4. Meeting
Mi posai gli occhiali
da sole sul piccolo naso all'insù e mi avviai per il portico fuori dall'aula dove avevo avuto lezione.
Erano le cinque e avevo passato tutta la giornata in università, ma di lì a una
mezz'oretta sarei dovuta andare ad incontrare l'uomo e
il suo manager in una via che mi aveva mandato il professore per e-mail.
Sbuffai quando vidi le prime gocce cadere e mi tirai su il cappuccio della
felpa, stringendomi al petto il libro di arte contemporanea.
«Non è ormai tardi per gli occhiali da sole?»
«John!» lo salutai con la voce senza fermarmi o
voltarmi. Era un ragazzo socievole e carino, ma ultimamente mi scocciava il suo
girarmi sempre intorno. Dovevo ammettere che dall'ultima volta che avevo amato
e sofferto non avevo avvicinato più nessuno a me.
Avevo avuto amici di sesso maschile o storie, ragazzi che magari riuscivano
anche a farmi sentire voluta e mi davano attenzioni su attenzioni, ma mai
nessuno mi era entrato nel cuore come lui.. pensarlo
ancora induceva dolore, nonostante fosse passato un anno.
Quante volte mi ero sentita urlare che ero solo una fredda insensibile?
Sinceramente non volevo che capitasse ancora, ero giunta a Londra per
incominciare una nuova vita e doveva esserci anche una nuova Ginevra.
Mi voltai e aspettai che mi raggiungesse. Lui, come al
solito, era sorridente, aveva solo gli occhi un po' stanchi e i capelli
leggermente più spettinati del solito, ma stava bene. Dovevo ammetterlo, era
proprio un bel ragazzo, eppure sentivo il cuore di ghiaccio. Non provavo nulla,
nemmeno quell'eccitazione iniziale che si prova nel conoscere qualche persona
nuova.
Dannazione Ginevra, guarirai mai da quelle ferite?
Forse era solamente la giornata, ero estremamente metereopatica e quella leggera pioggerellina che mi
increspava i capelli mi innervosiva solamente.
«Stai andando ad incontrare Jamie Dornan?»
mi chiese nel suo classico tono cortese, da perfetto inglesino.
Tirai fuori dalla tasca del giubbotto un pezzo di carta con scritta sopra la
via e glielo mostrai, fingendo un sorriso.
«Yep, non vedo l'ora.»
Lui scoppiò a ridere, divertito dalla mia finta eccitazione.
«Sei sicura di essere italiana? Potrei dire che il tuo
umorismo è particolarmente inglese», mi sfottè lui.
Alzai gli occhi al soffitto, «italiana al 100%, certificata – feci dei
passi all'indietro – ora devo proprio scappare, secondo te non mi perderò almeno una volta prima di arrivare da lui?»
John, sorridendo a ciò che avevo appena detto, alzò una mano in segno di saluto
e si allontanò dalla parte opposta.
Meritava decisamente almeno l'occasione di diventare
mio amico.
Ero arrivata, ero arrivata alla villa poco fuori città,
senza nemmeno perdermi una volta.
Gin, sveglia, alla fine hai optato per un taxi invece
che per la metro e il pullman, è normale.
MaPossibile che il mio grilletto parlante interiore
non si stancasse mai di mettermi i punti sulle i?
In ogni caso, mi trovai di fronte al grande portone e mi tremavano le mani; non
tanto per chi sarei andata ad incontrare di lì a poco,
ma al pensiero di entrare in quella villa troppo grande e mettermi di fronte a
persone sconosciute, che non parlavano la mia stessa lingua, mi infondeva ansia.
Suonai il campanello e aspettai che qualcuno mi venisse ad aprire. Nella fretta
nemmeno mi accorsi che avevo ancora il libro di arte contemporanea tra le mani
e dato che mi ero cambiata in taxi, provocando le risa del conducente
dall'occhio lungo, nella borsa non c'era più spazio per esso, era già gonfia
con la mia felpa bordeaux.
Perfetto, Gin, sei sempre la solita!
Vuoi zittirti brutto grillo parlante?
«Lei sarebbe?»
Mi trovai di fronte un energumeno enorme, che evidentemente doveva essere il
portiere o qualcosa del genere, ma che in me provocava un certo imbarazzo. Era
dieci volte la mia stazza e io ero una ragazza particolarmente
bassina.
«Ehm, sono Ginevra, Ginevra Ghibelli, sono qui per
incontrare Jamie Dornan», e nel dire quella frase mi impappinai più di una volta.
L'energumeno guardò su di un foglio all'interno di una cartellina, poi parlò.
«Sei la nuova regista, la ragazza dell'università?»
Che emozione, ero stata chiamata regista! Io, una
regista.
Annuii, ancora in imbarazzo ed entrai nel grande palazzo, dopo che l'uomo mi
fece passare.
«Può aspettare un attimo qui? La faremo accomodare
subito», e se ne andò, come era apparso.
Rimasi ad aspettare inebetita lungo il corridoio d'ingresso, dalle pareti ocra
e la moquette bordeaux, arredato da quadri con cornici
che sembravano molto preziose e vasi dalla linea classica, contenenti grandi
piante verdi e rigogliose. Era tutto stupendo e di gran classe dovevo
ammetterlo.
Non potevo ancora crederci; era vero che quell'uomo non mi era andato a genio
all'inizio, ma guarda dove mi avevano portata.
Quando una ragazza, in tenuta da lavoro, mi chiamò,
dovetti ritornare con i piedi per terra, fuori dai miei sogni futuri di regista
affermata che mi elettrizzavano alla sola idea.
Mi fece accomodare su di una poltrona in stile ottocentesco in una sala ampia,
dal soffitto alto, e arredata sempre in stile classico, con colonne doriche e
massicce ai lati. Di fronte a me, sopra un lussuoso tappeto, c'era un tavolino
di vetro, dove al centro su di un vassoio di argento erano poggiati alcuni
alcolici, e al di lì un divano, rivestito nello stesso materiale e stile della
poltrona in cui sedevo io.
Ero rimasta di nuovo sola, quindi ne approfittai per mettermi comoda.
Appoggiai la mia grande borsa alla mia destra e accavallai le gambe, prendendo
una posizione che pensai potesse sembrare elegante. Non volevo fare brutta
figura e soprattutto, anche se ero solamente una studentessa dell'università,
volevo mostrarmi il più professionale possibile. Eppure non riuscivo a fermare
il tremore delle mie dita che tamburellavano ansiose sul mio ginocchio nudo. Ero
sempre stata una ragazza ansiosa.
Improvvisamente una porta in fondo alla stanza si aprì di scatto mostrando un
uomo alto, elegante e pacato, seguito subito dopo da
un uomo che doveva essere il suo manager.
Mi alzai in piedi il più velocemente possibile, come se avessi ricevuto una
scarica elettrica, pronta a riceverlo.
«Buongiorno», mi salutò l'attore avvicinandosi, ma
immediatamente lo vidi fermarsi per squadrarmi bene in volto. Avevo il trucco a
macchie per caso? I capelli in disordine? Qualcosa che non gli andasse bene? In
fondo mi ero preparata in un taxi. Mi morsi il labbro e presi coraggio.
«Buongiorno», ma la mia voce uscì in un
sibilo.
Era veramente bello,
molto più che in foto o sullo schermo di un cinema, e quei suoi due fari grigi mi stavano analizzando troppo intensamente.
Un sorrisetto
compiaciuto gli si dipinse in volto prima di dirigersi verso il divano, dove si
sedette. Quella situazione mi disorientò, ma cercai di
non farmi distrarre e mi misi nuovamente seduta anche io. Il suo manager mi
venne incontro e si allungò per darmi la mano.
«Greg, piacere.»
«Ginevra», feci lo stesso,
stringendogliela.
«Bel nome», intervenne subito Jamie Dornan, mentre si sistemò la giacca grigia, quasi dello
stesso colore dei suoi occhi.
Arrossii e balbettai un grazie, non riuscivo a comprendere il motivo per cui mi
incuteva tutto quel timore.
«Ovviamente sai chi sono io, no?»
aggiunse.
Il suo tono così sicuro
e strafottente mi innervosì e così non riuscii a
bloccarmi dal rispondergli acidamente. «Prima di dovermi informare per venire qui no, sinceramente.»
Lo vidi alzare un
sopracciglio, la mia risposta non gli piacque.
«Allora, conclusi i convenevoli, direi di passare alla questione»,
iniziò Greg. «Siamo stati contattati dal tuo
professore, dovresti girare un video documentario su Jamie, giusto?»
Annuii e lui
continuò.
«Posso avere il tuo curriculum?»
Presi la borsa e tra
le migliaia cianfrusaglie all'interno tirai fuori il curriculum, cercando
intanto di incastrare il libro di arte che proprio non ci voleva stare.
«Scusate», bofonchiai, mentre la sfida tra me e il
libro aveva inizio.
Una volta trovato lo porsi al manager che lo aprì e
diede una scorsa veloce.
«Sei italiana?» chiese, senza alzare lo sguardo dai
fogli.
«Esatto, Toscana.»
«Di Firenze, vero?» si intromise l'uomo, che intanto non
aveva smesso un attimo di fissarmi, con un sorriso saccente dipinto sul volto.
Mi bloccai. Come faceva a saperlo? Evidentemente aveva buttato a caso, Firenze
era una città conosciuta in tutto il mondo per le bellezze culturali di cui
disponeva.
Annuii, arrossendo un poco.
«Noto che hai preso tutti trenta ai tuoi esami,
l'abbiamo trovata anche secchiona», disse il manager, complimentandosi con me,
che arrossii ancora di più, se era possibile.
«E si sa persino divertire, quindi Greg concordo. E'
fatta per noi», disse Jamie, guardando con sguardo d'intesa colui
che lavorava per lui.
Adesso questo mi doveva spiegare che cavolo voleva dalla mia vita.
Sorrisi forzatamente e ripresi il mio curriculum, non appena Greg me lo porse.
«Inizierai a lavorare dalla prossima settimana, okay?»
m'informò il manager, alzandosi in piedi, così feci anch'io.
Annuii e gli strinsi nuovamente la mano.
«E' un piacere lavorare con lei, metteremo una buona
parola con la sua università», concluse, prima di salutarmi e andarsene verso
la porta da dove erano entrati.
Jamie, invece di andarsene subito anche lui, si avvicinò a me con le mani nelle
tasche dei pantaloni.
«Penso che tu abbia una cosa che mi appartiene», mi
disse, mostrando un sorriso disarmante.
Da vicino i lapislazzuli che aveva al posto degli
occhi erano ancora più scintillanti.
Aggrottai la fronte, «cosa? Non ti seguo, scusami.»
«Una giacca blu ti dice nulla?»
Spalancai gli occhi; come faceva a saperlo?
«Hai un foglietto di carta e una penna?» mi chiese,
non vedendo segni di vita da parte mia.
Abbassai lo sguardo verso la mia borsa, cercai un quaderno e quando lo trovai ne staccai una pagina, porgendoglielo insieme ad una bic che
avevo preso dall'astuccio.
Feci tutto con un'espressione interrogativa dipinta sul volto. Le battutine di
poco prima, la giacca.. per quale assurdo motivo
doveva appartenere proprio a lui? E perchè non ricordavo minimamente di aver
visto dal vivo il suo volto prima di allora? Domande che mi balenavano in testa
velocemente, senza darmi tregue.
Lui intanto scrisse qualcosa e poi mi ridiede sia la penna che
il pezzo di carta.
«Chiamami un giorno di questi.»
«Jamie?!» lo richiamò il suo manager al di là della
porta.
«Arrivo», rispose con tutta la tranquillità di questo
mondo.
Abbassai il volto sul foglietto di carta, dove si trovava appuntato un numero
di telefono. Non capivo tutta la situazione, sembrava seriamente irreale.
«Vorrei indietro la mia giacca prima di lunedì», e con un sorriso smagliante,
degno di un attore di Hollywood, se ne andò anche lui,
facendomi rimanere sola nella stanza.
No, dire che non ci stavo capendo nulla era riduttivo.
JAMIE
«No, ma l'avete vista?» chiese Greg estasiato, subito
dopo aver chiuso la porta della sala dove si trovava quella che sarebbe stata
la nostra regista personale per non so quanto tempo. Di solito era un uomo
risoluto e attento solo agli affari, ma la ragazza doveva averlo colpito
seriamente per fargli scappare un commento simile.
«E' una semplice ragazza», gli risposi, affiancandolo.
«Infatti non ci stavi provando, vero?», mi punzecchiò.
«Per me non è niente di che», dissi gelido, fulminandolo con lo sguardo, «e
sono sposato Greg.»
Questa mia
affermazione lo fece tornare al suo ruolo.
«Certo, mi scusi.»
Scoppiai a ridere, «ci
cadi sempre, idiota!»
Lui si bloccò un
attimo, poi rispose. «Sei un lurido figlio di puttana,
Jamie. Questa storia che ti prendi gioco di me perchè sei il mio capo finirà
presto.»
«Certo, certo.», lo sorpassai con un
sorriso beffardo dipinto in volto e me ne andai verso l'uscita sul retro,
diretto alla mia macchina.
Greg sapeva tutto di
me, sapeva di tutte le volte in cui avevo tradito mia moglie,
di tutte le volte in cui mi sentivo distrutto, ma ahimè il tradimento era nella
mia indole. Amavo la donna che avevo sposato, tantissimo, ma amavo molto di più
flirtare con le ragazzine che mi sbavavano dietro.
Oddio, non che quella
Ginevra fosse come le solite fans o donne che
incontravo, ma forse per quello mi intrigava. Era un gioco per me, niente di
più.
Sì, sarei potuto
sembrare un mostro, con il volto da angelo, che nella vita di tutti i giorni, a
casa propria con sua figlia e sua moglie, a lavoro con i colleghi, era un
ragazzo d'oro, dedito all'amore per i suoi familiari e per i suoi ruoli, ma che
nascondeva questo segreto di perversione all'interno di sè.
Alla fine non c'era
niente di male nel trarre piacere a giocare con le donne. O almeno fino a quel
momento era così che la pensavo.