Strangers’
Meeting
Avviso:
Prima di
lasciarvi in pace - o meglio a struggervi in mezzo a questo angst - ci
tengo a
dire due o tre cose. È uno spin-off della long “You’re
my end and my beginning”
ma può essere letto tranquillamente senza la storia
originale, tenendo conto
che anticipa tutto quello che nella fanfiction si scopre con lo
scorrere dei
capitoli. E, questo penso sia importante, contiene quanto
più amore non
corrisposto, lacrime e struggimenti che possiate immaginare. (Ah, una piccola scena Liam/Rick che non sono
riuscita a evitare)
“We don't
meet
people by accident. They are meant to cross our path for a reason.”
Trisha
aveva segnato
quel giorno sul calendario con un grosso cerchio rosso e Zayn sapeva
che doveva
essere un giorno importante, che dalla sua pancia - quella che cresceva
sempre
di più - sarebbe saltata fuori la sorellina di cui non
smettevano un secondo di
parlare.
Era
emozionato all’idea
di non essere più l’unico piccolo della famiglia,
ora i suoi genitori
l’avrebbero considerato come un vero uomo e magari
l’avrebbero lasciato fino a
sera tardi al parco; erano settimane che si stava impegnando per
riuscire in
una strana acrobazia con lo skate, ma finiva sempre con il sedere a
terra o le
ginocchia sbucciate.
Era
quindi il più
emozionato dei tre, suo padre aveva solo un’espressione
preoccupata mentre la
madre aveva un colorito pallido e sembrava troppo stanca, e non aveva
smesso un
secondo di ripetere di quanto fosse felice per l’arrivo di
Safaa, l’aveva
scelto con loro una sera il nome, e di poterle insegnare tante cose con
lo
skate. Aveva sbuffato con il cucchiaio nella tazza piena di cereali
allo
sguardo severo di Trisha, a come scuoteva la testa e ripeteva: - Non
sarà una
tua bambola, Zayn. È fragile e piccola, non può
seguirti nelle tue strambe
avventure.-
Si
erano poi spostati
nella camera da letto dei genitori, Yaser aveva fatto una corsa nel
discount lì
vicino per le ultime cose, e Zayn stava sdraiato sopra il materasso
morbido,
dopo averci fatto qualche salto e ricevuto in risposta
un’occhiata della donna,
osservando i movimenti sinuosi della madre che, nonostante il pancione,
aveva
una grazia e un
portamento impossibile
da trovare nelle bambine della scuola. Stava guardando in silenzio le
sue dita,
come si muovevano velocemente per piegare i vestiti e riporli con
delicatezza
in valigia, quando un piccolo dubbio si fece strada nella testa,
lasciandolo
con la fronte aggrottata e i denti incisi nel labbro inferiore.
-
Maa.- la richiamò in
un bisbiglio, spostandosi nel letto fino a sedersi accanto alla valigia
aperta.
- Anche quando ci sarà Safaa con noi, tu non smetterai di
volermi bene?-
Ascoltò
il suo sospiro
esasperato - no, non era la prima volta che le poneva quella domanda -
e
sollevò gli occhi grandi nei suoi, picchiettando le dita
sulle cosce e
allungando una mano per accarezzarle i capelli lunghi, intrecciandoli
attorno
al polso e fissandoli quasi con ammirazione.
-
Zayn.- aveva
sussurrato lei, mettendosi in ginocchio di fronte al piccolo e portando
una
mano contro la sua guancia. - Non smetterò mai di volerti
bene. Sei il mio
cucciolo, il mio piccolino e il mio campione. E potrò avere
anche altri figli
ma non per questo ti vorrò meno bene, sei speciale e sei il
mio ometto.-
Mosse
il capo in un
cenno, ridacchiando al bacio contro la fronte e alla sua mano tra i
capelli
cortissimi, per poi portare le dita sottili contro la sua pancia,
aggrottando
la fronte in un’espressione concentrata; Trisha gli ripeteva
sempre che la
bambina era timida, solo se stava in silenzio sarebbe riuscito a
sentirla
muoversi.
Aveva
deciso che li
avrebbe seguiti in ospedale, loro non sapevano a chi lasciarlo e lui
non aveva
alcun amico che potesse ospitarlo per qualche ora, e si era impegnato
per
prendere la valigia quasi più grande di lui e caricarla nel
baule della
macchina, sorridendo tutto soddisfatto ai complimenti della madre e ai
suoi “Stai diventando grande”.
Non era quello
che gli aveva detto solo dieci minuti prima, quando non voleva saperne
di
lasciare lo skate a casa e si era sentito rimproverare con “Non fare il bambino, Zay” e
“Niente capricci”.
Il
viaggio in macchina
era stato tranquillo, aveva canticchiato tutto il tempo con la fronte
premuta
contro il finestrino freddo, ed era saltato con un balzo dai sedili
posteriori
per aiutare il padre, camminando poi di fronte a loro e con la valigia
che
copriva completamente la visuale. Erano stati mandati a prendere posto
in una
saletta e aveva avuto il tempo di stringere le braccia attorno al collo
della
madre e schioccarle un bacio contro la guancia prima di vederla dar
loro le
spalle e perdersi tra le pareti bianche.
Era
passato troppo tempo
per chiedergli di stare seduto composto e aveva quindi iniziato a
misurare la
larghezza del corridoio con dei lunghi passi, saltando sulle sedie
opposte a
quelle in cui stavano seduti loro e fingendo di essere su uno skate,
ricevendo
occhiate curiose dalle altre persone lì con loro e dei
richiami del padre.
Saltò
giù dalla sedia
con un tonfo e raggiunse il padre con dei piccoli salti, appoggiando la
mano
sul suo ginocchio e borbottando: - Voglio la mamma, tra quanto arriva?-
-
Ancora un po’ di
pazienza, Zay.- gli rispose quello con un sorriso, premendo i
polpastrelli
contro la nuca e muovendoli in un massaggio leggero, facendo sbuffare
il più
piccolo che si buttò sulla sedia accanto e
incrociò le braccia al petto con un
broncio.
Era
noioso stare lì
fermi ad aspettare, non aveva pazienza e pensava solamente che avrebbe
dovuto
convincerli a portare lo skate; si sarebbe divertito tra quei corridoi
mezzi
vuoti e non avrebbe dovuto patire la noia e essere paziente.
“Puoi controllare Leen questa sera?”,
“Oggi pomeriggio ho un colloquio, ti
occupi tu della bambina?”, “Ho
fatto i doppi turni, puoi andare a vedere
cosa le prende?”
Il
problema non era in
quella bambina, Aileen, perché lui la amava con tutto il
cuore e gli piaceva
averla tra le braccia; ma c’era un limite a tutto.
C’era un limite alle notti
che poteva sopportare con gli strilli in sottofondo alle ore di studio,
c’era
un limite alle sveglie quasi all’alba perché
Aileen piangeva e Kaylyn non
voleva saperne di alzarsi dal letto. Aveva corsi da seguire, esami da
dare e
una relazione con un ragazzo che gli ricordava tanto uno psicopatico;
in quelle
ultime settimane avevano litigato per i motivi più disparati
e poi
raggiungevano sempre lo stesso punto, quella mancanza di fiducia che
doveva
essere l’unico motivo per i suoi “Te
la
sei spassata stanotte con quella?” Ci aveva provato
a parlargli, cercare di
spiegargli che non era stanco per chissà quale
attività tra lui e Kaylyn ma che
era difficile occuparsi di una bambina e studiare. Lui roteava
semplicemente
gli occhi e gli diceva di non sforzarsi troppo per cercare delle banali
scuse.
Forse
per quel motivo,
quella gelosia infondata, non si toccavano da mesi ed era un piccolo
dettaglio che
lo stava portando all’esaurimento. Era teso per qualsiasi
cosa e sentiva che il
momento in cui sarebbe esploso si avvicinava sempre di più.
Voleva mettere fine
a quella tensione, voleva andarsene via da quelle
responsabilità e aveva solo
vent’anni! Era un ragazzo e voleva divertirsi, non sentirsi
in colpa perché
aiutava la migliore amica a crescere una bambina, che non era sua come
aveva
più volte ipotizzato Rick.
Quel
pomeriggio stava
sdraiato sul divano con il peggior mal di testa di tutta la sua vita,
un
cuscino sopra il viso per cercare di bloccare i pianti di Aileen e la
voce di
Kaylyn, che stava camminando per la stanza da almeno due ore per
cercare di
calmare la figlia. E il livello di sopportazione ormai
l’aveva superato da un
po’, ma non voleva sputare fuori cattiverie verso quella che
si stava
impegnando per mettere a tacere la bambina.
-
Abbiamo fatto il
record, vero Leen?- la sentì dire una volta calmata,
grugnendo infastidito
quando si butto sulle proprie gambe senza nemmeno chiedere.
C’erano momenti in
cui non sopportava quel loro non avere spazi personali,
quell’invadere
tranquillamente la bolla dell’altro e non ricevere lamentele
in cambio;
sembrava non riuscissero a far a meno di quei contatti e Rick gli
ripeteva che
“siete destinati o una puttanata del
genere, giocate alla famiglia felice senza sapere che lo siete davvero”.
Era
rimasto in silenzio
ad ascoltare la discussione tra le due - più una serie di
versi senza
significati - e aveva spostato le gambe per lasciare lo spazio alla
ragazza,
recuperando il cellulare dalla tasca dei jeans e sbuffando
all’ennesimo
messaggio di Rick. Non voleva capirla che quella settimana era stata
disastrosa
per lui, che aveva dormito due ore ogni notte - senza calcolare quelle
insonni
- e che voleva semplicemente riposare, non andare a una stupida festa
dove il
volume della musica avrebbe solamente incrementato il male alla testa.
Era
così concentrato da
rispondere al messaggio - «Dimenticavo che avevi di meglio da
fare con quella»
- che non si accorse di Kaylyn che rimetteva la bambina addormentata
nella
culla e lo raggiungeva nuovamente, spostandosi per lasciarle posto
quando si
sdraiò accanto a lui e avvolse le braccia attorno alla
propria vita.
-
Che succede, Leeyum?-
gli aveva chiesto dopo qualche minuto di silenzio, il viso che teneva
premuto
contro il collo e il profumo del suo shampoo che gli riempiva le
narici. - Non
fare quel muso lungo, perché non mi racconti tutto?- la
sentì insistere con un
tono dolce, rispondendo con un’alzata di spalle e “Rick è un coglione”.
Non
ci fu bisogno di
dire altro, portò un braccio attorno alle sue spalle e
lasciò che si
rannicchiasse al proprio fianco, infilando le dita tra le sue ciocche e
premendo le labbra contro la sua tempia, sospirando e scuotendo il viso
ai suoi
richiami.
-
Non è che ci sono
rimasto così male.- bisbigliò con gli occhi
chiusi e il naso tra i suoi capelli
profumati, premendo le punta delle dita contro il suo collo in un
massaggio. -
Non sono innamorato di lui, però.. sì, insomma mi
stavo affezionando. E mi
piaceva, stavo iniziando a provare qualcosa per lui. Prima che
iniziasse a
trasformarsi in una specie di maniaco e fissato con storie assurde.-
concluse
con una smorfia, intrecciando una sua ciocca attorno
all’indice e perdendosi
nelle sfumature quasi ramate.
-
Non era quello
giusto.- ribatté lei con decisione, stringendogli la pelle
tenera della guancia
tra le dita, e si sdraiò completamente sopra di lui,
spingendo i gomiti contro
l’addome di quello che iniziò a lamentarsi dal
fastidio. - Tu hai bisogno di
qualcuno più solare, quel Rick è troppo
misterioso e tutti quei tatuaggi sono
bocciati, come la giacca di pelle. Devi trovare qualcuno che ti faccia
ridere e
non uno che faccia comparire un brutto muso sul tuo bel viso. Leeyum
deve
essere sempre felice.- concluse con una risata, tirandogli gli angoli
delle labbra
con le dita per creare un sorriso enorme.
-
Ecco, questo è il
Leeyum che mi piace. Questo è il Leeyum che devi essere
sempre.- insistette con
gli occhi luminosi e una curva dolce sulla bocca. - Non perdere mai
questo
sorriso, lo adoro e Rick può fottersi. Non mi è
mai piaciuto.-
Liam
roteò gli occhi
con un ghigno a quella confessione della ragazza, spingendola via dal
proprio
corpo e tornando a respirare normalmente senza il suo peso addosso e
contro la
cassa toracica. Aspettò qualche minuto prima di mormorare: -
Forse perché sei
gelosa.- e vide il suo sopracciglio raggiungere quasi
l’attaccatura dei
capelli, mentre lui la fissava come a istigarla a ribattere.
-
Non in quel senso.-
biascicò lei, mettendosi seduta e aggiungendo: - Non come
intendi tu, sono solo
preoccupata per te e non voglio che stia male per dei coglioni che..-
-
Oh, andiamo!- esclamò
Liam, interrompendola e sollevandosi con il busto. - Non dire idiozie,
Lyn.
Esiste un solo tipo di gelosia e a volte sembra davvero tu sia..-
-
Io sia? Che problemi
hai? Pensi io sia innamorata di te?- lo anticipò con un tono
di voce alto,
scattando in piedi e tenendo le braccia rigide lungo i fianchi. -
Pensavo
avessimo risolto anni fa questo punto!-
-
Tu hai risolto anni
fa!- gridò senza preoccuparsi della bambina e del fatto che
avrebbero potuto
svegliarla. - Tu ti sei messa la coscienza in pace! Tu, solo tu! Io non
ho
ancora capito cosa vuoi da me! Mi stai facendo male e vorrei non averti
mai
conosciuta, vorrei non aver mai accettato questo compito assurdo. Ti
sembra che
mi stia divertendo a far finta di essere il papà di Aileen?
Non è bello, non è
la cosa che ho sempre sognato e non volevo che andasse così.
Non voglio
crescere la figlia di mio fratello e della mia migliore amica, non
voglio stare
sveglio per colpa sua e non voglio vedere la mia vita rovinarsi per
colpa
vostra!-
-
Non sarai mai suo
padre e non ti ho mai chiesto di essere lui.- sibilò la
ragazza con i pugni
stretti per scaricare la rabbia. - Non sarai mai Paul, lui era migliore
di te.
E questo Liam, questo stronzo, io non lo voglio. E fottiti, so badare a
mia
figlia senza supplicare il tuo aiuto.- sputò fuori con un
tono velenoso,
spostandosi le ciocche dietro l’orecchio in un tic nervoso. -
Tu però me
l’avevi promesso, mi avevi giurato che ci saresti stato per
me.-
-
Ma non così!- gridò
con esasperazione, allargando le braccia come a indicargli quel che
intendeva
senza bisogno di parole. - Non in questo modo, ho la mia vita!-
-
Non ho mai avuto
scelta.- sussurrò dopo qualche minuto di silenzio, tenendo
gli occhi fissi
sulle scarpe e la mani aperte in una posizione di resa. - Quando si
tratta di
te, Lyn, io non ho mai avuto una scelta. Non ho avuto scelta quando mi
sono
innamorato, quando hai scelto mio fratello e io ho continuato a
pensarti, a
volerti. E non ho avuto scelta quando sei corsa da me in lacrime,
quando mi hai
chiesto aiuto e io ero l’unico a poterti offrire riparo. Io
non ho mai avuto
scelta quando si è trattato di te, Kaylyn. Mai una sola
volta. Sono succube di
qualsiasi tuo desiderio e ora non ce la faccio più, non
posso vivere con il
pensiero di poterti dare ogni cosa, il mondo, e non ricevere nulla in
cambio.-
-
E allora vattene.-
Non
aveva avuto bisogno
di sollevare lo sguardo per capire che i suoi occhi erano ricolmi di
lacrime,
incassando la testa tra le spalle e lasciando che lo spingesse fuori
dall’appartamento tra i “Noi
non abbiamo bisogno di te”
e “Vivi la tua vita, Liam Payne, e
non tornare mai più”.
Quella
mattinata si era
trasformata dalla più felice della sua vita a quella che
avrebbe voluto
dimenticare, cancellare. E poco gli importava della nuova arrivata, se
non
aveva più sua mamma; anzi, per quel che lo riguardava, non
voleva avere nulla a
che fare con quello sgorbio, con quel mostro. Era riuscito a
svincolarsi dalla
presa del genitore, quando aveva cercato di dargli quella notizia con
la
miglior cautela possibile, e aveva percorso tutti quei corridoi simili
senza
alcuna meta, sedendosi a terra in un angolo e stringendo le ginocchia
al petto.
Era
tutto un brutto
sogno, si sarebbe svegliato di nuovo quella mattina con
l’orecchio premuto
contro la pancia di Trisha e avrebbe visto il suo sorriso, non si
sarebbe
lamentato per tutti quei baci contro la guancia e l’avrebbe
stretta forte
ripetendole quanto le volesse davvero bene. Non poteva essere che un
sogno, era
tutto troppo brutto, orrendo. E sua mamma era forte, più
forte di qualsiasi
uomo, non poteva essere andata via.
Nascose
il viso tra le
braccia, non volendo mostrare le lacrime a chi si era fermato di fronte
a lui,
ignorando come cercasse di chiedergli il nome e “Ti sei perso? Cerchi la tua mamma?”
-
Non mi sono perso.-
sibilò dopo aver passato i polsini della felpa contro il
viso, tenendo
un’espressione orgogliosa mentre affrontava quella donna
vestita con gli stessi
camici di quelli che avevano portato via Trisha qualche ora prima. -
Sono
scappato e non voglio tornare indietro.- spiegò velocemente
e con stizza,
sperando di essere lasciato in pace da quell’impicciona.
Sbuffò
alle sue
successive domande, incrociando le braccia al petto e grugnendo al suo
“Sei Zayn?”,
cercando di restare in
silenzio mentre lei gli ripeteva di quanto il padre lo stesse cercando,
che era
davvero molto preoccupato e “La tua
sorellina è la più bella di tutte, non vuoi
vederla?”
-
Fa schifo.- sputò
fuori in con rabbia, sbattendo un piede contro il pavimento e girandosi
per
guardare il muro e non la pietà negli occhi di quella donna.
- Non voglio
vedere quel mostro.- insistette con un tono sempre più acido
e freddo,
allungando un braccio di fronte a lui per grattare la superficie del
muro con
le unghie. Voleva restare solo, non gli importava di nessuno e non
voleva
vedere la causa di tutti i suoi problemi.
Stava
rannicchiato
contro l’angolo del muro da qualche minuto - o forse qualche
ora, non aveva
l’orologio al polso - e desiderava solo avere contro un corpo
caldo e non una
parete così fredda; gli mancava anche il suo
papà, ma non avrebbe detto a
quella donna - non si era allontanata da lì e restava in
silenzio alle sue
spalle - che si era davvero perso e voleva tornare dal suo baba. Non era più un bambino,
era un uomo. E non voleva nemmeno
piangere, non voleva mostrarsi debole.
Ascoltò
distrattamente
le parole di quella che si rivolgeva al nuovo arrivato, stringendo
ancor di più
le gambe al petto nel riconoscere la voce profonda del padre, e
sentì i passi
allontanarsi nello stesso momento in cui una mano gli si
posò contro la spalla.
-
Vuoi parlarne, Zay?-
scosse il capo per rispondere, non trovando le forze di aprire bocca e
sapendo
di non riuscire a impedire il pianto. - Mi sono preoccupato, non
riuscivano più
a trovarti.- scrollò le spalle per liberarsi della presa
debole del padre,
alzandosi in piedi e infilando le mani nelle tasche dei pantaloni,
deciso a
lasciare quel corridoio per trovare un angolo più sicuro e
solitario.
-
Zayn!- si sentì
richiamare ai primi passi in direzione opposta, bloccandosi al
“Non vuoi vedere la tua sorellina?”
che
lo portò a voltarsi con uno scatto e gridare: - Non voglio
avere niente a che
fare con lei, è un mostro e la odio. È colpa sua
se la mamma non c’è più e io
non voglio una sorella!-
Appoggiò
il palmo
contro la guancia, massaggiando il punto colpito dallo schiaffo del
genitore, e
percepì una patina di lacrime premere per liberarsi, tirando
su con il naso e
puntando gli occhi a terra mentre ascoltava i rimproveri, quel
“Non provarci mai più,
Zayn Malik, a dire
queste brutte cose su Safaa” che lo fece sbuffare e
stringere le braccia al
petto per difendersi.
-
Non è colpa sua, sono
cose che succedono e non ti permetto di parlare in questo modo di lei,
di un
innocente che ha l’unica colpa nell’essere venuta
alla luce e in vita.
Preferivi perdere anche lei? Dovresti essere grato ad Allah per averla
protetta.-
Preferì
restare in
silenzio e fermo in quella posizione, non trovando modo di ribattere
per i
singhiozzi che tratteneva; si lasciò andare a tutte quelle
emozioni, al pianto,
solo quando si trovò con il viso contro la maglia del padre,
stringendola tra
le dita e ripetendo solo il nome della madre, di quanto fosse ingiusto
e di
quanto gli mancasse.
-
Ce la faremo, Zay.-
Annuì tra i singhiozzi, aggrappandosi a lui e ascoltandolo
continuare con voce
roca e spezzata: - Siamo due uomini forti e ce la faremo. Sei un
campione, Zay.
Non diceva che eri un campione?-
Non
rispose a quella
domanda, stringendo più forte la presa e premendo il viso
bagnato contro la sua
maglia, e sentì le sue dita tra i capelli corti e contro la
cute, staccandosi
dopo dieci minuti di pianto continuo e lasciando che fosse lui,
inginocchiatogli di fronte, ad asciugargli le lacrime che continuavano
a
scorrere lungo le guance.
-
Ce la faremo, Zayn,
ma dobbiamo stare insieme.- lo sentì insistere su quel
concetto, come se stesse
convincendo entrambi con quella frase, e gli strinse la mano per
lasciarsi
guidare verso il reparto in cui stava la sorellina, accettando di darle
un’occhiata dalla vetrata.
Liam
sapeva di aver
sputato fuori parole troppo velenose, cose che nemmeno credeva
più e sì, un tempo
provava rancore per quella scelta di Kaylyn, per quel suo preferire
Paul a lui,
ma ora era tutto dimenticato, ora stavano crescendo una figlia assieme
e non
era innamorato di lei, non più. Aveva ripetuto quel
discorso, quello che la
ragazza gli aveva fatto anni prima, più e più
volte nella testa durante le
notti insonni e aveva capito, aveva capito perfettamente quel che
intendeva e
il motivo per cui tra loro non avrebbe mai funzionato. Però
c’era questa
stupida parte dentro di lui che non voleva saperne di lasciar cadere
quel
discorso, quella carta che lo portava sempre vincitore in qualsiasi
litigio. Si
sentiva un bambino a rinfacciarle continuamente il suo aver scelto
Paul, vedeva
come riusciva a ferirla con quelle poche parole ma non riusciva a farne
a meno,
era sempre l’orgoglio a prevalere.
Aveva
quindi raggiunto
la festa con l’idea di mettere a tacere il cervello per
qualche ora, aveva
preso un taxi e mandato un messaggio a Rick, sperando di chiarire con
lui e
magari dormire con lui, ben lontano dalle grida di quella bambina e da
una
probabile discussione con Kaylyn. Era circondato da alcuni compagni di
corso,
brindando alla buona riuscita degli ultimi esami e aveva sorriso con
l’alcool
nelle vene al braccio che si era stretto attorno alla vita e al petto
solido
contro cui era stato guidato.
-
Rick!- esclamò sopra
il volume della musica, gettando indietro il capo e premendo dei baci
umidi
contro il suo collo, per poi risalire lungo la mandibola e strofinare
il naso
contro la sua pelle. - Andiamo a ballare?- gli domandò con
un sorriso
malizioso, voltandosi tra le sue braccia e intrecciando le dita dietro
la sua
nuca, indietreggiando fino al centro della pista da ballo.
Stava
cercando di
muoversi a ritmo con la musica, canticchiare qualche strofa e cercare
allo
stesso tempo di non cadere a terra per l’alcool e il suo
addormentargli i
sensi, rendere goffi i passi; aveva percepito le dita di Rick stringere
troppo
forte i fianchi, lasciandogli qualche livido per i giorni a venire, ma
non
voleva dirgli si lasciarlo, di diminuire la stretta. E sì,
c’erano giorni in
cui gli faceva male ma per il resto amava quel suo lato possessivo.
Aveva
schiuso le labbra
per potergli chiedere il motivo di quel gesto, solitamente lo faceva
quando
qualcuno guardava nella loro direzione, ma scoppiò a ridere
contro la sua bocca
famelica, cercando di recuperare del controllo in quel bacio per poi
arrendersi
e lasciarlo fare, aggrappandosi ai suoi capelli e spingendo il viso
contro il
suo. Talvolta si innervosiva per quel suo prendere ogni cosa, ogni
bacio e
morso, senza farlo partecipare in alcun modo, si sentiva quasi un suo
burattino
a restare fermo e lasciare che prendesse quel che gli serviva.
Non
si era opposto
quando aveva percepito i suoi denti contro la pelle tenera del collo,
mugugnando di dolore ma lasciando che incidesse quel marchio e
“Sei solo mio”
in bella vista,
lasciandosi afferrare per mano e guidare verso il bancone del bar
mentre usava
il palmo dell’altra mano per toccarsi il punto sensibile e
sbuffare
infastidito. Vide le sue spalle tendersi a quel gesto, trovandosi
bloccato tra
una colonna e il suo corpo, le mani che teneva premute sui fianchi e
gli occhi
puntati sul segno rosso; aveva cercato di allontanarsi non appena aveva
visto
il suo ghigno quasi sadico e aveva sibilato per il fastidio al suo dito
che
continuava a premere contro la pelle sensibile.
-
Che ti prende? Non ti
piace più, Payne?- gli aveva chiesto con un tono acido, i
suoi occhi verdi che
guizzavano nella luce soffusa, e aveva stretto le dita attorno al suo
mento per
fargli sollevare lo sguardo e incrociarlo col suo. - Non vuoi
più essere mio?
Hai trovato altro che possa soddisfarti più di me?-
-
Hai bevuto troppo.-
sentenziò senza rispondere, scacciandogli la mano senza
però allontanarsi da
lui. - E negli ultimi mesi sei.. non sei il Rick di prima, quello che
mi
piaceva e..- fu costretto a bloccarsi alla sua risata, aggrottando la
fronte e
cercando di chiudere fuori gli altri rumori che non fossero la voce di
quel
ragazzo così diverso da quello che aveva conosciuto durante
un corso sbagliato.
-
Di chi è la colpa?
Prova a indovinare.- Distolse lo sguardo alle sue parole, indicandosi e
chiedendo: - Stai dicendo che è colpa mia?-, per poi farsi
sempre più confuso
alla sua risata e al suo cenno del capo.
-
Tu sei..- Il
successivo “Fuori di testa”
gli morì
nella gola con un grugnito, Rick l’aveva spinto contro il
muro e teneva una
gamba tra le proprie mentre succhiava una porzione di pelle sensibile
dietro
l’orecchio. E Liam avrebbe voluto rimangiarsi tutti i gemiti
di piacere a
quella tortura, a come lo stava mordendo senza alcuna tenerezza mentre
ripeteva
in una cantilena di quanto fosse bello e suo, solo suo e di nessun
altro, che
l’avrebbe rovinato pur di non farlo toccare da altre persone.
Cercò
di richiamarlo
più e più volte, premendo i polpastrelli contro
la sua cute e cercando di
stringere le dita sulla manica della giacca per allontanarlo, ma
più cercava di
liberarsi e più quello rafforzava la stretta sui fianchi,
chiudeva la distanza
tra i loro corpi e rendeva i gesti più espliciti e sporchi,
facendo strofinare
i loro bacini assieme.
-
Possono vedere tutti,
Rick.- mugolò infastidito, premendo un palmo contro il suo
addome e ottenendo
in risposta un sopracciglio sollevato e “Non
ti piacerebbe far vedere a chi appartieni?”. Non
riuscì a bloccare la
scossa del capo istintiva, spiegando alla sua stretta eccessiva che
“Sei arrabbiato e hai bevuto, non
così”,
e risalì con le dita lungo il suo braccio, cercando di
convincerlo con un
semplice sguardo.
Non
si aspettava di
vederlo così furioso, di sentire il sapore metallico del
sangue per come gli
aveva morso il labbro fino a spaccarlo e diede degli strattoni per
liberare i polsi
dalla sua presa, inclinando il viso per allontanarsi da lui e
rabbrividendo al
suo sussurro contro l’orecchio, quel “O
forse ti piace un altro”.
-
Non dire idiozie,
Rick.- ribatté con una smorfia, leccandosi il labbro per
ripulirlo del sangue e
lenire il taglietto aperto. - Sai che mi piaci tu.- confessò
in un sussurro,
sperando di non essere sentito dall’altro e ringraziando il
buio che nascondeva
le guance rosse per l’imbarazzo.
Intravide
una scintilla
di dolcezza passare dai suoi occhi, segno che doveva averlo sentito
sopra tutto
quel baccano, e roteò i polsi, massaggiando la pelle su cui
erano evidenti
delle macchie rosse per la forza con cui l’aveva stretto.
Lasciò che infilasse
la mano sotto la maglia, le loro pelli calde a contatto, e avvolse le
braccia
attorno al suo corpo, facendo scivolare una mano nella tasca posteriore
dei
suoi jeans con un sorriso premuto contro la sua guancia.
-
Ogni tanto non riesco
a trattenerla questa gelosia e non voglio farti del male, Liam.-
annuì con il
viso contro il suo collo, evitando di concentrarsi sul “Ma non mi lasci altra scelta alcuni giorni”,
e ascoltò invece la
sua proposta a fermarsi da lui, quel “Ci
divertiamo e ti mostro di chi sei” che non suonava
così bene come settimane
prima. Restò in silenzio a pensarci, rilassandosi con le
dita che gli
percorrevano l’addome, e passò la lingua contro il
labbro inferiore prima di
farfugliare: - Forse dovrei tornare a casa e chiarire con Lyn, abbiamo
litigato
e poi non posso lasciarla sola con la bambina.-
Aveva
appena concluso
l’ultima vocale quando percepì le sue unghie
incidere sulla pelle e lasciare
sicuramente dei segni rossi verticali, trovandosi con la schiena contro
il muro
e il suo corpo a tenerlo bloccato, strizzando gli occhi al suo fiato
caldo e ai
morsi contro la mandibola, assieme a continui sibili come “Devi smetterla di parlare di lei”
o “Tu sei mio, mettitelo in testa”.
Sentì
le sue dita
stringersi attorno al polso, trascinarlo tra quella massa di corpi e
cercò
inutilmente di richiamare la sua attenzione, il volume della musica era
troppo
alto e stava gridando il suo nome invano, come quei continui strattone
per
liberarsi servivano solo a fargli più male. Si arrese quando
capì di non avere altra
scelta che seguirlo in silenzio e mugolò infastidito non
appena la schiena
venne a contatto con una superficie fredda e dura; Rick
l’aveva spinto contro
il muro del bagno e lo osservava con gli occhi ridotti a fessure e la
rabbia
evidente nei suoi pugni chiusi.
-
Sei impazzito?!-
esclamò con una smorfia, portando una mano sulla spalla e
dove il dolore era
più acuto. - Che ti sei fumato prima di venire qui? Oggi sei
impazzito e non ti
riconosco.- borbottò poi, scrollando le spalle e staccandosi
dalla parete per
andarsene. Lo spinse lontano dal proprio corpo non appena gli fu
addosso,
riuscendo a difendersi dal suo attacco e ripetendo: - Tu sei matto, vai
a
riposare.-
-
E tu sei mio.-
ribatté invece quello, piantandosi di fronte alla porta
d’uscita e non accennando
a muoversi o lasciarlo passare. - Ma ti comporti come una puttana.-
Non
riuscì a bloccare
lo schiaffo che andò ad abbattersi contro la sua guancia,
sentendo il palmo
diventare caldo per la forza che ci aveva impiegato, e invece delle
scuse già
pronte riuscì solo a lamentarsi per il dolore, le dita del
ragazzo che gli
stringevano con forza i capelli mentre lo obbligavano ad avvicinarsi
sempre di
più a lui.
-
Non è forse così?-
gli aveva chiesto con un tono deciso, ignorando i richiami di Liam e le
suppliche a diminuire quella stretta. - Vai dietro alla prima ragazzina
che ti
si inginocchia davanti, alla prima che apre le sue gambe per te. Ma le
tue
devono stare aperte solo per me, Liam.-
-
Mi fai incazzare
quando corri da quella.-
-
È la mia migliore
amica e si chiama Kaylyn, idiota.- grugnì con rabbia a
quelle ultime parole,
liberando i capelli dalla sua mano e spingendolo lontano da lui,
facendo forza
sulle sue spalle e trovandoselo l’attimo dopo addosso in una
lotta a chi
riusciva a ferirsi di più. Era sicuro di vedergli nei giorni
a seguire un
livido sotto l’occhio, dove il proprio pugno
l’aveva colpito con forza, e doveva
aver perso più di una ciocca di capelli per come gli faceva
male la cute.
Era accaduto poi tutto
velocemente, un attimo
prima stavano lottando e subito dopo cercavano di sfilare i vestiti
dell’altro
nel minor tempo possibile, e si era trovato con la guancia premuta
contro le
piastrelle fredde, le labbra del ragazzo tra le scapole e le sue dita
che si
muovevano esperte dentro di lui, facendolo gemere e arrossire
dall’imbarazzo.
Annuì
solamente al suo
chiedere se volesse di più, sollevando il braccio per poter
nasconderci contro
il viso e mordere la pelle per soffocare i gemiti disperati e le
suppliche a
finirla con i preliminari, con quelle dita che gli sfioravano la
prostata per
colpirla subito dopo e fargli tremare le ginocchia.
Non
era durato molto
quel rapporto tra loro, Rick sembrava inseguire un piacere personale
mentre
Liam teneva le mani contro le piastrelle per non sbattervi contro alle
spinte
dell’altro; aveva preferito non pensare troppo alla brutta
sensazione nello
stomaco, a come tutto pareva un semplice dargli una lezione e fargli
del male,
ma non era semplice chiudere fuori quel macigno. Si
intensificò il tutto al
grugnito di Rick, al suo morso contro la spalla e a come raggiungeva
l’orgasmo
senza neppure avvolgere una mano attorno al membro di Liam, come era
solito
fare tutte le volte precedenti. L’aveva lasciato con
un’erezione pietosa in
quel bagno vuoto e freddo dopo aver dato una pacca contro il suo sedere
e aver
bisbigliato con un tono roco e basso: - Quando ti impegni e se lo vuoi,
puoi
essere un bravo ragazzo. Hai visto?-
Non
appena sentì i suoi
passi allontanarsi, sollevò i boxer e i jeans, preferendo
non raggiungere un
orgasmo solo per bisogno e con delle brutte immagini nella testa. Si
bagnò il
viso con l’acqua fredda, cercando di ridurre
l’effetto dell’alcool e schiarirsi
le idee senza quel martello che pulsava contro la tempia; non si era
accorto di
essersi accasciato a terra, di avere la schiena premuta contro la
parete e le
dita che digitavano velocemente dei numeri, fino a quando non
sentì la voce
della ragazza dall’altra parte della linea, come bisbigliava
il suo nome con
preoccupazione.
-
Ho rovinato tutto.-
evitò di rendere quell’affermazione una domanda,
sapeva benissimo quanto quei
pensieri fossero corretti. - Sempre e solo colpa mia, sono un
disastro.-
bisbigliò con la mano premuta contro la fronte per cercare
di asciugare il
sudore e riportare del calore sulla pelle pallida.
Scosse
il capo alle
domande della ragazza, come stava cercando di chiedergli spiegazioni e
“Smettila con le stronzate,
è tardi”, per
poi mugugnare di dolore al gettare indietro il capo e venire a contatto
con le
piastrelle dure e fredde.
-
Se solo.. Lyn.-
ripeté il suo nome come se fosse l’unica cosa in
grado di aiutarlo, premendo il
palmo contro la fronte per calmare il mal di testa. -
C’è qualcosa di
sbagliato, non è.. non può andare bene
così. Io non sono.. giusto, non sono..
non posso e.. e Paul, lui sarebbe.. lui dovrebbe essere con voi, non
io. Che ci
faccio in questo posto? Io non ho nulla, non ho niente e lui.. dovevo
essere
io, non è così?
Io e non lui, così
avrebbe potuto.. non è giusto che lui sia.. Aileen
è sua figlia!- esclamò dopo
vari farneticamenti, sentendo il suo sospiro e “Vengo
a prenderti, Leeyum”.
-
Lyn, Lyn.- mugugnò
con la voce impastata dall’alcool, appoggiando il palmo sul
pavimento e
cercando di rimettersi in piedi sulle gambe instabili. - Ascolta, per
favore.
Lyn, so che l’hai capito.- farfugliò, appoggiando
l’avambraccio contro la
parete e tenendo il telefono stretto nelle dita dell’altra
mano. - Cosa
dovremmo dire quando lei diventerà grande? Quando
chiederà di suo padre e
io.. io non sono Paul, Lyn. Io non sono lui
e non sarò mai in grado di crescerla. Quanti mesi sono
passati? E sono già un
completo disastro, lui sarebbe stato meglio. Loro l’hanno
sempre saputo, sempre
detto. E io ero così, così geloso e invidioso di
lui. Era sempre meglio di me,
aveva tutto e io avevo te e poi anche tu hai visto che lui..-
Scosse
il capo quando
sentì i suoi borbottii sulle stronzate
che stava dicendo, percependo il pavimento sparire per qualche secondo
sotto i
piedi, e spinse il braccio contro le piastrelle per non cadere,
ripetendo: -
Ero così geloso di lui, quando lui è.. non volevo
le sue cose a questo prezzo,
non così, non è.. non è giusto, Lyn.-
Aveva
poggiato la testa
contro la parete, cercando di regolare il respiro, e poi aveva
sussurrato con
un filo di voce e spezzata dal pianto: - Farei qualsiasi cosa per
renderti
felice, Lyn. Se solo potessi riavvolgere tutto, se potessi scegliere
di.. di
prendere il suo posto e così, così sarebbe
giusto. Tu, lui e la vostra
famiglia. Non io, io non sono lui.-
Aveva
guardato il
cellulare con una smorfia quando gli si era spento tra le mani,
avvicinandosi
al lavandino e cercando di pulirsi il viso e regolare il respiro, il
battito
del cuore e calmare il pianto. Doveva solo essere forte, il fratello lo
prendeva spesso in giro per quel suo comportarsi come una femminuccia,
un
moccioso dal pianto facile, e doveva solo prendere un grosso respiro,
ricacciare tutto in fondo allo stomaco e ignorare la sensazione di
avergli rubato il posto.
Si
portò una mano
contro la guancia, massaggiando la zona che si stava arrossando per via
dello
schiaffo della ragazza che teneva le braccia strette attorno alla vita
e il
viso contro la maglia; ascoltò distrattamente i suoi
continui farfugli su
quanto si fosse preoccupata, di promettergli di non bere mai
più e di smetterla
di pensare cose così stupide e senza senso, ma
c’era una parte di lui che gli
ripeteva di aver ragione, che lei era solo troppo buona per ammetterlo
ed erano
un grosso casino pronto per esplodere. Si sarebbe fatto più
male lui, lo sapeva
per come Kaylyn teneva i palmi sulle proprie guance e gli ripeteva con
quel
sorriso dolce che non sarebbe riuscita a vivere senza di lui, che non
riusciva
a respirare lontano da lui; avrebbe voluto rispondere che lui si
sentiva morire
in ogni caso, che stare vicino a lei gli faceva male quanto lo stare
lontano..
o forse di più, molto di più.
Annuì
con lo sguardo
fisso di fronte a sé e non poteva dirlo, non poteva
confessarle quante volte
avrebbe solo voluto averla tra le braccia, baciarla e ripeterle che lui
era
meglio, lui era molto meglio. Si sentiva un mostro a piangere per la
scomparsa
del fratello e essere felice di averla per sé, di nuovo solo
per lui; non
voleva pensare a quanto tutto quello sembrasse un suo oscuro desiderio.
L’aveva
stretta in un
abbraccio per soffocare quella voglia di averla ancora più
vicino, percependo
ogni parte del corpo tremare per il suo respiro contro la pelle, e
aveva
ascoltato come ripeteva il suo nome, quel Leeyum
che voleva suonasse con tutt’altra intonazione, mentre gli
chiedeva di tornare
a casa con lei. C’era qualcosa di quotidiano nel pensare a
quell’appartamento,
alla piccola che stavano crescendo assieme e alla parola famiglia che
non
sembrava volerlo lasciare in pace; Aileen era la figlia di Kaylyn e
Paul, ma
c’erano momenti - troppo brevi e seguiti dai sensi di colpa -
in cui sognava di
sentire il suo “papà”
rivolto a lui.
Ed era sbagliato, ingiusto e sapeva che sarebbe caduto a pezzi nel
sogno di
quella famiglia.
«Morning
will come and I'll do
what's right
Just give me til
then to give up this fight
And I will give up
this fight
Cause I can't make
you love me if you don't
I can't make your
heart feel something it won't
Here in the dark in
these final hours
I will lay down my
heart»
Non
era così complicato
tenere Safaa in braccio, come gli aveva ripetuto più volte
sia il padre che
quella donna con il naso a punta, e dopo un primo momento di
smarrimento -
aveva paura di farle del male perché gli adulti lo stavano
fissando come se
potesse farglielo - era riuscito a tenere le braccia salde, come gli
avevano
spiegato e imitato più volte i due, e muoversi appena per
non farla scoppiare
in un pianto. La prima volta che aveva tentato di prenderla lei era
scoppiata a
piangere, come se sapesse perfettamente dei cattivi pensieri che aveva
fatto su
di lei, e si era spaventato, aveva cercato di rifiutare un nuovo
contatto tra
loro ma suo padre sembrava non volerne sapere di arrendersi.
E
ora la stava tenendo
da qualche minuto, vedendo con la coda dell’occhio i due
pronti a scattare,
aveva iniziato persino a canticchiare la ninna nanna che gli aveva
insegnato la
mamma, lei giurava sempre che il mostro sotto il letto sarebbe scappato
via a
quelle parole. Aveva cercato di sollevare il suo corpicino per poter
premere le
labbra contro la sua fronte e gli era sembrato di sentire un singhiozzo
quando
aveva sussurrato “Ti
proteggerò sempre,
sorellina”, portandolo a voltarsi verso il padre e
porgergli il fagotto
nella paura di aver sbagliato qualcosa. Non pensava di aver fatto
qualcosa di
male ma sia Yaser che Safaa stavano piangendo, chi più
silenziosamente
dell’altro, e persino quella donna aveva gli occhi lucidi e
cercava di
nasconderli.
Era
rimasto in piedi di
fronte a loro, ficcando le mani nelle tasche dei pantaloni e fissando
in
silenzio come cercasse di calmarla, ripetendole che era la gioia del
papà e
della mamma. Non era geloso o
arrabbiato con lei, con Safaa, però si sentiva un
po’ solo a guardarli, a
pensare a tutti quei mesi passati a prendere in giro il suo essere
così tanto
preoccupato con la sua mamma. Ricordava che c’erano sere in
cui Trisha stava
sveglia con lui e gli ripeteva “Sarà
la
sua principessina, come ogni figlia per il suo papà”,
poi si addormentava
con le braccia avvolte attorno al suo corpo sempre più
grande e fingeva di non
sentire a colazione i suoi lamenti sul mal di schiena - o Yaser che le
ripeteva
di riposare in un letto comodo e “Pensa
alla bambina” -, perché poi lei gli
rivolgeva quello sguardo, come a
ripetergli il discorso della sera prima e allora scoppiavano a ridere
assieme.
Era solo la sua mamma e aveva cercato di essere forte, aveva cercato di
fare
l’uomo, di essere un campione, ma non credeva di poter
rispettare quella
promessa fatta al padre. Forse era ancora un bambino, nonostante gli
undici
anni, che voleva correre tra le braccia della mamma e ascoltare la sua
voce,
come gli ripeteva con quell’inclinazione delicata che
“ti riuscirà meglio la
prossima volta, rialzati sempre e fai come i veri
campioni che non hanno paura di cadere”.
Aveva
cercato di
mantenere un tono normale, le lacrime che cacciava in fondo alla gola,
mentre
chiedeva al genitore delle monete per un succo di frutta, aprendosi in
un
sorriso allegro - o in quello che ricordava somigliargli di
più - per
rassicurarlo e non dover rispondere alle domande impresse sul suo viso.
Sapeva
che non era stato convinto da quella messa in scena, gli occhi di
entrambi
erano troppo lucidi, ma sapeva anche quanto nessuno dei due fosse
pronto per
affrontare quella discussione; avevano bisogno di tempo, dovevano
abituarsi a
quel piccolo vuoto nella loro famiglia.
Teneva
le monete
strette nel palmo, come se il freddo contro la pelle potesse fargli
capire
quale fosse la realtà, e stava percorrendo velocemente i
corridoi, volendo solo
allontanarsi il più possibile da quel posto per non dover
pensare a Safaa, ai
suoi occhi neri e a come avrebbe voluto rannicchiarsi contro la madre
per
piagnucolare ancora un pochino. Quando si era chiuso in ascensore aveva
ricevuto degli sguardi curiosi, soprattutto a quel suo passare
insistentemente
il polsino della felpa contro le palpebre, e aveva tenuto gli occhi
rossi fissi
sui numeri dei piani che scorrevano e si lasciavano sopra le teste.
Si
era catapultato
fuori quando non era più riuscito a resistere in quel
silenzio, non sapendo
nemmeno dove fosse finito e guardandosi attorno per cercare una
macchinetta
qualsiasi, delle merende o delle bibite non faceva alcuna differenza.
Si era
messo quasi a correre quando l’aveva trovata, volendo tornare
dentro
quell’ascensore e pregare di riportarlo dal suo
papà, che non voleva più stare
solo e aveva un filo di paura, e si era bloccato con le dita contro i
tasti,
dopo aver inserito la moneta, quando aveva sentito delle grida.
Ed
era quello che
avrebbe voluto fare lui, gridare contro quei dottori che non era
giusto, che
non poteva morire e che era troppo giovane, che era la sua mamma e la
rivoleva,
che non poteva essere vero e dovevano smetterla di dire stronzate.
Si
mordicchiò il labbro
inferiore nel ricordare quante volte l’avesse rimproverato o
guardato male a
una di quelle parole; gli diceva sempre che non stavano bene sulla
bocca di un
bravo bambino e quando insisteva sul suo essere ormai un uomo, lei
scuoteva il
capo e gli lasciava un bacio sulla fronte.
Riportò
nuovamente la
sua attenzione sulla macchinetta, riuscendo a percepire quel “Ho perso tutto, è solo un brutto sogno”
in lontananza, e sbuffò quando il succo selezionato
restò bloccato a metà,
spingendo il palmo contro il vetro e supplicando a voce bassa di
funzionare.
Imprecò contro quello strumento per qualche minuto,
prendendolo persino a
spallate e ottenendo scarsi risultati; si era mosso di poco, ma non
abbastanza
per cadere e lasciarsi prendere.
Si
stava massaggiando
la spalla con una mano, maledicendo tra i grugniti infastiditi il succo
e tutto
l’ospedale, quando percepì uno spostamento
d’aria attorno a sé e “Puoi
farti male quanto vuoi, se non
inserisci le monete, non scenderà nulla”.
Si voltò con uno scatto e un
verso sorpreso, trovandosi di fronte il ragazzo che stava urlando solo
pochi
minuti prima contro quei medici, e roteò gli occhi con una
smorfia, premendo il
palmo contro la spalla e dando un calcio alla base della macchinetta,
desiderando solo quel dannato succo e il padre accanto.
Aveva
ignorato il
sospiro di quel tipo strano, non che lo odiasse - aveva riconosciuto il
suo
stesso dolore nei suoi occhi rossi - ma voleva che prendesse il suo
caffè e lo
lasciasse poi solo a sfogare la rabbia contro quello strumento
inanimato. Lui
non si era forse messo a gridare contro tutti? E allora poteva capirlo
e
lasciarlo distruggere quella macchinetta che non voleva dargli il succo.
-
Sai che..- lo sentì
riprendere a parlare, la voce roca per le urla e lo sfogo di poco
prima. -.. se
dovessi spaccarla davvero, poi il tuo papà dovrà
pagare tutto quanto? Non fare
il bambino e paga per quello che vuoi. Tua mamma non ti ha insegnato ad
avere
un po’ di rispetto? O ti piace tanto fare il vandalo e..-
E
non trovava giusto
quel suo attaccarlo con quell’acidità, come se la
colpa di quel che gli fosse
successo la trovasse in lui, quel rivolgersi a lui con una
superiorità che gli
faceva stringere le mani in pugni. Voleva gridargli tante cose,
soprattutto che
la sua mamma non doveva nemmeno nominarla, ma indicò solo la
macchinetta con
gli occhi lucidi e rossi, trattenendo i singhiozzi e il pianto mentre
farfugliava: - Non vuole scendere e non ho altre monete, non ho
più niente.-
Sperava
di essere
riuscito a fargli intendere più di quel che aveva
effettivamente detto e non
capiva perché fosse così importante farsi capire
da lui, da un estraneo e da
uno dei tipici ragazzi arroganti che trovava in giro. Era come se una
parte di
lui - molto stupida e senza alcun senso - volesse raccontargli di
quella
giornata, di come era stata faticosa e pesante, di quanto gli mancasse
la mamma
e di non riuscire a essere forte come lei voleva.
Ma
lui non poteva
capire, si sarebbe solo fatto delle risate sul suo essere un bambino
patetico e
in cerca di attenzioni, e quella voglia di stringere le braccia attorno
a lui e
piangere, stare stretto a un completo sconosciuto e lasciarsi
consolare, era
solo dovuto al desiderio di essere tra le braccia del padre. Non che
quel
ragazzo glielo ricordasse, era molto più giovane e cattivo,
ma sembrava quel
tipo di persona in grado di ascoltarlo.
Puntò
gli occhi sul suo
braccio, arricciando il naso in una smorfia ai segni sul suo polso e
alla puzza
che emanava, e si passò la manica della felpa contro il viso
per cancellare le
lacrime e non mostrarsi così debole e bisognoso di calore,
per poi aggrottare
la fronte con confusione al suo inserire le monete, digitare dei numeri
e far
cadere entrambi i prodotti.
-
Perché hai.. non
volevi il caffè?- gli chiese timidamente dopo aver accettato
il succo, vedendo
come si stringeva nelle spalle e gli rivolgeva poi un sorriso luminoso,
indicando quel che teneva tra le mani e leggendo la scritta prima di
esclamare:
- Adoro il succo alla pera, il mio preferito.-
Inarcò
un sopracciglio
alle sue parole, mostrandogli quanto poco vi credesse, e lo
osservò mentre
prendeva il primo sorso e sporgeva poi le labbra in una smorfia,
lamentandosi
con un “Hai dei gusti orrendi,
piccoletto”
a cui rispose con una risata e un incassare la testa tra le spalle.
Aveva
trattenuto la
curiosità del chiedergli che gli fosse successo, Trisha gli
ripeteva che certe
volte non si dovevano fare domande, ma aveva continuato a fissare le
sue mani
bendate, il cerotto contro la sua fronte e gli sfregi contro la sua
guancia,
trovandoli simili a quelli che si era fatto in una brutta caduta con lo
skate.
Aveva
seguito il suo
cenno del capo a voltarsi e si era trovato tra le braccia del padre,
aggrappandosi alle sue spalle e annuendo alle sue preoccupazioni,
strizzando
gli occhi e chiedendogli in un bisbiglio se potessero tornare a casa e
dormire assieme.
Solo quando il genitore aveva accettato e aveva stretto la sua mano si
era
ricordato del ragazzo, di doverlo ancora ringraziare per quel piccolo
gesto, e soprattutto
di ricordargli che non era solo - come l’aveva sentito
gridare contro i medici
- ma che c’era sempre qualcuno pronto a salvarlo.
Restò
in silenzio a
fissare il vuoto con il succo stretto in una mano, scuotendo il capo
alle
domande di Yaser su chi stesse guardando o aspettando, e
rafforzò la presa
sulla sua mano pensando a quante possibilità ci fossero che
avesse immaginato
solamente tutto.
«And
I’ll be there with you in the sound of
your laughter.
I’ll be in the tears you cry,
I will always be with you,
Like a guardian angel, constant and true.
When you're lost in the night
And you can see the light
My love will see you through.
I will always be there»
Angolo
Shine:
Non
ho nulla da dire
per giustificare questa follia, solo che avevo bisogno - quasi
disperato - di
scrivere questa sciocchezza e un probabile incontro tra Liam e Zayn nel
giorno
più brutto della loro vita.
Come
detto là sopra, se
non vi siete persi in mezzo all’angst, è una
specie di prequel della long che
sto per concludere (domani pubblico l’epilogo e lasciatemi
soffrire da oggi).
Se
siete capitati qui
per sbaglio io vi giuro che non sono così
tanto sadica e so scrivere tanto fluff e dolcezza; promesso,
andate a
controllare se non mi credete.
Se
invece mi conoscete
bene (troppo bene) vi ringrazio per essere qui ancora una volta e spero
di non
avervi ucciso.
Poi
se volete farvi
ancora più male potete ascoltare la canzone che mi ha
ispirato (ci stanno
quanti più smile cattivi possibili qui), “I
can’t make you love me” e potete
scegliere tra la versione originale di Bon Iver
o la cover di Adele
(tanto per
soffrire ancora di più).
A
domani per ancora più
sentimentalismi in queste righe e ho in cantiere più di una
one-shot super
fluff per colmare questa fanfiction troppo triste e seria.