Daddy
Eddy
Lunedì
pomeriggio. Casa Cullen. All’esterno un fine pioggerellina
contribuiva ad
allargare ancor di più le pozzanghere che invadevano Forks:
normale.
Temperatura atmosferica 15°C: normale. Atmosfera tranquilla e
silenziosa:
normale. Io, Edward Cullen, in casa da solo: …strano. No,
aspettate, non sono
stato abbastanza preciso; non ero proprio in casa solo soletto, ma era
come se
lo fossi. Il solito clima pacato che soleva caratterizzare quella che
chiamavo
“casa dolce casa” era più statico del
solito e quel silenzio di tomba mi
tappava le orecchie come dei batuffoli di cotone. Infine
l’assoluta assenza del
ben che minimo movimento d’aria mi dava ai nervi. Carlisle,
Esme, Alice e
Jasper si erano allontanati qualche
giorno
per una lunga e rigenerante battuta di caccia, dopo il digiuno causato
dai
recenti avvenimenti: probabilmente a quell’ora avevano
già superato il confine
canadese. Anche Rosalie ed Emmett si sentivano stressati e, come
avevano detto,
avevano bisogno di una “pausa”: l’isola
Esme era di certo il luogo ideale per
passare un paio di settimane di tranquillità lontano dalle
preoccupazioni
quotidiane (e poi, detto tra noi, c’era ancora un buon pezzo
di testiera
intatto…). La mia Bella, invece, mi aveva informato proprio
quella mattina,
mettendomi davanti al fatto compiuto, che si sarebbe trattenuta qualche
giorno
a casa di Charlie, per aiutare Sue a traslocare da loro (finalmente il
buon
vecchio capo della polizia si era deciso a chiudere col passato e col
capitolo
Reneè per ricominciare daccapo!). E, naturalmente, ci
sarebbe stato anche Jacob
ad aiutarli… e la cosa m’innervosiva. Ok, ok, dopo
tutto l’aiuto che lui e il
suo branco aveva dato alla mia famiglia, devo ammetterlo, Jacob stava
iniziando
a piacermi; anche se non avevo ancora digerito del tutto la faccenda
dell’imprinting con Renesmee: ma è meglio un lupo
mannaro grande e forte che un
drogato martoriato da piercing per la propria figlia, no?
Vabbè, fatto sta che
dopo tutto quel tempo di contesa con lui per Bella mi ci voleva ancora
un po’
per abituarmi all’idea che non costituisse più un
pericolo di tal sorta. Forse
sarei potuto andare io ad aiutare Bella coi traslochi: mah…
Come
dicevo, non ero del tutto solo. Avevo davanti la prospettiva di passare
tre
intense giornate con uno dei miei due più grandi amori e, al
tempo stesso, la
mia maggiore preoccupazione: mia figlia. Insomma, non ero come Bella,
come Esme
o Rosalie o perfino come Jacob: non avevo idea di cosa fosse
l’istinto paterno.
E la sola idea di dover mettermi a fare il padre premuroso,
bè, mi terrorizzava
a morte. L’avevo detto a Bella, implorandola di non lasciarmi
solo su una
zattera in mezzo all’oceano. Ma lei l’aveva presa
subito a ridere (ovviamente)
e, uscendo di casa, aveva borbottato qualcosa del tipo che ognuno aveva
un suo
“padre interiore”, la sua parte più
affettuosa, e che dovevo solo scoprirla.
Inoltre, secondo lei, stare qualche giorno tete-à-tete con
Nessie mi avrebbe
giovato più di quanto credessi. Ok, amo pazzamente mia
figlia, adoro il suo
visetto dolce, i suoi boccoli bronzei e i suoi occhioni color
cioccolato:
venero ogni cosa di
lei. Non avrei mai
creduto che una cosa del genere potesse mai diventare realtà
e soprattutto che
quella cosa potesse essere mia figlia, ma… Mi sentivo
irrimediabilmente,
sconsideratamente inadeguato e terrorizzato. Insomma, come si fa il
padre? Da
dove dovevo cominciare? Esisteva forse un manuale a riguardo?
Con
un sospiro di sconforto scesi gli ultimi scalini con un passo fluido e
mi
ritrovai nel salotto illuminato debolmente dalla luce che filtrava
grigiastra
tra le nubi. Nessun vampiro si aggirava, a differenza del solito, tra
quelle
pareti immacolate. Ma un rumore ritmico, un debole ticchettio simile a
quello
di un orologio, proveniva dal divano e, mentre mi avvicinavo, un dolce
odore mi
solleticò l’olfatto scendendo a raschiarmi la
gola. Una piccola testa, grande
si e no come il palmo della mia mano, ricoperta da riccioli color
bronzo, si
poteva intravedere al di là dello schienale del divano.
Renesmee sembrava troppo
presa dai suoi giocattoli per accorgersi della mia volatile presenza.
Nella
mano destra reggeva una piccola bambola di pezza dai capelli dorati che
le
aveva regalato Alice e nell’altra un peluche a forma di lupo
(un caso?). Mi
avvicinai ancora di più, fino a poter quasi sfiorare il
bordo del divano: il
mio piccolo angelo. Era così bella quando giocava serena;
assomigliava quasi a
una qualsiasi di quelle bambine umane, anche se lei del tutto umana non
lo era.
E di certo non sarei stato io ad interrompere quel suo spensierato
momento di
gioco. Con un solo movimento fulmineo, che mi costò si e no
un millesimo di
secondo, mi accomodai sul divano dalla parte opposta rispetto a dove
stava
giocando mia figlia. E con svogliatezza e il telecomando tenuto
mollemente in
mano iniziai un’oziosa operazione di zapping. Incappai in un
paio di partite di
baseball, in una di quelle soap-opera lagnose che piacciono tanto a
Rosalie,
gli ultimi aggiornamenti del telegiornale e il meteo (che naturalmente
prevedeva pioggia). Dopo un quarto d’ora conclusi che non
c’era nulla di
interessante e che quella giornata sarebbe stata una delle
più noiose della mia
lunga esistenza.
Poi
ad un certo punto mi colpì una strana sensazione: un
fastidiosissimo prurito
dietro la nuca e l’opprimente sensazione di essere osservato.
Mi voltai con
cautela ed incrociai un paio di profondi occhi color cioccolato. Nessie
aveva
lasciato da parte i suoi giocattoli per concentrare tutta la sua
attenzione su
di me e la sua espressione apparentemente vuota ed enigmatica sembrava
volermi
chieder qualcosa.
«Che
c’è, Nessie?» chiesi con tono
controllato e in un certo senso timoroso.
Cosa
pretendeva che facessi adesso?
Ma
lei si limitò a scuotere il capo, abbassare lo sguardo sulla
bambola per poi
ritornare a fissarmi. Sembrava indecisa, come se stesse valutando le
possibilità di riuscita delle sue intenzioni.
«Ti
va di giocare?» domandò in un sussurro, quasi
arrossendo, e ancora un volta mi
sembrò una qualsiasi bambina umana.
Rimasi
per un attimo senza fiato: mia figlia mi chiedeva di
giocare… con lei? A un
padre sarebbe sembrata la cosa più normale del mondo,
ma… dove si è mai visto
un vampiro giocare con le bambole? Dovevo avere
un’espressione parecchio
strabiliata visto che Renesme prese la sua bambola e me la
sventolò davanti
agli occhi, come se stesse parlando con un ritardato mentale.
«Giocare,
papà!» esclamò.
Papà.
Come un flash improvviso mi ritornarono in mente le parole di Bella:
“vedrai
che sarai più che capace di fare il papà, ne sono
sicura. E vedrai che ti
divertirai anche!”.
«Sì,
tesoro…» dissi con tono vacuo.
Nessie
mi guardò in attesa che prendessi in mano il peluche e
iniziassi a interpretare
qualche buffo personaggio. Doveva essere la cosa più
semplice del mondo, ma mi
ero come bloccato e non sapevo più da che parte prendere, da
dove cominciare.
Poi mi venne un’idea.
«Vieni,
Nessie, papà conosce un gioco molto più
bello».
Come già detto, anche se dall'introduzione (forse un po' troppo lunga) non sembra, questa storia sarà una raccolta di one-shot, quindi una specie di album fotografico di Edward e Renesmee. Infatti, visto che la mia ispirazione va e viene come pare a lei e che, una volta iniziata una storia, mi stufo subito della trama e la lascio incompiuta (ebbene sì sono alla ricerca della trama perfetta che mi coinvolga al 101%), ho deciso di optare per una serie di piccole scenette anche divertenti, invece che per una storia vera propria. Recensite, ve ne prego davvero, HO TANTO BISOGNO DI RECENSIONI per valutare e migliorare il mio stile. E dopotutto non vi costa niente cliccare qua in basso e scrivere due righe (anche solo per dire: "ma che schifo!"). Quindi vede un po' di far muovere quelle dita sulla vostra tastiera!
A presto (spero)!