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Autore: Shainareth    10/12/2008    4 recensioni
[Mai HiME - anime] Mosse un piede, addormentato per la posizione scomoda a cui era costretta. Cercò di raddrizzare la schiena, ma i polsi le facevano male, stretti com’erano tra la corda che la teneva legata al pilastro di legno della stanza buia in cui suo padre l’aveva rinchiusa.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akira Okuzaki
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Lacrime

 

 

Mosse un piede, addormentato per la posizione scomoda a cui era costretta. Cercò di raddrizzare la schiena, ma i polsi le facevano male, stretti com’erano tra la corda che la teneva legata al pilastro di legno della stanza buia in cui suo padre l’aveva rinchiusa. Era stata punita per avergli disobbedito in più di un’occasione: anzitutto, aveva evocato Gennai, il suo Child, quando invece le era stato ordinato di non farlo davanti a terzi; in secondo luogo, non era stata capace di colpire nell’ombra le altre HiME proprio perché si era lasciata smascherare e, di conseguenza, sconfiggere senza neanche provare davvero a combattere. Si era giusto difesa quel tanto che le aveva consentito la fuga. Ma un ninja che scappa per non affrontare una battaglia, non merita elogi, specie se poi viene battuto senza troppe difficoltà.

   Seppure la corda attorno ai suoi polsi le abradeva la pelle, Akira provava senz’altro più dolore nel portare ancora quella benda che le fasciava i piccoli seni in boccio. Per tredici anni aveva dovuto dimenticare di essere nata donna, anche questo per volere paterno. Il Maestro, suo padre appunto, aveva agito in questo modo severo, e a prima vista sconsiderato, unicamente per preservare sua figlia dal dolore della sconfitta in cui, però, era incappata comunque. Non voleva, l’uomo, che le altre undici HiME potessero attaccarla, voleva che fosse Akira a vincere il Carnival, voleva che lei non soffrisse, voleva salvare il suo onore ed il proprio. Perché nulla è più disonorevole di una sconfitta, per un ninja, ed il clan Okuzaki non ammetteva eccezioni, nemmeno per la figlia del Maestro. Come se tutto questo, ad una ragazzina come Akira, cresciuta troppo in fretta e privata di quelle piccole gioie che riempiono il cuore di una bambina, potesse importare.

   Se anche le erano stati inculcati il senso dell’onore personale e familiare, se anche lei era stata educata secondo le regole del clan, se anche lei avrebbe dovuto avere come unico obiettivo quello di obbedire al volere paterno, Akira aveva fallito. O per meglio dire, aveva seguito sì parte degli insegnamenti ricevuti sin dalla più tenera età, ma non quelli che urtavano pesantemente contro quello stesso senso dell’onore che suo padre le aveva trasmesso.

   Akira, come d’altra parte avevano fatto anche altre HiME, non aveva combattuto per se stessa, ma per proteggere quanto di più caro aveva al mondo. E che adesso, purtroppo, aveva perso per sempre.

   Il castigo inflittole da suo padre, a ben guardare, era stato nulla se confrontato al dolore acuto che le dilaniava il petto: Takumi non c’era più, e non c’era nulla che lei avrebbe ancora potuto fare per lui. Eccola, la vera punizione per essersi lasciata battere, eccola la vera punizione per avere perso il Carnival delle HiME.

   Ancora una volta lottò contro le lacrime che le annebbiavano la vista da giorni. Piangere non sarebbe servito a riportare in vita la persona a lei più cara, quella stessa persona che lei aveva promesso di proteggere a qualunque costo, quella stessa persona che le aveva affidato la propria esistenza in tutta coscienza, quando era venuta a sapere del disgraziato destino delle HiME e di coloro che esse amavano.

   Mi sta bene essere legato a te. Perché sei l’unica che ha riacceso in me il desiderio di vivere.

   Takumi, che aveva spesso desiderato la morte pur di non soffrire più per via della sua malattia e che non voleva essere ancora di peso alla sorella maggiore, le aveva infine dato ascolto, accettando di andare in America per operarsi. Aveva deciso di vivere, di crescere, di camminare con le proprie gambe. Tutto, a patto che lei gli fosse rimasta accanto.

   Le era sembrato incredibile che, nonostante la loro giovanissima età, Takumi avesse già le idee così chiare sul loro futuro. Un futuro insieme. Un futuro che non avrebbero mai vissuto.

   Una lacrima l’ebbe infine vinta, scorrendole sul viso e cadendole in grembo. Akira si morse il labbro inferiore. Non doveva piangere. Takumi si era affidato a lei, nella vita e nella morte. Non l’avrebbe mai rimproverata per quanto successo. Non lui.

   Era lei, però, che non riusciva a perdonare se stessa.

   Esplose in un pianto a dirotto. Continuare a versare lacrime non serviva a nulla, si ripeteva. Non l’avrebbe riportato indietro. Non avrebbe cancellato l’orribile crimine di cui lei si era macchiata. Non l’avrebbe fatta sentire meno sola in quella stanza buia, in compagnia del suo straziante dolore e di quel cuore che le sanguinava in petto.

   Non le importava di rimanere lì per il resto dei suoi giorni, se non poteva vivere quel futuro che Takumi avrebbe voluto per loro. E non avrebbe ricercato la morte unicamente perché sarebbe stato contro i suoi principi: non aveva forse sempre rimproverato lo scarso attaccamento alla vita, al suo Takumi?

   Fu solo dopo diversi minuti che i singhiozzi si placarono, e, mentre le ultime lacrime le inzuppavano il viso, Akira riprese fiato.

   Rimase per un tempo indefinito a fissare il vuoto, pensando a tutto e a niente, sentendo la testa pesante, le membra spossate, il cuore sempre più dolorante. Non ricordava nemmeno più da quanto tempo non chiudeva occhio a causa degli incubi, così reali da non darle la minima tregua nemmeno nell’incoscienza del sonno.

   Poi, d’un tratto, avvertì un bruciore dietro la spalla destra, all’altezza della scapola, esattamente dove fino a pochi giorni prima il segno circolare delle HiME le aveva marchiato la pelle chiara. Fu quello che la riportò alla realtà e le fece alzare lo sguardo, appannato dal pianto appena terminato e dalla prolungata reclusione in quel luogo buio, verso una fonte di luce aliena. Dapprima sfocata, poi molto più nitida: una bambina le parlava.

   Che fosse impazzita a causa del dolore?

   Infine, i suoi occhi a mandorla si spostarono su di un’altra sagoma illuminata, accasciata in terra. Una sagoma a lei ben più familiare. Una sagoma amata.

   Senza più chiedersi se la sua fosse follia o meno, le venne istintivo richiamare il proprio Element, e nel palmo della sua mano si materializzò un sottile pugnale a doppia lama che un attimo dopo recise la corda che la teneva legata. E se i poteri di HiME le erano tornati, allora era tornato anche lui.

   Scattò nella sua direzione, chiamandolo con voce forte, eppure roca; ma il piede addormentato la tradì, e lei ricadde subito carponi.

   «Akira-kun!» udì echeggiare per la stanza. Non stava sognando, non era impazzita.

   Lo vide muoversi celermente in suo aiuto, e quando lui la sollevò per le braccia, lei gli si aggrappò al collo, così forte che, senza neanche avvedersene, si fece male alla nuca. Lui ricambiò l’abbraccio con tutto se stesso, ed Akira riuscì a sentirne il calore. Un calore che un morto o un’illusione non avrebbero saputo darle.

   Non capiva cosa fosse successo o a chi doveva quell’inaspettato miracolo che aveva donato ad entrambi nuova vita, né le importava scoprirlo, al momento. L’unica cosa che adesso le riempiva nuovamente il cuore e la mente, era il tanto amato pensiero che lei e Takumi avrebbero ancora potuto vivere quel futuro insieme. Ed avrebbe fatto qualunque cosa, si ripromise, per impedire che quella maledetta, spietata Stella, visibile a lei sola e alle altre undici HiME, regalasse ancora a tutti loro tanta sofferenza.














Mi scuso con tutti i lettori se continuo a trattare questo personaggio (anche perché mi sarebbe piaciuto descrivere la medesima scena con Akane), ma è quello che amo di più in assoluto e nel quale riesco, in qualche morboso modo, ad impersonarmi meglio: quando ho fatto piangere Akira, ho pianto anch’io come una demente. S’è mai visto qualcuno che piange per ciò che egli stesso scrive? Beh, io lo faccio immancabilmente da… cinque anni, direi, e cioè da quando ho iniziato a scrivere fanfiction (quasi otto, se consideriamo i miei scritti precedenti). E’ il prezzo da pagare per essere imbecilli, che posso farci?
Nutro per questa shot un miscuglio di odio e amore, perché tratta di un tema delicato e a me molto caro, ma al contempo non riesce a soddisfarmi o comunque mi lascia tremendamente in dubbio (cosa che mi succede un po’ con tutte le mie storie, in particolare con quelle serie come queste). Uff. Fino all’ultimo, poi, ero indecisa sul titolo da darle perché nessuno di quelli che mi venivano in mente mi sembrava adatto, anzi.
Il sottotitolo, però, è senza dubbio Come far piangere NicoDevil. E so già che, leggendo quest’ultima frase, mi spaccherà le ossa non appena ci vedremo. XD Tra l’altro, se ho pubblicato questa… “cosa”, è sempre colpa sua che mi minaccia fisicamente. ç_ç Scherzi a parte (per lo meno, io spero che lei stesse scherzando), la ringrazio di tutto cuore per aver fatto l’una e mezza di notte per betarmi questa storia e per convincermi che non era “monnezza” e che quindi potevo postarla senza nessun problema. Nutro ancora i miei dubbi, ma alla fine le ho dato ascolto unicamente per premiarla per il sonno perso a causa mia e dei miei capricci.
Grazie a chi legge e a chi sopporta tutte queste mie elucubrazioni mentali senza lamentarsi.
Shainareth





  
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