PROLOGO
Diario del Dottor Salk – Memorie. 1975
Ricordo la sera del 28 Novembre 1948. Camminavo a fianco di mio padre nel cortile dell’ospedale psichiatrico di Bradford, le braccia rigide lungo il corpo.
Non riuscivo ad essere naturale, era la prima volta che mio padre mi portava con sé, e ancora adesso non potrei stabilire come mi sentivo esattamente. Ero agitato, ma di quell’agitazione colma di adrenalina che si scatena quando accade qualcosa che desideri da molto tempo. Avevo anche paura, certamente; quel luogo metteva i brividi. Ma c’era anche qualcos’altro che ancora oggi, dopo undici anni, non so definire.
Ero un ragazzino piuttosto strano, lo ammetto. Un genio, a detta di alcuni. Non ero mai stato d’accordo con questa affermazione, ero e sono tutt’ora convinto che fossero semplicemente la passione, la dedizione e la spiccata maturità ciò che mi avevano portato ad essere definito come tale. Ero interessato in tutto ciò che aveva a che fare con la psichiatria e la psicoanalisi, nulla mi stimolava di più che il riuscire a comprendere i meccanismi che facevano muovere una mente malata. A dodici anni sarei stato in grado di diagnosticare un qualsiasi disturbo mentale.
Mio padre mi aveva insegnato tutto quello che sapeva.
Ricordo, mentre camminavamo, di aver udito un grido. Era giunto dalle finestre in alto del blocco quattro. Mio padre mi spiegò che lì andavano a finire i nuovi arrivati, uomini e donne che, in preda alla psicosi, avevano commesso gravi crimini, spesso omicidi.
Ma non era un grido di demenza furiosa quello che avevamo sentito. Era un grido che esprimeva la più profonda tristezza umana in tutta la sua disarmante semplicità.
- Povero Edgar. – Aveva detto mio padre.
Allora non capii. Che cosa può capire un ragazzino di dodici anni di fronte a tali manifestazioni del più profondo animo umano?
Ero “il genio precoce della psichiatria”, ma in quanto a relazioni umane non ero stato preparato.
Solo ora comprendo che lui capiva la sofferenza del suo paziente, e ciò privava il grido del suo carattere spaventoso.
Qualche anno dopo, prima di morire, mio padre mi disse questo: - Per poter capire la follia bisogna prima riconoscere l’umanità di chi soffre, e poi stabilire perché soffre.
Mi sforzo di riportare alla memoria quella frase ogni singolo giorno.
Non ho mai dimenticato quella prima volta a Bradford.