Le
luci grige del mattino schiarivano timidamente il cielo quando Alba
scostò la stoffa della tenda ed entrò. La notte
era stata
tormentata, specialmente perché Shruikan si era fatto vedere
in
lontananza e io avevo temuto di dover correre nella mia tenda a
prendere Niernen e abbandonare prima del tempo la mia bambina.
«Ti
ho portato qualcosa da magiare» annunciò l'elfa
con indifferenza,
porgendomi un quadrato di tessuto annodato.
Lo presi con la destra
e tenni la mia bimba con il braccio sinistro.
Era ben sveglia e
muoveva le manine in modo sconnesso. Non piangeva, ma non sembrava
tranquilla e io mi chiesi se per caso non fosse a causa della mia
inquietudine.
Mangiai con lentezza il pane con miele che mi aveva
dato Alba e la fissai negli occhi spenti dalla stanchezza. Io stessa
non dormivo da tre notti, ma l'eccitazione e l'ansia per la giornata
mi mantenevano sveglia e attiva, almeno per il momento.
Finito il
pane, pronunciai qualche parola di potere e restituii a mia figlia il
suo aspetto originario.
«Dalle l'aspetto che preferisci» dissi.
«L'importante è nascondere..»
«..Le orecchie, lo so» completò
per me.
Contrassi la bocca in una smorfia amara. Le avevo sempre
visto l'aspetto di un'umana addosso, doveva sapere meglio di me quali
fossero i dettagli da nascondere.
«Bene, allora».
«Devi
andare adesso?»
«Sì. All'alba devo essere con Blödhgarm e
gli
altri in un punto preciso. Ho sì e no un'ora di tempo e devo
ancora
prepararmi».
Mi alzai in piedi, accarezzai le manine della
bambina e le baciai ripetutamente, poi la baciai anche sulla fronte e
la strinsi un'ultima volta.
«Sii
forte, figlia mia»
le dissi con la
mente.
La avvolsi nel mio mantello e la depositai sulla branda
dove avevo trascorso la mia notte di veglia, canticchiando nenie e
parlando alla piccola di tutto ciò che mi passava per la
mente,
consapevole che nulla di quella conversazione sarebbe rimasto nella
sua memoria.
«Tieni questa» dissi, sfilandomi la collana di
Durza e porgendola ad Alba. «Impedirà a chiunque
di divinarti».
Lei
sorrise amaramente e la indossò. «Lo so».
«L'anello di
ametiste non serve più a nulla, fanne ciò che
vuoi».
I suoi
grandi occhi, azzurri come il cielo estivo, si alzarono solennemente
su di me.
«Torna, Principessina, io non sono capace».
«Tornerò»
dissi con poca convinzione, «ma te fai lo stesso del tuo
meglio».
«Ovviamente».
Avevo mille parole sulle labbra, ma
me le morsi e me ne andai, dopo avere gettato un'ultima occhiata alla
creaturina che si agitava sulla branda.
Corsi in direzione della
mia tenda e quasi mi scontrai contro Angela l'erborista, che
camminava insieme ai primi soldati che uscivano dalle loro tende, con
la sua armatura verde indosso e il bastone a doppia lama serrato in
una mano.
«Venerabile» ansimai.
«Arya!» esclamò lei.
«Allora come procede?»
«Lei è con Alba».
«Ah sì?» I
suoi occhi guizzarono di consapevolezza. «Non potevi fare
scelta
migliore».
«Era l'unica dopotutto» minimizzai.
«Vero anche
questo. Ma cosa fai ancora qui? Dovresti andare a prepararti! Eragon
e gli Eldunarí sono già in allerta su quella
collina lassù e c'è
anche Elva con loro».
Sobbalzai. «Tu sai di loro?»
«Certo
che sì! Ne conosco parecchi. Ho realizzato una cosetta per
loro, un
centinaio di anni fa, una specie di uomo di metallo, ma non mi
chiedere a cosa servisse perché al momento non me lo
ricordo».
Scosse la mano in un gesto frivolo. «Sto invecchiando. Io
vado in
battaglia con gli uomini, ci vediamo al più tardi domani,
devi
ancora parlarmi del tuo incontro con i Sacerdoti!» si
congedò, con
una tale allegria che per qualche istante fui totalmente sicura che
sarei sopravvissuta.
«A domani, Venerabile» la assecondai.
E
proseguii nella mia corsa, tuttavia le sorprese non erano
finite.
Davanti alla mia tenda mi attendevano due donne. Entrambe
indossavano una giubba imbottita e una di loro aveva una spada alla
cintura, l'altra ne aveva addirittura due.
«Ambasciatrice» mi
salutò Augyra.
Athala si dondolava sulla punta dei piedi alle sue
spalle. Quella ragazza sembrava sempre desiderosa di scomparire
dietro alla sua compare.
«Non ho tempo, devo vestirmi!»
«Noi
no, siamo già pronte e ti stiamo aspettando da un'ora. Facci
entrare
con te, dobbiamo parlarti» insistette Augyra.
«Prego»
borbottai, cogliendo lo sguardo interrogativo di Laufin, mentre
passava accanto alla mia tenda.
Feci entrare le due donne e tolsi
le mie cose dalla branda, così che potessero sedere su
qualcosa di
più comodo della nuda terra.
«Non posso concedervi più di pochi
minuti» annunciai, afferrando gli abiti donatemi da mia madre
e
cominciando a cambiarmi rapidamente.
«D'accordo» disse Augyra,
impassibile, «sarò breve. Non sappiamo come si
svolgerà la
strategia di attacco di oggi, ma supponiamo che il cavaliere e i suoi
elfi guardiani vadano ad affrontare Galbatorix e che forse tu andrai
con loro».
Allentai i lacci del corsetto e lo indossai.
«Corretto».
«E vorremmo che tu facessi qualcosa per
noi».
«Trattabile».
«Secondo le informazioni che abbiamo
trovato nelle gallerie di Dras-Leona, il re custodisce quattro uova
di Ra'zac nella sua stanza del tesoro. Ti stiamo chiedendo di
distruggerle per noi, nel caso riuscissi ad arrivare fin lì,
perché
siamo certe che comunque finisca questa guerra noi non riusciremo ad
averne accesso dato che saranno sicuramente protette con la
magia».
Allacciai Ren a cintura e rivolsi alla donna uno sguardo
severo. «La mia prima missione è occuparmi del re.
Potrei fare ciò
che chiedete solo dopo che avrò finito con lui».
«Certamente».
«E
non è finita qui». Sentii un sorriso aleggiarmi
sulle labbra.
«Voglio sapere per chi lavorate».
Stranamente, nessuna delle due
parve sorpresa alla mia richiesta, anzi, sembravano aspettarsela.
Athala aveva un'aria quasi soddisfatta e Augyra sembrava in procinto
di sputare una bacca acerba, tuttavia acconsentì:
«D'accordo, ma
voglio che tu giuri nella tua lingua che non riferirai quanto detto
ad altri».
«E come fai a fidarti del mio giuramento se non
conosci la mia lingua?»
«Cosa ti fa credere che io non conosca
la tua lingua?»
Alzai un sopracciglio. «La conosci?»
«In
parte. In misura sufficiente per sapere quali sono le parole
necessarie per un giuramento».
«Allora sappi che mi impegnerò a
mantenere il tuo segreto, ma con un limite: mi prendo la
libertà di
rivelarlo se dovesse risultare necessario per il benessere di
Alagaësia».
Occhi di Lupo annuì e io pronunciai il giuramento,
vincolandolo nell'antica lingua.
«Conosci il Domia
adr Wyrda?»
domandò la donna.
«Sì,
lo lessi qualche decennio dopo la morte di Heslant il
monaco».
«Allora sai che Heslant faceva parte di una setta
religiosa di Kuasta, Arcaena. Bene, anche noi» disse
controvoglia.
«Arcaena esiste?» indagai, scettica.
«Certo
che sì e ha dato parecchi impulsi ai Varden, negli ultimi
decenni!»
fu la secca risposta.
Scossi la testa lentamente, incredula,
mentre il mio cervello cominciava a mettere insieme diverse tessere
del mosaico. «Jeod. Anche Jeod Gambelunghe è dei
vostri, non è
vero?»
«Jeod ormai non è più pienamente
coinvolto nelle nostre
attività, ma è un amico prezioso e un grande
studioso. E noi
valutiamo la conoscenza al di sopra di ogni altra cosa».
Certo. E
gli impulsi di Arcaena ai Varden era sempre avvenuti tramite l'uomo:
le informazioni per intrufolarsi ad Uru'baen e anche quelle per
entrare a Dras-Leona. E lo avevo anche visto discutere con le due
donne, due giorni prima..
«Se valutate la conoscenza al di sopra
di tutto, perché voi girate armate e cercate di portare una
razza
all'estinzione?»
«Perché i Ra'zac sono pericolosi per gli
esseri umani» disse Augyra semplicemente. «E
perché si possono
assumere diversi ruoli all'interno della setta. Non abbiamo
propriamente un Dio, come i Sacerdoti dell'Helgrind, noi crediamo
nella ragione e nello sviluppo dell'intelligenza dell'uomo e ci
operiamo affinché la società non sprofondi nella
decadenza».
Rabbrividì. «Un giorno il mondo come lo conosciamo
finirà nel
fango e se qualcuno non si premurerà di conservare memoria
della
civiltà, gli uomini non risorgeranno più dalla
melma. Anche per
questo combattiamo i Ra'zac e Galbatorix: per rallentare
l'inesorabile avvicinamento della decadenza».
Rimasi impassibile,
ma il mio scetticismo stava aumentando ulteriormente. Certo la loro
religione sembrava molto più logica di molte altre, tuttavia
aveva
un fondamento di follia, come tutte.
«E se un giorno decideste
che gli elfi sono pericolosi per gli uomini?»
«Cercheremmo di
eliminarvi» disse, tagliente. «Ma non
accadrà fino a che non ci
farete esplicitamente del male».
Non credevo che sarebbero mai
riusciti a sconfiggere gli elfi, non finché avevamo la Du
Weldenvarden dove poterci rifugiare.
«Quindi voi due siete una
specie di corpo armato, come le Ombre. E gli altri cosa fanno, se non
hanno un Dio a cui rivolgere preghiere?»
«Noi non abbiamo un
corpo armato», mi contraddisse lei, «noi abbiamo
delle spie, degli
Occhi e delle Voci, ci chiamiamo così. Ciascuno di noi fa
ciò che
riesce al limite delle proprie capacità: alcuni passano
giorni e
giorni in polverose biblioteche; altri si mettono al servizio di un
nobile o di un generale, lo spiano per decenni e scrivono
regolarmente rapporti per la sede centrale; altri si ritirano nel
reliquiario in meditazione; altri trascrivono i rapporti e ne fanno
dei libri; altri cercano la conoscenza annidata nei posti
più
nascosti; altri si impegnano con le armi per preservare la
civiltà».
Augyra aveva fatto un po' di tutto, allora: aveva
cercato le biblioteche segrete dei Sacerdoti, li aveva spiati e ormai
era una cacciatrice di Ra'zac.
«Ancora non capisco che ruolo
abbia lei, oltre ad essere un fabbro» insinuai, additando
Athala.
La
giovane non si fece avanti, ma mi rispose: «Io faccio parte
di
Arcaena da pochi mesi e in modo indiretto, Ambasciatrice. Augyra e il
suo amico mi hanno salvato la vita e io non avevo alcun posto dove
andare, mentre me la cavavo bene con le armi. Così ho deciso
di
accompagnarla nella sua missione senza fare troppe domande e dopo
pochi mesi sono stata ammessa». Si bloccò, notando
l'espressione
ammonitrice della sua compagna.
«Chi sei?» domandai, guardandola
direttamente negli occhi.
Lei scosse la testa e mi parve
spaventata. «Oggi non è il giorno giusto per
rivelarti questo
segreto».
Decisi di non insistere, almeno per gentilezza nei suoi
confronti.
«Grazie per le vostre confessioni» dissi
invece.
Occhi di Lupo assunse la solita espressione di animale
feroce e braccato. «Se rivelerai queste informazioni ad altri
metterai in pericolo anche le nostre vite: abbiamo concesso ad Angela
l'erborista di accompagnarci nei sotterranei di Dras-Leona e abbiamo
dato nuove informazioni a te perché tu agisca a Uru'baen.
Secondo le
nostre regole, non era permessa la collaborazione di terzi e se
qualcuno venisse a sapere che qualcosa di assurdamente simile ad un
Inarë e un'elfa sono stati coinvolti nei nostri affari,
verremmo nel
migliore dei casi espulse dalla setta, nel peggiore avvelenate nel
sonno».
Inarë?
Mi
morsi la lingua per non tempestare le donne di ulteriori domande e
allungai una mano per afferrare Niernen. Ero pronta per l'assalto di
Uru'baen.
«Vi ho dato la mia parola e ovviamente la
manterrò».
«Grazie» disse Athala.
«Grazie» le fece eco
l'altra.
«Devo andare e mi pare che anche voi dobbiate
partecipare agli scontri, vista la vostra mise. Che le stelle vi
proteggano!»
«Pensi di tornare?» si accertò Augyra.
Se
pensavo di tornare? Il sole stava sorgendo, il sangue mi ruggiva
nelle vene, i muscoli si flettevano svelti ai miei comandi, Niernen
roteava pigramente tra le mie dita, avevo una figlia, avevo amato
Durza, avevo avuto Glenwing e Fäolin, avevo una madre, avevo
amici
come Däthedr ed Eragon e Galbatorix avrebbe almeno tremato,
quel
giorno. Ero viva, e amavo troppo la vita per pensare di potermene
già
separare.
«Certo che sì!» ringhiai, con rinnovata
energia.
Quella notte, con mia figlia tra le braccia, avevo
creduto che non l'avrei rivista mai più, ma in quel momento,
forse
grazie alla luce del sole, mi sentivo più ottimista.
«Che la tua
spada resti affilata», mormorò Augyra,
«e anche la tua lancia,
effettivamente».
«Così come le vostre» risposi.
Raggiunsi
Blödhgarm e accettai l'ultimo saluto di mia madre, che mi
corse
incontro e mi baciò la fronte con tale leggerezza che quasi
non me
ne accorsi. Poi, senza dirmi una parola, si allontanò per
mettersi
in testa all'esercito elfico.
Tutti gli addii a cui mi ero
dedicata quella mattina si rivelarono quasi totalmente inutili, dato
che io sopravvissi indenne. La morte di Galbatorix, invece, fu rapida
quanto la sua ascesa.
Alla fine l'uomo più potente di Alagaësia
fu sconfitto da se stesso. Da quei demoni che albergano nel cuore di
ogni essere che ha avuto la presunzione di stroncare una vita. E lui
ne aveva stroncate tante.
Non realizzai immediatamente che il re
nero era scomparso. Conficcai la Dauthdaert in profondità
nell'occhio di Shruikan e restai a guardare attonita le macchie di
sangue sfrigolante sui miei vestiti.
Poi tutto cominciò a
crollare.
Realizzai che mi ero presa un impegno con Athala e
Augyra e mi rivolsi a Murtagh. La mente del giovane sfiorò
la mia e
mi indicò tramite immagini il tragitto per la sala del
tesoro, la
fugace immagine di un grande scrigno e quella altrettanto fugace di
quattro uova dal colorito malsano.
Corsi in quella direzione,
evitando calcinacci e pietre, e riflettendo al contempo sulla
solitudine e la sconfinata tristezza che avevo percepito nel breve
contatto con il cavaliere che, in un modo o nell'altro, aveva
permesso la sconfitta del suo aguzzino. Galbatorix doveva essere
stato bravo a procurarsi alleati, ma non a mantenerli tali.
La
sala a cui arrivai dopo aver abbattuto la porta a spallate era bassa,
con il soffitto coperto da volte a crociera fortemente costolonate.
Se fossi stata fortunata, se anche fosse crollato il palazzo, quella
stanza avrebbe resistito.
L'intero ambiente era illuminato da
poche torce, ma risplendeva di mille bagliori dorati. Non avevo mai
visto così tante ricchezze ammassate tutte insieme.
Per prima
cosa raggiunsi le uova di Ra'zac e le fracassai con quattro colpi ben
assestati di spada, poi mi misi alla ricerca dello scrigno, mentre
intorno a me si udivano rombi e forti tonfi e il terrore di morire
sepolta tra le macerie prendeva piede nel mio cuore.
Trovai infine
il prezioso contenitore e mi accertai del suo contenuto, poi lo presi
sottobraccio e mi accinsi a cercare un'uscita. Peccato che la porta
da dove ero venuta fosse ormai totalmente inaccessibile.
Trovai
una scala di pietra umida che sembrava sparire nel ventre della terra
e la imboccai, accendendo un globo luminoso per farmi strada.
Camminai per diversi minuti prima di imbattermi in diversi respiri
affannati. Cominciai a correre e non mi fermai fino a che non udii la
voce quasi ringhiante di Blödhgarm gridare:
«Arya!» Con un tale
entusiasmo che dimenticò l'appellativo Dröttningu.
Mi accertai
che tutti stessero bene e -mentre guadagnavamo faticosamente l'uscita
tramite incantesimi per orientarci negli stretti corridoi,
incantesimi per liberare passaggi dalle macerie e proteggerci dalla
caduta di altre- ascoltai il loro racconto e loro ascoltarono il mio.
Erano rimasti immobili, prigionieri dei loro stessi corpi, in una
stanza sotterranea, fino a che la morte di Galbatorix non li aveva
liberati dai vincoli magici. Poi si erano spostati a casaccio nella
direzione dai cui ero venuta io e avevano recuperato tutti gli
Eldunarí tenuti sotto il controllo di Galbatorix, che in
quel
momento fluttuavano davanti, dietro e intorno a noi.
Riemergemmo
dopo un tempo che mi parve interminabile, sudati, ansimanti e coperti
di polvere.
Eragon ci accolse con sterminato entusiasmo e, dopo
aver visto il tesoro che tenevo tra le mani, raccontò a me e
agli
altri di avere trovato molte altre uova a Vroengard e che la
rinascita dei draghi e dei loro cavalieri non era una
possibilità
così remota come si credeva.
Nel preciso istante in cui le parole
di Eragon tacevano e le esclamazioni degli undici riempivano l'aria,
vidi -dietro di Eragon- Murtagh e Nasuada. Erano molto vicini e i
loro nasi quasi si toccavano. Il cavaliere stringeva delicatamente la
punta delle mani di Nasuada e la fissava con una tenerezza e una
vergogna che mi fecero sprofondare il cuore per la pietà.
«Tornerò,
lo giuro» disse pianissimo.
Poi saltò in groppa a Castigo e
spiccò il volo. Eragon lo seguì subito dopo e
Nasuada reagì con
orrore alla vista della consapevolezza che doveva brillare nei miei
occhi.
Forse non ero un'esperta di questioni amorose, ma avevo
riconosciuto l'espressione del volto di Murtagh: era la stessa che
aveva avuto Durza prima che Eragon comparisse a Gil'ead, quando era
costretto a farmi del male e l'idea di sfiorarmi anche solo un
istante con le stesse mani con cui mi torturava lo nauseava.
E
riconoscevo anche l'espressione sul volto della signora dei Varden
perché rifletteva la frenesia e l'attenzione con cui avevo
celato al
mondo il segreto che condividevo pienamente solo con Durza. L'amore
in qualche modo sbagliato che avevo provato per il mio
carceriere.
Nasuada scostò lo sguardo e il momento di riflessione
terminò.
All'improvviso realizzai che tutto era finito.
Blödhgarm
-che dopo aver raccolto gli Eldunarí abbandonati da Murtagh
si era
immobilizzato in piedi accanto a me- sembrava stupefatto in ugual
misura.
«Abbiamo vinto, Arya Dröttningu».
Galbatorix era
sconfitto e io ero viva. Sarei tornata da mia figlia e non l'avrei
lasciata mai più.
«Oh sì» soffiai, con la voce che vibrava
di
eccitazione. «Abbiamo vinto».
Gli altri elfi si ammassarono
intorno a noi, gli occhi brillanti di gioia e stupore e i volti
illuminati da sorrisi che brillavano più del sole.
«Abbiamo
vinto!» gridò Yaela.
«Vittoria!» le facemmo eco gioiosamente,
liberando una cascata di risate.
Mi unii al loro entusiasmo, ma
colsi con la coda nell'occhio la figura di Nasuada, fragile e
tremante al margine del mio campo visivo.
Mi avvicinai a lei e le
presi una mano tra le mie. «Bentornata Nasuada. Sono
immensamente
felice di ritrovarti viva».
La donna rise nervosamente. «Non
sono ancora sicura che sia davvero successo. Non è una
visione,
vero?» soffiò implorante. E i suoi occhi corsero
al cielo vuoto,
nella direzione in cui era volato Murtagh, in groppa al rosso
Castigo. Sembrava aver dimenticato il nostro scambio di sguardi e si
guardava intorno con la disperazione di chi sa che sta per svegliarsi
nel bel mezzo di un sogno bellissimo.
Sentii di capirla ad un
livello terribilmente profondo. Entrambe prigioniere di guerra,
entrambe forti e insieme volubili, entrambe portate sul baratro tra
vita e morte, salute e follia, entrambe innamorate del nostro
aguzzino, entrambe costrette a vivere.. e morire lontano da
lui.
Forse io e Nasuada saremmo guarite, prima o poi. Avremmo
dimenticato gli orrori che ci eravamo lasciate alle spalle a ci
saremmo costruite una nuova vita. Probabilmente lei sarebbe diventata
regina del mondo degli uomini e io avrei continuato a essere
l'ambasciatrice degli Elfi. Entrambe avremmo finito per accompagnarci
ad un altro uomo, un aristocratico che ci desse potere, forse. Forse
lei avrebbe avuto molti figli, io non ero per nulla certa di poter
sopportare una seconda volto il terrore, il panico, la solitudine e
la gioia che avevo provato nel mettere al mondo la mia. Ne sarei
morta.
Questo pensavo, mettendo a confronto la mia vita e quella
della figlia di Ajihad.
Ancora non sapevo fino a che punto le
nostre esistenze fossero diventate simili.
La signora dei Varden
iniziò a tremare e io mi permisi di stringerla delicatamente
in un
abbraccio. Era più bassa di me e sentii le sue lacrime
colarmi sul
petto mentre il suo corpo si scuoteva in pochi, profondi
singhiozzi.
«Ti accompagno nella tua tenda, vuoi?» dissi
morbidamente.
Lei annuì e recuperò il suo contegno con
rapidità
incredibile, anche se l'incertezza e il terrore rimanevano evidenti
nei suoi occhi spalancati.
Dissi a Blödhgarm di occuparsi dei
preziosi tesori che avevamo recuperato dal palazzo, presi Nasuada a
braccetto e insieme ci incamminammo verso le mura esterne.
Non
avevamo fatto più di un centinaio di iarde quando ci
imbattemmo in
Jörmundur e Däthedr.
L'uomo si illuminò di gioia e corse ad
inginocchiarsi davanti alla sua signora, mentre Däthedr mi si
fece
vicino, con gli occhi arrossati dal pianto e un'espressione funerea
in volto.
Disse poche parole, piano, quasi spaventato.
All'inizio
decisi di non crederci, mi voltai dall'altra parte e mi tappai le
orecchie in un gesto infantile che non mi s'addiceva.
Semplicemente
non potevo accettarlo, era un dolore troppo forte da riuscire anche
solo a immaginarlo.
Galbatorix era sconfitto, io non potevo passare la mia esistenza
accanto all'unico uomo che avevo amato, ma non importava. Ormai
andava tutto bene, le morti erano finite, nessuno doveva più
morire.
Saremo una
famiglia, madre, ma adesso
basta scherzi.
Ma la notizia mi fu
ripetuta, più e più volte, con spietata
crudeltà.
«Tua madre è
caduta, Arya Dröttningu».
Mia madre
è cosa? Avevamo detto basta agli scherzi e ai silenzi. Madre
adesso
ci dobbiamo volere bene, dobbiamo diventare una famiglia.
Qualcuno
mi scosse delicatamente per le spalle.
NO,
BASTA SCHERZI!
Non me ne resi
conto,
ma probabilmente urlai perché vidi i presenti scrutarmi con
espressioni terribilmente preoccupate, già incupite in
un'espressione contrita.
Loro non
sanno dello scherzo. Mi
dissi
scioccamente.
Nasuada fu la prima a riprendersi e mi tirò da
parte, lontana dai due uomini. «Mi dispiace per il tuo lutto,
so
cosa si prova a perdere un genitore, hai tutto il mio appoggio e la
mia comprensione» mormorò, la voce ancora incerta
dal pianto.
Sarai
un'ottima regina, Nasuada, la tua gente ti vorrà bene e tu
la
renderai felice e consolerai tutti per le loro perdite. Ma non me, ti
prego, non di nuovo.
«Non
mi
importa» dissi invece, aspramente. «Lei non era mia
madre. Mi ha
odiata con tutta se stessa, mi ha considerata alla stregua di un
oggetto atto ad abbellire la sua corona. In me vedeva solo la sua
erede, un semplice strumento per proseguire la sua linea di sangue.
Lei non ha mai sentito il minimo affetto per me. Mai. Nemmeno quando
mi credeva morta. Era solo arrabbiata perché avevo fallito
la mia
missione e quando sono tornata a casa è stata quasi
compiaciuta di
rinfacciarmelo. Si è anche scusata con me, ma lo ha fatto
solo per
convenienza, per cercare di trattenermi a palazzo e proseguire con la
mia educazione. L’unica aspettativa di me che ha avuto
è stata
vedermi sul trono di Ellesméra. Io non potrò mai
perdonarla per ciò
che mi ha fatto. Per colpa sua ho perso tutta la mia infanzia ed
è
un tempo che non tornerà mai più. Per questo..
per tutto questo io
non sento dolore, non mi importa niente».
Avrei voluto vedere
l’espressione di Nasuada, ma non potevo. I miei occhi erano
appannati.
Mi tremarono le labbra. «Non è vero»,
gracchiai
subito dopo, «non è vero niente». Le
lacrime si riversarono sulle
mie guance.
Mia madre
è morta!
Singhiozzai. Prima
che ci fosse dato di
volerci bene.. lei è morta! MORTA!
Mi
coprii il volto con le mani e ispirai profondamente, cercando di
dominarmi.
«I-io» balbettai.
Nasuada mi strinse una spalla,
ma non disse nulla. Il gesto fece traballare ulteriormente le mie
resistenze.
«Vado» riuscii a biascicare, e corsi via.
Corsi
per le strade ricolme di sangue e morti, scudi spezzati e frecce
ancora integre. Poi trovai una porta aperta e mi intrufolai
all'interno, sbattendola alle mie spalle, lasciando la luce del sole
dietro di me.
Caddi a terra con violenza, ferendomi le ginocchia.
Mia madre era entrata nel vuoto. La stessa madre che mi aveva
sorriso, promettendomi comprensione e baciandomi la fronte con
delicatezza, quasi con paura. La madre che era sempre stata poco
più
di un'estranea per me, che mi aveva lasciato intravedere un bagliore
di comprensione, la possibilità di riaprire i rapporti ormai
congelati.
Piansi amaramente le occasioni perdute, il tempo
sprecato, i litigi frequenti e i pochi confronti. Cercai di rievocare
un'immagine piacevole di Islanzadi, ma non potevo.
Perché il
Fato, Dio, Destino, Caso o qualunque altra vigliaccata non mi avevano
dato il tempo di crearmene una.
Maledetta. Dovevo essere
maledetta. Le persone intorno a me morivano come fiori sradicati da
una tempesta. Arrivavo a malapena a concedere parte del mio affetto a
qualcuno che quello mi era subito strappato via. Era successo con
tutti. TUTTI! Dovevo andare via per sempre o avrei ucciso altre
persone innocenti, dovevo raggiungere mia madre e..
Mia figlia! Io
avevo una figlia!
Appena raggiunta quella consapevolezza, il mio
stomaco si ribellò a tutto ciò che avevo appena
vissuto.
Rigettai
in un angolo e il sapore acido mi pizzicò spiacevolmente la
gola,
lasciandomela secca e ruvida.
Menta..
Comprami anche delle foglie di menta, fresche mi raccomando!
Battei
le palpebre e mi imposi di tornare alla realtà. Brutta,
lurida,
insopportabile realtà. In quel momento volevo essere
chiunque tranne
che me stessa, ma le persone che conoscevo non rappresentavano valide
alternative di una vita migliore.
Tutte
cose spezzate gli eroi di Alagaësia.
Digrignai
i denti. Dovevo concentrarmi.
Mia figlia. Lei era viva, da qualche
parte fuori da Uru'baen. Lei respirava e aveva i capelli di
Durza.
Tornai a correre, evitando tutto e tutti, e non mi fermai
fino a quando non raggiunsi la tenda di Alba.
L'elfa era sulla
soglia, con le braccia incrociate sul petto e un'espressione lugubre.
Doveva già sapere tutto, le voci arrivavano all'accampamento
insieme
ai feriti.
Non cercai nemmeno di asciugare le lacrime che mi
imbrattavano il volto, scavando probabilmente una scia sulla mia
pelle impolverata.
«Ti rimango solo io adesso» dissi, vibrando
come una corda d'arco e percependo io stessa il tono ridicolmente
pietoso della mia voce.
«I conti che avevo in sospeso con tua
madre sono estinti, Arya Dröttningu» disse Alba
passandomi accanto.
«Mi dispiace per la tua perdita. La tua bambina è
dove l'hai
lasciata stamane».
E fece per andarsene.
«Ora non vuoi più
uccidermi?!» gridai istericamente.
Volevo che ci provasse. Mi
sentivo ricolma di orrore e disperazione e avevo assoluto bisogno di
liberarmi di quelle orribili sensazioni. In quel momento mi sarei
volentieri gettata in uno scontro all'ultimo sangue.
La bionda si
voltò nella mia direzione e mi parve di leggere frustrazione
nella
sua espressione. «Io non ti avrei mai e poi mai uccisa,
Principessina, probabilmente non sarei nemmeno riuscita ad uccidere
tua madre. Io ho paura della morte, io odio vedere gli altri morire.
Credi davvero che sarei mai stata capace di stroncare una vita? Io
non c'ero cento anni fa, ad Ilirea. Ero troppo codarda per
partecipare ad una battaglia, troppo debole per stare nel bel mezzo
della mischia ed ignorare il dolore dei morenti, troppo ingenua per
capire che Solus avrebbe potuto incontrare la morte in quello
scontro!» Scoprì i denti in un'espressione feroce
e mi puntò
dolorosamente un indice al centro del torace. «Tu ora stai
soffrendo
e sei furiosa, ma non ti permetterò di usarmi per scaricare
la tua
rabbia. Non ti ucciderò né oggi né mai
e se hai intenzione di
aggredirmi e di pestarmi, allora sappi che mi lascerò
ammazzare
piuttosto che assecondarti».
Conclusa la sua sfuriata, ritrasse
il dito -che mi aveva scavato un solco tra le costole- e
batté
rapidamente le palpebre per asciugare gli occhi umidi.
Dal canto
mio, sentii la mia ira sgonfiarsi, subito soppiantata dalla
sofferenza.
Ero una sciocca. Una sciocca patetica.
E non ero
nemmeno andata a rendere omaggio al corpo di mia madre, accecata
com'ero dall'enormità di ciò che era successo.
Un dolore
martellante alle tempie mi fece barcollare. Alba mi afferrò
prontamente un braccio e mi guardò con occhi duri come
lapislazzuli,
gli occhi limpidi di un guerriero.
«Va' da tua figlia e tienila
tra le braccia. Tu non sei sola, tu hai qualcuno che ti
aiuterà a
superare anche questa perdita, hai qualcuno per cui vivere il futuro
senza doverti necessariamente aggrappare al passato. Sotto questo
punto di vista, sei stata più fortunata te di me».
«Alba
io..»
«Odio le smancerie, quindi puoi evitare!»
sbottò. Mi
spinse leggermente in direzione della tenda. «Vai».
Rischiavo di
emulare il terribile crollo emotivo che avevo subito quando ero
arrivata ad Ellesméra, dopo la battaglia del Farthen Dur, e
non era
quello il momento. C'erano ancora mille cose da fare, anche se
Galbatorix era morto.
Per l'ennesima volta, mi dissi che il
momento per strapparsi i capelli e graffiarsi il volto sarebbe venuto
poi.
Entrai nella tenda di Alba e il respiro della mia piccola mi
riempì le orecchie. La strinsi fortissimo, fino a farla
piangere.
Poi le chiesi stupidamente perdono, tempestai la sua testolina di
baci e le mormorai parole dolci per placarla, mentre nuove lacrime si
scavavano una loro via sul mio volto.
Quando infine riuscii a
calmare il battito furioso del mio cuore, mi sentivo a pezzi, esausta
e al limite della sopportazione. Lasciai che la manina della mia
piccola si stringesse con forza inaspettata intorno al mio indice e
trassi conforto da quel semplice e rassicurante gesto.
Non doveva
essere passata neanche un'ora quando tornai a rivolgere la parola ad
Alba, che era seduta a terra al centro della sua tenda, a poche iarde
da me, con lo sguardo perso nel nulla.
«Puoi tenerla per qualche
altra ora?»
«Vai pure».
Cercai la mente di Blödhgarm, ma
non la trovai. Intercettai Däthedr, invece.
«Däthedr
ti chiedo perdono per il mio comportamento».
«Non devi chiedermi
perdono, Arya Dröttningu».
Mi
passò per la mente il pensiero che il titolo
Dröttningu non mi era
più dovuto, ormai. Cercai di tenere per me quella
considerazione, ma
dovette filtrare anche nella mente dell'elfo.
«Il
corpo di Islanzadi Dröttning è stato portato nella
sua tenda,
insieme all'uovo verde, se desideri renderle omaggio».
Sentii il suo cordoglio penetrare insieme alle sua parole.
«Ti
trovo lì?»
«No, sono nella mia tenda. Tra poco avrà inizio un
consiglio con i comandanti del nostro esercito. Sei la benvenuta, se
ti senti di venire».
Andai al
consiglio. I capi dell'esercito stavano discutendo dei futuri
movimenti degli elfi e anche della posizione da assumere riguardo al
futuro sovrano degli uomini. Sicuramente avevano il diritto di
sceglierlo da sé, ma gli elfi dovevano almeno dire la
loro.
Stabilirono che l'avanguardia dell'esercito si sarebbe messa
in marcia già dal mattino seguente. Le nostre armate
marciavano in
maniera scomposta per non inaridire il terreno, quindi un ritorno in
gruppo nella Du Weldenvarden era da evitare.
Rimasi in silenzio
per buona parte del tempo e mi feci avanti solo quando chiesero il
mio parere sull'integrità morale e fisica di Nasuada,
assicurando
loro che era la sola candidata che avrei mai potuto proporre come
futura regnante.
Tutti mi trattarono con rispetto e delicatezza,
ricordandomi in continuazione ciò che era accaduto a mia
madre. La
sua stessa assenza sembrava palpabile in quella tenda.
Quando la
riunione era ormai terminata, Eragon si mise in contatto con me per
informarmi degli ultimi sviluppi e mi trasmise un dolce pensiero di
cordoglio.
Non riuscii a ringraziarlo.
Prima di presentarmi
alla seconda e ultima riunione della giornata, restai per lunghe ore
al capezzale di mia madre.
Era stata distesa nella sua tenda e
ripulita dalle fatiche della battaglia. Aveva indosso un vestito
rosso, come bacche di agrifoglio, e le sarebbe stato d'incanto
addosso, se solo le sue labbra non fossero diventate così
pallide.
Le ciglia serrate ombreggiavano gli zigomi alti e i capelli erano
sciolti sotto di lei, lisci e neri come un mantello di seta.
Era
bella come lo era stata fino a poche ore prima, ma non respirava, il
suo viso non aveva colorito e il suo cuore non batteva. Era un guscio
vuoto, privato di energia e della coscienza che aveva fatto di lei
ciò che era.
Sfiora la fronte di Islanzadi. Era fresca, ma non
ancora gelida. Poteva sembrare addormentata.
Däthedr mi raggiunse
e, dietro mia richiesta, mi raccontò di come fosse avvenuta
la
dipartita di mia madre.
Fui invasa da una furia selvaggia quando
venni a sapere che era dovuta a Lord Barst, lo stesso deplorevole
individuo che era venuto nella mia cella a Gil'ead, mesi e mesi
prima.
Era morto, e forse era meglio così. Perché se mi
fossi
nuovamente imbattuta nella sua faccia, squadrata come quella di un
urgali, non avrei resistito alla tentazione di ucciderlo, con molta
lentezza e poca pietà.
No.
Dovevo smettere di lasciare che simili pensieri mi prendessero. Se
avessi continuato su quella via, il desiderio di vendetta avrebbe
ucciso ogni briciola della mia umanità, com'era successo con
Durza e
con Alba, prima che entrambi rinunciassero -per un motivo o l'altro-
alle loro pretese.
L'elezione di Nasuada avvenne all'unanime,
ma Orrin tirò fuori gli artigli, mostrando infine un certo
desiderio
di occupare il trono appartenuto a Galbatorix. Nasuada
riuscì a
moderare le sue richieste e a spuntarla, ma non mi sarei stupita se
il re del Surda avesse avanzato nuove pretese, in futuro. Forse
avrebbe proposto a Nasuada di sposarlo, come contratto politico, ma
la donna avrebbe certamente rifiutato, sapendo bene che la presenza
di un marito avrebbe ridotto drasticamente il suo potere. Forse
un'unione tra i loro rispettivi figli avrebbe finito per riunificare
i due regni, e forse sarebbe stata una saggia soluzione per evitare
futuri scontri armati.
Quando finalmente mi trascinai fuori dalla
torre ero esausta e non vedevo l'ora di coricarmi. E i miei compagni
sembravano condividere il mio stesso desiderio perché ci
congedammo
rapidamente, con pochi saluti e auguri di una felice notte.
Tuttavia
il mio riposo doveva attendere ancora qualche tempo, come capii non
appena vidi Athala, in piedi davanti alla torre, con le due spade
ancora alla cintura, gli abiti sporchi di sangue e uno stretto
bendaggio sulla fronte. La giovane si dondolava ancora sulla punta
dei piedi e mi rivolse un esitante cenno di saluto.
«Vuoi che ti
accompagni alla tenda, Arya?» chiese Däthedr
premurosamente.
«No,
ti ringrazio. Prima di coricarmi vorrei parlare con un'amica e
riferire alla Venerabile la decisione della nomina di Nasuada.
Suppongo che ci vedremo domattina».
L'elfo annuì. «Pensavo di
portare ad Ellesméra il corpo di Islanzadi dopo la nomina di
Nasuada, se sei d'accordo».
«Sei tu il reggente», gli ricordai
senza malizia, «ogni tua decisione è
legge».
«Devi decidere
tu, si tratta di tua madre».
«Sono pienamente d'accordo con te,
purché si attenda il mio ritorno per la cerimonia di addio.
Credo
che io rimarrò qui per qualche altro giorno, per accordare
le ultime
cose con Nasuada in qualità di ambasciatrice».
«Certamente».
«Allora
bella notte, Däthedr».
«Bella notte, Arya».
Mi avvicinai ad
Athala, che alzò infine gli occhi nei miei, ma non resse lo
sguardo
per più di qualche istante.
«Hai combattuto bene?» le chiesi
piano.
Fece un cenno di assenso. «La ferita è una
sciocchezza»
si affrettò a spiegare, non appena vide i miei occhi fissi
sulla sua
fronte.
«Vuoi che te la guarisca?»
«No,
ambasciatrice».
«Dov'è Augyra?» chiesi, ricordando di
avere
incrociato la donna mentre mi avvicinavo alla torre in vista della
riunione. Mi aveva rivolto un gesto interrogativo e io avevo risposto
con un cenno di assenso, chiarendo di avere eseguito ciò che
mi
avevano chiesto.
«Lei non sa che sono qui» disse Cantalama in
tono supplichevole. «E spero che mai lo saprà, non
approverebbe».
«Allora cosa posso fare per te?» chiesi,
sentendo nuovamente un dolore sordo martellarmi le tempie.
Non
dormivo da tre notti e in quel breve lasso di tempo era successo di
tutto e di più.
«Chi è stato nominato sovrano di queste
terre?»
domandò tutto d'un fiato, come se avesse messo tutto il suo
coraggio
in quella domanda.
«Nasuada» dissi, laconica.
Athala parve
compiaciuta. «Era l'unica a meritare quel titolo,
sarà una buona
regina». Mi parve che la giovane fosse sul punto di
aggiungere
altro, ma si morse le labbra e tacque.
«Come mai questo interesse
per il nuovo sovrano?»
«Perché sarò un suo suddito, dato
che..» Si morse nuovamente le labbra. «Puoi
mantenere un
segreto?»
«Mi sono già impegnata a non parlare di Arcaena,
direi che ormai sono uno scrigno di segreti».
La mia asprezza non
le piacque e si ritirò in se stessa come una chiocciola
spaventata.
Sospirai. «Perdonami, sono solo molto stanca. Puoi
dirmi qualunque cosa e io la porterò con me nel
vuoto». Anche se
non capivo perché dovesse confidare qualcosa a me.
«Non voglio
che lo porti con te nel.. vuoto» replicò con
inaspettata energia.
«Voglio che tu ne parli a qualcuno, non appena io non ci
sarò più,
voglio che tutti sappiano chi sono quando ormai non potranno
più
nuocermi. Così almeno la mia famiglia non cadrà
totalmente
nell'oblio».
«E perché io?»
«Perché tu vivrai per molti
secoli e hai l'autorità per essere creduta».
Annuii. «Sta bene.
Mi impegno a mantenere il segreto fino alla tua morte, a meno che non
si riveli dannoso per il benessere delle razze di
Alagaësia». Non
giurai nell'antica lingua, ma la giovane sembrava soddisfatta.
La
sentii inspirare profondamente, prima di parlare: «Io sono
l'ultima
erede dei Broddring».
Diamine! «Davvero?»
«Davvero. La mia
bisnonna aveva il mio stesso nome, Athala, ed era la sorella minore
del re Angrenost, colui che Galbatorix ha deposto. Il tiranno non
poteva permettersi che la mia stirpe sopravvivesse, nessuno poteva
minacciare il suo potere, ma lasciare dei Broddring in vita era
comunque un rischio che non valeva la pena di correre, così
ci diede
la caccia e ci sterminò. Athala però si trovava a
Teirm, a quel
tempo, ed era in procinto di combinare un matrimonio con un nobile
della città. Le dame che la accompagnavano furono abbastanza
pronte
da sostituire la principessa con un'altra bambina di dieci anni e due
di loro fuggirono con lei dalla città, fino a Kuasta.
Lì vissero in
segreto fino a che la natura non fece il loro corso e morirono, ma la
principessa era ormai diventata un'adulta e, ormai sull'orlo della
vecchiaia, decise di accettare la proposta di un povero pescatore.
Non lo amava, ma aveva avuto notizia della morte dei suoi parenti e
aveva intenzione di proseguire la stirpe. Mise al mondo un solo
figlio, Dietfried, e morì un pugno di anni dopo, non prima
di averlo
segretamente educato sulle sue origini. Dietfried imparò il
mestiere
di fabbro e sposò a sua volta una popolana, una lavandaia,
ed ebbe
da lei tre figli: Ehren, Kerta e Ragnol. Il maggiore morì
molto
giovane, Kerta, la secondogenita, morì dando alla luce suo
figlio,
mentre Ragnol sopravvisse. Sulle sue spalle cadeva l'oneroso compito
di portare avanti la linea di sangue dei Broddring, ma il peso del
compito lo rese paranoico e, temendo di essere stato scoperto, si
rifugiò a Dras-Leona. Qui si unì ad una donna
chiamata Volga, mia
madre, e la sposò. Da quell'unione nacqui io e fino ai
quindici anni
di età vissi con i miei genitori, imparando da mio padre il
mestiere
di fabbro. Poi Ragnol morì di febbri durante il duro inverno
che
corse quell'anno e Volga, dopo tre anni di vedovanza, sposò
un altro
uomo, il mio patrigno. L'uomo che tu immagino abbia visto a
Dras-Leona». Il tono della sua voce si fece duro.
«Lui era un pazzo
ubriacone e non appena mia madre si lasciò sfuggire qualche
parola
di troppo sul conto mio e di mio padre si spaventò a morte..
Lui la
ammazzò di botte».
Per parecchi minuti non trovai le parole per
esprimermi su quella frettolosa storia. «Il tuo racconto
è
incredibile», mi decisi infine, «e anche
terribile».
Athala
fece un sorriso. Era bella, quando sorrideva, il suo viso si
illuminava tutto. «Devo sembrarti una pazza».
«No, non credo
che nulla potrebbe più sembrarmi folle». Non dopo
aver perso tutte
le persone che amavo per colpa di un folle, non quando l'unica
famiglia che mi era rimasta era la figlia di uno spettro che avevo
amato profondamente.
«Non posso darti la certezza assoluto che
ciò che ti dico sia vero, ma credo che se si cercasse nelle
genealogie si troverebbe Athala, sorella minore di re Angrenost. Io
porto il suo stesso nome, che dovrebbe significare “di stirpe
nobile”, o qualcosa del genere» quasi si
scusò.
Ricordai il
giorno in cui la giovane mi aveva detto di non potermi confessare la
sua vera identità. Quel giorno avevo pensato che io l'avevo
nascosta
tra i Varden per non mettermi in pericolo, e incredibilmente lei
aveva fatto lo stesso.
«Posso verificare, se vuoi, ma non ci
sarebbe nessun motivo, da parte dei tuoi antenati, di inventarsi una
simile storia. E per cosa poi? Per rischiare di essere perseguitati e
uccisi da Galbatorix? No, non credo. Per quanto incredibile, il tuo
racconto mi sembra reale» la rassicurai. «Tuttavia
mi chiedo il
perché della tua scelta. Sono certa che Nasuada ti
accoglierebbe
nella sua corte se le rivelassi la tua identità, non
cercherebbe
certo di ucciderti se non avanzerai pretese al trono -e neanche in
quel caso, credo- e potresti vivere una vita agiata dopo tutte le
fatiche che hai attraversato».
Athala sorrise di nuovo. Il
sorriso sereno di chi sa di aver trovato il suo posto nella vita.
«Questo inverno raggiungerò i venti anni. Quindici
di questi li ho
passati sotto le pressioni di un padre che riusciva solo a pensare
alla stirpe, al sangue, al diritto al trono e al regno. Altri tre
sono trascorsi sotto la tristezza di mia madre, prima e sotto le
botte del mio patrigno, poi. Alla fine è arrivata Augyra, e
lei mi
ha strappato da quella vita che mi stava soffocando. Non voglio il
regno, non voglio la corte e non voglio il mio titolo. Forse sarebbe
il mio posto, per diritto di sangue, ma io non sono come i miei
antenati, io sono una persona nuova, io ho dei sentimenti e dei
pensieri che vanno al di là delle voci dei morti. Se
diventassi
regina non ne sarei mai capace e ne odierei ogni istante. Non ho
l'attitudine al comando, non mi so muovere nella politica, non sono
abile nelle sottigliezze di linguaggio e di pensiero». Si
fermò e
guardò le prime stelle che sorgevano in cielo.
«Augyra proseguirà
la sua caccia ai Ra'zac. Dobbiamo perlustrare ancora Gil'ead e Ceuron
e allora forse avremo finito. Questa vita non è forse quella
che la
mia bisnonna aveva prospettato per i Broddring, ma a me piace, mi fa
sentire viva e parte di qualcosa più grande. Arcaena non
risolverà
i problemi dell'umanità, ma ci prova, muovendosi a piccoli
passi, e
io sono fiera di farne parte».
La capii perfettamente. I suoi
pensieri erano i miei. Stava traducendo in parole tutto quello che
avevo provato quando avevo deciso di diventare ambasciatrice degli
elfi.
Sollevai un braccio e le strinsi il polso quando lei serrò
il mio. «Capisco il tuo punto di vista e lo rispetto. Sei una
donna
di grande valore, Athala, nonostante tu ti nasconda dietro una
maschera di timidezza».
Arrossì. «Sei troppo gentile».
«Quindi
Augyra ti ha salvata dal tuo patrigno?»
«Circa.. diciamo che lui
aveva parlato alle persone sbagliate delle mie origini e aveva
attirato l'attenzione di alcuni soldati. Augyra mi aveva consigliato
di andarmene prima che il dubbio si consolidasse e così ho
fatto, la
sera in cui sono andata a scioglierla dall'altare sotto il monte
nero». Ridacchiò. «In quel caso si
è rivelato utile essere un
fabbro».
Sentii un sorriso affiorarmi alle labbra, insieme ad una
strana tenerezza per quella ragazza così giovane,
così provata
dalla vita eppure così positiva.
«Terrò fede alla mia promessa»
rinnovai. «Ovunque tu vada, ti auguro buona
fortuna».
«Ti
ringrazio infinitamente» disse, con un nuovo sorriso.
«Addio! E che
la buona sorte assista anche te, ambasciatrice».
Lasciò la mia
mano e fece qualche passo. Poi si fermò, come se avesse
ricordato
qualcosa all'improvviso, e parlò: «So che avete
perso la vostra
regina. Mi dispiace».
La gola mi si serrò. «Già, è
una grave
perdita per noi elfi, ma la supereremo».
Lei non sapeva che
Islanzadi era mia madre o le sue condoglianze sarebbero state
probabilmente più sentite, ma in un certo senso preferivo
così.
Sarei stata circondata da espressioni contrite per parecchi mesi a
seguire e non ero certa di volerle sopportare.
Poi mi sovvenne una
nuova rivelazione: ero viva.
Fäolin, Glenwing, Durza, Ajihad,
Oromis, Glaedr, Wyrden, Galbatorix e mia madre erano morti. Ma io no.
E nemmeno la mia piccola, la creaturina di pochi giorni che univa in
sé il sangue di un'elfa e di uno spettro, che chiunque
avrebbe
temuto e disprezzato, se si fosse conosciuta la sua identità.
La
guerra era finita e io potevo tornare a casa. Non con l'amarezza che
mi aveva accompagnata dopo la battaglia del Farthen Dur, ma con la
malinconia delle perdite che avevo subito e la lieve gioia di un
futuro.
Casa. Persino quella parola sembrava dolce-amara.
Casa
non è il posto dove viviamo, dove siamo nati noi o i nostri
antenati, dove sono seppelliti i nostri morti, o dove troviamo
successo e ricchezze. Casa è il luogo dove sono le persone
per cui
varrebbe la pena di vivere. E morire.
E io sarei stata a casa con
mia figlia, come lo ero stata con Durza. Lei era lui, me, noi. Era la
prova che si può risorgere dalle ceneri e sperare sempre in
qualcosa, anche quando tutto sembra scivolare tra le dita. Era la mia
famiglia, la mia piccola famiglia.
Forse guardandola crescere
avrei recuperato la mia serenità.
Con questi pensieri
rassicuranti, mi diressi verso la tenda di Alba e le chiesi
ospitalità per la notte. Ma a dispetto di ciò che
avevo appena
constatato, i morti non mi abbandonarono nemmeno per concedermi un
sonno sereno.
La mia notte fu funestata dagli incubi e addolcita
dal pianto della mia bambina.
Non vidi più né Cantalama né
Occhi di Lupo. Non sapevo se fossero alloggiate da qualche parte in
città o se fossero già partite in direzione di
Gil'ead, ma mi
sembrava che con la loro scomparsa si fosse chiusa una grande fase
della mia vita.
Tre giorni dopo la sconfitta di Galbatorix,
Nasuada fu ufficialmente incoronata regina di.. dell'Impero?
Più che
un impero era ormai un regno, dato che una buona fetta era passata ad
Orrin e la figlia di Ajihad non era intenzionata ad usare nessuna
terminologia che rimandasse al secolo buio di Galbatorix.
Nasuada
mi parlò della sua intenzione di sottomettere i maghi
dell'intero
regno. Capivo il suo timore e la sua incertezza al riguardo, ma ero
altrettanto certa che non sarebbe mai riuscita ad applicare un
controllo effettivo su tutti coloro che praticavano la magia.
Il
giorno dopo la sua incoronazione, Däthedr condusse nuovamente
gli
elfi nella Du Weldenvarden. Portavano con sé i corpi di
molti morti,
compreso quello di mia madre.
Il giorno seguente partirono anche
Eragon e Saphira, ma io non ero certamente sola, dato che passavo
buona parte della mia giornata con la mia bambina tra le braccia,
affidandola ad Alba quando qualcosa di impellente richiedeva la mia
presenza.
L'elfa era alloggiata con me in una stanza di un'ex
caserma e continuava a lamentarsi dei continui piagnistei notturni di
mia figlia, ma se fossi riuscita a farle un Fairth mentre guardava la
bambina, avrei potuto ricattarla a vita. Non andavamo propriamente
d'accordo e ci scambiavamo sì e no una decina di parole al
giorno,
ma qualcosa era cambiato dal momento in cui mi aveva praticamente
consolata per la perdita di mia madre e aveva confessato di non
volermi affatto uccidere.
Non avevo intenzione di trattenermi
più
del necessario ad Ilirea, ma prima volevo assicurarmi che
Blödhgarm
e gli altri elfi fossero in grado di gestire gli Eldunarí
che erano
stati costretti a servire Galbatorix, poi volevo accordarmi con
Nasuada circa il destino dell'ultimo uovo di drago, quello verde.
Il
giorno che mi presentai al suo cospetto, nel ricco palazzo che aveva
assunto come momentanea residenza, mi trovai di fronte ad una donna
forte che celava negli occhi un'ombra scura di sofferenza sopita.
Chissà se anche lei si svegliava in piena notte, zuppa di
sudore
gelido, con la sensazione dei ferri roventi sulla pelle. Avevo avuto
quel genere di incubi, quando Durza mi torturava.
La figlia di
Ajihad mi concesse senza storie di portare con me l'uovo,
assicurandomi che gli elfi sarebbero stati ripagati per il loro aiuto
non appena i tesori sepolti sotto il palazzo di Galbatorix fossero
stati portati alla luce.
«Il vostro reggente aveva una gran
fretta di andarsene» mi disse, un po' incerta.
«Lord Däthedr
non aveva intenzione di offenderti» le assicurai.
«Il mio popolo ha
solo fretta di allontanarsi dal sangue e dalla sofferenza. Se devi
trattare qualcosa con noi puoi rivolgerti a me, sono ancora
l'ambasciatrice».
La regina parve rasserenarsi. «Mi avete già
dimostrato la vostra amicizia quando mi avete sostenuta nella mia
candidatura alla corona, e per ora non chiedo altro che essa sia
forte e duratura».
«Lo sarà».
«Lasciateci» mormorò,
rivolgendosi ai Falchineri in piedi intorno e dietro al suo modesto
trono.
Loro eseguirono e Nasuada si alzò per venirmi incontro.
Era ancora ben visibile la sua magrezza eccessiva, diretta
conseguenza dei giorni di prigionia sotto le grinfie di Galbatorix.
Le ferite erano state curate e le cicatrici cancellate da Trianna in
persona, anche se mi aveva detto che la donna aveva voluto a tutti i
costi mantenere quelle della prova dei lunghi coltelli.
«Come ti
senti?» le chiesi automaticamente, prima di potermi fermare.
Era
ovvio che non stava ancora bene e che avrebbe impiegato mesi per
tornare in piena forma, com'era ovvio che, per orgoglio, mi avrebbe
detto che tutto andava alla perfezione.
«Vorrei che tu mantenessi
per te ciò che hai sentito fuori dal palazzo di
Galbatorix» disse
invece. «Ciò che è accaduto tra me e
Murtagh è qualcosa di
strettamente personale e sarebbe meglio che non si sapesse in giro.
Murtagh è malvisto da molti uomini e io non posso e non
voglio
mettere in pericolo la mia posizione».
«Puoi fidarti di
me».
Forse si aspettava un rimprovero, o almeno delle domande,
perché parve sorpresa alla mia pronta risposta.
«I cavalieri
sono immortali, non è vero?» chiese infine,
retoricamente.
«Sì»
le dissi comunque.
Le tremò il mento. «Non tornerà mai
più,
non è vero?»
Esitai. «Ha subito violenze inimmaginabili. Più
di quante ne abbia dovute subire Eragon o io o te. E inoltre la gente
è lenta a dimenticare. Non posso dirti se Murtagh
manterrà la sua
promessa, Nasuada, ma temo che non lo vedrai tornare prima di un
decennio».
«Non sono una debole», si affrettò a
giustificarsi,
«non lascerò che una sciocchezza come l'amore
annebbi il mio
giudizio e metta a rischio ciò che ho conquistato. Credo di
poter
essere una buona regina e so che per esercitare questo mio ruolo non
potrei mai e poi mai sperare in un'unione con Murtagh».
«Non
ufficiale, almeno».
Nasuada mi parve un poco scandalizzata dal
mio commento, ma poi lo sconvolgimento lasciò spazio a nuovo
dolore.
«Io non mi sposerò mai, Arya. Mai. Forse mi
priverò delle gioie
che ogni donna anela, ma non voglio essere come tutte le altre. Ci
sono avventure molto più grandi di quella di sposarsi e
avere figli
e io sarò sempre e prima di tutto una regina».
«Questa è una
scelta che ti fa onore, ma fossi in te non sarei così
precipitosa.
Sei ancora molto giovane».
I suoi occhi scurissimi si
socchiusero. «A volte ti invidio. Te e ogni altro elfo. Voi
avete
davanti l'eternità, a me sembra di avere così
poco tempo a
disposizione per realizzare tutto ciò che ho in mente. Io
posso
vivere una vita sola, con un'unica direzione, mentre voi avete anni e
anni per potervi reinventare un'infinità di volte».
«Chi vive
di più ha più tempo per soffrire»
osservai.
«E più tempo per
dimenticare».
Le regalai un cenno ammirato. «Hai ragione, ma
sono sicura che riuscirai a fare grandi cose nei pochi anni che ti
restano da vivere».
«E tu? Cosa farai una volta tornata ad
Ellesméra?»
«Vorrei continuare a fare da tramite tra i due
popoli, ma non è escluso che io mi prenda qualche anno di
riposo.
Sono settant'anni che corro incessantemente da un angolo all'altro di
Alagaësia e credo di volermi fermare, per un decennio o
due».
Così
da crescere mia figlia adeguatamente, magari.
Aggrottò
la fronte. «Mi piacerebbe che tu mi confidassi ciò
che mi nascondi
da mesi, prima o poi».
«Forse un giorno lo farò».
«Allora
spero che il nostro prossimo incontro avvenga molto presto. Parti
pure quando vuoi. E porta alla tua gente i miei ringraziamenti e i
miei omaggi».
«Sarà fatto».
«Che le stelle ti proteggano,
Arya» disse, ricordandomi all'improvviso che ero stata
proprio io ad
insegnarle le formule di saluto del mio popolo.
«Lo stesso per
te».
Riferii a Blödhgarm la mia
intenzione di dirigermi a mia
volta verso la Du Weldenvarden, poi andai alla ricerca di Angela, per
salutarla. L'incontro finì per durare almeno un'ora,
perché la
Venerabile insistette affinché le raccontassi le mie
disavventure
tra i Sacerdoti.
Lo feci, ma mi concentra molto sugli aspetti
della dottrina che avevo imparato da Gagnsamr e poco sulle persone
che avevo conosciuto. Cercai di parlare il meno possibile di Durza e
non accennai proprio ad Athala ed Augyra. Fui sul punto di chiederle
se fosse un Inarë e nel caso di una risposta affermativa, cosa
fosse. Ma poi mi dissi che avrei solo rischiato di mettere in
pericolo Augyra e Arcaena, anche se l'erborista sembrava conoscere
bene la setta, dato che aveva detto di conoscere il suo più
eminente
scrittore -che doveva essere Eslant. Mi fidavo del giudizio di
Angela, ma temevo anche la sua ira, quindi mi cucii la bocca.
«Buon
viaggio Arya! Fai la brava e non invischiarti in cose che
preferiresti non fare».
«D'accordo» replicai, incerta. «Buona
permanenza ad Ilirea».
«Le hai dato un nome, alla fine?»
domandò scuotendo la selva di ricci.
«Non ancora, ma un giorno
te la presenterò come si deve» promisi.
«Perfetto! A presto
allora! Ah e salutami Alba, era molto allegra quando è
venuta a
trovarmi, ieri sera».
Tornai alla stanza che mi era stata
assegnata, nella vecchia caserma dei soldati imperiali.
«Sei
pronta a partire, principessina?» fece Alba, con il suo
solito tono
annoiato.
Non so chi dei due avesse trasmesso l'abitudine
all'altro, ma era un modo di parlare che aveva in comune con
Durza.
«Partirò domattina. Ho chiesto a Däthedr
di lasciarmi
due cavalli elfici nelle scuderie» dissi, poi rimasi in
silenzio,
aspettando che l'elfa assimilasse l'informazione.
«Due» ripeté
dopo un po'. «Ma la tua bambina non sa ancora andare a
cavallo, che
io sappia».
«Mia madre è morta e con lei il tuo esilio. So che
hai covato rancore nei confronti degli elfi per decenni, ma in
realtà
nessuno di loro -a parte il Consiglio- è al corrente di
ciò che hai
tentato di fare. So che i membri del Consiglio avrebbero preferito
una soluzione meno estrema per te e sono sicura che se tornassi non
ti scaccerebbero, non dopo tutte le perdite che abbiamo subito in
questa guerra».
Pensavo ad una simile soluzione dal giorno
seguente alla sconfitta di Galbatorix. Oramai mi sentivo in debito
profondo con Alba e anche ancora un poco in colpa per il trattamento
che la mia defunta madre le aveva riservato. Ogni suo passato
tentativo di farmi del male era dimenticato.
Tuttavia Alba non
sembrava entusiasta dell'idea. «Mi stai parlando di
“se” e
“forse”. Non voglio rischiare assolutamente che si
replichi ciò
che mi è già accaduto in passato, quindi capirai
che non posso
accettare la tua proposta, non finché non avrò la
certezza che non
mi sarà fatto alcun male». Mi guardò di
sbieco. «Io e te non
siamo amiche, lo sai, vero?»
Accennai un mezzo sorriso. «Lo so
bene di non piacerti. Ma da ciò che mi hai detto mi pare di
capire
che non ti disgusti l'idea di tornare ad
Ellesméra».
«No»
confessò, pettinandosi i capelli biondi tra le dita e
cominciando ad
acconciarli sulla testa. «Ma prima di tutto voglio tornare a
far
visita a Tenga, poi se mi dirai che posso tornare in tutta sicurezza,
potrei anche pensare di raggiungerti ad
Ellesméra». Alzò gli occhi
su di me. «Immagino che diventerai regina».
«Alba io non
diventerò regina, non voglio» spiegai, al limite
della pazienza.
Perché tutti sembravano tanto ansiosi di darmi il titolo che
era
appartenuto ad entrambi i miei genitori?
Si strinse nelle spalle.
«Come vuoi tu. Pensi di riuscire a metterti in contatto con
me?»
«Parlerò con Däthedr e gli
chiederò di sottoporre la tua
questione al Consiglio. Quando avranno emesso il loro verdetto ti
manderò un messaggio con una barchetta d'erba».
«Ma davvero?»
mi sfotté con una smorfia.
«Sono molto brava» mi difesi
scherzosamente.
«Non ne dubito. Come farai con la bambina?»
chiese annuendo nella direzione della piccola.
«Non la
nasconderò, ma credo che continuerò a mentire.
Dirò che mi occupo
di lei, ma che non sono sua madre. Il racconto delle sue origini
sarebbe troppo complicato e potrebbe costarle il futuro».
Alba
legò l'estremità della treccia con un legaccio.
«Sarà dura
mentire dovendo parlare nell'antica lingua».
«Me la caverò».
«Il
secondo cavallo elfico.. Posso usarlo?» I suoi occhi
scintillarono.
«Non ne cavalco uno da decenni».
Le feci cenno di accomodarsi.
«È rimasto qui solo per te. Lo riporterai nella
sua patria quando
verrai ad Ellesméra».
«Allora sbrigati a mandarmi la tua
fantomatica barchetta, Principessina». Rise.
Mi chinai su mia
figlia e la strinsi a me. «Buon viaggio!»
«Aspetta, ho un
regalo per te» mi bloccò, rovistando sotto al
pagliericcio. Mi
porse uno strano insieme di stecche di legno e pelle, poi lo
aprì e
capii finalmente di cosa si trattasse.
«Uno zaino per la
bambina?»
«Così la porterai più comodamente. Gli
umani sono
geniali in queste cose».
«Grazie».
«Non voglio più nemmeno
questa» bofonchiò sfilandosi la collana di Durza.
La riaccolsi
con gioia e indossai addirittura l'anello di ametiste, che da mesi
non mi cingeva più l'indice sinistro.
«È bello riaverla».
«E
trova un nome a quella marmocchia o lo farò io al posto
tuo!»
Partii il mattino seguente, quando il sole non era
ancora sorto e Aiedail brillava nel cielo. Avevo lasciato a Nasuada
una lettera da consegnare ad Eragon e poi avevo deposto l'uovo verde
in una bisaccia di pelle che mi ero messa a tracolla. Come facevo un
tempo con quello di Saphira.
Speravo che il Cavaliere non
considerasse presuntuosa la scelta di prendere con me l'uovo, ma
ritenevo che il mio popolo avesse diritto al primo tentativo.
Usai
lo zaino di Alba per trasportare la mia bimba e mi premurai di
avvolgerla bene in coperte imbottite. L'inverno era alle porte e il
freddo cominciava a calare. Entro un mese le prime nevi avrebbero
coperto le regioni settentrionali di Alagaësia.
A quasi un anno
dalla mia cattura da parte di Durza, la mia vita era totalmente
rivoluzionata, ma ancora non era finita.
Era il tramonto del
dodicesimo giorno di viaggio quando, dopo essermi occupata di mia
figlia, misi sulle ginocchia l'uovo verde -come facevo ogni giorno- e
lo sfiorai con la malinconia, saggiandone la superficie liscia sotto
i polpastrelli.
L'intento era quello di rilassarmi un poco in
vista della nottata che mi attendeva: gli incubi non mi avevano
ancora abbandonata e spesso la piccola si svegliava nel bel mezzo
della notte.
Quando l'uovo iniziò a tremare non riuscii a credere
a ciò a cui stavo assistendo. Lo posai a terra, sbigottita,
fino a
che il tremito non divenne convulso, la superficie piana fu solcata
da crepe e una testa serpentina emerse dai frammenti.
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Saaalve! Sono in ritardissimo, lo so! >_<
Ma almeno consolatevi con un capitolo un bel po' più lungo del solito ;)
D'ora in poi se avrò un imprevisto scriverò qualcosa in fondo all'ultimo capitolo pubblicato, quindi se domenica dovessi tardare a pubblicare il prossimo capitolo aggiungerò una scritta qui sotto!
Per quello di oggi non so esattamente che dirvi.. Ho dato la mia interpretazione di Occhi di lupo e Cantalama e capisco benissimo che può non piacere (Chissà cosa aveva in mente Paolini!) ma a me non dispiace così ^_^
Vi saluto e ci vediamo spero domenica!
Baci, baci,
Lalli