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Autore: northernlight    25/02/2015    4 recensioni
Sì, però sono io che non ti vedrò per chissà quanto tempo, testa di cazzo’ pensò Miles. Alex però sapeva perfettamente cosa frullava nella testa dell’amico, ne avevano discusso molte volte: erano a metà febbraio inoltrato e Alexa gli aveva chiesto di trasferirsi con lei negli States poco dopo il suo compleanno, a novembre. Alex non aveva avuto il coraggio di dirlo a Miles finché non era piombato a casa sua circa un mese prima all’improvviso e vedendo libri, dischi e strumenti inscatolati e pronti a partire con Alexa e perciò era stato costretto a raccontargli tutto.
Genere: Fluff, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alex Turner, Miles Kane
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Forcing a smile and waving
goodbye.






 
“Buongiorno” biascicò Miles entrando nella cucina di casa sua, trascinando i piedi nudi e scompigliandosi i capelli.

“Hey” rispose Alex continuando ad armeggiare con le stoviglie nel lavello. Si girò a dargli una rapida occhiata, un breve cenno con la testa, concentrato a non vomitare sulla roba appena sciacquata. La sera prima erano usciti a bere insieme e ne avevano approfittato, fin troppo: dopo poco meno di una settimana di convivenza con il suo amico, Alex sarebbe partito quel giorno per trasferirsi definitivamente negli States con Alexa e perciò quella sarebbe stata l’ultima uscita insieme per un bel po’ di tempo. Ne avevano approfittato, fin troppo a giudicare dalla lentezza con la quale Alex – e tutto attorno a lui – si muoveva. Miles si stropicciò gli occhi lasciandosi cadere di peso su una delle quattro sedie attorno al tavolo, un  cucchiaino tentennò all’interno di una tazza fumante. Quel piccolissimo rumore, amplificato a mille a causa dei postumi della sbronza, ebbero il risultato di mille spilli conficcati nel cervello.

“Mio dio, rumori infernali…” sussurrò il cantante di Liverpool poggiando la fronte sulle braccia conserte sul tavolo. Alex ridacchiò debolmente, smettendo subito per bloccare l’ennesima ondata di nausea in arrivo, e si avvicinò all’amico porgendogli il caffè bollente.

“Caffè” affermò scompigliandogli piano i capelli. Miles bevve un sorso, gli parve di bere una nuvola del paradiso. Benedisse gli effetti terapeutici che una misera tazza di acqua e caffè macinato aveva sul suo sistema nervoso, capace di riattivarsi quasi immediatamente. Alex tornò a fare la domestica-per-un-giorno e finì di togliere di mezzo alcune cose che avevano utilizzato in quei giorni da Miles. La cucina piombò nel silenzio più assoluto, rotto solo di tanto in tanto dal fruscio dei piedi di Alex sulla moquette blu scuro di casa Kane. A Miles servì una mezz’ora buona per finire lentamente il suo rehab mattutino e per mettere a fuoco la situazione mentre Alex e il suo mal di testa martellante si accomodavano sul divano.

“Dove le hai nascoste le aspirine, tossico?” chiese Alex massaggiandosi le tempie.

“Se non le hai trovate, probabilmente è perché sono finite?” rispose Miles “e comunque, che facciamo stamattina? Possiamo passare a prenderle quando usciamo, se ti servono.”
Alex deglutì voltandosi verso l’amico.

“Miles, sono le dodici passate, ho l’aereo tra due ore e tra poco dovrei prendere il taxi per l’aeroporto.”
Miles alzò di scatto la testa sgranando gli occhi.

“Cosa?! N-non possiamo aver dormito tutta la mattina, non oggi.”

Tu hai dormito tutta la mattina, io sono sveglio dalle dieci e ho già sistemato i bagagli.”

“Perché non mi hai svegliato?” chiese Miles a denti stretti, non potendo credere di aver letteralmente sprecato l’ultima mattina per chissà quanto tempo col suo migliore amico. Cercò di reprimere le lacrime o di scagliare la tazza contro il muro – non aveva ancora deciso –  e si alzò per andare a sciacquare ciò che restava sul tavolo dando le spalle ad Alex. Non era arrabbiato, era solo nervoso e non aveva voglia di prendersela con il suo amico.

“Perché dormivi tranquillo e ci metti molto meno tempo di me a riprenderti. E poi io ho un volo di circa duecento ore che mi aspetta, posso dormire in aereo senza problemi.”

Sì, però sono io che non ti vedrò per chissà quanto tempo, testa di cazzo’ pensò Miles. Alex però sapeva perfettamente cosa frullava nella testa dell’amico, ne avevano discusso molte volte: erano a metà febbraio inoltrato e Alexa gli aveva chiesto di trasferirsi con lei negli States poco dopo il suo compleanno, a novembre. Alex non aveva avuto il coraggio di dirlo a Miles finché non era piombato all'improvviso a casa sua circa un mese prima vedendo libri, dischi e strumenti inscatolati e pronti a partire con Alexa e perciò era stato costretto a raccontargli tutto.

“Finisco i concerti con i Monkeys a inizio febbraio e poi la raggiungo appena sistemo tutto quanto qui” confessò Alex ad un Miles ancora infagottato nel suo cappotto, fermo sulla porta, le braccia rigide lungo i fianchi.

“E quando pensavi di dirmelo?”

“Io… io…”

“Al, è una domanda retorica, di quelle che ti piacciono tanto, e sono abbastanza sicuro di non volere una risposta.”
Miles si strinse nel cappotto continuando a fissare Alex che si era ammutolito del tutto.

“Perché? Che senso ha? La tua vita è qui.”

“Lo so, però lo sai che abbiamo l’album in uscita a metà anno e molte canzoni hanno bisogno di rifiniture, ci sono parti da rifare e Josh ha nuove idee per le registrazioni e… e immagino saremo molto impegnati e continuare a prendere aerei è uno spreco di tempo, soldi ed energie.”
Alex voleva chiedergli se voleva accomodarsi in casa invece di stare lì in corridoio ma aveva come l’impressione che Miles gli avrebbe volentieri inchiodato la faccia al muro perciò ebbe la decenza di tacere.

“E gli altri?”

“Gli altri lo sanno. Matt non avrebbe problemi, Breana vive lì e per lui è ancora meglio. Nick e Jamie si trasferiranno temporaneamente e poi torneranno in Inghilterra appena l’album sarà terminato.”

“Capisco. E parti…?”

“A metà febbraio.”

“Perfetto.”

“Miles, ti prego. Non farla più lunga e difficile di quanto già sia…” implorò il cantante di Sheffield avvicinandosi all’amico. Come aveva immaginato, Miles fece un passo indietro, si mise rapidamente i guanti neri e aprì la porta.

“Ciao, Al, buon proseguimento.”
Alex non provò nemmeno a fermarlo, non aprì bocca e nemmeno gli si avvicinò ulteriormente. Sapeva ormai come reagiva, quanto tempo gli serviva per mandare giù un boccone amaro e perciò non gli scrisse e non gli telefonò nemmeno; Alex sapeva che Miles, metabolizzata la cosa, sarebbe andato da lui e ne avrebbero parlato tranquillamente. E infatti, qualche giorno dopo quella discussione, Miles era andato a casa sua e avevano affrontato l’argomento: sembrava calmo, una calma che quasi spaventava Alex, e quando poi aveva iniziato ad aiutarlo ad impacchettare dei libri si era deciso a chiedergli se avesse tentato di ucciderlo nel sonno alla prima occasione.

“No, però visto che non puoi stare qui perché manderai tutto con Alexa, potresti stare da me per un po’ prima di partire” propose Miles, smettendo di rigirarsi tra le mani una copia consunta di Dorian Gray e guardando finalmente Alex negli occhi, sorridendo. Gli occhi di Miles erano sempre sinceri perciò Alex convenne che no, non avrebbe provato ad ucciderlo occultando il cadavere e quindi, eccoli lì: palcoscenico diverso ma attori ed emozioni sempre uguali. Miles finì di sciacquare la tazza e lo sguardo gli cadde sulla sua borsa da viaggio color cuoio e si ricordò improvvisamente di avere delle aspirine lì dentro perciò le prese e le porse ad Alex.

“Tieni, io vado a farmi una doccia. Hai bisogno del bagno?” chiese.

“No, già fatta mentre dormivi, devo solo cambiarmi e poi chiamo il taxi. Quando ci metti? Venti minuti?”
Alex si alzò, superò Miles per andare a prendjere dell’acqua per l’aspirina.

Ho già perso tempo, ti pare stia venti minuti sotto la doccia?’ pensò il cantante di Liverpool. Curioso come dopo tante peripezie passate insieme – sebbene gli anni di amicizia non fossero molti – ancora non riuscissero a dirsi determinate cose, a fare determinate esternazioni senza sentirsi in imbarazzo come per paura di superare dei limiti convenzionalmente imposti da un’amicizia prettamente maschile. Una punta di orgoglio, probabilmente, o semplicemente il non voler parlare troppo e a sproposito; ma era inutile perché alla fine l’uno sapeva cosa pensava l’altro anche se nessuna parola usciva dalle loro bocche, come quando si completavano i pensieri, le frasi a vicenda per quasi qualsiasi cosa.

“La metà” disse infine Miles mordendosi la lingua per non rispondergli male e dirigendosi in bagno. Alex annuì anche se l’amico non poteva vederlo. Prese un bicchiere verde dalla credenza, lo riempì di acqua e vi sciolse l’aspirina dentro: a lui, al contrario di Miles, serviva ben più di un caffè e di una doccia calda per sciogliere il casino – fisico e mentale – che lo circondavano. Sentì l’altro chiudere la porta del bagno e, qualche secondo dopo, aprire l’acqua della doccia. Per un istante la casa fu piena solo del lontano scrosciare dell’acqua. Alex si avvicinò alla grande finestra nel salotto di casa, giocherellando con la catenina dorata che aveva al collo osservò la silenziosa strada davanti a lui. Miles viveva in una delle zone più tranquille di Londra, piena di parchi e sfilze su sfilze di eleganti e piccole case più o meno tutte uguali; quelle case, di diverso, avevano solo il colore della porta di ingresso e Alex ripensò a quando Miles si era appena trasferito lì e aveva avuto la sfortuna di avere una normale porta nero standard identica a quella della signora Carter, la sua vicina di casa. Sorrise ricordando le prime volte che andava a trovarlo e sbagliava sempre porta e, assorto nei suoi pensieri, non si preoccupava di contare i vialetti d'ingresso per non sbagliare finendo sempre a prendere un tè con la signora Carter, a qualsiasi ora del giorno. Le sue visite alla donna finirono quando Miles decise di impiegare le sue abilità artistiche nel ridipingere la porta di casa sua di uno scurissimo blu ceruleo che ad Alex piaceva molto. Distolse lo sguardo dalla strada scuotendo la testa, si avvicinò al divano dove aveva posato il maglione che avrebbe indossato per il viaggio. I suoi occhi si posarono sulle valigie pronte accanto alla porta: l’improvvisa consapevolezza di dover abbandonare tutto ciò in cui e con cui era cresciuto lo travolsero, come lo travolsero una serie di domande a cui prima non aveva dato molto peso. Non aveva mai avuto un attacco di panico, nemmeno sul palco, ma ne aveva sempre immaginato le sensazioni, quelle sensazioni che provava in quel momento: disorientamento, la testa e lo sguardo annebbiati, un macigno sul petto e il respiro corto e accelerato.

“Hai fatto la scelta giusta, Al. Andrà tutto bene.”
Alex, talmente assorto nei suoi pensieri e avvoltolato nella sua ansia, non si era accorto che l’acqua della doccia aveva smesso di scorrere da un po’ e Miles – in jeans e maglioncino – lo scrutava fermo immobile sull’ingresso del salotto, armeggiando col suo esile polso nel tentativo di chiudere l’orologio.

“Mmh…”

“Sul serio, Alex. Penso sia stata una scelta abbastanza ponderata, non hai impacchettato baracca e burattini in due giorni e deciso di mollare tutto, no?” chiese Miles passandosi le mani tra i capelli e sistemandoli brevemente con le dita.

“Sì, però…”

“E ami Alexa. Perciò, a parte il non approvare la tua decisione di mettere in vendita l’appartamento, sono abbastanza sicuro che tu stia facendo la cosa giusta” sentenziò Miles prendendo il cappotto dall’attaccapanni nel piccolo corridoio. Alex lo fissò ancora un po’, memorizzando quei gesti quotidiani che non avrebbe visto per molto tempo. Si distrasse, dimenticando il perché si fosse rabbuiato così tanto prima; sospirò pesantemente e concluse il suo breve viaggio mentale decretando che sì, aveva fatto la scelta giusta e l’essersi distratto solo guardando Miles che si infilava il cappotto, era un buon segno.

“Quell’appartamento piaceva molto anche a me” disse Alex scrollando le spalle “era carino.”
Afferrò il suo cappotto blu poggiato sulle due valigie accanto alla custodia della chitarra, ascoltando il tintinnare delle chiavi di casa che Miles stava mettendo in tasca.

“Magari tra qualche anno saremo ricchi sfondati e riusciremo a comprarci una casa intera a Belsize e magari anche  su due piani, uno ciascuno.”
Si guardarono e, dopo qualche istante di silenzio, entrambi scoppiarono a ridere pensando all’assurdità di una frase del genere per loro, per loro che avevano sempre vissuto con i propri genitori e che solo da qualche anno erano riusciti a fuggire dalle rispettive città ritagliandosi – per esigenze lavorative, avevano detto – uno spazio tra le strade londinesi.

“Sogna, Kane, sogna” chiuse il discorso Alex finendo di abbottonarsi il cappotto “dai, prendi questa valigia e scendiamo, il taxi dovrebbe essere già giù.”
Alex aveva ragione: il taxi era già lì. Caricarono i bagagli, comunicarono la loro destinazione al taxista e salirono. Constatò felicemente che la temperatura all’interno della macchina era abbastanza calda da non fargli saltare le dita dal gelo; la radio ronzava ad un volume bassissimo, una stazione di news nazionali. Per gentile concessione del tempo londinese, non pioveva e perciò il traffico scorreva abbastanza velocemente per gli standard di una grande città, perciò si immisero facilmente sulla tangenziale per recarsi in aeroporto. Nessuno dei due proferì mezza parola per quella che ad Alex sembrò una vita. Quello spazio, già piccolo di suo,iniziava a stargli ancora più stretto. Si voltò appena a guardare Miles che, a sua volta, guardava il tetro e nebbioso paesaggio inglese scorrere fuori dal finestrino. Alex non riuscì a fare a meno di notare l’espressione triste dipinta sul volto del suo migliore amico.

“Non sto andando al patibolo, sai?” disse Alex alla fine.

“Cosa?”

“Sembra che tu mi stia accompagnando sulla sedia elettrica, Miles. Sto partendo per raggiungere la mia ragazza in America che è sì dall’altro lato del mondo, ma esistono gli aerei. E i cellulari. Sarà come una lunga vacanza e andrà tutto bene, no?” lo rassicurò citando le sue stesse parole di quella mattina.

“Sì, è solo che… è solo che mi… mi man-


“Sì, anche tu, Miles.”
Capitava spesso di terminare le reciproche frasi, ma mai così dolorosamente come quella volta. Non avevano da dirsi altro, in quel momento, perciò in totale silenzio proseguirono il loro viaggio raggiungendo l’aeroporto dopo più di mezz’ora di tangenziale. Scaricarono i bagagli e Alex accese una sigaretta, smezzandola con Miles. Una volta terminata la sua parte, lasciò il suo amico fuori a fumare e si recò a consegnare i bagagli da stiva. Miles lo raggiunse proprio quando aveva finito.

“Caffè? Abbiamo ancora mezz’ora” propose sfregandosi le mani per riscaldarle. Alex annuì e si recarono alla prima caffetteria adocchiata. Miles adorava quei baracchini improvvisati dove prendere un caffè di sfuggita se ne aveva voglia, Alex invece li aveva sempre odiati poiché – come per il tè – lo riteneva un rito sacro e privato. Ma quella mattina c’erano poche cerimonie un po’ per tutto e tutti, perciò presero le loro bevande post-sbronza e si poggiarono ad una parete attendendo che il gate aprisse. Passarono qualche minuto in silenzio ad osservare e ascoltare il vociare caotico del posto in cui si trovavano, cercando di mettere a tacere le vocine nella loro testa. Mentre sorseggiavano il caffè, accanto a loro passò una coppia all’apparenza americana, a giudicare dall’accento, e Miles per poco non si strozzò con il liquido notando il pessimo abbigliamento dell’uomo. Alex iniziò a ridere sommessamente.

“Promettimi di non tornare vestito da stupido yankee sciatto e disadattato, ti prego” implorò Miles.

“Pensa che avevo già intenzione di farmi crescere la barba e vestirmi da taglialegna.”

“A te la barba non crescerebbe nemmeno se vivessi duecento anni, Alex…”

“Che ne sai? Non ce l’ho perché me la faccio sempre!”
Miles rise di gusto prima di terminare il suo caffè.

“E non tornare nemmeno con dei figli, per favore. Sono troppo giovane per essere zio.”

“L’unica cosa che produrrò, amico mio, è il miglior album degli ultimi e prossimi dieci anni” annunciò solennemente Alex assestandogli una pacca sulla schiena per poi stiracchiarsi e sbadigliare pigramente. Furono brevemente interrotti dalla sterile voce di un’anonima signorina che annunciava l’apertura del gate del volo di Alex per New York. Buttarono i bicchieri di carta ormai vuoti e si incanalarono, camminando fianco a fianco, verso i controlli che Alex avrebbe dovuto superare prima di partire.

“Il terzo? Sei pazzo? Il terzo è l’album della morte, da lì si decide tutto. Cercate, e cerca soprattutto, di non fare merdate e di scrivere cose comprensibili. Ricorda che non tutti capiscono quello che hai in testa, se non ti spieghi bene” si raccomandò Miles.

“Tu sì, però.”

“Io sì, perché sono abituato a te ma stai andando da un’altra parte e non sempre troverai persone pronte e pazienti a capirti.”

“Sembra tu stia parlando con un bambino di tre anni, Miles” sbottò il cantante di Sheffield voltandosi verso l’amico e incrociando le braccia sul petto, lo sguardo torvo.

“Non lo sei, però… però non trovi che a volte il mondo dei bambini, dove un solo e banalissimo suono può esprimere tutto, sia qualcosa di affascinante e strano?”

“Suppongo…” rifletté Alex “beh, allora ti tocca venire a controllare il mio mondo, di tanto in tanto, che ne dici?”

“Se una volta a New York sentirai il bisogno di… di essere capit-… di avere un amico, allora ci sarò” disse Miles guardando in basso.

“E sappi che se dovrai aggiungere qualche parte a qualche canzone dei Monkeys, dovrai farlo di persona. Non ti azzardare a mandare file per mail, chiaro?”

“Agli ordini, maledetto yankee!”
Alex sbuffò e lo liquidò con un gesto della mano, controllò poi l’orologio. Era ora.

“Miles… Miles, devo andare” sussurrò Alex con un magone tale da bloccargli la normale respirazione.  

“Oh, okay” rispose Miles vagamente. Non sapeva cosa dirgli, in quel momento così importante, perché sapeva che doveva dire qualcosa ma lui non era molto bravo con le parole.

“M-mandami un messaggio quando atterri, non ti preoccupare per il fuso orario” disse blandamente infine il cantante di Liverpool. A pochi centimetri l’uno dall’altro si guardavano direttamente, con uno sguardo che avevano avuto poche altre volte nella propria vita; si guardavano in silenzio e Miles convenne che anche Alex pensava che le parole fossero inutili in quel momento. Ne ebbe la conferma quando Alex improvvisamente lo strinse nel primo vero abbraccio da quando si conoscevano, uno di quegli abbracci che si danno solo in un aeroporto o in una stazione, o comunque quando si sta per lasciare qualcuno. Uno di quegli abbracci dove tutto è finalizzato al memorizzare quel momento per sempre, per quando chi sta andando via non ci sarà più. Uno di quegli abbracci dati ad occhi chiusi e cuore aperto. Odori, rumori, consistenze: tutto ruotava attorno a quell’abbraccio in quel momento. Miles inspirò profondamente l’odore che circondava Alex, l’aroma dolciastro del caffè misto a quello acre della sigaretta, quell’odore che gli rimaneva ogni vola sui vestiti quando gli prestava qualcosa di suo. Ad occhi chiusi, strinse Alex a sua volta, goffamente a causa dell’impedimento dei loro soprabiti.

“Abbi cura di te, Alex” sussurrò Miles all’orecchio dell’amico.

“Non credo di avertelo mai detto e mi sembra strano dirtelo adesso che ci stiamo separando, ma… t-ti voglio bene, Miles” rispose a sua volta Alex, per niente imbarazzato da quel momento. Si staccarono dopo un po’, Miles si chiese come dovevano essere apparsi alle persone attorno a loro ma decise che non gli importava nulla visto che si stava separando da una parte importante di .

“Vai” disse Miles rompendo il silenzio. Entrambi sospirarono profondamente, Alex sorrise; a quel sorriso parteciparono anche i suoi occhi, e le sue occhiaie. Era tranquillo, era sicuro di aver fatto la scelta giusta, di avere l’appoggio delle persone più importanti della sua vita e che sarebbe andato tutto bene. Diede l’ennesima amichevole pacca sulla schiena del suo migliore amico e si avviò verso i metal detector.

“Sorridi, Miles!” gli urlò Alex, ormai lontano, voltandosi e allargando le braccia attento a non inciampare. Miles abbozzò un sorriso, il sorriso più forzato che il suo volto avesse mai visto, e si costrinse a salutarlo con la mano sperando che servisse a convincerlo che andasse tutto bene. Fissò la schiena di Alex finché non scomparve. Fu distratto dal suono di un messaggio appena arrivato; tirò fuori dalla tasca il cellulare chiedendosi chi fosse. Era Alex.

Quando ho detto di sorridere, intendevo un sorriso vero.
Che non ti deformi la faccia ancora di più, idiota.

Miles chiuse il messaggio, ripose il cellulare in tasca e si avviò per tornare a casa. E quello che spuntò sul suo viso appena fuori dall’aeroporto era un sorriso, un sorriso vero. 
  
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