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Autore: Araba Fenice    25/02/2015    2 recensioni
"Stava piangendo per un sogno? Ma... era veramente un sogno? Da quando i sogni la scuotevano così nel profondo?"
Genere: Fantasy, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Silenzio. Buio.

La coscienza perde contatto con la realtà, o con quella che credeva fosse la realtà. E a questo punto si sveglia. Si sveglia un momento prima che i ricordi le si ricompongano nella mente, un brevissimo momento in cui l’ angoscia del vuoto e della solutidine la afferrano violentemente, stringendola con le loro fredde e viscide spire, facendole ricordare che non sarebbe mai scappata da loro.
Il peso insopportabile di questa consapevolezza viene però spazzato via dalla luce bianca, calda, familiare che la investe non appena dischiude gli occhi. Questa luce, familiare e allo stesso tempo distante, permea tutto il suo spettro visivo, rendendola incapace di distinguere dove si trovasse. A poco a poco gli occhi si abituano a questo barbaglio e stingendo appena le palpebre, le figure indistinte che la circondavano iniziano ad assumere forme riconoscibili. La prima cosa che riesce a vedere è il baldacchino che troneggia sopra di lei.

“Sono a letto? Dove mi trovo?” Mormora appena a sé stessa, rimanendo immobile a fissare il bianco tessuto che cadeva ondeggiando ai lati del suo letto. Un baldacchino in legno bianco, di raffinata fattura, sorreggeva una tenda dello stesso colore semitrasparente che incorniciava il suo letto. Gli occhi seguono le volute morbide e leggere del tessuto che scende fino a terra, creando un’atmosfera di seducente intimità.
Subito dopo la sua attenzione cade su ciò che sembra essere un armadio dalle bianche ante posto di fronte a lei, dalla parte opposta della stanza. L’armadio non è molto grande, e le sue ante sembrano intagliate con motivi floreali che si rincorrono e si intrecciano sulla sommità del mobile. Non sa perché ma questa vista le riscalda il cuore, inconsciamente richiamando alla sua mente momenti di serena spensieratezza. Le foglie e i fiori che decorano il mobile le fanno riassaporare attimi di passione dimenticata ma che per qualche oscuro motivo sono impressi indelebilmente nel suo cuore. Che posto era questo?

Lentamente si alza dal suo giaciglio e si siede sul letto, osservando per la prima volta il suo vestito. Era una veste da camera bianca, semplice ed elegante, ma di una morbidezza che le sue dita non avevano mai sfiorato. Liscia le pieghe della veste attorno alla sua vita sottile, e arrossisce. Si blocca. Che strana sensazione. Perché era arrossita? Che cosa stava ricordando il suo cuore?
Riprese ad osservare la stanza che adesso si mostrava in tutta la sua regalità. Era un palazzo quello in cui si trovava, non vi era dubbio, e per qualche oscuro motivo questo posto le era caro, pur non essendoci mai stata. Poggia lentamente i piedi per terra, facendo scivolare il morbido tessuto bianco sulle sue cosce diafane e, di nuovo, si immobilizza.

Una culla.

Trattiene il fiato, portandosi una mano alla bocca per la sorpresa. Una culla nella sua camera?
Si alza silenziosamente e vi si avvicina lentamente, la sua attenzione completamente catturata da quella nuova scoperta. I piedi nudi sfiorano delicatamente il bianco tappeto morbido che ricoprova l’intera superficie del pavimento, attutendo ogni movimento e rendendola inaudibile. Sopraffatta da un senso di curiosità e di timore si affaccia sulla culla. I lunghi capelli mogano le ricadono sulla guancia destra in morbide volute e lei, con un movimento aggraziato, li sposta e li porta dietro l’orecchio. Posa le mani sul bordo del lettino e osserva l’infante che vi riposa.
Un bambino di non più di cinque mesi di vita incrociò il suo sguardo. Era silenzioso e la guardava serio, mentre una delle manine giocherellava con un lembo della trina del lenzuolo.
Lo guardò a lungo, silenziosamente, e strani sentimenti di timore e affetto le si rigirarono nello stomaco. Era suo figlio? Si accostò appena per scrutarlo meglio. Gli occhi del bambino erano di un profondissimo colore violetto con sfumature azzurre, come le pervinche che, adesso stranamente ricordava, era solita ammirare nei giardini del palazzo. Filamenti di ricordi iniziavano a ricomporsi nella sua mente, e quel bambino che la osservava serio e silenzioso era parte di essi. Era suo figlio, adesso ne era certa. I suoi corti capelli scuri le ricordavano i suoi, mentre la profondità e saggezza di quegli occhi magnetici la fecero trasalire, ricomponendo un altro frammento nella sua memoria dormiente.

Si rialzò dalla culla e si guardò attorno, con un incontrollabile e subitaneo desiderio di ritrovare qualcosa che aveva perduto tanto tempo prima, ma che sapeva essere lì, da qualche parte. La confusione si mescolò ad un senso di desiderio frenetico e mentre si voltava verso quella che era una porta finestra che dava su un balcone incrociò la sua immagine riflessa in uno specchio che occhieggiava da un angolo in penombra.

Vide una figura longilinea, alta, vestita di bianco, che curiosa fissava la sua gemella dall’altra parte dello specchio. Fece alcuni passi per osservarsi meglio, avvicinandosi allo specchio dalla cornice dorata. I capelli ricci le incorniciavano il viso diafano e ricadevano sciolti sulle spalle, coprendola come un mantello. La carnagione pallida faceva risaltare ancora di più i suoi occhi scuri, dello stesso colore dei capelli, curiosi e vivi. Seguì con le dita affusolate il  perimetro del suo volto, accarezzando gli zigomi e il mento, come se fosse la prima volta che vedeva queste sue forme. Era veramente lei? Stralci di memorie logorati dai millenni le balenarono di fronte agli occhi, facendole ricordare che si, quella era lei, in un altro tempo e spazio. Per un attimo si vide incoronata e raggiante, con un mantello rosso chiuso alla gola da una spilla argentata che riluceva nel sole del mattino. Vide che tendeva la mano a qualcosa, o a qualcuno, di cui però non riusciva a distinguere la forma.
Si discostò dallo specchio, rimanendo però sempre in contemplazione dell’immagine di sé stessa.
“Che posto è questo? Non lo conosco, eppure mi è familiare... “ si ritrovò a pensare, mentre si volse verso la porta finestra che dava sul balcone in pietra.

E fu solo adesso che lo vide.

Sentì per un attimo un dolore dolce al cuore che si irradiò come un’onda di calore e passione in tutto il corpo. Strinse le mani al petto e trattenne il fiato, azzardando un passo verso questa figura che, le sembrava, riempiva con la sua presenza tutta la stanza.
Colui che aveva catturato completamente la sua attenzione sembrava assorto nel contemplare il paesaggio dal balcone. Braccia conserte al petto nudo, spalle larghe, lunghi capelli biondi che ricadevano sulla schiena e che si muovevano lentamente nella brezza che adesso soffiava dolcemente, entrando nella stanza e facendo muovere le tende. Non riusciva a vederne il volto perché le dava le spalle, intento com’era ad osservare il mondo che si estendeva al di là del terrazza.
Un altro timido passo e si fermò ad osservare la figura granitica che le si parava di fronte, a pochi metri di distanza. Sembrava non l’avesse notata affatto, e di questo si rallegrò perché in questo modo ebbe qualche attimo in più per ammirarlo. Chi era costui, che le faceva tremare il cuore e riempire di lacrime gli occhi? Chi era? Non riusciva a ricordarsi, eppure sentiva un’attrazione irresistibile verso di lui, un sentimento che li legava attraverso spazio e tempo.

Si, proprio così.

Che fossero ricordi di una vita passata? Che fosse la parte mancante della sua anima, spezzata e dispersa fin dagli inizi dei tempi?
Si avvicinò ancora di un passo, in silenzio, gli occhi spalancati fissi su di lui. Arrivò sulla porta della terrazza e si fermò, incapace di continuare.
Era ormai vicinissima e l’uomo, con un sussulto, sembrò accorgersi di lei. Si voltò lentamente e il sole del mattino filtrò attraverso i capelli dorati, creando quasi una corona di luce attorno alla sua testa. Lei alzò appena lo sguardo, per poterne osservare meglio le fattezze.
I suoi occhi bevvero i lineamenti perfetti e forti della persona che le si parava di fronte, e lacrime di gioia iniziarono a scendere sul suo viso. Sentì il calore liquido scorrerle sulle guance, ma vi era solo sorriso sulle sue labbra. La pelle perfetta, chiara e rosea come il cielo del mattino la abbagliarono e le fecero abbassare per un attimo gli occhi, quasi fosse stata accecata da troppa bellezza. Le labbra sottili e decise abbozzarono un seducente sorriso, e si schiusero rivelando denti bianchi che scintillavano come neve al sole. Quel sorriso le fece ricordare una persona di tanto, tantissimo tempo prima, una persona a lei cara ma che (lei sapeva, irrazionalmente) aveva perduto nella notte dei tempi, ancora e ancora, durante l’arco di innumerevoli vite.
Tornò ad osservarlo e stavolta si soffermò sui suoi occhi. Violetti, con una sfumatura di azzurro, profondi e saggi, proprio come quelli del bambino nella culla. Una vampata di calore la fece arrossire e deglutire quando percepì che quello era il padre del bambino. Del suo bambino.

Distolse per un momento lo sguardo da quello di lui ma non riuscì a rimanerne distaccata a lungo, perché, adesso lo sapeva, quello era il suo compagno, il compagno di tutte le sue precedenti vite in diversi livelli di realtà, la metà che la sua anima agognava e sognava ogni notte, l’intero che completa un altro intero. Ecco perché ne era così attratta. L’anima della sua anima, questo fu ciò che il suo cuore le sussurrò.
Lui la guardava silenzioso e gioioso, con lo stesso sorriso caldo e seducente. Non dissero niente, rimasero semplicemente in contemplazione l’uno dell’altra, mentre il sole caldo illuminava i loro volti.

La donna fece un altro passo verso di lui, allungando una mano e sfiorando il volto pacato e sereno della sua metà e sentendone per la prima volta dopo millenni il calore e la morbidezza. Socchiuse appena gli occhi al tatto e lasciò che le memorie lentamente si ricomponessero nella sua mente che si stava risvegliando a questa nuova realtà.
Lui le prese la mano e la portò alle labbra, baciandone delicatamente il palmo. Tremò appena al contatto ma non riuscì a non sorridere fra le lacrime, ancora incapace di dire qualsiasi cosa.
- Ti ho aspettata, mia regina, per infinite vite ti ho aspettata, e ti aspetterò sempre. – disse lui, con voce flautata, poggiando la mano di lei di nuovo sulla guancia.
- Sapevo che avresti ritrovato la strada per tornare da me, per tornare da noi. – Lei sorrise e si avvicinò ancora di più a quell’uomo che le stava facendo riaffiorare memorie antichissime di vite passate, infinite vite passate al fianco di costui, in diverse guise e forme, in diversi mondi, ma sempre lui, insieme, vita dopo vita.
- Io... inizio adesso a ricordare, io appartengo a te, e tu a me... siamo la stessa cosa, separata ma indivisibile, fino alla fine dei tempi... –Sentì queste parole uscire dalle sue labbra quasi contro la sua volontà mentre continuava a fissare i suoi occhi violetti, intensi e profondi, come un mare tranquillo in cui voleva soltanto perdersi ed annegare. Questo era colui che cercava ogni notte nei suoi sogni? Questo era ciò che la sua anima desiderava? Il bruciante desiderio di essere ricongiunta alla sua parte mancante, era dunque lui l’ombra che inseguiva in ogni suo sogno?
L’uomo la guardò con una tenerezza e un amore infinito, e si chinò appena per baciarle la fronte. Sentì i lunghi capelli sfiorargli le guance e riconobbe il profumo di rose e viole che, adesso ricordava, lui era solito donarle in primavera. Chiuse gli occhi e sospirò.
- Fino alla fine dei tempi, separati ma indivisibili... la prossima volta non ti lascerò andare da sola... – Queste furono le ultime parole che sentì, prima che la realtà iniziasse a scomporsi, spezzarsi come uno specchio infranto in infinite minuscole parti che si disperdono luccicanti nel buio dell’oblio.
L’ultima cosa che vide prima del silenzio e del vuoto furono i suoi occhi, imploranti e sfavillanti, fieri ma tristi, che brillavano come stelle in una notte senza luna.

Silenzio. Buio.

Lei si risvegliò di colpo, con ancora le guance bagnate dalle lacrime, sola, nella sua camera. Tutto era buio e silenzio attorno, nessuna culla, nessun balcone, nessuno che la stesse aspettando. Lentamente si alzò a sedere sul letto e si tenne la testa fra le mani, sentendo di nuovo qualcosa di caldo e liquido scorrerle sulle guance.
Lacrime?
Stava piangendo per un sogno? Ma... era veramente un sogno? Da quando i sogni la scuotevano così nel profondo?
Si trascinò stancamente alla finestra, conscia del fatto che quella notte non sarebbe riuscita a dormire di nuovo. La aprì e inspirò a pieni polmoni l’ aria fresca di quella notte d’estate. Osservò le stelle che luccicavano lontane, e il loro bagliore le ricordò gli occhi penetranti che aveva appena sognato e la cui memoria si stava già dissolvendo, nonostante cercasse di aggrapparsi a quei ricordi con tutta la forza della disperazione.
- Mostrami la strada per tornare da te... – Chiuse gli occhi e sospirò, facendosi cullare dai ricordi sbiaditi di quell’amore perduto negli abissi del tempo e dello spazio.
Le stelle sfavillarono per un attimo come se avessero accolto la sua richiesta, e dall’altro lato del baratro infinito di mondi e galassie che li separava, qualcuno sorrise.
   
 
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