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Autore: Dew_Drop    20/02/2015    3 recensioni
Convinta da un brutta esperienza, Veronica trascina se stessa e la sua ferita in Ungheria, lasciando così la terra che l’ha vista nascere. Qui sul Danubio conoscerà un ragazzo destinato a farle capire la cruciale differenza fra fuga e viaggio.
“Io ho sentito dire che si tratta di una sorta di autoritratto. A quanto pare, Munch stava passeggiando su un ponte con alcuni amici, quando ad un certo punto è stato preso da una profonda e inspiegabile sensazione di inadeguatezza. Così, una volta a casa, dipinse la propria disperazione.”
[ I Classificata al Contest "Lontano da Casa", indetto da 9dolina0 ]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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STORIA






Come Munch smarrì se stesso su un ponte




________________________




L’uomo sulla soglia rimase in silenzio per qualche istante prima di decidersi ad aprire bocca, tentando un insicuro eppur comprensibile approccio con la lingua inglese. «La signora che lei cerca è morta cinque anni fa.»

    Lì di fronte, ai piedi dei pochi gradini che portavano al portone d’ingresso, la ragazza dai capelli castani accolse quella risposta con l’imbarazzato atteggiamento di chi è consapevole d’aver disturbato per errore un perfetto sconosciuto. In mano reggeva un borsone azzurro, sottobraccio una sciarpa pesante e il berretto di lana che si era sfilata non appena il padrone di casa le aveva aperto la porta. Dimostrava ventitré anni, se non qualcosa in più. O forse, ipotesi molto probabile, era la luce del sole che scendeva obliqua nell’aria a disegnarle in volto ombre e segni che non c’erano.

    «Mi dispiace», disse, riparando a sua volta sull’inglese. «Mi spiace averla disturbata.»

    Gli occhi dell’uomo si erano posati sul suo borsone e avevano già tratto delle conclusioni. Era uno sguardo castano, vicino alle cinquanta primavere, eppure ancora capace di un considerevole acume. Lei se n’era già accorta.

    «Lei vuole fermarsi», disse, e non fu una domanda.

    «Pensavo che la zia di mia madre abitasse ancora qui. È da molto che non le facevo visita; avrei dovuto informarmi.»

    «Ora abito io qui. Questa è la mia casa.»

    «Ho capito, signore.»

    Inglese. Collante fra popoli.

    «Ha fatto un lungo viaggio. Spagna?»

    Lei scosse la testa. Il vento si era fatto più feroce. Si domandò se lì soffiasse sempre così gelido. L’uomo dovette intuire il corso dei suoi ragionamenti, perché si scostò dalla porta e la invitò ad entrare.

    Viveva da solo, ma non si faceva mancare nulla. Si trattava di un appartamento piuttosto spazioso, dall’aspetto non necessariamente straniero. Le servì un tè e le disse quel che sapeva riguardo la scomparsa della proprietaria che l’aveva preceduto; poco, a onor del vero.

    «Voleva farle una sorpresa?», le domandò ad un certo punto, in quel suo inglese un poco spigoloso. «Per questo non l’ha avvisata?»

    «È così», fu la pronta, bugiarda risposta. «Da bambina venivo a trovarla spesso. Abbiamo poi perso i contatti.»

    «Mi dispiace che sia venuta a sapere della sua morte in questo modo.»

    Lei annuì e basta, senza sforzarsi di tradurre nei minimi dettagli una frase di cui aveva indovinato a grandi linee il messaggio. Non le interessava troppo della zia di sua madre; in realtà l’aveva vista due volte sole e aveva ripreso in considerazione la sua esistenza solo tre mesi prima, ponendola sullo stesso piano di un’opportunità di fuga. Dettagli.

    «Ha degli euro con sé? Denaro?»

    In un’altra circostanza sarebbe di certo passata per una domanda scortese. L’uomo l’aveva difatti posta con un certo grado di cautela, con un disinteresse dovuto più al rispetto che alla diffidenza vera e propria.

    «Sì.»

    «Qui la moneta non è quella. Dovrà cambiarla, se vuole restare.»

    «Non so come si fa.»

    Lui sembrò rigirarsi un sorso tè in bocca, come a pensare. «È una situazione imbarazzante. Non voglio che lei alloggi in hotel, sarebbe scortese. Io affitto piccoli appartamenti», rivelò alla fine. «Questo palazzo è mio. I piani superiori sono in affitto.» C’era qualcosa di comico nel condurre un dialogo in quell’inglese stentato, ma funzionava ugualmente. «Dipende da quanto ha con sé», aggiunse.

    La giovane donna continuava ad osservarlo in silenzio. Aveva capito ogni cosa che le era stata detta, così come aveva intuito che l’uomo, da parte sua, aveva fiutato la possibilità di fare affari. Si era presentata alla porta di casa sua e ora lui, da bravo proprietario, le proponeva il colpaccio. Non era uno stupido; gli si era consegnata travestita da occasione d’oro. Ammetteva a se stessa che stare in un hotel non le sarebbe convenuto, soprattutto perché in quella città non voleva fermarsi solo per una settimana o due. Sarebbe stato bello fermarsi lì per tutta la vita.

    «Le basterà darmi una certa somma d’anticipo», insisteva lui nel frattempo. «Conosco chi offre del lavoro in zona. Anche se non parla la lingua, la imparerà. Per quanto ha intenzione di fermarsi, signorina?»

    «Il più possibile.»

    «Allora le sconsiglio la permanenza in un hotel.»

    «Appunto. Ha ragione.»

    «Non gliel’ho ancora chiesto, sono davvero un maleducato. Io sono il signor Szekeres.»

    «Io sono Veronica», rispose lei. Aveva finito il tè, che del tè aveva solo il nome. A confortarla era il pensiero che nella città in cui si trovava si mangiavano un sacco di dolci. Dolci e paprika. «Quanto verrebbe a costare l’affitto?»

 

 

* * *

 

 

A distanza di tre anni, ancora si chiedeva come il signor Szekeres facesse di nome. Non gliel’aveva chiesto, né in fondo sentiva il bisogno di saperlo. Nel palazzo lo conoscevano tutti per cognome e ciò bastava a confermarle che fra quelle quattro pareti si sopravviveva anche senza quel che veniva prima.

    Condurre l’esistenza in un appartamento fra altri cinque non era male. Non aveva stretto troppo con i vicini, eccezion fatta per le festività. Szekeres approfittava di occasioni simili per organizzare un pranzo da lui, e di rado qualcuno rifiutava l’invito – sostanzialmente perché, pensava Veronica, si mangiava senza mettere mano al borsellino. Gli affitti non rientravano in effetti negli standard di approvazione di tutti quanti, ma in un modo o nell’altro si trovava sempre il trucco per far quadrare le cose. Il padrone di casa era piuttosto severo sui pagamenti e non apprezzava le inesattezze nel conteggio; non si faceva problemi a sbattere fuori chi non pagava per due volte di seguito.

    Budapest era una città indolente. Sembrava starsene immobile, rilassata e solenne come un gatto persiano, mentre i suoi cittadini si affaccendavano per correre dietro alla quotidianità. Con il passare del tempo aveva cominciato a credere che a muovere il Danubio fosse un’energia particolare, simile al dondolio del valzer viennese o alla furia appassionata di un giovane pittore. Quando aveva espresso questa sensazione al signor Szekeres, si era vista rispondere con una risata.

    “Signorina, Vienna è un punto nero in confronto a questa città”, le aveva detto con un sorriso a trentadue denti. Ventinove, considerando i tre che gli mancavano. “Ma lei lo sa che anche qui, come là, abbiamo i nostri caffè letterari? Ha già visitato il Caffè Hungaria?”

    Si era presto abituata all’idea che fra Vienna e Budapest corresse un certo grado di insofferenza, lo stesso che, immaginava, correva fra Milano e Roma o fra Parigi e Londra. Era sempre così quando si paragonavano due città e si cercava di decidere quale fosse la più bella. Nonostante ciò, non voleva fare a meno del pensiero che il Danubio recasse con sé qualcosa dell’Austria. Concluse che, se proprio non le erano concessi paragoni fra signorilità austriaca e solennità ungherese, le rimaneva pur sempre il diritto di affermare che il Danubio, poiché sfilava fra glorie di quella portata, era il fiume più fortunato e maestoso del mondo.

    Quanto alla sua, di fortuna, Veronica si riteneva ben piazzata. La palazzina di Szekeres si trovava non troppo lontano dal centro storico, in un’area calda e viva. Aveva fatto fatica ad abituarsi alle colazioni consumate di fretta, ai brodi vegetali o di pollo che quasi sempre precedevano qualsiasi pasto della giornata, alle insalate servite di rado o solo su richiesta. Non aveva ancora imparato ad apprezzare il gulasch, forse perché la sua assoluta preferenza andava alla zuppa di pesce – halaszle, traduceva stupidamente ogni volta che ci pensava -, ma per il resto poteva dirsi integrata. Poi c’era la lingua. Discorso a parte.

    Se aveva imparato qualcosa in ungherese? Sì, certo. Szekeres l’aveva subito messa a lavorare, più per essere certo che lei pagasse l’affitto con regolarità che per fare un favore a lei, così si era adattata alle circostanze: lavanderia, tabaccheria, bar dietro l’angolo. Aveva presto scoperto che i salari in Ungheria erano tradizionalmente bassi e che in genere gli uomini avevano più opportunità di lavoro rispetto alle donne. Provenendo dall’Italia, non era qualcosa che la sconvolgesse.     

    Tre anni dopo faceva ricorso all’inglese solo rare volte. Sapeva sostenere un dialogo, conosceva le formule di saluto, aveva imparato le espressioni tipiche. Il suo rapporto con la lingua andava così a gonfie vele che le capitava di parlare ungherese anche quando telefonava ai suoi genitori rimasti a Milano.

    Loro avevano appoggiato solo a metà la sua decisione di andarsene. A casa era rimasto il figlio Stefano, minore della sorella di cinque anni, e Veronica immaginava che su di lui mamma e papà riversassero un’attenzione eccessiva per compensare quella che non potevano scaricare su di lei. A volte si sorprendeva, la mattina, a cercare la macchinetta del caffè o a usare uno strofinaccio che nella sua immaginazione era a quadri blu e bianchi, ruvido e spesso come quello che aveva sua nonna. Non si era scordata della tovaglia antimacchia e del perenne odore di pasta al sugo che si infilava su per le scale quando lei, ancora in camera, attendeva di scendere per il pranzo della domenica. Erano immagini e percezioni che avvertiva con frastornante chiarezza, odori che se ne restavano impigliati nelle narici e suoni che le ronzavano nelle orecchie, e tutto ciò benché fossero trascorsi tre anni.

    Oddio, cominciava a pensare. Oddio, mi sto ammalando. Mi sto ammalando di nostalgia.

    Era davvero un male così grande? Aveva sentito di persone che viaggiavano per tutta la vita senza mai trovare nulla, senza riuscire a sanare il desiderio di fuga e ricerca in cui si sentivano confinate. Certi cittadini del mondo erano bottiglie di vetro che si muovevano per il mare, persuasi solo dalle onde che promettevano loro un approdo definitivo. Veronica non voleva viaggiare; era scappata una sola volta e lì sul Danubio voleva fermarsi, morire di nostalgia, se necessario, e convincersi che erano quelle le rive su cui costruire.

    Qualcosa doveva pur succedere. Qualcosa doveva pur muoversi, qualcosa doveva pur dirle che se n’era andata per un buon motivo, che il suo non era stato il capriccio di una donna un po’ troppo testarda. Qualcuno doveva pur raccoglierla dal mare.

    Poi il Danubio le consegnò Jòzsef Varga.

 

 

* * *

 

 

«Devi farmi entrare.»

    Doveva essere la terza volta che lo ripeteva. Veronica gli aveva aperto la porta qualche attimo prima, convinta, più che dall’intenzione vere e propria di accogliere un ospite, dal pensiero che lui sarebbe stato altrimenti in grado di scardinare l’uscio a suon di pugni. Lo guardò di nuovo come se fosse la prima volta, indagando nei suoi grandi occhi scuri una buona motivazione per dargli ascolto.

    Il ragazzo sembrava sulle spine. Si guardava furiosamente attorno, frugava con lo sguardo giù per la rampa di scale, respirava pesantemente come se avesse corso per chilometri. Doveva avere poco più di vent’anni, a giudicare dalla zazzera riccia che gli copriva la fronte. Lei balbettò qualcosa in un disperato tentativo di articolare subito qualcosa in ungherese, ma a precederla fu un’imprecazione, un latrato che sfrecciò su per la rampa di scale come il rombo di un tuono. Il signor Szekeres.

    «Marhasàg! Marhasàg!» 1

    I suoi passi che slittavano sui gradini, le sue dita grosse e nodose che si arrampicavano sul corrimano. Stava correndo. Stava seriamente correndo su per le scale, e lo stava facendo con la delicatezza di un mastino imbestialito.

    Il ragazzo non ci pensò due volte; scansò Veronica, s’infilò sotto il suo braccio e si buttò dentro. Lei, rispondendo per istinto a quella sua rocambolesca reazione, fece una piroetta e si chiuse l’uscio alle spalle, girando la chiave senza scostare la schiena dalla porta. Per la fretta, alcune ciocche castane le erano finite in bocca, eppure rimase immobile. Non si mosse nemmeno il suo inaspettato ospite, che tese solo l’orecchio alle falcate di Szekeres. I suoi passi pesanti scivolarono sul pianerottolo prima di buttarsi sulla rampa seguente. Le sue generose imprecazioni si allontanarono sottoforma di eco insieme alla corsa forsennata dei piedi.

    Solo allora Veronica si rese conto d’aver trattenuto il respiro. Lo buttò fuori, addolcì la presa sulla maniglia. Non aveva ancora scostato gli occhi dal ragazzo, ora fermo in mezzo al piccolo salotto. La televisione andava ancora, anche se lei nemmeno ricordava più cosa stesse guardando. Sul tavolino lì vicino c’era ancora la tazza di tè che si era preparata dopo aver mangiato un panino. Giusto, ecco un altro complicato dettaglio della vita ungherese: lì il pranzo non era tenuto in gran considerazione.

    «Prima che tu cominci a chiedere», esordì lui, sollevando un poco le mani. «Posso spiegarti tutto quanto. Non sono un criminale.»

    Ora che aveva il tempo di osservarlo, Veronica avvertì una piccola sensazione di dèjà-vu. Impiegò qualche attimo per riordinare le idee. «Non ti sei trasferito qui qualche mese fa? Non stai all’ultimo piano?»

    «Sto avendo dei problemi con l’affitto. Szekeres non apprezza, ma posso rimediare; tra qualche settimana potrò dargli i soldi che cerca.»

    «Sono qui da tre anni e ti garantisco che al signore non piace aspettare.»

    «Infatti.»

    «Infatti?»

    «Infatti vuole che me ne vada», concluse lui. «Non mi va di perdere casa in questo modo. Sono un lavoratore onesto. Un po’ sfortunato, ma onesto.»

    Veronica provò un lieve moto di simpatia per quel ragazzo che le aveva quasi distrutto la porta. Il signor Szekeres adorava sbattere gente fuori dalle sue palazzine quasi quanto trovarsi nuovi clienti con cui riempirli di nuovo. Si stancava presto di chi tardava con l’affitto, anzi sembrava vivere soltanto nell’attesa che qualcuno un giorno bussasse al pian terreno e gli dicesse: “Mi dispiace, ma per questo mese non riuscirò a darle i soldi.” Non impiegava mai troppo tempo per decidere di farsi riconsegnare la chiave dell’appartamento e per offrirla a qualcun altro. Aveva la fortuna di vivere in un angolo della città piuttosto frequentato, oltre a quella di essere in un Paese invaso stagionalmente dal turismo.

    Così, raccolti questi ragionamenti, provò a stendere un sorriso cordiale. «Resta qui per un po’. Vuoi una fetta di torta?»

    La somloi galuska era uno di quei dolci per cui impazziva. Poco elaborata, a dire il vero, ma le ricordava la prima volta che l’aveva assaggiata per caso in uno dei caffè che Szekeres le aveva proposto di visitare. Così associava ancora l’avvolgente gusto del cioccolato ai suoi primi e difficili tempi a Budapest, tempi in cui anche solo chiedere lo scontrino ad una cassa le era quasi impossibile. Togliamo il “quasi”.

    Il ragazzo si chiamava Jòzsef. Raccontò di essersi trasferito per cause di forza maggiore, adducendo ad una madre un po’ troppo affezionata all’alcol e ad un padre che gli aveva consigliato di trovarsi un altro posto in cui stare.

    «Presumo perché ero d’impiccio», ipotizzò, trafficando con i pezzetti di torta che aveva metodicamente tagliato e sparso nel piatto. Veronica vide dell’ingenuità nel modo in cui cincischiava con la forchetta osservando con insensata concentrazione i bocconi di dolce prima di sceglierne uno e infilarselo in bocca. Stava forzando una superficialità che non era altro se non una profonda e recalcitrante voglia di reagire e rivoltarsi contro il mondo. Tipico degli adolescenti. Senza un motivo per preciso, si ritrovò a pensare ad una frase con cui suo nonno avrebbe di certo commentato.

    El gh’ha el dun de Dio de capì nagott. Ha il dono di Dio di non capire niente.

    Jòzsef si trovava in quell’imprecisato momento della vita umana in cui si ha l’impressione che il destino pizzichi la tua serenità solo per l’insano divertimento di rovinarti l’esistenza senza una buona ragione. Veronica si astenne dall’osservare che probabilmente il padre l’aveva allontanato per risparmiargli la brutta influenza di sua madre; non era mai stata brava a sostenere dialoghi di una certa portata, peraltro con qualcuno che aveva conosciuto da poco. Così annuì e basta, con in volto un’espressione che persino a lei sembrò quasi inebetita, e si costrinse a non provare compassione.

    Tra un boccone e l’altro, il ragazzo passò il testimone e le domandò il motivo del suo trasferimento. Lei, che si era aspettata il contropiede, si scoprì spiacevolmente chiamata in causa.

    «Avrei dovuto sposarmi», disse.

    «Ma?»

    «Il mio fidanzato non si è presentato in chiesa.»»

    La televisione andava ancora e benché la ragazza avesse abbassato il volume per poter parlare con Jòzsef, nell’attimo di silenzio che seguì la voce della presentatrice parve salire di tono. Il ragazzo sollevò gli occhi dal piattino disseminato di briciole e la guardò intensamente. «Oh», gli sfuggì.

    Oh? Che razza di commento è “oh”?

    «Quindi ho preso e me ne sono andata. Dovevo cambiare aria», proseguì lei, soffocando il disagio che le stava montando dentro. Sotto al tavolo aveva cominciato a pizzicarsi le dita, così si impose di smettere.

    «Ah. Okay.»

    In faccia gli si era stampata un’espressione che in altre circostanze avrebbe potuto definirsi comica, così come comica era stata la pronuncia del suo “okay”. Veronica, maledicendolo per tutte quelle risposte monosillabiche, riprese a parlare. «Però qui mi trovo molto bene. Non pensavo che Budapest fosse così bella.»

    Finalmente il volto di Jòzsef si aprì in un sorriso. Fu un gesto improvviso e spontaneo. «È una città molto caotica. Ti sei più spostata?»

    «Come?»

    Lui alzò le mani e impugnò un immaginario volante. «Viaggiare», disse poi. «Hai visitato altri luoghi?»

    «No, no», si affrettò lei, sistemandosi i capelli castani dietro le orecchie. «Non ho la macchina. Non ne ho bisogno, ho sempre lavorato qui vicino.»

    «Se vuoi posso farti conoscere altri posti. Posti belli.»

    «A Budapest?»

    «Anche.» Il ragazzo aveva posato il mento sui pugni chiusi e la osservava con una certa aspettativa, con quegli occhi d’ebano ombreggiati dalle ciglia corvine come la zazzera di capelli che gli coronava la testa. «Tanto resto lo stesso nel mio appartamento. Il signor Szekeres ce l’ha, la macchina.»

    Lei non fu sicura di aver capito quel che aveva appena detto. Mancava un nesso logico. Jòzsef, che doveva aver intuito la sua implicita richiesta di delucidazioni, si frugò nella tasca dei jeans e le mostrò la piccola chiave dell’appartamento.

    Veronica non seppe mai quanto Szekeres pagò per far riparare la carrozzeria sfregiata della sua Volkswagen.

 

 

* * *

 

 

Jòzsef rimase effettivamente nel suo appartamento. Poi, un giorno di marzo, Veronica aprì la porta di casa e se lo ritrovò di fronte, la chiave stretta fra pollice ed indice e le labbra arricciate in un’espressione di ironica resa.

    «Quello stronzo ha fatto cambiare la serratura mentre ero a lavoro», dichiarò.

    Era trascorso quasi un anno dal loro primo incontro. In quegli ultimi dodici mesi si erano visti spesso, avevano girato la città, si erano conosciuti a dovere. Erano diventati buoni amici, e questo sebbene lui fosse un ventunenne scapestrato e lei un’italiana a cui mancavano tre primavere prima dei gloriosi trent’anni. Jòzsef le aveva mostrato gli angoli meno conosciuti di Budapest, l’aveva portata a passeggiare lungo il Danubio e le aveva detto che non sapeva muovere un solo passo di valzer. Così, senza collegamenti razionali e i grandi perché del mondo, avevano improvvisato pomeriggi e sere di dialoghi a ruota libera.

    Veronica lo conosceva quindi abbastanza da non desiderare che tornasse dalla madre. Lì sull’uscio, separati dalla linea che divideva appartamento e pianerottolo tirato a lucido, non le ci volle molto per sfilargli la chiave di mano e buttarla giù per lo scalone. «Fregatene. Vieni a stare da me.»

    Non c’era poi nulla di male. Lui aveva un lavoro, anche se ben poca voglia di alloggiare in un appartamento non suo. La giovane donna impiegò tutto il pomeriggio per convincerlo, affermando che avrebbero potuto pagare l’affitto in due. Il signor Szekeres era facile da evitare, dato che di mattina si svegliava tardi e non era quasi mai in casa quando Jòzsef tornava dal supermercato in cui faceva il commesso.

    A quelle argomentazioni, il ragazzo macinò una qualche giostra di imprecazioni in ungherese non comprese nel dizionario di Veronica. Era seduto sul divanetto a due posti, i gomiti sulle ginocchia e le mani nei riccioli scuri, e si arruffava i capelli con una foga tale da far pensare all’amica che se li volesse strappare di dosso. Poi, esaurito quello sfogo, abbandonò le braccia e disse: «Non lo so. Non so cosa dirti.»

    «Abbiamo entrambi un lavoro», insistette lei. «Ci dividiamo l’affitto ed evitiamo che Szekeres si accorga che tu sei qui. Facile.»

    «Non è una situazione destinata a durare a lungo.»

    «Ma è l’unica che hai.»

    Erano parole sincere e Jòzsef non trovò modo di ribattere. Così si arrese e quella sera si presentò dal padrone di casa per riconsegnargli le chiavi e chiedergli se avesse almeno la gentilezza di aprirgli l’appartamento per riprendersi le sue cose. Invece di uscire dal portone principale, si infilò poi in casa di Veronica portandosi dietro tre scatoloni di vestiti e varianti. C’erano anche alcuni oggetti, tra cui foto di famiglia, una vecchia lampada appartenuta al nonno paterno e modellini di aerei. In attesa di decidere dove sistemare tutto quanto, avevano sparso sul pavimento un po’ di quelle cianfrusaglie.

    Erano seduti sul tappeto quando Jòzsef pescò un libro dalla copertina rigida e lo gettò in grembo a Veronica. «Uno dei pochi libri che io abbia mai letto. È di un ungherese.»

    Lei, che si era vista arrivare quel volume quasi in faccia, se lo sollevò davanti con espressione incuriosita. «Il titolo non mi è nuovo», ammise.

    «È piuttosto famoso, anche se a mio dire è stata una lettura non eccezionale. “I Ragazzi della Via Pal”.» Storse le labbra e si allungò per sfilarle il libro di mano, osservandolo poi con un certo scetticismo. «Credo che Molnar sia l’unico scrittore ungherese conosciuto anche all’estero. Invece in Italia avete un sacco di gente famosa. Tu leggi tanto?»

    «Non troppo. Di solito non leggo romanzi.»

    «C’è qualcosa da leggere che non sia un romanzo?»

    Veronica fece un sorriso. «A me piace Ungaretti. Una volta scrisse “e come portati via, si rimane”. È  una poesia ambientata su un ponte.» 2

    Ci fu una pausa, poi le labbra di Jòzsef si arricciarono. «Parli di nostalgia. Hai presente quel quadro di Munch? Quello in cui il tizio urla?» 3

    Lei annuì, pur dubitando che si potesse parlare di un’opera descrivendone il protagonista con la parola “tizio”.

    «Io ho sentito dire che si tratta di una sorta di autoritratto. A quanto pare, Munch stava passeggiando su un ponte con alcuni amici, quando ad un certo punto è stato preso da una profonda e inspiegabile sensazione di inadeguatezza. Così, una volta a casa, dipinse la propria disperazione.»

    «Sei un appassionato di arte?»

    Il ragazzo mise via il libro. «No. Sono un appassionato di umanità. Te ne ho parlato perché penso che i ponti non facciano mai bene alle persone nostalgiche; lo insegnano Ungaretti e Munch.»

    Le luci che salivano dalla strada sembravano scavargli le guance e ridisegnare i suoi zigomi. Era di aspetto piacevole, anche se ancora molto giovane e così furiosamente inesperto del mondo. Veronica ammonì quei pensieri e di punto in bianco chiese:

    «Mi porti a Sopron?»

    La domanda lo inebetì. La sua mano rimase nello scatolone, immobilizzata nel gesto di pescare qualcos’altro. «A Sopron?»

    «Sono qui da tanto, ma non sono mai andata là. So che tra giugno e luglio fanno un sacco di spettacoli di musica antica.»

    «Sai anche che dista qualcosa come duecento chilometri da qui, vero?»

    «Lo so, ma voglio muovermi.»

    Dopo un attimo, Jòzsef ritirò il braccio e si mise in grembo la cornice che aveva in qualche modo sottratto al mucchio di cianfrusaglie. Stava quasi ridendo. «Ah, ho capito. Deve trattarsi di Ungaretti.» Colse la punta di perplessità nel silenzio dell’amica, così sollevò gli occhi su di lei. «La voglia di viaggiare. La voglia di essere presi e portati via. Io credo che sia possibile, sai? Partire e rimanere allo stesso tempo. Non affaticarti per niente. Per quanto tu possa muoverti, sei già rimasta indietro, da qualche parte in Italia: ti prepari il sugo in casa, impazzisci se non trovi il panettone a Natale e vedi la mafia ogni volta che qualcuno non ti fa lo scontrino.»

    «Allora andiamo?»

    Lui la osservò per un lungo momento, con in volto una serietà quasi spiazzante. Poi il suo volto si aprì di nuovo in un sorriso. «Faremo in modo di avere entrambi qualche giorno di ferie. Presumo andremo in macchina; ho un amico che potrebbe scarrozzarci fino a Sopron.»

    «In macchina? Non possiamo prendere il treno?» Si sentiva un poco capricciosa, lei che era maggiore di un bel po’ d’anni.

    A quella richiesta, il ragazzo si mise a ridere. «No, non possiamo», rispose quando quel moto di ilarità si estinse in un sorrisetto. «Non possiamo perché i treni hanno la brutta abitudine di ispirare nostalgia alla gente, e perché Paulo Coelho una volta prese la Transiberiana e rischiò di impazzire.» 4

 

 

* * *

 

 

I tetti di Sopron erano di un acceso rosso mattone. Spiccavano sul cielo grigiazzurro come gli abili schizzi di un giovane fiammingo. Girando per quelle strade avvolte dal profumo dei gerani e da quello più penetrante del vino, Veronica fu colta dalla sensazione di camminare nella pittoresca opera di un miniaturista; le facciate dei palazzi, bianche o di un colore che ricordava la cannella, si stringevano sulle vie del centro storico con una grazia e una gentilezza quasi frastornanti.

    Il viaggio in macchina era valso il risultato. L’amico di Jòzsef, un ragazzotto sui venticinque anni, li aveva lasciati all’hotel prima di proseguire verso l’Austria. Sopron era effettivamente sul confine, divisa fra ungherese e tedesco; i cartelli davano indicazioni in entrambe le lingue e la popolazione le parlava entrambe. Sarebbero rimasti in quell’angolo di Ungheria per quattro giorni, buttati come bottiglie alle deriva in quella città che sapeva di barocco e viti colme d’uva.

    Visitarono il municipio e la Porta della Fedeltà. Si sedettero ai piedi della Torre del Fuoco e lì Jòzsef le disse che Franz Liszt aveva tenuto il suo primo concerto proprio a Sopron.

    «O shop-ron. La chiamano anche così», affermò in un secondo momento, un allegro sorriso ad illuminargli gli occhi d’ebano. «Molti viennesi venivano qui a fare spese. Ora però c’è la crisi, e la gente si muove di meno.»

    Era la metà di luglio e il sole pioveva dall’alto come brina d’oro. Illuminava le soglie, destinava i portici ad un quieta penombra, schizzava come briciole d’acqua sui cerchioni delle biciclette e saliva ancora, in alto, sciogliendosi simile ad ambra sui balconi in fiore. Ad un certo punto, mentre passeggiavano per le vie, Jòzsef l’aveva presa per un polso e l’aveva braccata in una sorta di abbraccio, trascinandola con sé in un giocoso e improvvisato valzer; e lei, il cui grido di sorpresa era decollato alto come il sole, si era lasciata prendere e portare via, e così avevano girato due e tre volte, una quarta sopra un tombino, una sesta e una nona lì sotto agli sguardi incuriositi di chi passava a piedi, entrambi ridendo, entrambi consapevoli dello splendore di quell’allegria scoordinata, sfuggente e confusa come lo erano i loro passi di danza.

    Distante quattro anni da casa, Veronica stava bene. C’era spontaneità nel vivere quel luogo straniero, quella gente non conosciuta, quel cielo spruzzato di nuvole estive; c’era la gioia di sapersi lontana, c’era l’orgoglio di sentirsi un’ospite così desiderata da quelle strade mai visitate prima. Nelle piazze suonavano antiche ballate ungheresi e le bancarelle offrivano cultura e identità. Jòzsef la portò a comprare qualche camicetta dalle maniche fittamente decorate di motivi floreali e pretese che ne indossasse subito una, spiegandole che erano indumenti tipicamente ungheresi. Quanto a lui, recuperò un basco a quadri e un gilet nero prima di rimescolarsi con lei in quell’indefinito spazio di luce, musica e festa.

    Raggiunsero la piazza principale. Erano stati piuttosto fortunati a capitare a Sopron proprio durante quel fine settimana; di fronte al municipio si agitavano grida e colori e l’odore del vino bianco sfrecciava nell’aria come bollicine d’argento. Su un piccolo palco suonavano quattro uomini abbigliati secondo la tradizione. Le loro dita giostravano su piccole chitarre, impugnavano bacchette e facevano rullare i tamburi. Una donna sgambettava reggendo le ampie gonne verdi e rosse, e i merletti della sua camicia strizzata sul seno saltellavano con frenesia. Di fronte a loro c’era chi abbozzava qualche salto, chi girava reggendo instabili bicchieri di birra, chi chiamava l’amico e l’amica perché si buttasse nel mucchio, e presto, perché la musica coinvolgeva, la musica chiamava a raccolta i figli del popolo, e la musica non aspettava, non quel giorno.

    Nel trascinarla sotto al palco, Jòzsef si versò addosso quasi tutto il vino. Veronica scoppiò a ridere e cercò di avvisarlo, ma i tamburi erano troppo insistenti e le sue labbra sorridenti parvero muoversi senza che ne uscisse alcun suono. Si infilarono tra la gente, mano nella mano, tagliando conversazioni, sgusciando fra braccia e voci in festa. Si fermarono solo quando ebbero conquistato una pozza per loro; solo allora il ragazzo la lasciò andare e si voltò verso di lei.

    Forse era l’atmosfera, forse il momento nella sua più semplice e nuda singolarità, ma Veronica si rese conto di quanto il suo viso fosse diverso dal proprio. Le sue iridi erano incredibilmente scure, le ciglia folte, i capelli disordinati. C’era qualcosa, nel taglio dei suoi zigomi e nella fronte lucida, che le ricordava il volto spigoloso di un tedesco, e questo benché avesse poco più di vent’anni e non fosse nemmeno mai stato in Germania. Si chiese cosa stesse invece vedendo lui; una giovane donna vicino ai trenta, dal volto un poco olivastro a causa del sangue calabrese che aveva ereditato dal ramo paterno, con gli occhi di un anonimo castano chiaro e dall’espressione stordita e arruffata.

    Poi accadde tutto in un secondo scarso. In un moto di gioia furente, con un gesto tanto repentino da farle quasi male e un trasporto che rasentava la teatralità, Jòzsef le schiaffò le mani sulle guance e le stampò un bacio sulle labbra. Quando si scostò di colpo, lei vide che stava quasi ridendo.

    «Viaggia quanto vuoi, Vero», le disse, gridando al di sopra della musica e dei tamburi che rullavano e dei piedi che giravano e saltavano e vivevano. «Viaggia quanto vuoi, ma non scappare. Fuggire è inutile quando c’è la nostalgia a ricordarti che non puoi lasciare indietro te stessa.»

 

  

* * *

 

 

Bando all’artificiosa perfezione delle romanticherie: i giorni a Sopron non li resero amanti.

    Veronica non aveva mai tenuto in considerazione il luogo comune secondo cui la donna, in una relazione, dovesse essere più giovane dell’uomo. Non parlarono subito di quel che era successo in piazza; aspettarono di essere di nuovo a Budapest, in quella realtà più caotica e meno provinciale, vicini però alla tacita ed onnisciente volontà del Danubio.

    Capitò due giorni dopo il loro ritorno, quando lei, di ritorno dal lavoro, aprì la porta e sorprese Jòzsef a riempire i tre scatoloni che aveva portato con sé. I loro sguardi si incrociarono.

    «Non te ne stai andando», disse Veronica. Non era una domanda; era, se possibile, una forma di convincimento. In faccia le si era inchiodata un’espressione assolutamente ammutolita, e le sue labbra rimasero un poco schiuse in uno sdegnato indizio di incredulità.

    Lui, che era pietrificato sul posto, non si mosse. Seduto sul tappeto con la mano affondata in uno degli scatoloni, rimase ad osservarla con intensità per un lasso di tempo che parve tendersi come la corda di un arco. «Ci ho riflettuto», disse alla fine, e la freccia partì. Fu come tracciare un’improvvisa crepa nell’immobilità che fino a quel momento aveva governato fra di loro. «La colpa non è tua.»

    «Allora spiegami.» La giovane si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò contro con una flemma quasi arrendevole. La borsa verde le pendeva dall’avambraccio come un addolorato messaggio di abbandono. «Jo, sei qui solo da quattro mesi. Hai pagato la tua metà di affitto, Szekeres non si è ancora accorto di nulla, non puoi andare da nessun’altra parte. Ha a che fare con quello che è successo a Sopron?», chiese di colpo, e vide i suoi occhi d’ebano farsi più grandi. «Lo hai fatto tu. Ti dà fastidio che io sia più grande di te? Dillo, se è così.»

    «No, quel bacio non c’entra proprio niente.»

    «Giuralo.»

    «Lo giuro.»

    Veronica fece un sospiro. Per un terribile attimo si scoprì a corto di parole. «E allora cos’è che non va? Vuoi dirmi che chiederti di portarmi a Sopron è stato un errore?»

    «No.» Jòzsef ricominciò a sistemare l’ultimo scatolone che gli mancava. C’era ancora qualche vestito sul divano, così riprese a piegarli per poi adagiarli nel contenitore di cartone. «È per via di quello che ho detto.»

    Lei si ricordava bene quelle frasi. Le aveva sentite con chiarezza benché il frastuono dei tamburi sembrasse insormontabile. «Non hai detto nulla di sbagliato», mormorò. «Io continuo a non capire.»

    «Non sono stato coerente con me stesso. Il fatto è che io ho accettato il consiglio di mio padre senza fiatare. Lui mi ha chiesto di andarmene e io l’ho fatto; mi ha proposto una fuga, e io sono scappato.» La sua voce era seria e priva di inflessioni mentre sistemava un paio di jeans e li infilava nello scatolone. Non la guardava. Ad un tratto lasciò perdere e poggiò le mani sulle ginocchia, quasi lasciandole cadere, e alzò gli occhi nei suoi. Con una stretta al cuore, Veronica vi lesse una sofferenza di cui mai l’avrebbe creduto capace. «Vero, io ho nostalgia di casa. So che papà mi ha mandato via per il mio bene, per evitarmi la pietosa vista di mia madre che si ammazza con l’alcol. Ma voglio tornare, voglio dare una mano, perché non posso starmene lontano con il pensiero che la mia famiglia sta andando a pezzi. Tu però questo non lo capisci», aggiunse infine. Il suo tono era ora più stanco, privo di risorse. «Tu sei sicura di esserti lasciata tutto alle spalle, di aver lasciato te stessa da qualche parte, e non ammetterai mai che l’Italia ti manca e che di nostalgia saresti in grado di morire.»

    «Io qui sto bene, Jòzsef», lo fermò la giovane per paura che continuasse. Aveva serrato un poco i pugni contro il legno della porta, incassando la sua sincerità con la stessa, disperata sorpresa con cui si ricevono delle pugnalate nel petto. «Sei stato tu a dirlo. Si può viaggiare quanto si vuole purché non si viva il viaggio come una fuga; io dall’Italia sono scappata, è vero, ma poi ho viaggiato. Sono andata a Sopron, e ci sei stato anche tu.»

    Le dita del ragazzo, lì sulla stoffa dei jeans, tremarono appena. Lo fece anche la sua voce. «Io non mi sono spostato per viaggiare, Vero.»

    Allora lei si rese conto di aver fatto un errore. Di aver parlato forse troppo in fretta, di aver filtrato tutto in prima persona singolare. Si sentì abbandonare, sentì le spalle rilassarsi. Jòzsef doveva aver vissuto quei quattro giorni come una fuga; doveva essersi mosso per il crudele suggerimento di una parte di sé, per cercare qualcosa che poteva invece trovare in un unico posto. A casa. Si ricordò dell’impressione che le aveva fatto, di quando si era trovata a guardare a lui come ad un giovane adulto ancora furiosamente inesperto del mondo. Quei suoi capelli arruffati le avevano sempre fatto pensare ad un creativo pittore fiammingo o ad un bohémien, uno di quelli che vivevano alla giornata, presi dalla ricerca di un qualche svago per cui valesse la pena spendere un minuto di esistenza.

    Sapeva che i suoi genitori vivevano nella periferia di Budapest, piuttosto distante da dove lei viveva. Probabilmente non si sarebbero visti troppo di frequente. Era una realtà difficile da accettare, ma ben sapeva che era giusto concedergliela.

    «Non posso impedirtelo», disse alla fine. «Sono stata una stupida a non capirlo prima.»

    «Non più di quanto lo sia stato io a non capirlo fino ad ora.» Jòzsef provò un sorriso. «Sarò pur scappato da casa, sarò pur fuggito fino a Sopron, ma un viaggio l’ho fatto. Sono stato in Italia.»

    La fronte di Veronica si corrugò appena. «Quand’eri piccolo?»

    Il ragazzo non riuscì a trattenere una lieve risata. Scosse il capo, si morse il labbro prima di tornare a guardarla; lui ancora inginocchiato a terra, lei in piedi di fronte alla porta. A separarli, chilometri di terra e fiumi e monti. «Me l’hai fatta conoscere. Gesticoli spesso, e questo lo fanno gli italiani; ce l’hai a morte con qualsiasi governo, vedi corruzione ovunque, sbirci i menù per cercare pomodoro e aglio, in dispensa hai un’intera collezione di confetture, detesti i caffè serviti freddi, provi un’insensata antipatia per i francesi e per gli svizzeri, ti fermi davanti alle chiese e ai musei e ti chiedi perché in Italia l’arte non sia valorizzata come invece meriterebbe. Ho notato tutte queste cose. Hai imparato a spostarti e a portare con te qualcosa della tua identità. Sotto qualunque bandiera, sei destinata a non perderti.»

    Non si era concesso nemmeno una pausa e se la concesse in quel momento. Aveva le labbra secche, vide lei, quelle di chi parla in fretta per dire qualcosa che pensa da troppo tempo.

    «Io credo che Ungaretti e Munch avessero ragione», concluse lui dopo quel silenzio. «Bisognerebbe viaggiare di più e fuggire di meno.»

    Erano parole che valevano quanto l’inflessibile dichiarazione di un giudice o il risultato alla fine di un’equazione. Erano giuste, forse crudeli o inspiegabili, eppure corrette come la perfetta e complessa meccanica che regge il mondo.

    Muovendosi piano, Veronica appoggiò la borsa sulla cassapanca di legno e si avvicinò, poggiando poi le ginocchia a terra una volta che fu di fronte a lui. Rimase ad osservarlo per qualche istante, a domandarsi in che modo coraggio e rassegnazione potessero convivere nell’animo di un essere umano, quindi disse: «Lo penso anche io. Penso che tornare a casa, per te, sarà il miglior viaggio di tutta la vita.»

    La bocca di Jòzsef si distese in un sorriso. «Già. In fondo non si può fuggire tornando indietro; quindi sì, sarà un viaggio, anche se breve, anche se mi porterà in un luogo che conosco.»

    Lei si mosse per prima. Allungò le braccia e lo strinse a sé, avvertendo il calore della sua guancia pallida e il pizzico dei capelli arricciati. E ringraziò il Danubio, lo ringraziò con tutta se stessa per avergli concesso quel dono così grande, in tutte le lingue che conosceva, in tutte le lingue del mondo. «Fatti rivedere», sussurrò, mentre le mani del ragazzo cercavano e trovavano la sua schiena e lì si aggrappavano, con una forza trovata solo all’ultimo. «Torna quando vuoi. Non lasciarmi sola in mezzo al ponte.» 5

 

 

* * *

 

 

Comunque sia, non mi chiamo Veronica. È però vero che lui si chiamava Jòzsef.

    Ci frequentammo ancora per circa un anno. La vita gli andava bene, e così andava anche la mia. Mi presentò alla sua famiglia e mi invitarono persino al pranzo di Natale. Per quanto fosse ancora presa dall’alcol, sua madre cucinava un’ottima halaszle.

    Perdemmo i contatti pian piano, come prima sfugge e poi svanisce il sapore dei sogni. Deve essersi trasferito, suppongo, perché qualche tempo fa l’ho chiamato a casa e mi ha risposto la voce di qualcuno che non conosco.

    Ieri, mentre facevo la spesa, mi è parso di vederlo alla sua solita cassa, in quell’anonimo supermercato con cui si guadagnava così onestamente da vivere. È stato solo un attimo, perché non sono riuscita a trovarlo quando ho aggirato lo scaffale. Sono però convinta che ci rivedremo, magari in questa città, magari in questo Paese. Magari durante un viaggio.

    Forse me lo troverò di fronte su un treno, oppure un giorno mi imbarcherò su un aereo e lui sarà accomodato al sedile accanto al mio, e allora mi guarderà con quel suo sorriso furioso e fiammingo e mi dirà che Munch era solo un tizio che su un ponte aveva smarrito se stesso.

 

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Questa storia è stata scritta per il contest [Lontano da Casa].

Inizialmente avevo intenzione di ambientare le vicende in Vietnam, un Paese che vorrei davvero visitare; poi, per un motivo che non è chiaro nemmeno a me, ho scelto l'Ungheria. Ho così avuto il pretesto - anzi, la necessità - di curiosare fra varie foto e siti. Ho anche ascoltato un po' di antica musica ungherese e non mento quando affermo che è incredibilmente coinvolgente.

In conclusione, i miei consigli sono due: date un orecchio alla musica che suonano a Sopron e un occhio ad Ungaretti. Ringrazio chiunque si fermerà per un commento o anche solo chi arriverà in fondo senza nulla scrivere.

Dew_ <3

 

Note: mi sono informata circa il Paese in cui ho voluto inserire le vicende, guardando immagini, ascoltando ballate strambe – ma belle - e molestando svariati blog riservati al turismo. Il sito che ho visitato più spesso mi è parso attendibile; preciso però che non sono mai stata in Ungheria e che qualcuno di più esperto di me potrebbe quindi trovare qualche inesattezza. 

 

1 «Marhasàg! Marhasàg!» ; si tratta di un modo piuttosto gentile per dire a qualcuno che non concordi su quel che ti è appena stato detto. Letteralmente, pensi che il tuo interlocutore abbia detto una “cazzata”.

2 «A me piace Ungaretti. Una volta scrisse “e come portati via, si rimane”. È  una poesia ambientata su un ponte.» ; la poesia si intitola “Nostalgia”. La lessi alle medie e mi rimase in testa. La consiglio a chiunque.

3 «Hai presente quel quadro di Munch? Quello in cui il tizio urla?» ; il quadro è ovviamente “l’Urlo”, di Munch. Ciò che poi Jòzsef racconta circa la presunta nascita di quest’opera è quel che il mio professore d’arte mi ha detto. Credo che le cose siano poi andate davvero così.

4 « [...] Paulo Coelho una volta prese la Transiberiana e rischiò di impazzire.» ; richiamo ad “Aleph”, un libro di Coelho in cui l’autore narra appunto il viaggio che avrebbe intrapreso lungo la Transiberiana. Non ho ancora capito se sia la cronaca di un’esperienza vera o il frutto di un viaggio mentale.

5 «Torna quando vuoi. Non lasciarmi sola in mezzo al ponte.» ; un riferimento alla ragazza nella già citata poesia di Ungaretti.


   
 
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