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Autore: crimsontriforce    08/12/2008    1 recensioni
Breve storia di un successo annunciato che alla fine non poté che tramutarsi in sconfitta.
Eterno è solo Sin assieme alla sua corte.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Auron, Bahamut, Braska, Ixion, Jecht
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Dieci anni fa, la stessa strada'
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Rieccomi a pesce su Braska FFX! Capitolo uno di cinque, per l'ennesima follia indetta da Criticoni. :3 Meno cervellotico della volta scorsa, in teoria la consegna era semplice: suddivisi in squadre, ogni squadra ha ricevuto un prompt di squadra - una frase - e un set di prompt singoli - coppie di opposti - da smazzare fra i partecipanti, uno a testa.
Tuttavia!
La mia amabile squadra *sparge brillantini*, eroicamente capitanata da Keiko, ha deciso che tali prompt erano per poppanti. Ergo, le seguenti limitazioni aggiuntive: per prima cosa, la fanfiction avrebbe avuto piacere d'esser angst e, secondo, sarebbe stato gradito un riferimento musicale più o meno marcato. E noi che fangirl siamo, beviamo, beviamo...

I prompt:

"I grandi eroi, quelli che vengono ghermiti da me, dalla Gloria, non sono mai esseri imperfetti."

Immortalità/Precarietà

L'angst viene gentilmente fornito dalla casa *batte cinque a Yu Yevon*

E la musica... ah, la musica. Chi mi conosce almeno un po' sa che 'musica' e 'FFX' nella stessa frase tendono a farmi rincantucciare in un angolino tutta tremante, con in testa immagini delle Thunder Plains in cui smette di piovere per il p0t3r3h della Mary Sue e di concerti a Luca con lo stadio pieno. D'acqua.
Però, però...










Falsità di una statua

"So you're a champion of Yevon now, Braska?"
(Auron, Tempio di Djose)



1. Rumori di fondo - priorità



I call
And there is no reply
Like some phantom cry
On ears too far away
(Yoko Kanno - Cowboy Bebop, No Reply)







“Torneremo.”

Questione chiusa, Jecht si azzittì. Non poteva rispondere male al capoccia della loro allegra brigata – si chiese se la piccola carogna in rosso avesse atteso apposta, così da troncare lo spassoso scambio di opinioni che li aveva intrattenuti negli ultimi minuti. Non era ancora certo di poterlo ritenere al di sopra di simili stratagemmi. Né di volerlo.
Ad ogni modo, la promessa non gli dispiaceva. Anche se era solo un dannato fiume. Anche se un fiume che la notte sbrilluccica sembrava uscito dalla testa di una bambina di dieci anni tutta fiocchi e bambole e sorrisi. E pertanto causa di imbarazzo profondo per chiunque non rientrasse nella categoria. Ma Jecht ci si era bagnato i piedi, in quella fantasia infantile. Ci aveva abbattuto l'unica bestia che avrebbe dovuto lasciare lì dov'era. Era un punto definito su una carta geografica ed era più di quanto si potesse dire di... di altro, dannazione. Era stato il suo ultimo compagno di bevute, in un certo senso. 'Torneremo' era una buona promessa.

“Forse neanche allora sarà sera”, disse Braska. “Ma avremo un'altra possibilità. E, ad ogni modo, torneremo.”
Salutò con affetto gli alberi alle sue spalle, che si stavano diradando per lasciare spazio alle imponenti formazioni rocciose dell'area di Djose.
“È uno dei privilegi concessi a chi s'incammina dal nord, io credo”, confidò loro, “quello di conoscere la strada due volte, di non dover dare il primo saluto come se fosse l'ultimo. Siamo benedetti.”
Auron si schiarì la voce.
“E ho piena fiducia nei miei guardiani”, lo precedette l'evocatore. “Se anche dovessi girare tre volte in cerchio attorno Spira, so che sarei al sicuro. So che lo sarò, a meno che Yevon non si faccia burla di noi mettendoci sul cammino del Distruttore.”
“Mio Lord”, rispose, ed era un'accettazione, una supplica e un'offerta. Il resto della risposta aveva perso importanza. “Ma questa baldanza ha già lasciato troppe vittime sul suo cammino.”

Senza appigli per un'entrata in scena che fosse abbastanza chiassosa e appariscente da soddisfarlo, Jecht li lasciava fare, silenzioso, a cinque passi di distanza: abbastanza pochi per sentire ogni loro commento, aveva stabilito, e abbastanza per potersi permettere, di tanto in tanto, una telecronaca bisbigliata dei momenti salienti della conversazione.
Erano partiti da meno di un mese e già il chiacchiericcio dei compagni si era imposto come rumore di fondo della sua nuova vita, come un tempo era stato il boato del pubblico o un pianto sommesso da oltre il muro, che non voleva essere scoperto e che di conseguenza il blitzer non aveva mai consolato, per una personale forma di rispetto.
Era lieto di constatare che il suo evocatore, al contrario, fosse ben in grado di consolarsi da sé. Da cosa, Jecht non sapeva ancora dire, né era – ancora – sicuro di interessarsene a sufficienza. Vedeva solo Auron affannarsi come una bambinaia dietro a un lattante troppo cresciuto e Braska stesso, un pilastro di certezze, perdere ogni tanto il terreno da sotto i piedi e doversi aggrappare, per non cadere, alle parole che gli piacevano tanto. Come aveva appena fatto. Parole mirate e gentili come chi le aveva espresse, mai sprecate, ma non richieste.
E Jecht camminava cinque passi indietro, il giusto per ascoltare e non essere ascoltato, per fare da retroguardia e irrompere nel mondo discreto dei suoi compagni di viaggio ogniqualvolta la fantasia lo sosteneva. Per osservare un mondo che non era il suo.

***


"Mete turistiche di spicco?"
"Prego?"
"Ristorantini nei dintorni, centri sportivi...?"
Rallentando il passo, Braska si voltò e offrì a Jecht un perplesso sorriso di circostanza. Era grato al suo guardiano per gli interventi giocosi – a volte al limite della maleducazione – con cui lo sviava da pensieri più cupi, non meno che per la speranza nascosta che la sua stessa esistenza implicava, quella di una Zanarkand viva come nelle leggende che li aspettasse in gloria oltre l'orizzonte.
Ciò premesso, a volte proprio non lo capiva.

“Ehi, Braska”, attaccò in spiegazione, ma si fermò di colpo, indicando in avanti con gesto teatrale.

“Lord Braska”, lo riprese puntualmente Auron da qualche passo in avanti, con una forte enfasi sul Lord. Il ragazzo si strinse nelle spalle.

“Almeno c'è l'eco”, concluse Jecht soddisfatto dell'esperimento. “Saranno le montagne. È un inizio, vedi, ma ci si annoia presto. Yocun!”, esclamò, per riprova.

Il suo bersaglio piantò la spada in terra e si fermò a braccia incrociate. Jecht lo osservò con soddisfazione: l'ultima volta era riuscito a farsi correggere quattro volte sugli appellativi di politici e santi prima che l'altro si rendesse conto che lo stava prendendo in giro.
“Chi?”, lo salutò Auron quando fu raggiunto, con voce piatta tradita da un ghigno che ancora stonava sul suo viso serio. “La fornaia del ponte basso? Davvero una cara signora, molto pia.”
Braska scoppiò a ridere e finì per reggersi alla sua asta, sia per un concetto pur remoto di dignità, che gli impediva di piegarsi in due, sia per i bordi impietosi della sua corazza, che gli vietavano fisicamente il gesto minacciando lividi se ci si fosse appoggiato con troppo slancio. Rise di cuore, per i suoi guardiani e non di loro, come il più giovane aveva dapprima temuto.

Jecht guardava altrove, scostando inesistente polvere dal suo guanto ferrato.
“Come dicevo”, commentò, “ci si annoia presto, ha già smesso. E io ho bisogno di qualcosa da fare quando mi scaricherete in locanda per andare al vostro specialissimo tempio, signori miei. L'altra volta avete rischiato di riportare indietro un morto di noia, e qui non c'è neanche la neve.”

“C'è, in effetti, un luogo di primario interesse nell'area”, rispose Braska pensieroso. “Potremmo accompagnartici. Per meglio dire, potresti tu accompagnare noi. Te la senti, Jecht?”

La notizia penetrò a fatica.
“Il tempio? Con voi?”, chiese incredulo dopo qualche passo. “E me lo chiedi?”
“Non è il modo di...”, iniziò Auron.
“È proprio il modo di rivolgersi a un tipo a posto, invece.”
Braska sorrise.
“È quello che sei”, continuò Jecht, con l'entusiasmo che di solito si accompagna a un granello di commozione e che invece, Jecht essendo Jecht, restava entusiasmo schietto, calore ed energia.
“Sarebbe un triste mondo, quello in cui un evocatore non si potesse fidare dei suoi guardiani.”
“Lasciarmi indietro l'altra volta è stata una scelta tutta vostra, non mia.”
“Mia, mia! Me ne assumo ogni responsabilità”, disse Braska. “Come avrei dovuto fare davanti al tempio. Puoi capirmi?”
“E Yevon comanda”, recitò Auron per completezza, “che il sacro viaggio sia compiuto da un corpo e da uno spirito; così il guardiano è braccio e voce del suo evocatore e, se pecca, entrambi avranno peccato; se pronuncia il falso, entrambi avranno mentito; ma se il suo agire è degno del ruolo di cui è stato investito, due saranno i raggi di speranza sul nostro mondo corrotto dal peccato.”
“E se starnutisce, saranno raffreddati entrambi? Bada che questa avrebbe anche senso...”
“Oggigiorno nessuno prende le Scritture così alla lettera, ma è pur vero che sarei io il responsabile di danni da voi arrecati.”
“Quindi, visto e considerato che ho abbattuto un dannato shoopuf, ti sei detto 'ehi, tanto una più grossa di così non la può combinare' e via?”, chiese Jecht con una punta di amarezza. Più apriva gli occhi su un mondo che non era fatto solo per adorarlo e più si scopriva un idiota. La sensazione non era piacevole; quello sgangherato trio, l'unica consolazione.
“No, anche se si può dire che la povera bestia vi abbia giocato un ruolo importante. Mettiamola così, Jecht: io mi fido di te. Non mi fido dell'alcool che ti guidava fino a qualche giorno fa.” Sospirò. “Mi fido dello sportivo. Mi fido della persona che da allora ha sperimentato cosa significhi realmente una vita che dipende dalla sua. Così oggi mi seguirai al tempio, perché il pellegrinaggio è di un'anima e un corpo e giungeremo da pari a Zanarkand o non vi giungeremo affatto.”
“Ben detto”, approvò una voce infantile dentro la sua testa, talmente esile che si confuse fra altri pensieri.
“Ritiro: sei dannatamente a posto, capo”, le fece involontariamente eco Jecht. “Se fossimo a bordo campo, con un discorso del genere avresti già la squadra in tasca.”
“Fosse così semplice.”
“Parola mia, chi ti ha sbattuto fuori ha perso un ingaggio.”
Risero.

Auron osservava, in disparte, un mondo che era stato il suo. Sentì con chiarezza, in quel momento, di essere rimasto un passo indietro. Per l'età, si disse, o un concetto di famiglia condiviso che lui aveva invece respinto con tutte le sue forze. O una rigidità mentale che gli veniva spontanea e che fino a quel giorno non gli aveva reso disservizi.

Osservando, vide.
Braska era troppo impegnato nella conversazione, o troppo fiducioso, o tende davanti agli occhi, sono tende davanti agli occhi, per Yevon, l'inutilità di fregiarsi di quelle vesti se l'hanno cacciato, o forse è a questo che servono i guardiani, quando chi è troppo intento a guardare oltre l'orizzonte non si accorge di quello che succede al suo fianco. Ma Auron vide. Vide Jecht tendersi come un animale, rispondendo a un richiamo fatto per lui solo, e prepararsi a scattare. Dove e perché non avevano importanza: Auron balzò al fianco del suo evocatore, mano ben salda sull'elsa della spada. “Lord Braska!”, gridò, vedendolo ancora immobile con la coda dell'occhio e pregando che si preparasse a combattere qualunque pericolo si fosse parato loro davanti – senza escludere la possibilità che si trattasse di Jecht stesso.

Ma Jecht era già altrove. Era corso via per il sentiero con tutta la forza che aveva nelle gambe, spiritato e selvaggio.

Sperarono dapprima che avesse visto o sentito un pericolo davanti a loro, ma non sentirono scontri, solo passi pesanti che si allontanavano fino a scomparire del tutto.
Lentamente, abbassarono insieme asta e spada, ancora muti per lo stupore. La strada rimaneva deserta e silenziosa.
“Jecht!”, chiamarono più volte, senza risposta. “Jecht! Jecht!”

“Ci ha lasciati... così? Canaglia...”, disse infine Auron, incerto.

Braska scosse la testa. “Non essere così veloce a giudicare, amico mio.”
“Cosa devo fare, allora? Accettare che si sia preso gioco della nostra fiducia solo per andarsene così? O che detta fiducia sia stata riposta fin da principio in un pazzo?”
“Non giudicare. Non abbiamo certezze. E, credo, neanche lui.”
“Così sia”, si arrese Auron, in cui la rabbia stava già facendo posto a riflessioni diverse e contrastanti su quanto e cosa, di preciso, quella diserzione avesse incrinato in lui. Appoggiarsi al giudizio di Braska era la via d'uscita più semplice. “Da dove iniziamo?”
“Cosa?”
“Le ricerche”, rispose stupito.

L'evocatore chiuse gli occhi e il pesante copricapo che portava scivolò in avanti sulla sua fronte aggrottata.
“Mio Lord?”
Dovette attendere molto prima di ricevere risposta.
“Parli come un buon soldato e compagno di viaggio. Ma questo non è un normale viaggio, né una campagna militare. E solo pochi minuti fa gli ho promesso che saremmo arrivati a Zanarkand insieme...”
“È stato lui a rompere la sua parte di promessa, mio Lord.”
“Sei lesto a scusarmi”, gli sorrise Braska, ma la sua voce era bassa e triste. “Mi sono legato a molte promesse, sai? Verso Yevon, mia moglie, la mia piccola Yuna. Se tornassi indietro, farei ancora in tempo ad assolverne molte. Ma più vado avanti, più ne stringo... più mi rendo conto che viviamo in un mondo che non permette di onorarle. Così ne resta solo una, la più grande... quella fatta a tutta Spira, cui non verrò meno. Tutto il resto viene dopo.”
Auron tacque.
“Arriveremo al tempio prima di sera. Chiederemo di lui, lasceremo istruzioni. Con qualche fortuna, ci starà già aspettando lì, curato della sua improvvisa follia, se di follia si trattava. Non è più l'uomo di un altro mondo che abbiamo conosciuto nelle prigioni di Bevelle: sa qual è la nostra meta e fino a poco fa aveva la mente abbastanza sgombra da saperla raggiungere. Ho ancora fiducia in lui.”
“Così sia.”
“Non voglio credere che l'abbiamo perso”, concluse Braska, con gli occhi sempre chiusi e la testa china, un pugno stretto sotto le ampie maniche. “Non voglio pensarci. Ma non possiamo essere noi a cercarlo. Non possiamo ritardare il nostro viaggio, non quando ogni giorno può portare con sé la morte di molti.”

“Centoquarant'anni”, avrebbe risposto d'istinto Auron. Tanto era passato dall'ultima Calma: certo, un giorno in più non avrebbe fatto la differenza? Avevano passato una vita senza partecipare con tanta urgenza al ciclo di distruzione che avvolgeva Spira. Ma non avrebbe guadagnato che, appunto, un giorno, forse due, a cercare quel pazzo nei campi. Finché Zanarkand si fosse erta all'orizzonte dei suoi incubi, un giorno in più sarebbe stato un misero rattoppo, uno per cui non valeva nemmeno la pena di opporsi ai suoi principi o ai dettami di una religione lontana, men che meno al suo evocatore. Avrebbe convinto Braska a non gettare la sua vita o l'avrebbe sorretto fino all'ultimo respiro.
Quindi tacque.

“Auron?”
“Sì?”
“Rispetto il tuo silenzio. Grazie.”

Sentirono, da oltre l'ultima curva del sentiero, il canto profondo della Fede riempire la vallata. Il tempio era vicino.

















******

*indica l'ultima frase* Musica!

A presto col secondo capitolo, nella speranza che quest'introduzione abbia destato qualche curiosità. :)


   
 
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