Anime & Manga > Le situazioni di lui e lei/Karekano
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Autore: mise_keith    14/12/2008    0 recensioni
Mi chiamo Eiko Arima.
Ho diciassette anni, e frequento un prestigioso istituto femminile superiore, a Kanagawa.
Mi chiamo Arima, Eiko. Ho un cognome famoso: la mia famiglia ha una lunga tradizione di medici professionisti a Tokyo, risalente al periodo Edo.
Mi chiamo Arima Eiko, sono la presidentessa del consiglio studentesco del mio liceo, e voglio fare il chirurgo.
Mi chiamo Eiko. Ho due braccia, due gambe solide che aiutano il mio cammino sui sentieri più scoscesi. Venti dita, dieci delle mani, dieci dei piedi.
Un cervello, un cuore.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Parte Seconda

 

- Eiko. Cosa intendi fare dopo il diploma? -

- Voglio andare all’università, papà. Diventare un chirurgo per aiutarti in ospedale. -

Il silenzio che cala sulla stanza non è il solito. È gelido e viscido, denso. Respiro, e sembra che non ci sia più ossigeno. Sento le alghe scivolarmi su per le narici, lunghe e molli radici di ninfee, acqua stagnante. È come affogare in una zuppa di piante acquatiche.

Alzo lo sguardo su di lui, timidamente. Il suo viso ha un taglio rapace: la luce della finestra alla sua destra ne bagna per metà i lineamenti, arricciati in qualcosa simile al disgusto.

Il brivido che mi corre lungo la schiena ha a che fare con la stretta convulsa del tovagliolo che ha in mano. Lo abbandona accanto al piatto, come mettesse via la mia adorazione informe, usata, lurida.

- Sarebbe meglio che scegliessi di fare qualcos’altro. -

 Poggio il mio cucchiaio, riverso, sul bordo del piatto. Non sento i miei passi che lasciano la stanza.

Mi addormento affondando il viso nel cuscino madido di lacrime.

 

È notte. La luce ha smesso da tempo di accarezzare le pareti scivolando come brezza fuori dalla finestra aperta, lasciando lo scialbo lucore del riflesso lunare a creare ombre pallide nella mia camera. Il massiccio albero di magnolia tende i rami carichi di fiori verso il davanzale, ed il profumo è violento, ostinato, sembra un urlo di pazzia in una terra disabitata, sorda.

È ripugnante. Il suo olezzo di agonia mi fa torcere le budella, un memento per la mia insonnia testarda.

Stesa sul letto, fisso il soffitto, bianco, come intonacato di nuovo sotto il velo della penombra, ma questo ha smesso da tempo di emanare un odore. È tutto così fermo, senza macchia, che credo per qualche istante di essere morta.

Arriccio le dita dei piedi. Il formicolio che sale su per le mie gambe mi sembra una prova sufficiente per la mia esistenza. Mi alzo, lentamente, apro uno spiraglio di porta con la cautela di uno spettro pavido.

Il corridoio è un lungo limbo buio. Lo percorro a tentoni fino alla tromba delle scale, tastando le pesanti cornici dei quadri come carne familiare. Il suono dei miei piedi contro il parquet è attutito dalle spesse, alte calze blu della divisa scolastica. Si arrampicano su per i miei polpacci, sudati sotto l’elastico; mi sudano anche i piedi e temo di sentire i miei passi scricchiolare mentre salgo le scale, come cuoio bagnato.

Sul pianerottolo il buio sembra più fitto e soffocante, simile ad una maschera di maglia sul viso. Le doppie porte sulla sinistra sono sbarrate. Provo comunque ad abbassare la maniglia ed un cigolio attutito risuona, inaspettato, per il piano deserto. Le porte non si aprono. Tutto sembra continuare a riposare.

Scivolo lentamente sulle ginocchia ed appoggio un orecchio al buco della serratura.

Gli ansiti soffocati ed in rapida accelerazione vengono rotti da un gemito che è un anelito a lungo trattenuto, strappato via dalle labbra lamentose, quasi sofferenti. È come una colpa sollevata, mi viene da pensare, di una dolcezza improvvisa, liberatoria.

Avverto in me costruirsi, indesiderata, una tensione rigida, i miei muscoli bloccati in una pastoia di sudore, le mie viscere torte in un nodo di un dolore lancinante. Mentre il sollievo umido di quella voce sconosciuta mi piove addosso, io non posso fare a meno di sentirmi più sporca.

Tornata nella quiete patinata della mia camera da letto, mi chiedo, con una lucidità sconcertata, vigile, quale sia il mio posto. In questa casa, tra gli affetti di mio padre.

Non ho la determinazione necessaria, per rispondermi.

 

Il mio fidanzato si chiama Ayashibara Watanabe. Ha frequentato lo stesso liceo di Soji, ma è di qualche anno più vecchio. Suo padre è fra i primi produttori di strumenti radiologici del Giappone. Non è alto. Ha la bocca larga, ma non parla molto. Il suo viso schiacciato e rotondo assomiglia ad un grosso, traslucido piatto da portata.

Ci sposeremo fra sei mesi. Abbiamo il tempo di conoscerci un po’ e poi avremo lo stesso anello all’anulare sinistro e divideremo due sponde dello stesso letto. Non ho mai dormito molto. Quando ho realizzato che avremmo diviso una camera, ho pensato per la prima volta alla mia insonnia come ad una forma di redenzione. Spero abbia il sonno di un animale in letargo; quando, finalmente, mi assopisco, non mi piace essere spiata.

L’accordo prematrimoniale mi sancisce erede del patrimonio di entrambi, dovessi morire prima che uno dei nostri figli sia indipendente.

Siamo usciti insieme un paio di volte. Abbiamo passeggiato per il parco che circonda la mansione, nascondendoci dietro le cortine di bambù, inspirando l’odore denso di pianta annegata che sale dallo stagno. Mi ha baciata, una volta, credo per farci l’abitudine. La sua bocca aveva il sapore di miso fermentato, e di un che di crudo e palustre come pesci d’acquario. Mentre si staccava da me, ho pensato alle tende bianche del salone fluttuare nel vento tiepido del mattino come in un mondo subacqueo.

È un buon affare, in fondo. Non posso avere l’amore di mio padre. Non potrò mai. Ma posso fare in modo di avere tutto ciò che possiede, finché non sarò l’unica cosa rimastagli.

 

Watanabe mi solleva tra le sue braccia per attraversare la soglia della camera da letto. Mi deposita sul giaciglio con una delicatezza preziosa e fragile, inattesa, come con un soprammobile di tulle e vetro sottile di cui gli è stato raccomandato di prendersi cura.

L’intimità che ci lega in questo momento necessario è scomoda, pericolosa, ma lui è bravo a fingere che non gli importi. Le sue mani slacciano con calcolata rapidità i numerosi bottoni del mio vestito da sposa, ed io lo lascio spogliarmi in quella sua intensa e meticolosa attenzione che dedica alle faccende di cui conosce il rischio di fallimento, sopprimendo a malapena lo sgradito brivido che corre lungo la mia spina dorsale. I suoi movimenti sono fermi, il suo volto privo di espressione; il vestito scompare, ammonticchiandosi come neve granulosa ai piedi del letto. Le dita slacciano e sganciano fino a che non rimango che io, senza un lembo addosso, e la mia risoluzione a non mostrare il terrore profano che rimbomba ritmico dentro di me e scroscia sul mio cuore e sui polmoni, strappandomi un respiro affannato, come colpevole.

Un palmo caldo sulla parte interna di una mia coscia mi spinge ad allargare lo spazio fra le gambe, e le sue dita cominciano a frugare di me senza preavviso, urgenti, cercando qualcosa che nessuno di noi due conosce, secondo una procedura tante volte udita e sempre spinta in qualche angolo della mente, dove non potesse essere toccata dal pensiero casuale e dalle nostre supposizioni inesperte.

Nella fitta straziante del mio imene lacerato tutto diventa bianco, abbagliante, e non posso fare a meno di realizzare che non è il membro duro, intruso, di mio marito a lavarmi in una pioggia di traspirazione e lacrime, ma lo sguardo distante, acuminato, di mio padre, che sento come un peso su di me.

Il pulsare pressante dei miei spasmi passa sullo sfondo, ed i miei sospiri gridati tra piacere e dolore sono un canto d’amore per il solo uomo che io abbia mai desiderato avere con me.

 

Il caldo settembrino pervade il salone come nebbia, quasi esalasse dall’imbottitura delle poltrone eleganti, massicce, di pelle e broccato vittoriano.

Soji sembra molto interessato a un vaso Ming esposto su una cassettiera. Riflette un alone rotondo sulla parete opposta, mi accorgo, come un pianeta appena sorto sulla carta da parati.

Quando parla, è come se la sua voce provenisse dalla stanza accanto, bisbigliata come una confessione.

- Dovresti sforzarti di trattare meglio nostro fratello, Eiko. -

La mia espressione incredula incontra solo il muro delle sue spalle.

- Come fai a considerarlo nostro fratello! È il figlio illegittimo di una sgualdrina! – le parole risuonano incontrollate e vibranti, un’accorata protesta – Sebbene, – mi sfugga ancora, in un sibilo astioso – Papà gli abbia dato il nome del successore della famiglia Arima… - giungo le mani in grembo, accomodandomi sul bracciolo del divano. Stringendole, la fede dorata scava nelle mie falangi lasciando due piccoli solchi nella pelle tenera.

Soji si gira verso di me, accogliendo la mia reazione con un’occhiata distratta, muta e diafana.

Come vedesse nella situazione qualcosa che io non posso cogliere. Qualcosa che non mi sfiora.

Il suo sguardo non è l’unico posato su di me, nella stanza. Voltandomi a scrutare fuori della porta-finestra noto i due occhi piccoli e scuri che mi bucano come spilli. Mi sollevo dalla mia posizione in uno scatto di rabbia. Reiji è lì, sulla soglia, a fissarmi con una caparbietà che ha qualcosa della sfida.

Dopo lo schiaffo, la mia mano pulsa ed il sangue mi tambureggia nelle orecchie con la rozza cadenza di un pesante martello.

- Ti ho già detto che non puoi venire qui! Devi stare in quella casa da solo e non farti vedere! Sei la vergogna della famiglia! -

Lui non si muove. C’è un che di acerbo ma violento in lui, capace di spaventarmi.

Ha gli occhi di mio padre. Sul viso il segno sottile ma certo della bocca di mio padre. E la sua lingua tagliente. Ma questo posso solo immaginarlo, perché non mi ha mai rivolto la parola. Sta lì, per imprimermi nel cervello la lama arrotondata del suo rigetto, ricambiato, e scappa via per andarsi a nascondere in qualche luogo riparato, a lui proibito, ma ove io non possa trovarlo; ogni volta.

- Eiko… - Soji mormora dietro di me. Fissa il punto in cui Reiji è scomparso, denudando le rughe precoci sulla fronte - È solo un bambino. Non c’è bisogno di essere così severi. Tirare fuori tutto quell’odio, come se ne avesse colpa. -

- Se conoscessi quel bambino, capiresti che non è degno di alcuna compassione, fratello. -

Una punta di fastidio sprezzante modella severa i suoi zigomi aridi.

- È questo di cui senti tanto la necessità da nostro padre, allora? La compassione? -

Non rispondo, ma non sono sicura che Soji desideri che io lo faccia.

Il mio pensiero corre alla stanza quieta in cui reco, ogni giorno, pranzo e cena a mio padre, ed al suo morbido odore di marcescenza; ogni boccone arriva alla sua bocca accompagnato dalla mia mano, con gentile, amorevole, senso materno.

Guardo un fiore di magnolia cadere ai miei piedi, una bianca e tetra culla di disgrazia.

No. Avrei voluto tenere per me una sua immaginaria tenerezza; almeno dopo la sua morte.

Lo sguardo fremente del giovane Reiji scava nel sangue torbido pompato dal mio cuore.

 

Fin.

 

Note finali: Suppongo ringraziare ancora Chiara sia inutile (e pleonastico). Il mio ultimo arigato è implicito, ed è comunque per te, tesoro. Per le tue parole di sostegno: per i miei scritti, per le mie paure.

Grazie anche a chi ha letto il frutto di questo lavoro. *bows*

Alla prossima.

 

  
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