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Autore: BebaTaylor    28/02/2015    0 recensioni
Noi non potevamo essere troppo tristi, o troppo felici, o arrabbiati, o impauriti, terrorizzati o qualsiasi emozione che vi venga in mente. Noi dovevamo essere quasi... apatici, privi di qualsiasi emozione che non fosse appena accennata.
Noi cinque eravamo i guardiani degli elementi. Acqua, Fuoco, Terra, Vento, Spirito. Era nostro compito mantenere l'equilibrio sulla Terra ed evitare qualsiasi catastrofe naturale. Niente alluvioni, niente esondazioni, niente terremoti, frane, slavine, valanghe, niente incendi indomabili, niente vulcani che eruttavano lava come un rubinetto aperto alla massima potenza. Niente tornado, uragani, venti che sradicavano alberi e scoperchiavano case e facevano ribaltare le navi nell'acqua, niente tsunami.
Io ero la più piccola del gruppo, avevo venticinque anni e da cinque anni, e per altri trenta stavo immolando e sacrificando la mia vita per la mia missione.
Solo che era un sacrificio troppo grande
Genere: Fantasy, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prima di lasciarvi alla storia:
1. All'inizio volevo scrivere una one shot di al massimo 8000 parole, solo che le cose mi sono sfuggite dalle mani ed è uscito questo. o.0 La storia è molto lunga, sono un sacco di parole (più di 25K!) e alla fine l'ho divisa in quattro capitoli. Posterò un capitolo a settimana, o anche due volte a settimana, tanto i capitoli sono già tutti scritti. Devo solo mettere l'html all'epilogo.
2. Questa storia è molto sentita, sono anni che cerco di buttarla giù, senza successo e adesso ci sono riuscita! Quindi amatemi.
3. Vi prego, mentre leggete la storia, non pronunciate “Leo” come se lo leggeste in italiano, ma come si pronuncia in inglese.
4. Alcune cose prendetele con le pinze, dopotutto è una storia soprannaturale. Anche se cerco di mantenere una sorta di realismo anche con questo genere, alcune volte certi “svarioni” sono necessari per la trama.
5.La storia è lunga, e l'ho letta, riletta e ri-riletta fino alla nausea. Questo per dirvi che se ci fosse qualche errorino è solo perché, sapendo ormai la storia a memoria, non li ho visti. Li correggerò al più presto.
6.Credo che sia tutto.
7.Godetevi la storia!



Elements

Parte I



Fissai le porte del treno che si chiudevano con un cigolio e il treno che partiva con uno sbuffo strano, un rumore a metà fra un grugnito di un maiale e il clangore di catene che sbattevano fra di loro.
Sospirai e mi diressi verso l'uscita, trascinandomi dietro il mio trolley rosso, entrai nella stazione d'aspetto e mi diressi verso il bar, dove presi un caffè perché quello che avevo preso sul treno sembrava, no, era, ne sono sicura, caffè di tre giorni prima allungato con un litro di acqua presa da un acquario maleodorante.
Mentre lo sorseggiavo lentamente guardai fuori dalla grande vetrata e pensai che Leo dovesse essere triste, perché una pioggerella leggera continuava a scendere, quasi senza sosta, da almeno un paio di giorni. Sospirai e pensai che Lei non sarebbe stata contenta, proprio no.
"Niente emozioni, grazie."
Il mio cellulare squillò un paio di volte, guardai lo schermo, Samuel era arrivato; posai la tazzina sul bancone e uscii, vidi l'Audi nera posteggiata nel parcheggio a sinistra della porta. Misi il trolley sul sedile posteriore e mi sedetti sul sedile del passeggero.
«Come va?» domandò lui e mi baciò le guance.
«Bene.» risposi, «Alla grande.» mentii e per un attimo sentii il mio corpo vibrare, così feci un respiro profondo e mi calmai. Se avessi perso lucidità e calma sarebbero stati guai. Se Leo fosse diventato ancora più triste, o se si fosse arrabbiato, o se fosse stato così felice da scoppiare... sarebbero stati guai. Se Samuel avesse provato un'emozione forte sarebbero stati guai. Se Adam avesse fatto la stessa cosa, sarebbero stati guai. Idem per Damon. Sobbalzai, pensando a lui. Erano cinquantuno settimane che non li vedevo. Che non lo vedevo e la cosa faceva male, una coltellata dolorosa dopo l'altra. Vibrai di nuovo, così respirai profondamente e mi calmai. "Niente emozioni." ricordai.
Noi non potevamo essere troppo tristi, o troppo felici, o arrabbiati, o impauriti, terrorizzati o qualsiasi emozione che vi venga in mente. Noi dovevamo essere quasi... apatici, privi di qualsiasi emozione che non fosse appena accennata.
Noi cinque eravamo i guardiani degli elementi. Acqua, Fuoco, Terra, Vento, Spirito. Era nostro compito mantenere l'equilibrio sulla Terra ed evitare qualsiasi catastrofe naturale. Niente alluvioni, niente esondazioni, niente terremoti, frane, slavine, valanghe, niente incendi indomabili, niente vulcani che eruttavano lava come un rubinetto aperto alla massima potenza. Niente tornado, uragani, venti che sradicavano alberi e scoperchiavano case e facevano ribaltare le navi nell'acqua, niente tsunami.
Io ero la più piccola del gruppo, avevo venticinque anni e da cinque anni, e per altri trenta stavo immolando e sacrificando la mia vita per la mia missione.
Solo che era un sacrificio troppo grande: niente storie d'amore, né con altri né con uno di noi. Niente sesso — un orgasmo provato a Miami potava causare un terremoto che avrebbe distrutto le coste mediterranee della Spagna, la delusione per un orgasmo mancato avrebbe fatto cadere un metro di neve a Mosca —, quindi niente figli. Nessuna persona a cui affezionarsi, niente viaggi, niente festeggiamenti troppo “festosi”... Niente di niente, in pratica.
Mi riscossi dai miei pensieri quando l'auto si fermò nel parcheggio sotteraneo del condominio dove vivevano gli altri quattro, Samuel prese il mio trolley e salimmo in ascensore.
«Il lavoro?» domandai per spezzare quel silenzio che iniziava a pesare.

«Il solito.» sospirò lui, aprì le porticine dell'ascensore e mi fece passare. «Ho un capo schiavista. Lo prenderei a sberle.» sbuffò e sentii la terra tremare sotto ai miei piedi, anche se eravamo al quinto piano, anche se nient'altro tremò. Samuel si era arrabbiato e da qualche parte, sul pianeta, c'era stata una leggera scossa di terremoto. Scossa che s'intensificò quando il guardiano della Terra sorrise alla dirimpettaia.
Lui la guardò mentre lei scendeva le scale, fino a quando non sparì dalla nostra vista.
Entrammo in casa e vidi Leo, appollaiato su una sedia accanto alla finestra, il faccino angelico distorto da una smorfia triste.
«Ciao Leo.» lo salutai.
Lui si girò verso di me e sorrise, «Ciao Tabitha.» disse, «Tutto bene il viaggio?»
Scrollai le spalle e tolsi la giacca di jeans. «Bhe, sì.» risposi. «A parte il caffè.»
«Quella brodaglia non è caffè.» esclamò Samuel, «È una brodaglia disgustosa.»
Sorrisi e mi concessi un risolino, sicura che non avrebbe peggiorato i danni causati dal terremoto, ovunque fosse stato.
«Vado a chiamare gli altri.» disse Samuel e sparì. Adam e Damon vivano nell'appartamento di sotto e le due case una volta erano solo un grande appartamento che fu poi diviso, però la scala interna rimase.
Sospirai, nel pensare a Damon, ai suoi occhi azzurri e i capelli biondi. Sospirai e mi sentii osservata e mi girai per guardare Leo, che mi fissava, triste, quasi come se sapesse ogni cosa.
«Ehi, Tabitha.» mi salutò Adam, baciando la mia guancia sinistra.
Un "Ciao" e un misero e fugace abbraccio furono il benvenuto da parte di Damon.
E io lo sapevo il perché di quella freddezza, come la sapeva lui.
Come sapevo che Samuel si stava prendendo una cotta per la vicina dalla pelle color cioccolato al latte e le gambe chilometriche.
Quello che non sapevo era cosa rendesse Leo così triste o il perché Adam sembrasse così scontroso e con la voglia di prendere la porta e scappare.
Quello che noi cinque non sapevamo era quello che ci sarebbe aspettato nei mesi seguenti. Quello che non sapevamo era che noi eravamo molto di più di cinque Guardiani degli Elementi.
Ma lo avremmo scoperto presto.

✫✫✫

Mentre mangiavamo la pizza — Leo non era più triste e aveva smesso di piovere — parlammo di cose banali, evitando tutti quegli argomenti tabù, che poi erano solo quattro: amore, sesso, religione e politica.
Per uno strano scherzo del destino ero di fronte a Damon, e ogni tanto sentivo il suo sguardo su di me. Uno sguardo carico di significati, carico di tutto. E lo sentii, forte. Del vento, da qualche parte in Europa, forse Italia o Francia. Grosse folate di vento che facevano rotolare bidoni dell'immondizia e vasi di plastica vuoti. Avrei potuto sentire il rumore della plastica che rotolava e saltellava sull'asfalto.
Lo ignorai, stoicamente, per diversi minuti, fino a quando non finii anche l'ultima crosta della pizza e Adam portò via i piatti, e poi ancora, quando Samuel mi diede un piattino con una torta di meringa e gelato.
La mia preferita.
Solo a quel punto, mentre prendevo in mano la forchettina da dolce, fissai gli occhi azzurri di Damon e ci lessi di tutto e mi sentii morire. Il vento si alzò ancora e mi concentrai, mentre spezzavo il dolce in due, per calmarlo.
Non potevo andare avanti così, non per altri venticinque anni, altrimenti sarei impazzita. Mi sarei logorata lentamente, in preda a un amore che non poteva esserci, che non poteva essere consumato, che non poteva essere pensato.
Perché quella era la verità: io amavo disperatamente Damon e avrei voluto dirglielo, baciarlo, stringerlo a me e stare con lui. Ma non avrei mai potuto farlo. Una volta finito il nostro compito le nostre strade avrebbero dovuto dividersi e non avremmo più potuto incontrarci per il resto della nostra vita. A quel punto pensai che sarebbe stato meglio morire il giorno dopo la fine del mio compito perché, era troppo doloroso pensare che non avrei più potuto vedere i suoi occhi così azzurri, ai suoi capelli biondi e il suo sorriso. Mi sarei uccisa pur di non provare tutte quelle cose. Ma non avrei potuto fare neppure quello.
Non potevo fare nulla se non starmene lì, fissando Damon, e ricacciando nel profondo del mio cuore i sentimenti che provavo per lui.
E che lui provava per me.

Ero sul piccolo balcone della stanza da Leo — da vero gentiluomo me l'aveva ceduta — e sospirai. L'afa era insopportabile e quasi rimpiansi la pioggia del pomeriggio. Mi sistemai meglio sul dondolo e abbracciai le mie gambe, posando il mento sulle ginocchia, domandandomi perché dovesse essere tutto così difficile, per me, per noi.
Perché eravamo noi, ad essere stati scelti.
Perché io? Perché lui?
Domande senza risposta.
Affondai le unghie nei polpacci e mi costrinsi a ingoiare le lacrime. Come ogni volta, come succedeva ogni giorno.
Avevo dei sogni, prima. Prima che Lei piombasse nella mia vita e mi dicesse che ero la guardiana dello Spirito e che la mia vita sarebbe cambiata.
Che sarebbe cambiata in peggio, però, Lei non lo aveva detto.
Avrei voluto laurearmi in biologia, per poi proseguire in medicina. A diciotto anni, durante l'ultimo anno del liceo, ero indecisa se specializzarmi in pediatria o ostetricia.
Invece... invece a vent'anni, avevo dovuto abbandonare l'università, i miei sogni e la mia vita.
Anche gli altri lo avevano fatto e potevo immaginare quanto fosse stato doloroso per loro.
Udii un singhiozzo e poi un altro, mi alzai in piedi e mi sporsi dal balcone.
Era Damon, che piangeva come un bambino. Lo udii chiaramente il vento che si alzava. Damon piangeva e dall'altra parte del pianeta si stava scatenando il Vento, il suo elemento.
Avrei dovuto calmarlo, senza pensare al ragazzo al piano di sotto che singhiozzava, ma non ci riuscii perché sapevo il motivo di quelle lacrime: io.
Era per me che piangeva.
Rientrai in camera dopo aver lanciato un breve sguardo alla skyline di Miami che si intravedeva in lontananza e chiusi la porta finestra, non potevo ascoltare quei singhiozzi ancora per molto, altrimenti sarei scesa da lui, lo avrei stretto tra le braccia e gli avrei detto che Lei poteva anche fottersi. E poi lo avrei baciato e avrei fatto l'amore con lui lì, sul piccolo balcone, fregandomene del resto. Invece andai in cucina e mi versai dell'acqua.
Leo dormiva sul divano in modo scomposto — una gamba su e una giù, con il piede che toccava il tappeto —, lo osservai per qualche minuto. Lui aveva un anno più di me ma in quel momento mi sembrò più piccolo. Si sentiva solo, triste. E pioveva, forte a New York, una pioggia che scrosciava e bagnava chi era in giro alle due del mattino. Sospirai e coprii Leo, gli sfiorai la fronte e il viso e lui si calmò. E l'intensità della pioggia scemò. Avevo sempre pensato che Leo fosse un piccolo e dolce bignè ripieno di crema. Ma anche fragile come bicchiere di cristallo.
Bevvi e feci per tornare in camera mia quando un rumore mi bloccò. Andai alla porta e guardai dallo spioncino, capii perché Samuel si era invaghito della vicina: era una bella ragazza di colore, con lunghe gambe snelle, un sedere sodo, pancia piatta, un seno alto e sodo, lunghi capelli lisci che cominciavano ad arricciarsi. La giovane entrò in casa e il pianerottolo piombò nel buio.
Tornai anche io a letto, rannicchiandomi al centro, la testa sotto le coperte, mentre nel Sud-Est asiatico si scatenavano i monsoni.
Ero troppo triste per poter pensare anche a quello, dopo averlo rivisto. Non avrei voluto pensare a nulla.

✫✫✫

«Che cos'ha Adam?» domandai il mattino seguente, rientrando nell'appartamento di Samuel e Leo. Ero andata con Adam a comprare alcune cose per il Grande Rito e il ragazzo era stato... scontroso. No, non è la parola giusta. Era stato... bho, qualcosa di strano, qualcosa che aveva fatto scoppiare un grosso incendio in Messico.
Sospirai mentre posavo la borsa sul tavolo.
«Non lo so.» rispose Samuel, «È strano da alcuni giorni.»
Leo, in quel momento ci sfilò accanto — avrebbe potuto fare il modello, con quel faccino angelico e i grandi occhi grigio-verdi — e si sedette sulla sedia accanto alla finestra. Presto avrebbe ricominciato a piovere, lo sentivo.
Scrollai le spalle, «Uhm, okay.» feci mentre iniziavo a togliere le candele dalla borsa. Le sistemai nel mobile vicino alla tv e mi sedetti al tavolo, iniziai a ripiegare il sacchetto di plastica, lisciando le grinze con il palmo della mano, gli occhi fissi su quello che stavo facendo. Non li avrei alzati nemmeno se fossero passati una schiera di aitanti vigili del fuoco completamente nudi. E il tutto perché Damon era salito nell'appartamento.
Mi sentii osservata e alzai il viso, trovando quello di Leo che mi sorrideva con dolcezza, e capii che sapeva, che sapeva ogni cosa. E ciò mi fece sentire triste, perché Leo era dispiaciuto per me. Perché lo sapeva. Sapeva cosa provavo per Damon. Sapeva cosa provava lui per me e il fatto che non avremmo mai potuto avere una nostra vita insieme lo rendeva triste. Ancora più triste.
Sentii Damon dietro di me e mi voltai, ritrovandomi i suoi occhi azzurri che mi scrutavano e dicevano quello che non si poteva dire a voce alta. Inspirai piano e lui fece un minuscolo sorriso che mi riempì di gioia. «Ciao, Tabitha.» mi salutò con la sua voce bassa e roca.
«Ciao.» risposi e distolsi lo sguardo, puntandolo su Adam che si aggirava in casa come un leone in gabbia.
Avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
«Guarda che non serve che scavi per arrivare di sotto, eh.» lo prese in giro Damon.
Adam lo fulminò con lo sguardo e per un singolo istante — un mezzo secondo, forse — mi parve di vederlo avvolto dalle fiamme. Il ragazzo fissò Damon con i suoi occhi neri socchiusi e sbuffò.
«Non sopporto di stare qui.» disse, «Mollerei tutto e me ne andrei.»
Lo guardammo, tutti quanti, mentre lui ci fissava, osservandoci come se ci vedesse per la prima volta.
«Non puoi.» esclamò Samuel, «Non possiamo.» sospirò, abbassando la testa e incurvando le spalle.
«Non ce la faccio più.» sbuffò Adam e incrociò le braccia muscolose al petto. Fece un sospiro, poi sciolse le braccia e infilò le mani nelle tasche. «Comunque non importa.» disse, «Ormai siamo qui...» si voltò e tornò al piano di sotto. Guardai Damon e vidi le sue labbra tremare, poi sospirò, «Vado a vedere come sta.» disse e sparì anche lui, lasciandomi sola, anche se avevo accanto Leo e Samuel.
Inspirai a fondo e mi imposi di calmarmi. Dovevo farlo. Leo mi strinse la mano e gli regalai un sorriso. «Andrà tutto bene, vedrai.» sussurrò. Il mio bignè alla crema...
Sorrisi, anche se il mio cuore piangeva.

Eravamo nel salotto, sul tappeto, il tavolino spostato di lato.
Io ero al centro di un cerchio formato dagli altri, alla mia destra si trovava Damon e potevo vederlo con la coda dell'occhio.
Le candele vennero accese e le luci spente. I ragazzi si presero per mano, incrociai le gambe e posai i polsi sulle ginocchia, rilassando le mani.
Acqua che scorreva sulla mia pelle, lenta, seguendo le curve del mio corpo, por poi frantumarsi sul pavimento come una cascata. Terra che vibrava e tremava sotto di me, zolle che si alzavano e ballavano. Fuoco che divampava, e Aria che alza le fiamme.
Rimanemmo così, ognuno concentrato sul proprio elemento, io concentrata sul mantenerli in equilibrio, per diverso tempo. Avevamo iniziato subito dopo pranzo e quando smettemmo il cielo si stava striando d'arancio.
Mi alzai lentamente, sentendomi esausta dopo tutta quella concentrazione e barcollai, sentendo la stanza che girava attorno a me. Mi aggrappai alla prima cosa che trovai: il braccio destro di Damon. Lo fissai, sentendo sotto le dita la sua pelle calda e i peli che mi solleticavano. Inspirai a fondo, fissandolo.
«Tabitha...» soffiò, «Stai bene?» mi domandò, premuroso. Troppo premuroso.
«Mi gira la testa.» farfugliai distogliendo lo sguardo. Lui mi posò una mano sulla schiena e mi accompagnò verso il divano, mi aiutò a sedermi e mi fissò. Io non lo feci, atterrita dall'idea che avrei potuto stringerlo a me e baciarlo.
Leo, premuroso come sempre, mi portò un bicchiere di succo. Lo sorseggiai piano, evitando d'incrociare lo sguardo di Damon.
Samuel era appoggiato al tavolo della cucina e ci osservava mentre Adam sospirava appoggiato allo stipite della porta finestra.
«Sto bene.» dissi, finii il succo e Leo prese il bicchiere dalla mia mano.
«Hai la faccia sbattuta.» commentò Adam, muovendosi come se lo avesse punto una tarantola. «Dovremo prenderci una vacanza.»
«Non possiamo.» lo riprese Samuel.
Adam sbuffò e si mosse, lo vidi barcollare e capii che anche lui era provato.
Ristabilire l'equilibrio ci portava via molta energia e ci lasciava senza forze, per questo c'incontravamo una volta l'anno.
Damon era in piedi, vicino al divano, una mano in tasca, l'altra che sfiorava nervosamente la coscia.
Avrei voluto toccargli la mano, stringerla, intrecciare le sue dita con le mie... e lo feci.
Lui mi osservò, perplesso, poi un timido sorriso si dipinse sulle sue labbra. «Stai bene?» soffiò.
Annuii, godendomi il calore della sua mano sulla mia e lo fissai, guardando i suoi occhi limpidi. «Mi sento meglio.» risposi.
Lui annuì piano e sospirò senza guardarmi, fissando un punto imprecisato accanto ad Adam.
«Cosa mangiamo?» domandò Leo. «Sento che se avessi una mucca davanti me la mangerei tutta.»
«Ne saresti capace.» esclamò Damon e lasciò la mia mano per poi sedersi fra me e Leo, posò i gomiti sulle ginocchia e si prese il viso fra le mani. Lo osservai ed ebbi voglia di piangere. Avrei voluto nascondermi in un armadio e piangere così tanto da prosciugarmi.
Invece mi limitai ad osservare Samuel, il cuoco del gruppo, in attesa che dicesse qualcosa.
Fu Adam, però, a parlare: «Io vorrei qualcosa di leggero.» poi si staccò dal muro e si avvicinò a Samuel e lo vidi ancora. Vidi il fuoco avvolgerlo, muoversi con lui, seguendo ogni suo movimento.
«Tabitha... stai bene?» domandò Damon.
Sbattei un paio di volte le palpebre, «Sto bene.» risposi, tacendo su quello che avevo appena visto. Com'era possibile una cosa del genere? Noi potevamo controllare in un certo modo gli Elementi: potevamo calmarli o scatenarli con le nostre emozioni, non... plasmarmi a nostro piacimento!
E poi... perché Adam? Lui era sempre stato scettico, quello che dopo l'università avrebbe voluto prendersi un anno sabbatico e viaggiare per l'Europa armato di un solo zaino, un marsupio e la sua faccia tosta. Adam aveva sempre dimostrato poco attaccamento per la nostra missione, anche se s'impegnava per farla.
«Sicura?» mi chiese Leo.
«Certo, Pasticcino.» gli sorrisi.
Lui brontolò sottovoce, «Non chiamarmi Pasticcino.» disse.
Io sorrisi ancora e mi alzi, piano, «Vado in bagno.» annunciai.
Quando mi lavai le mani mi osservai allo specchio. I miei grandi occhi castani erano circondati fa occhiaie violacee, che risaltavano sulla pelle abbronzata. Ero indecisa se prendere il beauty case, tirare fuori il correttore e darmi una sistemata. Alla fine rinunciai e l'unica cosa che feci fu di passare del burro cacao sulle labbra. Tornai in salotto e vidi Samuel chiudere il frigorifero. «Insalata mista e petto di pollo ai ferri.» esclamò, «Va bene per tutti?»
Annuii, Damon e Leo dissero di sì e Adam si limitò a scrollare le spalle.
Mangiammo scambiandoci poche parole, ognuno perso nei suoi pensieri. Leo e i suoi occhi tristi, Samuel e la sua cotta per la vicina, Damon che mangiava con lo sguardo basso e Adam, con la voglia di scappare. E le fiamme — dai colori sbiaditi, come in una vecchia foto — che lo avvolgevano.
Io rimasi a testa bassa, per evitare che uno di loro mi chiedesse qualcosa. Era strana quella storia di Adam. Presto avrei scoperto il perché, e avrei scoperto che tutto ciò era lontanissimo da qualsiasi cosa avessi mai potuto immaginare.

✫✫✫

Quella notte mi svegliai per bere. Mentre rimettevo la bottiglia d'acqua nel frigo, sentii dei rumori provenire dalle scale interne.
Damon.
Avrei riconosciuto i suoi passi ovunque. Lasciai perdere il bicchiere e lo raggiunsi, trovandolo seduto sul gradino dell'angolo delle scale. Mi sedetti accanto a lui, sul gradino piccolo e stretto. Sentii il suo profumo, il suo calore, il suo respiro... e m'innamorai di nuovo, ancora di più di cinque anni prima.
Lui mi osservò, fissandomi negli occhi e mi sentii nuda, esposta, vulnerabile ma non m'importava. Alzò un braccio — il destro — e mi attrasse a sé, stringendomi con forza, aggrappandosi alla mia maglietta e io posai il viso contro il suo collo, inspirando il suo profumo, sentendo la sua pelle calda contro la mia.
«Perché?» bisbigliò dopo qualche secondo di silenzio, «Perché noi?»
Già, perché noi? Me lo chiedevo spesso. «Non lo so.» risposi con un sussurro, le labbra vicino al suo collo e la voglia di baciarlo che saliva prepotente dentro di me.
Avrei voluto baciarlo, essere egoista e infischiarmene se ciò avesse avuto terribili conseguenze. Però non lo feci e rimasi aggrappata a lui, come se Damon fosse la mia àncora a cui aggrapparmi per non affogare.
Lui mi baciò la guancia destra, a lungo, premendo con forza le sue labbra contro di me e io m'imposi di non girare il viso verso quella bocca. Lo avevamo fatto gli anni precedenti e Lei si era palesata, sgridandoci, umiliandoci e ricordando qual'era la nostra missione. Così avevamo deciso di non rischiare, di non farlo più, anche se era doloroso, centinaia e centinaia di spilli roventi conficcati nella pelle.
Rimanemmo così, stretti in un abbraccio fino a quando non sentimmo Adam alzarsi e la porta del bagno aprirsi.
«Meglio che torni a letto.» mormorai sfiorando il viso bagnato dalle lacrime di Damon.
Lui si limitò ad annuire, «Okay, Tabitha.» soffiò.
Gli presi il viso tra le mani e gli posi un bacio sulla fronte. «Buona notte.» mormorai, mi alzi e feci due gradini, mi voltai e lo guardi. Damon era ancora più bello alla luce soffusa, «Damon... lo sa che io...» balbettai, «Che io...»
«Lo so, Tabitha, lo so.» disse, «Anche io.» aggiunse alzandosi.
Lo guardai e mi voltai salendo i gradini e imponendomi di non andare da lui.
“Anche io.”
Forse non era la dichiarazione migliore del mondo, forse non era un “Ti amo” urlato in mezzo a una piazza ma per me, quelle due parole, valevano più di ogni altra cosa.
Perché quelle erano le uniche parole che potevamo dirci. Se non potevamo amarci, come avremmo potuto dircelo?
Guardai Leo che dormiva sul divano, il pugno destro vicino alla bocca, come un bambino che avrebbe voluto succhiarsi il pollice.
La porta della stanza di Samuel era chiusa. Mi domandai cosa ne pensasse veramente di tutta quella storia, se avesse voluto mollare tutto come lo volevo io, come lo voleva Damon e Adam. E Leo.
Perché ne ero sicura, anche il mio piccolo bignè stava soffrendo e non sopportava più quella situazione.
Mi chiesi come potevamo reggere per un quarto di secolo in quella maniera, sentivo che, prima o poi, avrei perso la mia umanità, facendo diventare il mio corpo solo un misero contenitore vuoto.
Sospirai e tornai a letto. Fissai il soffitto per quelle che mi sembravano ore, prima di addormentarmi, sognando la vita che io e Damon non avremmo mai avuto.
Sognai di essere ostetrica, in sala parto. Davanti a me una madre che stava partorendo, gridando dal dolore. “Spingi.” le dissi tenendo la testa del bambino o bambina fra le mani. La donna spinse, urlando, e anche le spalle del piccolo fecero il loro ingresso nel mondo. “Un'ultima spinta...”
Il bambino venne al mondo con un verso che ricordava un miagolio di un gatto arrabbiato, lo avvolsi in un asciugamano bianco e gli pulii il visetto grinzoso, controllando le vie respiratorie. Lo posai sul seno materno, quel piccolo fagotto nato in un mondo di merda. Il bambino si calmò quando la madre gli sfiorò il viso e allora la guardai: ero io. Ero io la partoriente, ero io quella che aveva fatto nascere il mio bambino.
Mi svegliai e annaspai, chiedendomi perché la mia mente mi facesse vivere certe cose orribili. Non avrei mai potuto avere dei figli miei, quindi... perché? Perché?
Mi sentivo con in una gabbia circolare, una gabbia senza sbarre o finestre, senza via d'uscita.
Ero in trappola e non avrei mai potuto fuggire.

La mattina seguente, dopo colazione, ci preparammo per eseguire nuovamente il rito, poi avremmo mangiato, di nuovo il rito, la cena, e poi a dormire. Così per altri quattro giorno, il settimo giorno il Rito sarebbe durato tutto il giorno. Il mattino dell'ottavo giorno sarei partita, lasciando lì un pezzo di cuore e di anima.
Mentre sciacquavo le tazze della colazione sentivo cosa facevano gli altri: Samuel puliva con una spugna il tavolo, Leo era seduto su una sedia e guardava fuori dalla finestra, Adam faceva il suo solito avanti e indietro, Damon mi fissava. Anche se non potevo vederlo lo sapevo che mi fissava. Sentivo il suo sguardo fisso sulla mia schiena.
Chiusi l'anta del pensile e mi voltai. Samuel stava ancora pulendo, Leo guardava fuori dalla finestra, Adam si muoveva, Damon fissava le sue mani.
Mi asciugai le mani e sistemai in mordo ordinato lo strofinaccio sulla maniglia dello sportello sotto al lavandino. «Cominciamo?» domanda, cercando di risultare allegra.
Leo sospirò e si alzò dalla sua sedia, lentamente come se fosse la cosa più difficile che gli fosse mai toccata.
Ci sistemammo, ognuno ai proprio posti, pronti per ristabilire l'equilibrio degli Elementi.
Ne avrei fatto volentieri a meno.

Mentre Samuel preparava il pranzo, io ero accasciata sul divano, in preda a un forte mal di testa. Adam mi diede un bicchiere d'acqua — niente medicinali, durante quella settimana, avrebbero interferito — che sorseggiai lentamente. Leo era accanto a me, premuroso come sempre. Damon era alla finestra, le braccia incrociate e i muscoli in evidenza, lo sguardo perso nel vuoto. Mi domandai a cosa pensasse.
«Stai peggiorando.» esclamò Adam.
«Cosa?» fece Leo.
L'altro agitò una mano nella mia direzione, «Tabitha.» disse, «Dopo ogni Rito è sempre più debole.» esclamò, «Si sta prosciugando...» sospirò, infilando le mani nelle tasche, «Se continua così... bhe, rischia un collasso.»
Damon mi fissò, «Sul serio?» domandò e lo vidi preoccupato.
L'altro scrollò le spalle mentre Leo mi stringeva la mano. «Spero di no, ovviamente.» rispose. «Ma guardala...» si voltò verso di me, «è pallida, debole... scommetto che se si misurasse la pressione sarebbe ai livelli minimi.»
Damon mi fissò, preoccupato e io mi preoccupai per lui. Deglutì e si spostò dalla finestra. «Possiamo ritardarlo, quello del pomeriggio.» disse, «Basta spostarlo un po', così Tabitha si riposa.»
«Sembra una buona idea.» commentò Leo e Adam si lasciò cadere accanto a lui con un sospiro rumoroso.
«Non possiamo.» fece Samuel. «Dobbiamo rispettare gli orari, lo sapete, altrimenti si arrabbierà.»
«Credo sia peggio Tabitha che collassa mentre manteniamo l'Equilibrio che ritardare di un paio d'ore.» sbottò Adam. «Samuel... non ti preoccupi?»
«Mi preoccupo che Lei si arrabbi.» rispose senza voltarsi. «E mi preoccupo per Tabitha, mi pare ovvio... ma dobbiamo rispettare le regole.»
«Fanculo le regole.» sbottò Damon, «Se stiamo male il Rito va a puttane, quindi...» sospirò e mi guardò dolcemente, sorridendo, «Meglio aspettare.»
«Sì, ma...» obbiettò Samuel.
«Ma un corno.» lo interruppe Adam. «Aspettiamo.» disse, la voce dura e tagliante.
«Ehi!» sbottai, «Io sono qui.» feci notare ma non me la presi, dopotutto si stavano preoccupando per me.
«Mangiamo.» esclamò Samuel.
Leo mi sorrise, «Ti senti meglio?»
«Sì, Pasticcino, grazie.» risposi e mi sedetti composta, mentre Adam e Damon sospirarono dal sollievo.
«Non chiamarmi Pasticcino.» brontolò Leo ma mi regalò uno dei suoi sorrisi. Pensai che, se non fossimo stati costretti a fare quella vita, Leo avrebbe fatto una vera strage di cuori. Avrebbe potuto essere uno di quei ragazzi a cui bastava guardare — anche per sbaglio — una ragazza per averla ai suoi piedi. Ma sapevo anche che lui non ne avrebbe mai approfittato. Il mio bignè era troppo buono e corretto per fare una cosa del genere volontariamente.
Dopo pranzo fui spedita a letto, dove mi raggomitolai sotto alla coperta leggera con uno sbadiglio.
Passarono diversi minuti prima che la porta si aprisse ed entrasse qualcuno. Sapevo chi fosse anche se lui non parlò.
Damon.
Si avvicinò piano al letto, con piccoli passi, il rumore attutito dal tappeto, si sedette e sentii il materasso cedere sotto il suo peso; rimasi ferma, immobile, il lenzuolo tirato fino a metà naso, gli occhi chiusi e i pugni stretti.
Damon mi sfiorò i capelli, scostandoli dal viso. Sentivo il rumore del suo respiro, il calore della sua pelle, e mi sentii male perché avrei voluto che fosse sempre così: io e lui, senza nessuno che ci dicesse cosa fare o cosa non fare.
Ancora una volta, pensai che Lei avrebbe potuto fottersi o ficcarsi una pistola in bocca per quanto me ne importasse.
Io volevo solo essere felice con Damon, che Adam facesse quel viaggio che desiderava tanto, che Samuel potesse invitare per un caffè la bella vicina, che Leo ritrovasse la sua felicità.
Ma nessuno di noi poteva farlo.

✫✫✫

Annaspai e la stanza girò velocemente attorno a me, come se fossi in una di quelle attrazioni che girano così veloci che l'ambiente circostante diventa come una tela con diverse macchie di pittura.
Sentii delle braccia stringermi e capii che era Adam quello che mi sorreggeva. Mi posò sul divano e mi scostò i capelli dalla fronte sudata. «Come ti senti?» mormorò.
«Il mondo gira troppo veloce.» mormorai. «Fatelo smettere.» aggiunsi con gli occhi chiusi, quando li riaprii vidi quattro paia di occhi — grigio-verdi, neri, azzurri, castani — che mi osservavano, preoccupati.
«Forse faresti meglio a partire nel pomeriggio, invece che al mattino.» esclamò Adam.
«Ma...» obbiettò Leo.
«Per quanto mi riguarda... può pure crepare, quella troia.» sbottò Adam.
«Io non voglio che stia male.» pigolò Damon.
«Neppure io.» disse Leo.
«Però... ragazzi...» sospirò Samuel, «Le regole.»
«Che crepi, quella lurida troia.» esclamò Leo e un attimo dopo urlò, mi misi a sedere e lo vidi portarsi le mani alla gola, come se non riuscisse a respirare.
«La punizione!» gridò Adam gettandosi verso di lui.
Leo annaspò, cercando di mandare giù più aria possibile, tentativo vano: i suoi polmoni erano pieni d'acqua. Il suo Elemento lo stava uccidendo.
Gli posai un braccio sulle spalle e gli massaggiai la schiena, cercando di farlo stare bene e concentrandomi nel farlo ma, come ogni volta, non ci riuscii.
La punizione era terribile, in quei cinque anni l'avevamo provata tutti quanti almeno due volte a testa. Leo si sentiva affogare, ad Adam sembrava di bruciare — una volta si era graffiato così tanto per togliersi le fiamme dal corpo che si era procurato graffi profondi su tutte le braccia —, Samuel provava l'orrore di cadere in un crepaccio e di morire sepolto vivo, Damon aveva sentito l'Aria rivoltarsi contro di lui, stappandogli i vesti, pezzi carne e facendolo urlare disperatamente.
La mia punizione era diversa: sentivo l'ululato del vento, il fuoco crepitare, il boato della terra che si apriva in due, lo scrosciare del vento. Li sentivo forte, nella mia testa, insieme alle urla di persone che morivano. Centinaia di urli, così forti, così disperati che mi sarei spaccata la testa in due, pur di farli smettere.
La punizione di Leo finì, e lui vomitò acqua, muco e bile in un secchiello recuperato da Damon chissà dove.
«Come stai?» domandi, preoccupata.
Leo tossì e posò la testa sullo schienale del divano, «Come uno che stava affogando.» mormorò.
Mi sentii osservata e girai la testa, fissando gli occhi neri di Adam che mi fissavano. Non c'era bisogno di parole per dirci quello che sapevamo già: se avessimo continuato così saremmo morti.
E né io, né lui, volevamo morire per mano di Lei.
L'avrei uccisa con le mie mani, se avrebbe impedito la morte di una persona che amavo.
Perché, ha dispetto di quello che Lei continuava a dirci — “Dopo un paio d'anni saprete controllare le vostre emozioni, dopo cinque non ne avrete più.” —, io avevo ancora sentimenti che ardevano nel profondo della mia anima. Guardai il mio Pasticcino, il viso angelico distorto in una smorfia di dolore, fissai Samuel, con lo lo sguardo perso nel vuoto, osservai Damon, preoccupato per me e per Leo.
Posai gli occhi su Adam e annuì, piano.
Qualunque cosa avesse in mente di fare, io lo avrei seguito.
Avrei fatto qualsiasi cosa per liberarci da quella maledizione — perché era quello che era, in fondo. Non era un dono come si ostinava a dire Lei —, qualsiasi cosa pur di far finire quell'inferno.
Erano due le cose che non sapevo, quel giorno. La prima era cosa avrei fatto, la seconda era che non avrei aspettato un anno per farla.

✫✫✫

La mattina dell'ottavo giorno arrivò troppo presto. Salutai Samuel e lo ringraziai per la ricetta del pollo ripieno che mi aveva dato, abbracciai Leo e lo chiamai Pasticcino, facendolo borbottare. Mi strinsi a Damon, imprimendomi a fondo l'odore del suo profumo, cosa si provava nel sentirsi stringere da lui, cosa provavo io nel tenerlo abbracciato.
Gli sorrisi, quando mi staccai da lui.
«Pronta?» chiese Adam.
«Sì.» risposi e afferrai la mia borsa, uscimmo da casa, dal palazzo ed entrammo in auto, diretti alla stazione.
Adam mi aiutò a salire sul treno. «Sai,» disse guardandomi, «quello che vorrei è vedere te e Damon felici.» esclamò.
Gli sorrisi. «Lo vorrei anche io...»
«Ci riusciremo, lo prometto.» gridò mentre le porte del treno si chiudevano. «Ce la faremo, tutti quanti. Riavremo la nostra vita e sarà solo nostra!» urlò mentre il treno iniziava a sbuffare
E mentre il treno partiva, seppi che gli credevo.

   
 
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