola chiave dell’appartamento.
Veronica non seppe mai quanto Szekeres pagò
per far riparare la carrozzeria sfregiata della sua Volkswagen.
* * *
Jòzsef
rimase effettivamente nel suo appartamento. Poi, un giorno di marzo, Veronica
aprì la porta di casa e se lo ritrovò di fronte, la chiave stretta fra pollice
ed indice e le labbra arricciate in un’espressione di ironica resa.
«Quello stronzo ha fatto cambiare la
serratura mentre ero a lavoro», dichiarò.
Era trascorso quasi un anno dal loro primo
incontro. In quegli ultimi dodici mesi si erano visti spesso, avevano girato la
città, si erano conosciuti a dovere. Erano diventati buoni amici, e questo
sebbene lui fosse un ventunenne scapestrato e lei un’italiana a cui mancavano
tre primavere prima dei gloriosi trent’anni. Jòzsef le aveva mostrato gli
angoli meno conosciuti di Budapest, l’aveva portata a passeggiare lungo il
Danubio e le aveva detto che non sapeva muovere un solo passo di valzer. Così,
senza collegamenti razionali e i grandi perché del mondo, avevano improvvisato
pomeriggi e sere di dialoghi a ruota libera.
Veronica lo conosceva quindi abbastanza da
non desiderare che tornasse dalla madre. Lì sull’uscio, separati dalla linea
che divideva appartamento e pianerottolo tirato a lucido, non le ci volle molto
per sfilargli la chiave di mano e buttarla giù per lo scalone. «Fregatene.
Vieni a stare da me.»
Non c’era poi nulla di male. Lui aveva un
lavoro, anche se ben poca voglia di alloggiare in un appartamento non suo. La
giovane donna impiegò tutto il pomeriggio per convincerlo, affermando che
avrebbero potuto pagare l’affitto in due. Il signor Szekeres era facile da
evitare, dato che di mattina si svegliava tardi e non era quasi mai in casa
quando Jòzsef tornava dal supermercato in cui faceva il commesso.
A quelle argomentazioni, il ragazzo macinò
una qualche giostra di imprecazioni in ungherese non comprese nel dizionario di
Veronica. Era seduto sul divanetto a due posti, i gomiti sulle ginocchia e le
mani nei riccioli scuri, e si arruffava i capelli con una foga tale da far
pensare all’amica che se li volesse strappare di dosso. Poi, esaurito quello
sfogo, abbandonò le braccia e disse: «Non lo so. Non so cosa dirti.»
«Abbiamo entrambi un lavoro», insistette
lei. «Ci dividiamo l’affitto ed evitiamo che Szekeres si accorga che tu sei
qui. Facile.»
«Non è una situazione destinata a durare a
lungo.»
«Ma è l’unica che hai.»
Erano parole sincere e Jòzsef non trovò modo
di ribattere. Così si arrese e quella sera si presentò dal padrone di casa per
riconsegnargli le chiavi e chiedergli se avesse almeno la gentilezza di
aprirgli l’appartamento per riprendersi le sue cose. Invece di uscire dal
portone principale, si infilò poi in casa di Veronica portandosi dietro tre
scatoloni di vestiti e varianti. C’erano anche alcuni oggetti, tra cui foto di
famiglia, una vecchia lampada appartenuta al nonno paterno e modellini di
aerei. In attesa di decidere dove sistemare tutto quanto, avevano sparso sul
pavimento un po’ di quelle cianfrusaglie.
Erano seduti sul tappeto quando Jòzsef pescò
un libro dalla copertina rigida e lo gettò in grembo a Veronica. «Uno dei pochi
libri che io abbia mai letto. È di un ungherese.»
Lei, che si era vista arrivare quel volume
quasi in faccia, se lo sollevò davanti con espressione incuriosita. «Il titolo
non mi è nuovo», ammise.
«È piuttosto famoso, anche se a mio dire è
stata una lettura non eccezionale. “I Ragazzi della Via Pal”.» Storse le labbra
e si allungò per sfilarle il libro di mano, osservandolo poi con un certo
scetticismo. «Credo che Molnar sia l’unico scrittore ungherese conosciuto anche
all’estero. Invece in Italia avete un sacco di gente famosa. Tu leggi tanto?»
«Non troppo. Di solito non leggo romanzi.»
«C’è qualcosa da leggere che non sia un
romanzo?»
Veronica fece un sorriso. «A me piace
Ungaretti. Una volta scrisse “e come portati via, si rimane”. È una poesia ambientata su un ponte.» 2
Ci fu una pausa, poi le labbra di Jòzsef si
arricciarono. «Parli di nostalgia. Hai presente quel quadro di Munch? Quello in
cui il tizio urla?» 3
Lei annuì, pur dubitando che si potesse
parlare di un’opera descrivendone il protagonista con la parola “tizio”.
«Io ho sentito dire che si tratta di una
sorta di autoritratto. A quanto pare, Munch stava passeggiando su un ponte con
alcuni amici, quando ad un certo punto è stato preso da una profonda e
inspiegabile sensazione di inadeguatezza. Così, una volta a casa, dipinse la propria
disperazione.»
«Sei un appassionato di arte?»
Il ragazzo mise via il libro. «No. Sono un
appassionato di umanità. Te ne ho parlato perché penso che i ponti non facciano
mai bene alle persone nostalgiche; lo insegnano Ungaretti e Munch.»
Le luci che salivano dalla strada sembravano
scavargli le guance e ridisegnare i suoi zigomi. Era di aspetto piacevole,
anche se ancora molto giovane e così furiosamente inesperto del mondo. Veronica
ammonì quei pensieri e di punto in bianco chiese:
«Mi porti a Sopron?»
La domanda lo inebetì. La sua mano rimase
nello scatolone, immobilizzata nel gesto di pescare qualcos’altro. «A Sopron?»
«Sono qui da tanto, ma non sono mai andata
là. So che tra giugno e luglio fanno un sacco di spettacoli di musica antica.»
«Sai anche che dista qualcosa come duecento
chilometri da qui, vero?»
«Lo so, ma voglio muovermi.»
Dopo un attimo, Jòzsef ritirò il braccio e
si mise in grembo la cornice che aveva in qualche modo sottratto al mucchio di
cianfrusaglie. Stava quasi ridendo. «Ah, ho capito. Deve trattarsi di
Ungaretti.» Colse la punta di perplessità nel silenzio dell’amica, così sollevò
gli occhi su di lei. «La voglia di viaggiare. La voglia di essere presi e
portati via. Io credo che sia possibile, sai? Partire e rimanere allo stesso
tempo. Non affaticarti per niente. Per quanto tu possa muoverti, sei già
rimasta indietro, da qualche parte in Italia: ti prepari il sugo in casa,
impazzisci se non trovi il panettone a Natale e vedi la mafia ogni volta che
qualcuno non ti fa lo scontrino.»
«Allora andiamo?»
Lui la osservò per un lungo momento, con in
volto una serietà quasi spiazzante. Poi il suo volto si aprì di nuovo in un sorriso.
«Faremo in modo di avere entrambi qualche giorno di ferie. Presumo andremo in macchina;
ho un amico che potrebbe scarrozzarci fino a Sopron.»
«In macchina? Non possiamo prendere il
treno?» Si sentiva un poco capricciosa, lei che era maggiore di un bel po’
d’anni.
A quella richiesta, il ragazzo si mise a
ridere. «No, non possiamo», rispose quando quel moto di ilarità si estinse in
un sorrisetto. «Non possiamo perché i treni hanno la brutta abitudine di
ispirare nostalgia alla gente, e perché Paulo Coelho una volta prese la
Transiberiana e rischiò di impazzire.» 4
* * *
I
tetti di Sopron erano di un acceso rosso mattone. Spiccavano sul cielo
grigiazzurro come gli abili schizzi di un giovane fiammingo. Girando per quelle
strade avvolte dal profumo dei gerani e da quello più penetrante del vino,
Veronica fu colta dalla sensazione di camminare nella pittoresca opera di un
miniaturista; le facciate dei palazzi, bianche o di un colore che ricordava la
cannella, si stringevano sulle vie del centro storico con una grazia e una
gentilezza quasi frastornanti.
Il viaggio in macchina era valso il
risultato. L’amico di Jòzsef, un ragazzotto sui venticinque anni, li aveva
lasciati all’hotel prima di proseguire verso l’Austria. Sopron era
effettivamente sul confine, divisa fra ungherese e tedesco; i cartelli davano
indicazioni in entrambe le lingue e la popolazione le parlava entrambe. Sarebbero
rimasti in quell’angolo di Ungheria per quattro giorni, buttati come bottiglie
alle deriva in quella città che sapeva di barocco e viti colme d’uva.
Visitarono il municipio e la Porta della
Fedeltà. Si sedettero ai piedi della Torre del Fuoco e lì Jòzsef le disse che Franz
Liszt aveva tenuto il suo primo concerto proprio a Sopron.
«O shop-ron.
La chiamano anche così», affermò in un secondo momento, un allegro sorriso
ad illuminargli gli occhi d’ebano. «Molti viennesi venivano qui a fare spese.
Ora però c’è la crisi, e la gente si muove di meno.»
Era la metà di luglio e il sole pioveva
dall’alto come brina d’oro. Illuminava le soglie, destinava i portici ad un
quieta penombra, schizzava come briciole d’acqua sui cerchioni delle biciclette
e saliva ancora, in alto, sciogliendosi simile ad ambra sui balconi in fiore. Ad
un certo punto, mentre passeggiavano per le vie, Jòzsef l’aveva presa per un
polso e l’aveva braccata in una sorta di abbraccio, trascinandola con sé in un
giocoso e improvvisato valzer; e lei, il cui grido di sorpresa era decollato
alto come il sole, si era lasciata prendere e portare via, e così avevano girato
due e tre volte, una quarta sopra un tombino, una sesta e una nona lì sotto
agli sguardi incuriositi di chi passava a piedi, entrambi ridendo, entrambi
consapevoli dello splendore di quell’allegria scoordinata, sfuggente e confusa
come lo erano i loro passi di danza.
Distante quattro anni da casa, Veronica
stava bene. C’era spontaneità nel vivere quel luogo straniero, quella gente non
conosciuta, quel cielo spruzzato di nuvole estive; c’era la gioia di sapersi
lontana, c’era l’orgoglio di sentirsi un’ospite così desiderata da quelle
strade mai visitate prima. Nelle piazze suonavano antiche ballate ungheresi e
le bancarelle offrivano cultura e identità. Jòzsef la portò a comprare qualche
camicetta dalle maniche fittamente decorate di motivi floreali e pretese che ne
indossasse subito una, spiegandole che erano indumenti tipicamente ungheresi.
Quanto a lui, recuperò un basco a quadri e un gilet nero prima di rimescolarsi
con lei in quell’indefinito spazio di luce, musica e festa.
Raggiunsero la piazza principale. Erano
stati piuttosto fortunati a capitare a Sopron proprio durante quel fine
settimana; di fronte al municipio si agitavano grida e colori e l’odore del
vino bianco sfrecciava nell’aria come bollicine d’argento. Su un piccolo palco
suonavano quattro uomini abbigliati secondo la tradizione. Le loro dita
giostravano su piccole chitarre, impugnavano bacchette e facevano rullare i
tamburi. Una donna sgambettava reggendo le ampie gonne verdi e rosse, e i
merletti della sua camicia strizzata sul seno saltellavano con frenesia. Di
fronte a loro c’era chi abbozzava qualche salto, chi girava reggendo instabili
bicchieri di birra, chi chiamava l’amico e l’amica perché si buttasse nel
mucchio, e presto, perché la musica coinvolgeva, la musica chiamava a raccolta
i figli del popolo, e la musica non aspettava, non quel giorno.
Nel trascinarla sotto al palco, Jòzsef si
versò addosso quasi tutto il vino. Veronica scoppiò a ridere e cercò di
avvisarlo, ma i tamburi erano troppo insistenti e le sue labbra sorridenti
parvero muoversi senza che ne uscisse alcun suono. Si infilarono tra la gente,
mano nella mano, tagliando conversazioni, sgusciando fra braccia e voci in
festa. Si fermarono solo quando ebbero conquistato una pozza per loro; solo
allora il ragazzo la lasciò andare e si voltò verso di lei.
Forse era l’atmosfera, forse il momento
nella sua più semplice e nuda singolarità, ma Veronica si rese conto di quanto
il suo viso fosse diverso dal proprio. Le sue iridi erano incredibilmente scure,
le ciglia folte, i capelli disordinati. C’era qualcosa, nel taglio dei suoi
zigomi e nella fronte lucida, che le ricordava il volto spigoloso di un tedesco,
e questo benché avesse poco più di vent’anni e non fosse nemmeno mai stato in
Germania. Si chiese cosa stesse invece vedendo lui; una giovane donna vicino ai
trenta, dal volto un poco olivastro a causa del sangue calabrese che aveva
ereditato dal ramo paterno, con gli occhi di un anonimo castano chiaro e
dall’espressione stordita e arruffata.
Poi accadde tutto in un secondo scarso. In
un moto di gioia furente, con un gesto tanto repentino da farle quasi male e un
trasporto che rasentava la teatralità, Jòzsef le schiaffò le mani sulle guance
e le stampò un bacio sulle labbra. Quando si scostò di colpo, lei vide che
stava quasi ridendo.
«Viaggia quanto vuoi, Vero», le disse,
gridando al di sopra della musica e dei tamburi che rullavano e dei piedi che
giravano e saltavano e vivevano. «Viaggia quanto vuoi, ma non scappare. Fuggire
è inutile quando c’è la nostalgia a ricordarti che non puoi lasciare indietro
te stessa.»
* * *
Bando
all’artificiosa perfezione delle romanticherie: i giorni a Sopron non li resero
amanti.
Veronica non aveva mai tenuto in
considerazione il luogo comune secondo cui la donna, in una relazione, dovesse
essere più giovane dell’uomo. Non parlarono subito di quel che era successo in
piazza; aspettarono di essere di nuovo a Budapest, in quella realtà più caotica
e meno provinciale, vicini però alla tacita ed onnisciente volontà del Danubio.
Capitò due giorni dopo il loro ritorno,
quando lei, di ritorno dal lavoro, aprì la porta e sorprese Jòzsef a riempire i
tre scatoloni che aveva portato con sé. I loro sguardi si incrociarono.
«Non te ne stai andando», disse Veronica.
Non era una domanda; era, se possibile, una forma di convincimento. In faccia
le si era inchiodata un’espressione assolutamente ammutolita, e le sue labbra
rimasero un poco schiuse in uno sdegnato indizio di incredulità.
Lui, che era pietrificato sul posto, non si
mosse. Seduto sul tappeto con la mano affondata in uno degli scatoloni, rimase
ad osservarla con intensità per un lasso di tempo che parve tendersi come la
corda di un arco. «Ci ho riflettuto», disse alla fine, e la freccia partì. Fu
come tracciare un’improvvisa crepa nell’immobilità che fino a quel momento
aveva governato fra di loro. «La colpa non è tua.»
«Allora spiegami.» La giovane si chiuse la
porta alle spalle e vi si appoggiò contro con una flemma quasi arrendevole. La
borsa verde le pendeva dall’avambraccio come un addolorato messaggio di
abbandono. «Jo, sei qui solo da quattro mesi. Hai pagato la tua metà di
affitto, Szekeres non si è ancora accorto di nulla, non puoi andare da
nessun’altra parte. Ha a che fare con quello che è successo a Sopron?», chiese
di colpo, e vide i suoi occhi d’ebano farsi più grandi. «Lo hai fatto tu. Ti dà
fastidio che io sia più grande di te? Dillo, se è così.»
«No, quel bacio non c’entra proprio niente.»
«Giuralo.»
«Lo giuro.»
Veronica fece un sospiro. Per un terribile
attimo si scoprì a corto di parole. «E allora cos’è che non va? Vuoi dirmi che
chiederti di portarmi a Sopron è stato un errore?»
«No.» Jòzsef ricominciò a sistemare l’ultimo
scatolone che gli mancava. C’era ancora qualche vestito sul divano, così
riprese a piegarli per poi adagiarli nel contenitore di cartone. «È per via di
quello che ho detto.»
Lei si ricordava bene quelle frasi. Le aveva
sentite con chiarezza benché il frastuono dei tamburi sembrasse insormontabile.
«Non hai detto nulla di sbagliato», mormorò. «Io continuo a non capire.»
«Non sono stato coerente con me stesso. Il
fatto è che io ho accettato il consiglio di mio padre senza fiatare. Lui mi ha
chiesto di andarmene e io l’ho fatto; mi ha proposto una fuga, e io sono
scappato.» La sua voce era seria e priva di inflessioni mentre sistemava un
paio di jeans e li infilava nello scatolone. Non la guardava. Ad un tratto lasciò
perdere e poggiò le mani sulle ginocchia, quasi lasciandole cadere, e alzò gli
occhi nei suoi. Con una stretta al cuore, Veronica vi lesse una sofferenza di
cui mai l’avrebbe creduto capace. «Vero, io ho nostalgia di casa. So che papà
mi ha mandato via per il mio bene, per evitarmi la pietosa vista di mia madre
che si ammazza con l’alcol. Ma voglio tornare, voglio dare una mano, perché non
posso starmene lontano con il pensiero che la mia famiglia sta andando a pezzi.
Tu però questo non lo capisci», aggiunse infine. Il suo tono era ora più stanco,
privo di risorse. «Tu sei sicura di esserti lasciata tutto alle spalle, di aver
lasciato te stessa da qualche parte, e non ammetterai mai che l’Italia ti manca
e che di nostalgia saresti in grado di morire.»
«Io qui sto bene, Jòzsef», lo fermò la
giovane per paura che continuasse. Aveva serrato un poco i pugni contro il
legno della porta, incassando la sua sincerità con la stessa, disperata
sorpresa con cui si ricevono delle pugnalate nel petto. «Sei stato tu a dirlo.
Si può viaggiare quanto si vuole purché non si viva il viaggio come una fuga;
io dall’Italia sono scappata, è vero, ma poi ho viaggiato. Sono andata a
Sopron, e ci sei stato anche tu.»
Le dita del ragazzo, lì sulla stoffa dei
jeans, tremarono appena. Lo fece anche la sua voce. «Io non mi sono spostato
per viaggiare, Vero.»
Allora lei si rese conto di aver fatto un
errore. Di aver parlato forse troppo in fretta, di aver filtrato tutto in prima
persona singolare. Si sentì abbandonare, sentì le spalle rilassarsi. Jòzsef
doveva aver vissuto quei quattro giorni come una fuga; doveva essersi mosso per
il crudele suggerimento di una parte di sé, per cercare qualcosa che poteva
invece trovare in un unico posto. A casa. Si ricordò dell’impressione che le
aveva fatto, di quando si era trovata a guardare a lui come ad un giovane
adulto ancora furiosamente inesperto del mondo. Quei suoi capelli arruffati le
avevano sempre fatto pensare ad un creativo pittore fiammingo o ad un bohémien, uno di quelli che vivevano alla
giornata, presi dalla ricerca di un qualche svago per cui valesse la pena
spendere un minuto di esistenza.
Sapeva che i suoi genitori vivevano nella
periferia di Budapest, piuttosto distante da dove lei viveva. Probabilmente non
si sarebbero visti troppo di frequente. Era una realtà difficile da accettare,
ma ben sapeva che era giusto concedergliela.
«Non posso impedirtelo», disse alla fine. «Sono
stata una stupida a non capirlo prima.»
«Non più di quanto lo sia stato io a non
capirlo fino ad ora.» Jòzsef provò un sorriso. «Sarò pur scappato da casa, sarò
pur fuggito fino a Sopron, ma un viaggio l’ho fatto. Sono stato in Italia.»
La fronte di Veronica si corrugò appena. «Quand’eri
piccolo?»
Il ragazzo non riuscì a trattenere una lieve
risata. Scosse il capo, si morse il labbro prima di tornare a guardarla; lui
ancora inginocchiato a terra, lei in piedi di fronte alla porta. A separarli, chilometri
di terra e fiumi e monti. «Me l’hai fatta conoscere. Gesticoli spesso, e questo
lo fanno gli italiani; ce l’hai a morte con qualsiasi governo, vedi corruzione
ovunque, sbirci i menù per cercare pomodoro e aglio, in dispensa hai un’intera
collezione di confetture, detesti i caffè serviti freddi, provi un’insensata
antipatia per i francesi e per gli svizzeri, ti fermi davanti alle chiese e ai
musei e ti chiedi perché in Italia l’arte non sia valorizzata come invece
meriterebbe. Ho notato tutte queste cose. Hai imparato a spostarti e a portare
con te qualcosa della tua identità. Sotto qualunque bandiera, sei destinata a
non perderti.»
Non si era concesso nemmeno una pausa e se
la concesse in quel momento. Aveva le labbra secche, vide lei, quelle di chi
parla in fretta per dire qualcosa che pensa da troppo tempo.
«Io credo che Ungaretti e Munch avessero
ragione», concluse lui dopo quel silenzio. «Bisognerebbe viaggiare di più e
fuggire di meno.»
Erano parole che valevano quanto
l’inflessibile dichiarazione di un giudice o il risultato alla fine di
un’equazione. Erano giuste, forse crudeli o inspiegabili, eppure corrette come
la perfetta e complessa meccanica che regge il mondo.
Muovendosi piano, Veronica appoggiò la borsa
sulla cassapanca di legno e si avvicinò, poggiando poi le ginocchia a terra una
volta che fu di fronte a lui. Rimase ad osservarlo per qualche istante, a
domandarsi in che modo coraggio e rassegnazione potessero convivere nell’animo
di un essere umano, quindi disse: «Lo penso anche io. Penso che tornare a casa,
per te, sarà il miglior viaggio di tutta la vita.»
La bocca di Jòzsef si distese in un sorriso.
«Già. In fondo non si può fuggire tornando indietro; quindi sì, sarà un viaggio,
anche se breve, anche se mi porterà in un luogo che conosco.»
Lei si mosse per prima. Allungò le braccia e
lo strinse a sé, avvertendo il calore della sua guancia pallida e il pizzico
dei capelli arricciati. E ringraziò il Danubio, lo ringraziò con tutta se
stessa per avergli concesso quel dono così grande, in tutte le lingue che
conosceva, in tutte le lingue del mondo. «Fatti rivedere», sussurrò, mentre le
mani del ragazzo cercavano e trovavano la sua schiena e lì si aggrappavano, con
una forza trovata solo all’ultimo. «Torna quando vuoi. Non lasciarmi sola in
mezzo al ponte.» 5
* * *
Comunque
sia, non mi chiamo Veronica. È però vero che lui si chiamava Jòzsef.
Ci frequentammo ancora per circa un anno. La
vita gli andava bene, e così andava anche la mia. Mi presentò alla sua famiglia
e mi invitarono persino al pranzo di Natale. Per quanto fosse ancora presa dall’alcol,
sua madre cucinava un’ottima halaszle.
Perdemmo i contatti pian piano, come prima
sfugge e poi svanisce il sapore dei sogni. Deve essersi trasferito, suppongo,
perché qualche tempo fa l’ho chiamato a casa e mi ha risposto la voce di
qualcuno che non conosco.
Ieri, mentre facevo la spesa, mi è parso di
vederlo alla sua solita cassa, in quell’anonimo supermercato con cui si
guadagnava così onestamente da vivere. È stato solo un attimo, perché non sono
riuscita a trovarlo quando ho aggirato lo scaffale. Sono però convinta che ci
rivedremo, magari in questa città, magari in questo Paese. Magari durante un
viaggio.
Forse me lo troverò di fronte su un treno,
oppure un giorno mi imbarcherò su un aereo e lui sarà accomodato al sedile
accanto al mio, e allora mi guarderà con quel suo sorriso furioso e fiammingo e
mi dirà che Munch era solo un tizio che su un ponte aveva smarrito se stesso.
Note: mi
sono informata circa il Paese in cui ho voluto inserire le vicende, guardando
immagini, ascoltando ballate strambe – ma belle - e molestando svariati blog
riservati al turismo. Il sito che ho visitato più spesso mi è parso
attendibile; preciso però che non sono mai stata in Ungheria e che qualcuno di
più esperto di me potrebbe quindi trovare qualche inesattezza.
1 «Marhasàg! Marhasàg!» ; si tratta di un modo piuttosto gentile per
dire a qualcuno che non concordi su quel che ti è appena stato detto.
Letteralmente, pensi che il tuo interlocutore abbia detto una “cazzata”.
2 «A me
piace Ungaretti. Una volta scrisse “e come portati via, si rimane”. È una poesia ambientata su un ponte.» ; la
poesia si intitola “Nostalgia”. La lessi alle medie e mi rimase in testa. La
consiglio a chiunque.
3 «Hai presente quel quadro di Munch? Quello in
cui il tizio urla?» ; il quadro è
ovviamente “l’Urlo”, di Munch. Ciò che poi Jòzsef racconta circa la presunta
nascita di quest’opera è quel che il mio professore d’arte mi ha detto. Credo
che le cose siano poi andate davvero così.
4 « [...]
Paulo Coelho una volta prese la Transiberiana e rischiò di impazzire.» ; richiamo
ad “Aleph”, un libro di Coelho in cui l’autore narra appunto il viaggio che
avrebbe intrapreso lungo la Transiberiana. Non ho ancora capito se sia la
cronaca di un’esperienza vera o il frutto di un viaggio mentale.
5 «Torna quando vuoi. Non lasciarmi sola in mezzo al ponte.» ; un riferimento alla ragazza nella già citata poesia di Ungaretti.