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Autore: Tersy    17/12/2008    2 recensioni
In un futuro lontano, il codice genetico umano ha subito una mutazione sconvolgente: gli esseri umani sono diventati alati. Tutti, tranne il giovane Icaro, che ripensa al suo amaro dramma prima di esalare l’ultimo respiro.
(ho specificato AU perchè il mito è trasferito in un'epoca futuristica)
[Terza classificata al concorso “Myth’s POV” indetto da Writers Arena]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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[ Terza classificata al concorso “Myth’s POV” indetto da Writers Arena ]

Cenere antica

Inspirazione.
Pensieri pedestri assillano la mia mente.
Restano ancorati al suolo, come sciacalli alla preda.
Non demordono, non mi permettono di viaggiare,
se non su questa ruvida terra che abbiamo martoriato noi,
ma non ce lo ricordiamo più.

Sento veleno. È il sangue dentro di me che si trascina, non vuole fluire. Sono io che vivo, ma non come vorrei. Ma cos’è che vorrei? Non lo so.
Forse vorrei che il mondo si fosse fermato. O meglio, vorrei che il mondo avesse camminato assieme a me, senza trascinarmi, come invece è stato, maledettamente. E le ho sentite ad una ad una le pietre, che mi hanno ferito; la mia schiena sa ancora di asfalto sbriciolato.

Sarei libero di imprecare contro Dio, mi è concesso deturpare il cielo di lamenti e frustrazioni. Potrei agganciarmi all’ancora dell’autocommiserazione, che mi si ripresenta davanti ad intervalli regolari, come una tentazione voluttuosa. Ma la mia quiete non guadagnerebbe un solo obolo. Il mio rimpianto non si dissiperebbe. Il mio peccato non verrebbe espiato.

Per tutta la vita ho incolpato Iddio. Ho trasmesso ad un essere, tanto fantomatico quanto indispensabile, i miei errori senza avere il coraggio di reclamarne la proprietà. “Sono miei, di me medesimo, li ho creati io, sì!” avrei dovuto gridare. Invece, ho preferito sprofondare nella pazzia, ho allungato i polsi alla massa e mi sono costituito prigioniero della mia stessa natura. Avevo paura di essere semplicemente Icaro e così cominciai ad essere sfortunatamente Icaro.

In fondo, che colpa ne ha Dio se sono nato nell’ “Era degli angeli”?

Gli studiosi, gli storici, lo hanno affermato con rigore scientifico: questo è un periodo di rottura dal passato. Questo millennio è una tappa cruciale per la nostra specie, nonostante nessuno ne percepisca la spettacolare grandezza. Non è ignoranza, è solo abitudine. I nostri nonni, bisnonni ed avi sono nati e morti in questo tempo. Anche se volessimo gettare uno sguardo alla nostra memorabile retroguardia, nessuna di quelle vetuste personalità potrebbe definire la nostra era, un’era. Perché è questo il nodo problematico: l’umanità non riesce a vedere nel proprio presente solo la parte di un tutto. Se cerca le sue radici, non vede altro che se stessa, nelle medesime condizioni. Se si addentra in previsioni future, immagina i propri nipoti mentre vivono le identiche vicende che la coinvolgono in questo momento. Ma è una concezione palesemente assurda. Le epoche sono effimere come gli uomini che le popolano. Nessuno di noi ricorda com’eravamo e così commettiamo il grave errore di omogeneizzare la sequenza storica.

L’uomo di duemila anni fa non è come l’uomo di oggi. L’evoluzione della specie è la legge che governa sulle nostre teste. Io ne sono un esempio.

La mia infanzia l’ho trascorsa di schiena, con la coda dell’occhio rivolta alle mie scapole, in attesa. Ansiosa, maledetta, triste, inutile attesa. Nell’armadio mi feci montare un doppio specchio, una lastra per anta. Ho passato ore e pomeriggi a rimirare il mio riflesso che rimandava sempre la stessa immagine, per quanto m’incaponivo che il giorno seguente sarebbe variata. La mia schiena era liscia, i miei muscoli intonsi, le mie ossa perfette. Il mio volto sempre cupo e privo di luce propria. Attesi impaziente la pubertà, che passò anch’essa, sperando in ultimo nel tripudio dell’adolescenza. Aspettavo qualcosa che non sarebbe mai arrivato, ma questo è impossibile saperlo in anticipo. Solo quando lo sconforto prende il posto della speranza, si prende coscienza che è tempo di sollevarsi ed iniziare ad avviarsi a piedi, perché non ci sono mezzi che si arrestano a questa fermata. La mia fermata.

E’ insita negli uomini la voglia di emergere, la ricerca inappagabile dell’unicità. Il desiderio di essere l’unico esemplare, un oggetto raro, quasi da esposizione. Io lo fui e lo sono, contro la mia volontà. Faccio sogni che paiono incubi rubati, in cui un piumaggio candido mi ricopre le costole, che si disfa poi, distruggendo tutti i miei bisogni di normalità.

Nell’era della svolta, nell’epoca maestosa dei cambiamenti radicali, nella fascia temporale che scinde per sempre il passato dal presente, io, Icaro, abitante di NeoCretòs, conoscitore della bella favella, ignorante in qualunque altro mestiere, io, che di questo mondo faccio parte come qualsiasi altra creatura, sono l’unico uomo senza ali.

“Un’anomalia causata dall’assenza di una coppia di cromosomi nel tessuto genetico, che contiene i dati necessari alla formazione, già nel feto, delle protuberanze aliformi, sia nel substrato osseo e muscolare, sia nel rivestimento piumato.”

Meglio nota come “Sindrome 23”, ovvero il numero di coppie cromosomiche che costituiscono il mio DNA. Una in meno rispetto alla massa. Sono stato visitato (studiato ed analizzato) da un’equipe di medici provenienti da ogni dove, mentre i media hanno sbandierato anche nei meandri remoti del globo il mio “caso”. Una celebrità, un personaggio, un’eccezionalità, un fenomeno da baraccone, una cavia. Un mostro. Gli sguardi della gente erano aculei affilati che penetravano nella mia carne e rimescolavano le mie interiora, senza pietà. Anzi, la pietà l’avevano. Compassione squallida per un prodotto non finito, un lavoro lasciato a metà.

Ricordo quante pene ha sofferto mia madre, che aveva portato in grembo un mistero. Non so se si sia mai pentita di avermi dato alla luce. Molte donne mi avrebbero rispedito nelle loro ovaie, esattamente da dove ero venuto, rimproverandomi di aver dimenticato qualcosa laggiù. Mia madre aveva paura. Di me, di se stessa, del Caso che aveva scelto proprio lei. Non ho molti ricordi di lei, ma è vissuta abbastanza per far sì che avessi un’immagine del suo viso, spaventato e fragile. A volte ho dei vuoti di memoria, le figure si accavallano e non riesco a distinguere nettamente i suoi lineamenti. Ma l’odore palpabile di terrore che emanava quando si misurava con lo specchio, quando la madre e la donna erano faccia a faccia, non è possibile dimenticarlo, nemmeno tra cent’anni.

Interruzioni microscopiche dirompono nelle mie palpitazioni.
Eseguono danze sottese, che non conoscono il cielo,
ignorano il mare ed offendono la terra.
Piangono nella pioggia
e ridono nel tuono.

Quel giorno, i miei capelli castani si infrangevano al grido del Maestrale che risaliva dalla scogliera. Avevo imparato ad amare la nostra spiaggia come fosse la mia casa e l’avrei protetta da qualunque ladro avesse osato rubare la sua delicata bellezza. Dall’alto dello strapiombo, si vedeva tutta la città con le sue tipiche abitazioni addossate l’une alle altre dalla muratura biancastra ed i tetti spioventi. L’Egeo luccicava a pelo d’acqua ed io mi sentivo accolto, accettato, preso per mano ed accarezzato. Per questo, tornavo lì ogni giorno e mi convincevo di volta in volta che non aveva alcuna rilevanza la brutalità e la freddezza che mi era riservata altrove. Lì avrei avuto sempre un posto privilegiato. Un posto da re.

Ci veniva spesso anche mio padre, forse è da lui che ho ereditato questo vizio, anche se inconsciamente. Dai propri genitori non si traggono solo i tratti somatici, è qualcosa che va ben oltre la pura e semplice fisicità. Non che io e Dedalo (lo chiamavo così, di rado mi sfuggiva dalle labbra un “padre”) avessimo mai avuto modo e tempo di approfondire questi “legami spirituali”. È sempre stato occupato con i suoi studi, i suoi progetti. L’immagine rappresentativa della sua persona è una poltrona di pelle nera ed una lampada da tavola con luce a neon, accecante. Si rinchiudeva nello studio e non ne usciva mai. Ero costretto a portargli i pasti direttamente nella sua stanza, che puntualmente trovavo quasi intatti, se non per qualche morsetto qua e là. Amava fare l’architetto, ma negli ultimi tempi se ne erano accorti tutti che la sua era diventata un’ossessione. Come poteva pensare che io, suo figlio, non me ne sarei mai accorto? Come ha potuto credere di far cessare la mia angoscia, saziandola di capricci?

Quel giorno, si trovava anche lui sulla scogliera. Avvertì la sua presenza prima ancora che mi fosse a fianco. Anche i suoi capelli erano sbatacchiati dal vento e parevano non opporsi affatto ad esso. Come, del resto, il loro padrone. Mi disse che era sicuro che mi avrebbe trovato lì. Iniziò a parlarmi della stagione che stava variando, dei complimenti che aveva ricevuto dal presidente per la sua ultima opera, the Maze House, un gigantesco palazzo a destinazione espositiva, costruito come un labirinto che aveva lasciato di stucco (a suo dire) tutti coloro che avevano assistito all’inaugurazione. Disse questo e molto altro, ma io ascoltai a tratti, forse non ascoltai affatto e quello che credo di aver udito non è stato mai pronunciato. Io continuavo a fissare una nuvola che scorrazzava per il cielo, mentre mi preparavo ad affrontare la mia eccitazione.

« Ho visto i tuoi disegni. » Non aggiunsi altro. Era davvero necessario specificare quale fosse l’argomento in questione? Evidentemente no, perché piombò un cupo silenzio a ricordarmi che io e Dedalo non avevamo in comune solo i tratti somatici.

Li avevo scoperti la sera precedente. Lui si era allontanato momentaneamente dal suo studio. La porta era socchiusa e niente faceva presupporre che fosse vietato entrare o che avrei fatto meglio a voltare il capo altrove, fingendo complice indifferenza. Il Caso ci pone dinanzi situazioni che non avremo mai potuto programmare con lucido raziocinio. Cosa avrei fatto se lo avessi previsto? Mi sarei comportato in modo diverso? Sono quesiti ai quali chi prova a dare risposta fallisce in ogni caso. Avvicinai il viso alla scartoffie macchiate di grafite , senza una precisa curiosità. Fu allora che scorsi un anomalo progetto. Niente pilastri, colonne, cupole. Niente archi, volte, bifore. Niente architettura.

Eppure, dentro di me, covavo già il sospetto, seppur languido, che nel suo cuore stesse scaldando un cero, una fioca ed intangibile luce tra i suoi sensi di colpa, che chissà da quanto tempo marcivano nelle profondità della sua anima. Lo leggevo a chiare lettere nei suoi occhi scavati che, per uomo vissuto con l’ardore e la fermezza del suo inesplicabile ingegno, che aveva messo a disposizione della comunità –perché è questo il vero fine della scienza-, scoprirsi incapace davanti alle difficoltà del proprio figlio, era una tortura inenarrabile. E dato che la sofferenza genera altra sofferenza, anch’io assunsi quell’atteggiamento sconfitto, di chi solleva e sventola bandiera bianca perché non c’è più via di fuga. Ero ormai assoggettato all’impossibilità per me di assaporare una vita, cosiddetta normale.

« Quegli schizzi… Lo scheletro, gli ingranaggi, il peso specifico del metallo ideale. Tu hai previsto ogni cosa. Quando gli ho guardati è stato come riportare alla luce un’antica stele: non ho capito i dettagli, ma sono certo della sua grandiosità. Tu… hai progettato le mie ali. »

Quel cirro era passato da tempo ad altri cieli, eppure non smettevo di fissare quegli sperduti orizzonti, che per la prima volta nella mia vita sentivo talmente vicini da azzerare tutte le distanze. È la sensazione che pervade chi ritrova la speranza e non si può vendere al miglior offerente. È tua e la tiene stretta tra le tue grinfie.

Lui non emesse fiato. Mi accorsi solo di quel fruscio del bavero della giacca, che venne strofinato dalla testa. Stava scuotendo il capo, ma lo faceva con un ritmo insicuro, come se dall’alto ci fossero stati dei fili a manovrargli i movimenti ed egli non fosse per nulla acconsenziente. Si iniziò a giustificare: c’erano ancora moltissimi accorgimenti tecnici da accomodare, che elencò ad uno ad uno senza che la mia attenzione fosse minimamente intaccata. Non bastavano virtuosismi linguistici a farmi cambiare idea, a spegnere la mia fiaccola d’entusiasmo. Fu allora che presi coraggio e mandai al diavolo un’intera relazione basata su sguardi evitati, su cenni del capo, su frasi non dette, ma pensate. Raccolsi le sue mani dalla pelle invecchiata e solcate da grosse vene.

« Ti prego, papà. Solo tu puoi farlo. I genitori dovrebbero tendere alla felicità dei propri figli, no? Ti chiedo di usare il tuo ingegno per me. Solo per me. Per tuo figlio. »

Poi rimasi solo e piovve. Era uno scrosciare sottile ma visibile. Era una repulsione, una liberazione, un riscatto. Era la distruzione definitiva della barriera delle difficoltà insormontabili e la nascita di un mondo dove tutto è davvero alla portata dell’uomo comune. Piovve e quella pioggia fui io a crearla. Le mie lacrime avevano un sapore quasi afrodisiaco. Fu così che m’innamorai del volo.

In quel cielo di piombo, sfrecciò un’aquila, che deteneva tutta la tradizione dei volatili e con fierezza si mostrava capo stirpe di questa genia di creature. Non so per quale motivo ebbi questa impressione, ma in un frangente, quando il rapace mosse il becco ricurvo verso il basso, dov’ero io, mi parve d’incrociare le sue iridi ambrate. Ebbi la sensazione pungente delle sue pupille che, spietate, si abbattevano sulle mie, perforandole da parte a parte. Ebbi la folle idea che quella mi stesse lanciando un guanto di sfida. Fronteggiare me? Misurarsi con un uomo? Impazzii. Persi il lume della ragione. Allargai le braccia e gonfiai il petto. Non ero da meno, non ero da meno a nessuno. Era uno stupido uccello, solo un essere privo di materia grigia e dalle ossa cave. Se mostrare il suo piumaggio era quanto fosse in grado di fare, bene, io l’avrei doppiata, in bravura, eleganza, scioltezza. Io, sì, l’ometto che cammina, la feccia ultima di questa società di perfetti cherubini. Io che per volare, dovevo dormire. E se questo era il segno che Dio mi aveva mandato, la sua prova per mettere a punto la mia forza, allora era pronto. Se per vent’anni avevo distolto lo sguardo, stropicciando le palpebre all’ombra, ora puntavo il mio indice contro tutti gli astri del firmamento.

« Ti sfido, o Sole! »

Si secca la mia lingua,
si atrofizza la mente.
Spazi che si stringono, accorciandomi le emozioni.
Precipita abbracciato ai rimorsi.
Questa la fine del peccatore.

Leggerissime. Non gravavano minimamente sul mio peso complessivo. Di tanto in tanto, mi voltavo per assicurami che ci fossero ancora, come si fa coi ricordi. Tuttavia, percepivo il baricentro mutato ed ebbi esitazioni di equilibrio. Avevano un’ampiezza di due metri. Lucide, in titanio, sagomate perché anche alla vista si percepisse il tentativo di emulazione: un angelo surrogato, ma non per questo meno affascinante. I miei piedi affiancati presso il dirupo. Spiavo oltre la roccia i movimenti delle onde.

La voce di Dedalo mi sorprese alle spalle, dove ora brillava un paio d’ali. C’era riuscito, la senilità fu solo un giovamento per le sue facoltà mentali. Si preoccupò di controllare le saldature e la resistenza del materiale, con un martello, che faceva rumorosamente battere su entrambe le lamine. Tutte inutili burocrazie da scienziati. Era perfetto, una creazione titanica, fenomenale. Non occorrevano controlli ossessivi, non era necessario perdere minuti preziosi. Non era la sua vita quella che avrebbe solcato le nubi con ali artificiali. Era quella di suo figlio, che è peggio. Per fissarle in direzione delle scapole, mi aveva cosparso di un potente collante, che mi procurava un forte prurito. Ma se quella era la pena da patire, era il prezzo per la mia gioia, e se il dolore fosse stato anche maggiore, non mi sarei mai tirato indietro. Avevo imboccato la mia via e avevo sbarrato tutte le uscite di emergenza. Non ne avevo bisogno.

Non stare troppo a bassa quota, mi disse. Il sale marino, infatti, era deleterio per la tenuta della colla. In basso? Blasfemia! Io puntavo all’arcobaleno, non alle alghe. Io avrei indicato il cammino agli stormi in viaggio verso sud. Io avrei preso il posto del faro, diventando il punto di riferimento delle navi che attraccavano al nostro porto.

Non ti avvicinare troppo al sole, disse ancora. L’inteso calore avrebbe avuto, a suo dire, effetti negativi sul materiale delle ali, facendolo arroventare a tal punto che, non solo mi sarei ustionato gravemente, ma avrei perso il controllo del meccanismo. Nessuno mai avrebbe potuto persuadermi che c’erano dei rischi.

Papà, perché non mi rimproveri più? Perché non sento più la tua voce?

Da quel momento in poi, non ho ricordi precisi. E’ tutto così sfocato ed annebbiato che mi sembra di essermi svegliato nel cuore della notte, incosciente di quanto sia accaduto prima di quell’istante. Mi sento drogato, mi sento spaesato. C’è tanta, troppa acqua attorno a me, ma non riesco a stare a galla. Nuoto, ma affondo.

Dedalo, io ho davvero volato?

Io e lui. Uno di fronte all’altro. Schietti e sinceri. La sua maestosità non mi metteva in soggezione, stranamente. Lo fissavo, ci riuscivo e mi sentivo in pace con me stesso. Vorrei conoscere cosa ha provato lui vedendomi lì, in quel momento. Ira? Sorpresa? Sgomento? O solo una grande indifferenza? Magari aveva già capito quale sarebbe stata la mia sorte. Un buon boia concede sempre un ultimo desiderio al suo condannato. E lui mi fece la grazia di permettermi di provare milioni di emozioni contrastanti ed intense prima di mettere in moto il mio declino. La brezza mi sfiorava le gote, i miei piedi erano liberi di muoversi, incuranti della forza di gravità. Potevo vedere la mia isola come non mi era mai capitato di vederla. Mi accorsi per la prima volta di quanto fosse piccola insignificante e di quanto fatica, allo stesso tempo, avevo fatto per attraversarla tutta. Ma lassù non esisteva sudore e potevo finalmente raggiungere i monti con un soffio. Questa è la libertà che mi era stata nascosta ed usurpata. Pochi secondi e poi mai più.

Io ed il Sole. Uno di fronte all’altro. Schietti e sinceri. La sua onestà non parlava ma mi spiegava tutto in modo eloquente. I suoi raggi si espansero in un bagliore mostruoso che mi trafisse le ossa, se ancora ne avevo. La sua luce era l’equivalente di un urlo. Stavo iniziando a capire. Capì che dentro di me avevo predisposto ogni cosa: la paglia, i fiammiferi e la legna. Avevo organizzato con accuratezza la disposizione di questi oggetti. Mancava solo la miccia. Una fiammella che avrebbe fatto ardere la paglia e con essa, tutto il resto. E la mia Arroganza si era dimostrata perfetta. Aiutata dall’Egoismo e dalla Pazzia, si era fatta strada nel cuore ed aveva saccheggiato i buon propositi. Nacque così l’Ambizione che non si fece scrupoli di sradicale quel poco che resta rimasto.

Capì che ero stato io, con le ingenue rivendicazioni, a darmi fuoco. La mia pelle iniziò a bruciarmi, sempre più intensamente. Gridai, mi difesi più che potevo da quel dolore lancinante, mentre il silenzio dell’astro emetteva la mia condanna. Ho peccato, mi sono sporcato le mani di voglia di una conquista utopica e senza speranza. Ho trasformato l’odio per la mia condizione nel mio veleno.

Non è colpa di Dio se sono nato nell’Era degli angeli. E’ colpa mia che non sono riuscito ad essere un uomo con dignità.

Scoprì quanto pesassero quelle protesi. Lo scoprì in fretta. Mentre l’aria picchiava sulla mia faccia in un vortice in picchiata, capì di essermi già consumato. Stavo diventando cenere. Cenere antica, dimenticata e da dimenticare.

Urano e Nettuno mi hanno rigettato. Spero che almeno Madre Terra abbia ancora un posto per me.

Pensieri di morte consumano il mio respiro.
Pesano quanto la vita di una farfalla.
Mi faranno compagnia ancora per poco.
Quando saranno aggiogati da una fossa,
sarò finalmente Icaro, orgogliosamente.
Espirazione.
   
 
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