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Autore: Shainareth    23/03/2015    3 recensioni
Mamma tornò poco dopo, bussando alla porta prima di far capolino all’interno della stanza con più discrezione del solito. «Il tè è quasi pronto», spiegò. Poi, vedendo la pianta fra le mie mani, il suo sorriso si accentuò. «Hai proprio dei bravi amici, eh?»
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Dolcetta, Kentin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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FIORI




Quando mamma entrò in camera, mi trovò seduta scompostamente sul letto, intenta a sternutire come una dannata. Subito mi si fece vicina e, dopo aver posato qualcosa sul comodino, prese un vecchio pullover di lana che usavo in casa e me lo adagiò sulle spalle.
   «Come ti senti?» mi chiese, sedendo sul bordo del materasso e premendo il palmo della mano contro la mia fronte.
   «Intontita», borbottai, non appena gli sternuti mi diedero tregua.
   «La febbre è calata», mi rassicurò lei, con espressione rasserenata in volto. «Vedrai che domani andrà meglio. Intanto, cerca di riposare», mi consigliò, aiutandomi a stendermi di nuovo sotto le coperte. «Credevo dormissi.»
   «Sì, ma il suono del campanello mi ha svegliata», spiegai, con voce roca. «Chi era?»
   «Un tuo compagno di classe», rispose mamma, inducendomi a spalancare di nuovo le palpebre che avevo appena socchiuso.
   «Chi?!» proruppi, crollando dalle nuvole.
   Lei sorrise divertita dalla mia reazione. «Il biondino.»
   «Nathaniel?»
   «Sì, quel bel ragazzo che mi hai presentato quella volta a scuola.» S’interruppe un attimo, come se fosse sovrappensiero. Poi, con aria soddisfatta, aggiunse: «In effetti, ci sono un sacco di bei ragazzi, in classe con te.»
   «Che voleva?» tagliai corto. Mamma aveva sempre la capacità di mettermi in imbarazzo, convinta com’era che dovessi condividere con lei ogni palpito del mio cuore. So che molti figli lo fanno, con i propri genitori, ma non era decisamente nella mia indole rivelare a mia madre determinati pensieri che mi sfioravano la mente durante i miei vaneggiamenti amorosi. Per esempio, sarebbe stato oltremodo imbarazzante raccontarle che spesso mi ritrovavo a bisticciare come una mocciosa con un mio compagno di classe perché avevamo puntato alla stessa persona. Oltretutto, sulle prime non mi avrebbe neanche creduta.
   La vidi allungare un braccio verso il comodino e mi porse un quaderno dalla copertina chiara. «Ti ha portato questo. Ha detto che sono gli appunti delle lezioni che hai perso negli ultimi giorni, a causa della febbre.»
   Tipica di Nathaniel, una gentilezza di quel genere. Mi ritrovai a sorridere e mi sollevai su un gomito per prenderle il quaderno dalle mani. Il campanello suonò di nuovo e mamma si alzò per andare ad aprire. «Se è di nuovo lui, lo faccio accomodare?»
   La guardai inorridita. «Non azzardarti!» esclamai, terrorizzata all’idea che Nathaniel mi vedesse in quelle disastrose condizioni. Avevo i capelli sporchi e arruffati, gli occhi sicuramente lucidi e cerchiati di nero, il naso rosso e spellato: in poche parole, ero l’esatto contrario del ritratto della salute e della bellezza.
   Ridacchiando, mamma uscì dalla stanza. Sbuffai. Presi a sfogliare il quaderno e mi sorpresi della meticolosità e dell’ordine con cui Nathaniel aveva ricopiato tutti gli appunti. Era stato davvero caro. Il minimo che potessi fare era mandargli un sms per ringraziarlo. Stavo per farlo quando, facendo scorrere ancora le pagine, mi accorsi che, fra di esse, c’era qualcosa: un gelsomino bianco.
   Facendo parte del club di giardinaggio, negli ultimi mesi avevo imparato qualcosa sul significato dei fiori e mi chiesi perciò se il gesto di Nathaniel, che pure era allergico ai pollini, non avesse un secondo fine. Il gelsomino bianco, nel linguaggio comune, è il simbolo dell’affetto esposto con discrezione. Da un amico avrei anche potuto accettarlo, ma tutto ciò che mi sovvenne, in quel momento, fu il dubbio che Nathaniel volesse lasciarmi intuire altro.
   Turbata, richiusi delicatamente il quaderno e lo rimisi sul comodino proprio mentre mia madre tornava a bussare e ad affacciarsi sull’uscio. «Si può?» chiese.
   «Certo», risposi distrattamente, convinta che fosse sola.
   Ebbene, non lo era.
   Si fece da parte per far passare qualcuno e quando vidi Kentin spuntare sull’uscio della camera, mi irrigidii così tanto che mamma se la batté subito in ritirata con un cenno della mano ed un sorriso divertito. «Vado a prepararvi un tè caldo», ci lasciò detto, mentre richiudeva la porta dietro di sé.
   Calò il silenzio. Poi, mentre io mi stringevo nel pullover e credevo di dover morire di vergogna per l’essere stata sorpresa in uno dei miei momenti peggiori, Kentin sfoderò uno dei suoi sorrisi migliori, accecandomi con la propria adorabilità. «Meno male che sei sveglia!»
   «Che… Che ci fai qui?» balbettai, raccattando le coperte e tirandomele fin quasi sotto al mento.
   Ridendo per quella mia reazione, lui si diresse verso la scrivania, recuperò la sedia e venne a posarla vicino al letto, dove si sedette come se qualcuno lo avesse invitato a farlo. «Prima o poi vincerai il premio per le domande più idiote del millennio», mi prese in giro, osservandomi dall’alto con affetto. «Piuttosto, tieni.»
   Fu solo quando me la porse che mi resi conto che fra le mani aveva una piantina in vaso: si trattava di una calancola dai fiori rossi. Nella serra della scuola ne avevamo diverse, per cui mi domandai se non l’avesse presa da lì durante le attività del club al quale, al nostro ingresso al liceo, ci eravamo iscritti insieme. A differenza del gelsomino, però, la calancola non ha un significato vero e proprio, ma, più in generale, si tende ad attribuirle serenità e felicità. Mi venne persino da ridere al pensiero che, in effetti, Kentin avrebbe avuto bisogno di una buona dose di faccia tosta per regalarmi dei fiori per confessarmi i propri sentimenti, dal momento che non ne aveva mai fatto mistero, soprattutto durante gli anni passati.
   «L’hai sgraffignata dal club?» chiesi, con il solo intento di vendicarmi per le parole di prima.
   Lui schioccò le labbra con dispetto. «Ingrata», mi accusò anzitutto, prima di rispondere seriamente. «Sappi che l’ho rinvasata apposta per te.»
   «Che tesoro», mormorai, prendendo il vasetto dalle sue mani per osservarlo più da vicino. «Però l’hai comunque sgraffignata da lì, eh?» La sua risata confermò la mia teoria. «Beh, grazie», dissi, leggermente in imbarazzo per quel dono inaspettato. «Mi ricorderò di portarti le arance, quando sarai in prigione.»
   «Portami dei dolci, piuttosto», ribatté lui, prosaico. «Le arance, invece, mangiale tu, così almeno ti riprenderai in fretta da questo raffreddore.»
   «Che uomo pretenzioso», borbottai, fingendomi infastidita.
   Mamma tornò poco dopo, bussando alla porta prima di far capolino all’interno della stanza con più discrezione del solito. «Il tè è quasi pronto», spiegò. Poi, vedendo la pianta fra le mie mani, il suo sorriso si accentuò. «Hai proprio dei bravi amici, eh?»
   «Perché hai fatto entrare questo criminale?» le domandai in tono accusatorio, continuando nello scherzo. Lei corrucciò la fronte, non potendo indovinare il perché avessi definito Kentin in quel modo – il quale non se la prese e, anzi, ci rise su.
   Purtroppo, mamma credette che facessi sul serio. O meglio, sorvolò sulla faccenda del criminale, ma, con una naturalezza che mi fece raggelare il sangue, rivelò: «Mi avevi chiesto di non far entrare il biondino, mica lui.»
   Piombò di nuovo il silenzio. Questa volta molto più teso di quello che aveva fatto seguito all’ingresso di Kentin nella mia camera.
   Fu allora che mamma comprese la madornale gaffe appena fatta e, farfugliando qualcosa a proposito dell’acqua lasciata sul fuoco, improvvisò una fuga degna di Arsenio Lupin.
   Quando lei fu sparita, passò qualche attimo prima che Kentin perdesse l’ennesima battaglia contro la propria pazienza e sbottasse: «Nathaniel è stato qui?» Il suo tono di voce, manco a dirlo, non era più allegro e spensierato come prima. Trovai comunque ammirevole il fatto che fosse riuscito a contare fino a dieci prima di aggredirmi in quel modo.
   «Sì, prima», fui costretta a confessare, stringendo la presa attorno al vasetto che avevo fra le mani.
   «E siete rimasti soli?»
   Sospirai sonoramente e gli scoccai uno sguardo infastidito, per il quale parve persino risentirsi. «No», risposi, benché non ritenessi di doverlo necessariamente fare. Il suo modo di essere geloso era talmente infantile che mi riportò alla mente il periodo in cui continuava sfacciatamente a dichiarare il suo amore per me per tutta la scuola. «Stavo riposando, quando è passato. Ha parlato con mia madre e le ha lasciato un quaderno per me.»
   Feci cenno col capo in direzione del comodino e Kentin subito si volse a guardarlo. «Cos’è?» chiese, con voce già più moderata, segno che le mie parole erano riuscite in parte a calmarlo.
   «Ha ricopiato gli appunti delle lezioni che mi sono persa durante questi giorni di assenza.»
   «E basta?»
   Mi strinsi nelle spalle. «Credo di sì…» balbettai, forse perché sapevo che, sotto sotto, c’era dell’altro. «Puoi guardare con i tuoi occhi, se vuoi.» Se avesse visto il gelsomino, di sicuro sarebbe andato su tutte le furie, ma, conoscendo il significato dei fiori come me, almeno si sarebbe anche reso conto che il gesto di Nathaniel era stato delicato e prudente. Soprattutto, era solo il preludio di quella che avrebbe potuto essere interpretata come una dichiarazione vera e propria. A conti fatti, insomma, non provava che io ricambiassi in alcun modo.
   Kentin non solo non toccò il quaderno, dando prova di fidarsi della mia parola, ma per di più tornò a girarsi verso di me con evidente mortificazione nello sguardo.
   Ci fu quindi un nuovo, breve momento di silenzio. Poi, cercando il modo migliore per far sparire il malumore, domandai: «Perché proprio quella con i fiori rossi?»
   Sulle labbra del mio migliore amico comparve un altro sorriso, questa volta non soltanto dispettoso, ma anche timido, nonostante tutto. «Il rosso è il colore della passione.»
   «Ti sfugge qualcosa», bofonchiai a quel punto, visibilmente in imbarazzo. «Sono le rose rosse, il simbolo della passione.»
   «Hai idea di quanto diamine costino le rose?» ribatté lui, serio in volto. Scoppiai a ridere e Kentin si passò la punta della lingua fra le labbra con fare nervoso. «E comunque a te non piacciono i fiori recisi», affermò con decisione.
   Eccola lì, la differenza. La differenza fra lui e Nathaniel, intendo. Era ovvio che, avendo passato molto più tempo insieme a me, fosse Kentin quello che mi conosceva meglio. Non potevo certo farne una colpa a Nathaniel, eppure non potevo neanche rimanere indifferente davanti alla sensibilità del ragazzo che amavo.
   «Quando sarò guarita, ti andrebbe di andare insieme da qualche parte?» gli proposi di getto. Insomma, se Kentin non era scappato davanti all’aspetto disastroso che dovevo avere in quel momento, ma, anzi, si era persino lasciato andare ad una vera e propria scenata di gelosia, qualcosa doveva pur significare.
   I suoi occhi parvero accendersi di luce propria e sulle sue labbra tornò a splendere un sorriso genuino. In quell’istante, promisi a me stessa che avrei fatto di tutto affinché Kentin potesse sempre rivolgermi quella meravigliosa espressione d’amore.












Come ho già avuto modo di raccontare a qualcuno, oggi la mia Dolcetta ha avuto l'edificante esperienza di sorbirsi una scenata di gelosia da parte di questo piccolo idiota (sono alle prese con il ventitreesimo episodio del gioco). Ma ne è innamorata, poveretta, quindi ha ingoiato la pillola e l'ha già perdonato. Ci vuole pazienza.
Dedico questa shot a tutti i lettori che aspettano che io mi decida a scrivere una shot romantica nel vero senso della parola. Forse questa non è ancora all'altezza delle vostre aspettative, ma prima o poi qualcosa riusciranno a concludere, questi due scemotti, non temete.
Grazie a chiunque abbia letto e, vista l'ora con cui posto questa storia, buonanotte a tutti! :*
Shainareth





  
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