Rimembranze
Negligentemente
schiacciai il pulsante e l’imponente cancello si
aprì automaticamente,
scorrendo sulle ruote sotto di esso e provocando un cigolio metallico.
Riponendo poi il telecomando ed oltrepassando il cancello con la mia
fedele
Mini Cooper, mi accorsi che nel giro di quattro anni casa mia era
completamente
cambiata: da una semplice casa a due piani in campagna si era passati
ad una
maestosa villa di quattro piani con giardino annesso, la quale avrebbe
fatto
invidia a un senatore. La cosa mi fece sorridere a pensarci bene,
perché se non
fosse stata per la mia decisione di diventare ciò che ero
diventata non avremmo
mai avuto certe possibilità.
Scostando
così i pensieri che
mi tartassavano la
mente, parcheggiai l’auto in garage e mi diressi verso
l’entrata della casa per
poi arrivare al terzo piano. Pensandoci bene, non tornavo a casa da
qualche
settimana poiché le missioni duravano sempre più
spesso ed erano sempre più
frequenti. Era piuttosto difficile riuscire a rilassarsi in casa
propria per chi
faceva il mio stesso lavoro ed ero cosciente che di lì a
poco le cose sarebbero
incrementate. Non era possibile! Ero tornata finalmente a casa da
neanche un
quarto d’ora per rilassarmi e l’unica cosa a cui
ero capace di pensare era il lavoro.
Stavo diventando matta! Mi diedi un paio di schiaffi sulle guance e mi
accasciai sul divano, poi presi il mio Blackberry guardando le
notifiche dei
social network e le e-mail in arrivo sperando così di
distrarmi un po’. E dopo
tre ore buone, a scorrere velocemente con non curanza tra messaggi e
avvisi,
l’occhio mi cadde su un messaggio del mio capo che mi
augurava buon rientro e
mi obbligava a un riposo forzato. Probabilmente aveva in serbo per me
una
quantità esorbitante di missioni, oppure ne era prevista una
che mi avrebbe
assorbito tanto tempo prima di ritornare a casa.
Fatto
ciò mi alzai e andai in cucina a preparare qualcosa per
l’aperitivo pomeridiano.
Quando, però, mi avvicinai alla grande isola al centro della
stanza un brivido
mi percorse la schiera e andai in preda al panico voltandomi verso la
ciotola
del mio pastore tedesco. Cosa era successo? Star, il mio cagnone, non
era
ancora venuto a salutarmi e, come al suo solito, non mi aveva ancora
travolta
dalla felicità di vedermi. Dove era? Andai in paranoia
cercandolo in ogni stanza
della casa non trovandolo, mi affannai e cominciai a preoccuparmi
seriamente
per il peggio. Allora cominciai a correre fino a raggiungere il centro
del
giardino sperando di trovarlo, ma niente. La testa mi pulsava, il
sangue
accelerò e cominciai ad ansimare, una sensazione di
compressione s’impadronì di
me e mi accasciai a terra. Ma che stavo facendo? Dovevo riprendermi!
In
un lampo di lucidità presi coscienza di me e affinai i miei
sensi che ormai avevo
imparato a temperare per via del mio lavoro. Cominciai a respirare
regolarmente, chiusi gli occhi e mi concentrai sull’udito. I
suoni della
campagna riecheggiavano vorticosi nel mio giardino e affollavano la mia
mente,
fino a quando non sentii un breve e flebile ma cadenzato mugolio. Aprii
gli
occhi e mi concentrai sulla direzione da dove proveniva il suono, mi
alzai di
scatto e corsi velocemente fino al confine della mia
proprietà. Finalmente, lo
vidi ad una ventina di metri oltre il recinto in pietra. Lieve sollievo.
Dovevo,
però raggiungerlo. Così a tre metri circa di
distanza dal muretto presi la
rincorsa e saltai l’ostacolo cadendo oltre esso ed
effettuando una capriola per
attutire l’impatto con il terreno. Normale routine per me,
anche se per una persona
comune un muro di due metri non è così facile da
scavalcare.
Mi
rialzai, modestamente con molta eleganza, e andai verso Star che era
bloccato
in una trappola per conigli, di quelle con le tenaglie. Maledetti
bastardi! Ma
cosa gli costava cacciare in modo meno cruento e pericoloso per gli
altri? Così
mi mossi andando in contro al mio fedele cagnone che perdeva sangue da
una
zampa, ma mentre mi avvicinavo misi un piede in una zolla instabile e
caddi
avendo la sensazione che l’albero più vicino si
muovesse a grande velocità
contro di me.
*****
Sbuffo
mentre percorro la via principale del piccolo e insignificante paese in
cui
vivo. Mia madre mi ha costretto a comprare delle spezie per i dolci di
nonna da
quel rintronato di Sor Tonio, che sarebbe bene rinchiuderlo in una casa
di
cure. È fuso ormai! Infatti quando mi consegna lo scontrino
da riporre in
busta, perché guai se lo perdessi (mia madre mi
ucciderebbe), mi fa: -Cosa le serve
oggi, mia cara signorina?- Impulsivamente mi batto una mano sulla
fronte per
poi passarmela sul viso. Ma mi domando io, cosa ho fatto di male per
relazionarmi con esseri del genere? Eppure la risposta è
semplice, perché sono
io ad essere fuori posto.
Così
trascinando i piedi a terra per la noia e avanzo lungo la strada che
porta a
casa di mia nonna, un’altra rintontita a causa della
vecchiaia, con l’eccezione
di possedere un cuore grande quanto una collina. Malgrado tutto, sono
felice
solo per il fatto di vederla ed un sorriso mi spunta salendo le scale
di casa
sua, ma sono costretta a fermarmi e a lasciare la borsa della spesa
sulla
panchina in ottone, dopo il cancelletto in ferro battuto stile
‘800, proprio
davanti la porta. Qualcosa con un forte bagliore ha attirato la mia
attenzione,
così mi volto verso l’agglomerato informe di
salici piangenti lì vicino, dove
Giagià, Sasà, Mena, Nicolai, Peppe e Annina
stanno parlando animatamente.
Scendo
a rotta di collo dalla scalinata e li raggiungo oltrepassando il
piccolo
giardino comunale che li antecede. Non si accorgono subito che sono
vicina a
loro e solo quando Annina alza la testa le loro espressioni cambiano.
-Anniè!-
esclamano in coro sorpresi -Scusaci, non ti avevamo visto.- continuano
imbarazzati ed effettivamente dispiaciuti.
-Non
c’è problema.- li rassicuro con voce calma e come
sempre autoritaria, mettendo
il braccio sulla spalla di Sasà, il più piazzato
del gruppo. Loro si
irrigidiscono un attimo, ciò mi fa capire che
c’è qualcosa che non va, ed io
gli rivolgo uno sguardo che lascia intendere ciò che voglio.
Sono abituati ai
miei modi e sanno che devono sputare al più presto il rospo.
Così dopo un
momento di esitazione Nicolai parla per tutti.
-Ania,
aiutaci.- chiede supplichevole.
-Che
avete combinato questa volta?- chiedo un po’ seccata e
infastidita dalle loro
continue azioni impulsive che inevitabilmente portano a qualcosa di
tragico.
-Anniè,
fu una cazzata!- dall’affermazione e
dall’espressione di Giagià provo un leggero
timore per ciò che possono aver fatto e mi sposto in una
posizione più eretta
che certamente risulta minacciosa per il gruppo.
Dopo
che mi fanno perdere un battito al cuore mostrandomi la pistola che
Mena porta
nella tasca dell’ampia gonna turchese, li guardo infuriata e
immediatamente gli
faccio segno di sparire da là.
Ci
dirigiamo velocemente verso il nostro rifugio segreto, la casa
abbandonata
dietro il vecchio forno, passando per i campi. Una volta arrivati
lì mi
assicuro che nessuno ci ha seguiti e poi furiosa tiro un ceffone alla
nuca di
Peppe, sapendo che è lui il casinaro del gruppo. Mi scosto e
mi siedo sul
grande ceppo, sistemato appositamente al centro del vecchio rudere,
seguita dai
miei coetanei che si siedono intorno a me sui ceppi più
piccoli.
-Ora
mi spiegate tutto!- dico ferma e decisa, forse un po’ troppo
burbera rispetto
al solito, incutendo timore a quei deficienti di amici che mi ritrovo.
-Eravamo
nell’aranceto di Mastro Peppino e…
beh…- per quanto Nicolai sia il migliore del
gruppo sotto ogni aspetto, non riesce proprio a non biascicare le
parole, e da
ciò capisco che stavolta l’hanno combinata davvero
grossa. Mi fa un po’ pena ma
non lo do a vedere, anche per non imbarazzarlo, e gli lancio uno
sguardo truce
per fargli capire che deve andare avanti.
-Pepè
voleva fare uno scherzo a quel despota così stava fingendo
di rubagli una casetta
di arance, purtroppo però Mastro Peppino non l’ha
presa bene e siamo scappati.-
-E
la pistola cosa c’entra?- domando indicando
l’oggetto in questione poggiato su
un ceppo al centro del cerchio formato da noi sette.
-L’ho
rubata io …ad uno di quegli scagnozzi che il despota si
porta sempre a presso,
per minacciarli così non ci toccavano.- ammette poi
Giagià deluso da sé stesso
e impaurito dalla situazione. -Anniè, quelli ci stavano
facendo davvero male…
stavano menando Mena e Annina perché non reggevano il
passo… ero nel panico…
non sapevo cosa fare, Anniè!- continua tra il supplichevole
e il terrorizzato.
Ho
davvero degli amici scavezzacollo sempre in cerca di problemi e questa
volta si
sono messi in guai davvero grossi. Mi devo inventare qualcosa al
più presto,
altrimenti qui finisce con qualche testa al cappio. E che mi invento?
Se mi
beccano ci trucidano tutti. Sono preoccupata come non mai: Mastro
Peppino… la
pistola degli scagnozzi… Ma solo ora realizzo che li hanno
visti in faccia,
cavolo!
-Chi
vi ha visto in faccia?- chiedo allarmata sgranando gli occhi mentre gli
altri
mi osservano guardinghi.
-Solo
Geno.- risponde Annina ancora tremante ed io tiro un sospiro di
sollievo
mentalmente.
Bene,
almeno quello è muto e non può accusarli.
Comunque devo fare in modo tale che
non possa far capire che sono stati loro gli artefici di tutto. Forse
con le
“buone” maniere riesco a convincerlo a non
spifferare niente. Prima, però, devo
pensare all’arma e a come sbarazzarcene così non
avranno prove del reato. Che
poi quello da mettere in galera sarebbe Mastro Peppino, insieme a tutti
i suoi
scagnozzi infami. Ha osato non solo toccare i miei amici
bensì ha fatto del
male ad Annina e Mena, se questo si sapesse in giro purtroppo le mie
amiche non
avrebbero scampo per la mentalità ritrosa e bigotta del
paese in cui viviamo.
Devo trovare una soluzione a tutto questo casino.
Guardo
di nuovo l’arma e l’unica idea che mi viene in
mente è quella di venderla in un
negozio apposito per armi, così da sbarazzarcene. Sposto lo
sguardo sugli
altri: nessuno di noi è maggiorenne, non possiamo venderla.
No, c’è Lorenzo!
Lui può venderla tranquillamente, suo nonno è
appassionato di rivoltelle e poi
con l’auto potrebbe effettuare la vendita molto
più lontano da qui. I sospetti
così saranno sviati. In un moto fulmineo degli ingranaggi
della mia mente, che
si mettono in movimento per realizzare i dettagli del piano e
l’inventario di
scuse da propinare agli adulti in caso di necessità,
comincio ad agire da
leader come di mio consueto.
-Sasà,
corri e va a chiamare Lorenzo, portalo qua. Non destare sospetti.- dico
al più
veloce del gruppo, ma lui si accorge della mia smorfia incerta sul mio
viso e
non si muove ancora.
Lorenzo
è fidato? Ne dubito, ci devo pensare bene. Sì, lo
è, lo è sempre stato. Su di
lui si può contare, terrà il segreto. Alzo la
testa e faccio un cenno di
approvazione a Sasà e lui comincia a correre fuori dalla
vecchia casa
abbandonata.
Nel
frattempo che il tempo passi finché Lorenzo arrivi, do una
strigliata a Peppe e
a Giagià per la cazzata appena commessa e gli faccio capire
che hanno messo in
pericolo tutti quanti. Cosa devo fare con questi scavezzacolli?
Finalmente quei
due testoni capiscono l’errore commesso, o almeno spero, e si
siedono abbattuti
in un angolo, in silenzio. Calmata, Annina, Mena e Nicolai mi
raccontano nei
dettagli cosa è successo e rivedo un po’ il mio
piano, preoccupandomi
soprattutto di come mascherare la cosa a occhi indiscreti che vogliono
solo
rovinare la nostra reputazione.
Cammino
avanti e indietro per il rifugio segreto quando vado a sbattere contro
Sasà
poiché ero in sovrappensiero.
-Uhhm…-
rimango un attimo rintontita dalla botta appena presa, ma rinsavisco
subito
vedendo il mio amico che mi mostra la figura sull’uscio.
Così
mi avvicino ad Lorenzo e constato che è un po’ che
non lo vedo, più o meno
dalla riunione della ruga. Lo prendo sottobraccio e senza dire niente
lo
trascino fuori dalla casa. Gli altri lo sanno che devono stare a debita
distanza quando tratto, così restano saggiamente
all’interno. E, mentre ci
avviamo verso l’unico albero rimasto della zona vecchia del
paese, Lorenzo mi
cinge il fianco con il braccio, dopo essersi liberato dalla mia presa,
per poi
stringermi delicatamente a sé. Mi irrigidisco e lo scosto da
me in modo
leggermente brusco.
-Finiscila,
Lorenzo! Sempre là ti sbatte la testa!- lo rimprovero stufa
e irritata dai suoi
modi di fare ogni volta che mi vede. Per questo preferisco parlargli in
privato, probabilmente mi avrebbe fatto fare chissà quale
figuraccia. Lui si
appoggia al tronco sbuffando e fissandosi le Converse nere.
-Lo
sai che con te lo faccio scherzando. Sei ancora troppo piccola
per…- si blocca
imbarazzato dai suoi stessi pensieri che corrono, ma io non me la
prendo per
ciò che dice. So bene cosa intende e cosa vorrebbe fare,
eppure ha il buon
senso di ragionare e tenersi a debita distanza. D’altro canto
neanch’io ci
tengo… ora come ora ho troppe cose a cui pensare. E poi io
ho solo 14 anni e
lui 18… Ma a chi la do a bere? L’età
non ferma nessuno! Semplicemente non c’è
il tempo per pensare a quello in questo momento.
Leggo
istantaneamente la frustrazione nei suoi occhi e decido così
d’intervenire.
-Tranquillo,
io non ci tengo proprio.-
Forse
ho sbagliato, forse l’ho offeso, forse sono stata troppo
aggressiva. Lui fa per
andarsene, dopo avermi mostrato la sua espressione scioccata e
risentita dal
mio tono rude e freddo, ma lo blocco parandomi davanti.
-Ti
ho fatto chiamare perché abbiamo un problema…-
lui mi guarda con quegli occhi da
“e ti pareva che gli servo solo per qualche
tornaconto” -…e mi fido solo di
te.-
Lui
si gira di scatto, incredulo. I suoi occhi sono spalancati, tremanti e
infinitamente affascinanti. Si riavvicina a me e mi abbraccia, come se
gli avessi
rivelato qualcosa che lo ha salvato dalla caduta in un precipizio.
-Che
ti prende?-
-Ultimamente
ho pensato che fossi insensibile a tutto, ma con questo mi hai
confermato il
contrario.- mi dice raggiante, creando in me una sensazione di
confusione.
-Ok.
Tornando a noi, ho bisogno che vendi una cosa il più lontano
possibile da qui e
in modo più anonimo che puoi.-
Lui
mi rivolse lo sguardo di chi è disorientato e io comincio a
raccontagli tutto
in ogni minimo particolare. “Di lui posso fidarmi”
continuo a ripetermi, cercando
di reprimere la mia ostinata diffidenza verso gli altri, ma poi fisso i
suoi
occhi che passano dall’incredulo allo sbalordito,
dall’incerto al consapevole,
per finire poi sul determinato a compiere il proprio dovere e capisco
che posso
fidarmi di lui. Non mi ha mai tradito e porta sempre a termine le
commissioni
che gli affido.
-Va
bene, va a prendere la pistola. Me ne occupo io.- mi dice
accarezzandomi la
guancia e io gli lancio uno sguardo di sottecchi facendogli capire che
gli
ordini a me non li da nessuno. Ho sempre odiato chi me li dava, anche
se erano
detti con dolcezza. Se una cosa la dovevo fare la facevo senza che
qualcuno me
la dicesse, agivo e basta.
Rimango
comunque ammaliata dai suoi movimenti fluidi mentre si sposta
dall’albero per
lasciarmi lì e andare verso la casa abbandonata, io lo seguo
appoggiandomi allo
stipite della porta, o quel che ne rimane.
Lo
vedo avvicinarsi ai ragazzi per prendere l’arma e loro mi
guardano interdetti e
guardinghi. Gli faccio cenno con la testa e loro lo liberano da quella
presa
non effettiva ma attuata solo con l’intenzione di intimorire
l’avversario. Lorenzo
prende la rivoltella e se la infila nel retro dei jeans blu scuro per
poi
uscire taciturno dalla casa, seguito dagli altri.
Attraversiamo
fianco a fianco la strada vecchia di case e ruderi abbandonati del
paese, lui
ed io, mentre gli altri chiacchierano dietro con frasi che pregustano
la
libertà da quella situazione. Giriamo a destra e avanziamo
per la discesa con
l’intenzione di arrivare tutti in piazza dove ci divideremo,
ognuno per la
propria strada, una volta svoltati a sinistra. Ma proprio mentre
svoltiamo
oltre la curva ci imbattiamo nei due dei tirapiedi di mastro Peppino.
Faccio un
cenno quasi impercettibile, colto solo dai ragazzi, di continuare a
camminare
senza fiatare e loro eseguono. Spero che quei due non li riconoscano
continuando a camminare indisturbati. Mi occuperò di quello
che sanno uno volta
venduta la pistola. Purtroppo, però, non siamo
così fortunati da non essere
riconosciuti.
-Sono
quei bastardi!- esclama quello più tozzo dei due indicando i
ragazzi dietro me
e Lorenzo. Cavolo! Ed ora che cosa faccio?
-Dateci
la pistola e non vi sarà fatto niente!- l’altro
intimidisce i miei amici, che
atterriti dalla situazione verosimile arretrano e si stringono tra di
loro per
proteggersi l’un l’altro.
Mentre
Lorenzo e io ci giriamo di scatto annichiliti, uno dei due armadi di
tizi
afferra Mena, dal compatto gruppo venuto a formarsi contro il muro
della
strada, e la tira a sé imprigionandola tra le sue braccia
pelose. La sfortunata
ragazza comincia a urlare e a piangere impaurita. I ragazzi invece
tentano di
strapparla invano, perché l’altro tira fuori un
coltello con cui minaccia
Annina al collo, trascinando anche lei da parte.
I
ragazzi rimangono immobili, non per mancanza di coraggio o
d’iniziativa ma,
perché sanno che muoversi significa procurare del male alle
loro amiche.
-Vediamo
se ce l’hai tu.- dice sghembo con voce perversa lo scagnozzo
che palpa Annina
alla ricerca della pistola mentre la ragazza, pudica e vergognosa ma
anche
impaurita di ciò che lui possa farle in pubblico, si dimena
e tenta di
scollarselo di dosso ma il coltello è troppo stretto alla
gola per poter far molto.
Lorenzo
si volta a guardarmi, istintivamente io faccio lo stesso, e mi fa cenno
ricordandomi che la pistola ce l’ha lui nei pantaloni
nascosta dalla giacca di
jeans sulla schiena. Realizzo così che quei due non
troveranno mai l’arma e le povere
ragazze passeranno un brutto quarto d’ora. La mia mente pensa
al peggio mentre
è confusa sul da farsi. Tutti contano su di me ma non ho
idea di come aiutarli,
riesco solo a guardare impallidita la scena come un’ignava
infame.
Non
trovando niente addosso ad Annina, lo scagnozzo la scaraventa contro la
recinzione che delimita la strada dal burrone sottostante. La vecchia
rete dal
violento impatto si rompe facendo sbilanciare all’indietro
Annina, con il
rischio di essere sbalzata nel precipizio. Fortunatamente Lorenzo ha i
riflessi
pronti e l’afferra prima che sia troppo tardi traendola in
salvo sul bordo
opposto alla strada, trovandoci così ancor più
lontani dalla scena.
A
questo punto sono certa che noi, Lorenzo ed io, non interessiamo ai due
scagnozzi di Mastro Peppino perché non ci degnano di uno
sguardo: è come se
fossimo assenti. Allora sfrutto l’occasione per pianificare
velocemente qualcosa
di utile che ci faccia uscire da questo casino, ma mi blocco
perché vedo
un’altra scena lurida tanto quanto la prima.
L’altro
scagnozzo sta infilando le sue viscide mani sotto la gonna di Mena che
si
dimena tirando pugni all’uomo, ma tutto ciò
è inutile poiché l’uomo sembra
essere immune ai suoi colpi, malgrado Mena faccia male quando colpisce.
Si
avvinghia di più contro la ragazza e la blocca contro il
muro di pietra di una
delle vecchie case, rinfoderando la mano e facendola urlare di dolore e
orrore.
Quando, però, vedo Mena piangere disperatamente non ce la
faccio più e prendo
la rincorsa per scaraventarmi contro il lurido viscido bastardo.
Inaspettatamente
Sasà e Nicolai mi precedono e lo staccano bruscamente da
Mena, che barcollando
sviene tra le mie braccia lanciandomi uno sguardo mortificato e pieno
di
vergogna mista a dolore. In questo momento, giurando di fargli pagare
tutto a
quei bastardi nella maniera più atroce possibile, adagio
Mena a terra vicino ad
Annina e Lorenzo così da toglierla da quel caos.
E
solo quando mi avvicino ad Lorenzo per chiedergli di aiutarmi mi
accorgo che
l’assalitore di Annina mi sta soffocando a mani nude, solo
perché gli abbiamo
tolto il divertimento. Sento la pressione e la sensazione di gonfiore
intorno
agli occhi e quella delle vene, che mi pulsano più
velocemente in modo lancinante
e ostruito. L’aria mi manca, i polmoni mi dolgono, la vista
è offuscata e le
voci mi arrivano flebili e ovattate alle orecchie. Mi accascio a terra
senza forze
ormai, ma l’uomo non sembra di voler allentare la presa, anzi
l’aumenta. La mia
vita sta finendo così, senza dignità e onore, lo
sento, …troppo breve ed
effimera. Tento di ingoiare avidamente l’aria che mi circonda
e vedo in un
istante di lucidità Lorenzo che sgrana gli occhi
afferrandomi e tirandomi a sé.
Impulsiva, lo abbraccio e mi stringo a lui: so che è la mia
salvezza.
Finalmente
riprendo aria e mi volto di scatto verso lo scagnozzo che mi ha
attaccato. Se
ha mollato c’è un motivo, non può
averlo fatto e basta. Infatti Giagià gli
tiene le mani ferme dietro la schiena e gli occhi dell’uomo
sembrano uscire ingrossati
dalle orbite sotto la ferrea presa di Peppe, che lo stritola con rabbia
e
rancore. Esattamente come poco prima l’uomo ha fatto con me.
A un paio di metri
più in là, Nicolai e Sasà tentano di
difendersi dall’altro scagnozzo che hanno
tratto via dalla povera Mena, il quale sfodera a cadenza regolare una
verga
colpendo i miei amici.
La
scena è assurda e non so che fare. Io non so che fare, io
che ho sempre risolto
tutto e grazie a ciò sono diventata il leader, per la mia
forza, ingegnosità,
tenacia, audacia e temerarietà. Non posso ritirarmi adesso,
non posso stare
immobile, non posso e basta!
Mi
volto di scatto verso Lorenzo e le ragazze che si stanno riprendendo,
in lui
scorgo uno sguardo incerto pieno di terrore. Prendo coraggio e mi
avvicino,
poggiandomi su di lui che è semisdraiato a terra, infilo una
mano nel retro dei
suoi jeans e si allarma. Vedendo la sua espressione incredula e
sbigottita, cerco
di calmarlo dicendogli: -Sta calmo. Mi serve la pistola. Non
è proprio il momento
di pensare a certe cose.- Lui mi capisce al volo e si scosta
leggermente
permettendomi di afferrare furtivamente la pistola.
Mi volto di nuovo
verso gli scagnozzi, che
prendono a botte, ferendo a sangue, i miei amici e inizio a tremare
incessantemente. La scena è a dir poco verosimile, credo che
per loro sia la
fine. Tre di loro presentano delle ferite all’addome e al
viso, l’altro ha uno
squarcio sulla gamba destra, e da tutte le coltellate sgorga sangue
come linfa
dal tronco di un albero.
Ho in mano sia la
salvezza che la nostra
distruzione, ho in mano qualcosa di potente che non so usare, ho in
mano
qualcosa che richiede un grande coraggio, ho in mano qualcosa che ho
paura di
usare, ma ho più paura che i miei amici rimangano gravemente
feriti. Non ci
penso oltre. Alzo l’arma, la punto contro uno dei due e premo
tremante sul
grilletto girando la testa di lato. Apro gli occhi dopo un
interminabile istante
e lui è a terra, stramazzato, inerte e la sua bocca libera
troppo sangue. Mi
viene da vomitare… Cosa ho fatto? Mi giro verso
l’altro che mi guarda incredulo
e attonito, ma subito dopo parte alla carica per abbattermi. Questa
volta alzo
la pistola senza esitazione e sparo tenendola con una sola mano. Che mi
sta
succedendo? L’uomo stramazza al terra sul colpo, esattamente
come il primo. Io
sono allibita.
Lascio la presa sulla
pistola e la faccio
cadere, inconsciamente. Mi accascio a terra e mi metto le mani sulla
testa
cominciando a dondolarmi avanti e indietro, come una bambina labile che
presa
dal panico si strappa i capelli. Non posso averlo fatto, io non
posso… non
posso.
Non ce bisogno che
alzo lo sguardo per
vedere i miei compagni fissarmi, lo so che lo stanno facendo
già da svariati
minuti. Sono confusi, increduli, annichiliti e impauriti proprio come
lo sono
io. Ma io sono peggio: faccio schifo… ho ucciso, maledizione
ho ucciso! Io ho
paura, ho paura di ciò che succederà. Mi tormento
il cervello grattando nervosa
ed epilettica la testa, quando sento delle mani caldi e forti che mi
abbracciano e mi cullano dolcemente, come se fossi una neonata
bisognosa di
amorevoli cure. È Lorenzo, sono stupita. Poi delle voci
cominciano a
canticchiare la dolce ninna nanna del nostro paese. Sono gli altri che
si sono
seduti intorno a noi, sono basita. Mi vogliono realmente bene o gli
faccio solo
pena?
La nenia finisce e
Lorenzo allenta la
presa, mi fa scivolare dolcemente fuori dalle sue braccia e mi guarda
dolce e
meravigliato del mio volto. Mi porto istintivamente le mani in faccia
per
asciugarmi gli occhi. Ho pianto e non so neanche come io abbia fatto,
solo ora
me ne rendo conto. Finisco e alzo lo sguardo ancor più
stupefatta perché tutti
mi stanno sorridendo.
-Grazie.- mi dicono
sinceri all’unisono con
una voce alquanto dolce.
Grazie? A me? Con lo
sguardo viaggio oltre
di loro e scorgo i corpi dei due uomini a terra, un forte conato di
vomito mi
assale su per l’esofago, ma rigurgito tutto giù
evitando una brutta scena ai
miei amici che mi stanno ancora sorridendo calmi e dolci e…
grati.
Mi riprendo, non so
neanch’io come, e mi
avvicino a uno dei due corpi afferrandolo per il colletto. È
inutile piangersi
addosso ora, oramai è fatta. Devo trovare il modo di andare
avanti. Devo sbarazzarmi
di loro, guadagnando così un po’ di tempo per
fuggire via. Dove non so, ma
lontano, più lontano possibile.
Non riesco a
trascinarli poiché troppo
pesanti, così riprendo la mia autorità.
-Mi date una mano,
scansafatiche?- sgrido
fingendo di essere stizzita ai miei coetanei, i quali sorridono benigni
perché
hanno capito che mi sono risollevata, raggiungendomi insieme a Lorenzo
aiutandomi a scaraventare i due cadaveri giù dal burrone.
Li buttiamo
giù dal punto in cui poco prima
stava cadendo Annina e richiudiamo la rete alla meglio, sperando
così che ci
impieghino di più a ritrovarli.
-Ma ora che facciamo?
Non posso più vendere
l’arma.- ha ragione Lorenzo.
Devo trovare
un’altra soluzione e alla
svelta, perché vendendo l’arma risalirebbero a noi
e quindi all’omicidio dei
due scagnozzi. L’unica è nasconderla, dove nessuno
può trovarla. Il posto è
difficile da scegliere ma deve essere uno più vicino a me
che agli altri, dopo
tutto io ho premuto il grilletto, sono io l’assassina,
riversare la colpa sui
ragazzi non è giusto. Cerco un posto adatto, nella mia
memoria, mappando
l’intero paese mentalmente, e finalmente lo trovo vicinissimo
a me ma lontano
dagli altri, in caso sia ritrovato l’oggetto.
Alzo la testa e la
punto su Giagià, lo
scruto e mentalmente lo definisco troppo impulsivo, potrebbe mandare
all’aria
tutto quanto. Poi Peppe, il combina guai, che però ha sempre
portato a termine
le sue commissioni in modo esemplare. Sì, lo reputo adeguato.
Guardo tutti a giro e
li faccio avvicinare
a me, poi pronuncio: -Silenzio. Patto di sangue.- Era il nostro solito
patto
quando facevamo casini, ma stavolta lo dissi con più enfasi.
Avevo ucciso,
cazzo! E tutti sapevano che dovevano mantenerlo, altrimenti il
traditore
avrebbe affrontato le conseguenze. In ballo non c’era solo la
mia vita e la mia
reputazione, c’erano anche le loro vite e le loro
reputazioni.
Poi mi rivolsi a
Peppe, azionando il mio
piano: -Peppe, vai a cercare una pala. Appuntamento dietro casa mia, in
giardino.-
-Ce la possiamo fare!-
dico dando speranza
alla comitiva, subito prima che Peppe corra giù verso il
paese a cercare ciò
che gli ho chiesto.
-Noi invece prendiamo
un’altra strada, non
dobbiamo farci beccare.- spero che così i sospetti siano
minori.
Cominciamo quindi
anche noi a scendere
verso il paese per raggiungere il luogo dell’appuntamento,
casa mia si trova
più o meno al centro del paese ma è situata nella
parte bassa di esso. Oltrepassiamo
il corso principale, passando di fronte casa di mia nonna, il campo da
calcio e
le scuole fino ad arrivare sulla strada che porta fuori il paese.
Fiancheggiare
la zona in cui vivevo anziché andarci direttamente mi sembra
una buona idea,
però, non ho preso in considerazione la
possibilità che Mastro Peppino possa
passare da questa stessa strada. Infatti il despota ci avvista a bordo
del suo
Pick Up, che sta venendo nella nostra direzione. Devo pensare alla
svelta. Mi guardo
intorno e l’unica cosa che mi viene in mente è
quella di sederci al pub lì
vicino.
Faccio un cenno alla
mia comitiva che mi
segue tenendo un passo adagio per non insospettire nessuno e ci avviamo
ai
tavolini. Una volta arrivati ci sediamo tutti tranne Lorenzo, che si
avvicina
ad alcuni dei suoi amici. Mossa premeditata poiché Lorenzo
non fa parte della
mia comitiva e già il fatto che sia arrivato con noi ha
fatto in modo tale che
tutti si girassero in modo sospettoso.
Ho ancora la pistola
nel resto dei
pantaloni e il veicolo sta avanzando nella nostra direzione. In un
gesto stranamente
istintivo, reso tale dalla tensione delle circostanze, smonto
l’arma ricordando
le mosse di mio nonno, ex ufficiale militare. Smontata l’arma
sotto il tavolo,
passo svelta i pezzi ai ragazzi, senza farmi vedere da nessuno. Al
contatto col
ferro freddo i miei amici sussultano, ma fedelmente afferrano il
proprio pezzo
e se lo infilano in tasca, proprio mentre Mastro Peppino passa davanti
a noi e
si ferma.
Il mio cuore sussulta
perché, anche se di
spalle, lo so che con la macchina si è fermato proprio
dietro di me.
-Anniettè!-
esulta con la sua voce roca e
alta da baritono.
Mi giro sconvolta ma
il mio viso non
trapela nessuna emozione. Devo essere così se voglio
sopravvivere. Lo guardo
fisso negli occhi sfidandolo, come a voler dire “cosa vuoi da
me”, e aspetto
che continui.
-Poco fa mi hanno
derubato di un oggetto a
me caro… Tu ne sai qualcosa, scimmietta?- finisce con
l’appellativo con cui sono
conosciuta in paese per il mio modo di sfuggire ai guai ed entrarci. Il
suo
modo di fare mi irrita davvero tanto, ma mi trattengo dal replicare.
Così mi volto
verso la mia comitiva fingendo di chiedergli con lo sguardo se sanno
qualcosa e
poi mi rivolto verso Mastro Peppino.
-Non sappiamo niente.
Prova da qualche
altra parte.- cerco di liquidarlo un po’ sfrontatamente, ma
lo vedo nei suoi
occhi e nel modo di poggiare il braccio sul finestrino del Pick Up che
non mi
crede.
Deglutisco e sposto lo
sguardo sugli altri
sedili del veicolo e con un sussulto d’inquietudine avvisto
Geno. Lui sa, ma
non può parlare. Sorrido, tirando inconsciamente un solo
angolo della mia
bocca, al pensiero che assomiglia tanto ad una delle tre scimmiette
“non vedo,
non parlo, non sento”. Purtroppo Mastro Peppino non vede il
mio gesto come
quello che è e lo interpreta male.
-Tu sai, piccola
bastarda!- si altera
fuoriuscendo dal finestrino e afferrandomi per il collo della
maglietta,
facendomi barcollare sulla sedia.
Tutti balzano
sull’attenti, anche chi non
fa parte della mia comitiva. Tutti odiamo l’uomo che mi sta
aggredendo e hanno
un occhio di riguardo per me che li tiro sempre fuori dai guai. Io,
invece, ho una
paura folle che mi scopra per ciò che nascondo nel retro dei
jeans, ma alzo una
mano dietro la schiena per calmare le persone intente ad avventarsi
contro
Mastro Peppino. Devo restare calma, ma soprattutto sembrare di esserlo
agli
occhi degli altri.
-Ascolta Mastro
Peppì, noi non sappiamo
niente. E se tu ti fai fottere le cose sono solo affari tuoi, noi ci
tiriamo da
parte.- lo affronto senza pietà, con una tenacia che non mi
appartiene neanche
e che mi sorprendo da sola di avere. Lo fisso senza mai vacillare e
solo dopo
qualche istante lo vedo indietreggiare lasciandomi.
-Senti… se
scopro che tu centri qualcosa,
ti scavo la fossa.- mi minaccia e se ne va sconfitto, non prima di
scoccarmi
uno sguardo alquanto truce. Io mi risistemo più comodamente
nella sedia
cercando di rilassarmi, poi mi volto verso gli altri attoniti.
I ragazzi ai quali
Lorenzo si è avvicinato,
come del resto le altre persone presenti che non sono della mia
comitiva, mi
stanno guardando in un misto di incertezza e sbigottimento. Mastro
Peppino è
rinomato per i suoi misfatti e per aver messo letteralmente in croce
dei pover
uomini colpevoli solo si essere stati avvistati da lui, è il
tipico despota che
non si fa scrupoli ad ottenere ciò che vuole con la violenza
e se è necessario
uccide con le sue stesse mani senza troppe cerimonie.
Mi irrigidisco un
attimo quando vedo la mia
comitiva alzarsi dal tavolo. Io prontamente afferro il polso di
Giagià, che è
alla mia destra, e mi rivolgo agli altri piuttosto irritata,
lanciandogli uno
sguardo cupo.
-Dove cavolo andate?-
-Al luogo
dell’appuntamento…- avanza
timorosa Mena, ricordando bene di non menzionare il luogo per non
essere
scoperti. Resto in silenzio, stringendo gli occhi a fessure e mostrando
alla
mia comitiva un’espressione di cui aver davvero paura,
facendoli così sedere
all’istante.
-Siamo degli scemi!-
dice Annina
improvvisamente sorprendendo persino me.
-Perché?-
chiede il povero Sasà, che come
Nicolai è voltato verso la ragazza con
un’espressione palesemente confusa,
stampata sulla faccia.
-Mastro Peppino non
cede mai. Sta già
tornando indietro a controllare, vero Ania?- ha perfettamente capito su
cosa li
stavo mettendo in guardia. Ciò mi fa capire che quelli
scavezzacolli stanno crescendo
e che pian piano potranno cavarsela da soli. Ne sono fiera.
-Sì.-
accompagno la risposta con un sorriso
lieve ma veritiero e con un cenno del capo. I miei amici sembrano aver
visto un
fantasma a giudicare dai cenci bianchi che portano per faccia. Poveri,
devo pur
comprenderli …è raro vedermi sorridere in quel
modo.
Proprio mentre loro
riprendono colore, il
Pick Up passa un’altra volta dietro la mia schiena
sfrecciando e, come ha dedotto
Annina, Mastro Peppino sguscia fuori dal finestrino con la testa per
osservarci
ancora palesemente lì ed ancora imperterriti nelle nostre
frivole faccende
quotidiane seduti al pub, o per lo meno così dobbiamo far
sembrare al despota.
Non appena svolta
l’angolo la gente
presente al pub si dilegua, ognuno per i fatti propri, anche Sandro, il
proprietario del locale, rientra dentro dalla chiacchierata con un suo
amico
per svolgere le sue mansioni quotidiane. Eppure devo ancora eliminare
quel
briciolo di dubbio che aleggia nella mente di Mastro Peppino per
evitare di
trovarci in guai seri. Per distogliere l’attenzione su di
noi, l’unica
soluzione che in quel istante mi viene in mente è di
dividerci, così almeno faremo
prima a raggiungere il luogo dell’appuntamento.
-Appuntamento a casa
mia. Dividetevi, non
fatevi beccare e tenete stretti i pezzi. Capito?- i ragazzi annuiscono
e si
avviano ognuno in una direzione diversa, mentre io mi avvicino a
Lorenzo per
dirgli che dobbiamo andare.
Non appena,
però, entro nel raggio
d’ascolto del suo gruppo sento la sua conversazione con i
suoi amici e non mi
sorprendo affatto dell’argomento, anzi mi fa ridere dentro:
sta dicendo che
deve scoparmi. Eppure sono un po’ delusa dal fatto che debba
raccontare balle
del genere per crearsi scuse e staccarsi dal gruppo di ragazzi.
Decido di stare al
gioco e aspetto che mi
raggiunga, mentre i suoi amici lo guardano avanzare con un sorriso
sornione da
ebete stampato in faccia. Arrivato da me fingo di ridere come una
bionda oca
ossigenata, anche se sono di un castano rame scuro che farebbe invidia
a
qualunque rossa.
-Stronza, sfrontata,
perspicace, stratega, intelligente,
leader, bella da mozzare il fiato… dimentico qualcosa?- mi
dice sfrontato
avvicinandosi al mio orecchio e sfiorando poi il mio collo con il suo
naso.
Inaspettatamente e maledettamente trovo la cosa parecchio eccitante, ma
non concepisco
davvero come siamo arrivati a questo punto.
Sperando di evitare di
offrire uno
spettacolo ai suoi amici poco distanti, mi scosto da lui e gli rispondo
un po’
acida, il giusto per farlo stare sull’attenti e riportarlo al
presente e a ciò
che dobbiamo fare.
-Sì. Ti sei
dimenticato che ti butto dal
burrone là dietro se non la smetti.- e indico il burrone su
cui affaccia il
pub. Luogo alquanto insolito per collocare un locale pubblico, ma
d’altronde
siamo gente che vive in campagna e siamo abituati all’habitat
che può mostrarsi
impervio. Siamo gente coriacea!
-Perché non
ci buttiamo per davvero? Così
arriveremo prima a casa tua.- Scherzando Lorenzo mi dà
davvero un’ottima idea.
-Allora non hai solo
un bel faccino?- lo
schernisco ironica e scherzosa mentre ci avviamo verso un albero
nascondendoci
alla vista di tutti. Sì, che eravamo coriacei ma due che si
buttano da un
pendio è pazzia. Eppure si dimentica sempre una cosa: siamo
ragazzi e quindi
scavezzacolli.
Non attendiamo neanche
un secondo, dopo che
siamo sicuri che nessuno ci ha visto nasconderci, ci buttiamo lungo il
pendio
afferrando ognuno il ramo di noce più vicino a noi e
dondolandoci ci spostiamo
di albero in albero, grazie alla forza di gravità e
all’inclinazione del
terreno che facilita l’azione. Lorenzo mi fissa divertito ed
io gli scocco uno
sguardo torvo. Ed io penso: “Che diamine vuole ora?”
-Pensavo…-
comincia come se mi avesse letto
nel pensiero -…che il soprannome
“scimmietta” ti si addice molto.- Arrossisco
violentemente, rossa come un peperone, e sto per avventarmi sul
malcapitato
come una belva, quando si salva per il rotto della cuffia. -Sei abile
nell’arrampicata, hai movimenti invidiabili.- dice serio.
Io mi sorprendo della
sua affermazione e lo
guardo incuriosita distraendomi, con la conseguenza che per poco non
vado a
sbattere contro il tronco di un albero. Lui ride schernendomi, ma alla
fine
scende e mi soccorre poiché sono comunque caduta vicino
l’albero in questione.
Mi rialza e senza fiatare ricominciamo il nostro percorso, ma questa
volta
avanziamo a terra dal momento che la pendenza del terreno è
nulla, d’ora in
avanti. Per velocizzarci ci diamo spinte facendo leva su tronchi e
radici
fuoriusciti dal terreno.
Finalmente arriviamo
in quello che è lo
spiazzale che circonda casa mia e metto in atto la parte finale del
piano,
sperando che alla fine non succeda qualcosa che manda tutto
all’aria. Sono un
fascio di nervi.
Ancora nessuno degli
altri è arrivato e
penso a dove potrei nascondere definitivamente l’arma.
Sotterrarla dovrebbe andare
bene, ma è meglio se prima la ripongo in un contenitore.
Così lascio Lorenzo
fuori a giocare con Dedee, la mia gattina, ed entro in casa per cercare
una
busta o una scatola. Infine trovo nella stanza artistica di mamma, che
poi si
tratta di uno sgabuzzino, un sacchetto di iuta con un laccio lungo il
bordo, il
quale stringendolo chiude il tutto. Ritenendo che l’oggetto
vada bene esco
fuori casa e mi dirigo dove poco prima ho lasciato Lorenzo.
Fortunatamente trovo
ad aspettare insieme a lui anche tutti gli altri, compreso Peppe munito
di una
grande vanga.
-Bravo ragazzo!-
incoraggio quest’ultimo
che arrossisce.
Ci muoviamo svelti
verso il giardino e io
guardo furtiva in continuazione verso tutto e tutti. Ora ho seriamente
paura,
ma continuo ad avanzare verso la recinzione del mio terreno e lo
scavalchiamo
un po’ goffi, ad eccezione di me, Lorenzo e Sasà
che siamo più atletici. Il
terreno è abbandonato, quindi nessun proprietario
lavorandoci potrebbe trovare
l’arma.
-Di lì.-
indico ai ragazzi la direzione da
prendere ed avanziamo per qualche metro ancora. -Qui va bene.- dissi
chiara e
mi volto ancora intorno a me sospettosa. Gli altri se ne accorgono ed
io leggo
nei loro occhi la mia stessa preoccupazione. Scaccio via ogni pensiero,
se non
sono lucida e forte qui coliamo tutti a picco, lo so e lo comprendo
bene.
Chiedo ad Lorenzo di
scavare una fossa con
la vanga mentre io ricompongo la pistola con attenzione, ma lascio
staccato il
caricatore: una precauzione insensata che però mi rassicura
di più. Mi giro e
vedo il mio amico ancora intento a creare una buca piuttosto profonda,
così
ripongo nel sacchetto i due pezzi della rivoltella che solo ora osservo
meglio
e più dettagliatamente; è leggermente
arrugginita. Chissà perché il despota ci
teneva tanto? Mi ricompongo di nuovo dai miei pensieri e chiudo il
laccio con
un doppio nodo, lanciando poi il sacchetto nella fossa.
Richiudiamo il tutto
in fretta e furia, con
la paura di avere alle calcagna qualcuno che sta per aggredirci, quando
ci
voltiamo tutti verso casa e… niente.
Via libera. Salvi.
*****
Sentivo una cosa
alquanto viscida sulla mia
faccia che continuava a percorrere il mio viso, così dopo
qualche leccata di
Star mi alzai di scatto a sedermi strofinandomi la manica contro il
viso.
-Star! Che schifo! Non
farlo più.- lo rimproverai
ma il cagnone non fece nessun cenno dispiaciuto, sentiva che non ero
realmente
arrabbiata.
Improvvisamente,
però, mi ricordai perché
eravamo lì. Star era ferito ed io correvo verso di lui, poi
la zolla…
-Cazzo, Star!- urlai
disperata ricordando
il sangue che usciva fuori dalla zampa del mio pastore tedesco. Il
panico mi
aveva offuscato leggermente la vista, pensando al sangue che doveva
aver perso durante
il mio svenimento.
Una mano si
poggiò sulla mia spalla
facendomi sussultare.
-Tranquilla, Ania.- il
possessore della
voce, colui che mi fece spaventare, come sempre sapeva in che modo
rassicurarmi
-Star, l’ho curato io, sta bene.- tirai un sospiro di
sollievo nel constatare
che le cose erano realmente così come il ragazzo mi disse.
Lo fissai dritto negli
occhi e mi resi
conto che il tempo passava ma alcune cose erano delle costanti fisse
che non
sarebbero mai cambiate. Lui era sempre ed inspiegabilmente
lì a rialzarmi da
terra. Potevo contare su di lui, dopo tutto era il mio capo e il nostro
rapporto si basava sull’aiuto reciproco. Ma ciò mi
fece ricordare come tutto
ebbe inizio, la mia vita da allora era cambiata inesorabilmente e
irreversibilmente. Non saprei dire se in bene o in male, ma non era
più la
stessa giornata afosa e frenetica di prima; ora era una corsa senza
fine e non
sapevo neanche il perché.
Ci voltammo entrambi
all’unisono verso un
punto ben preciso del terreno e ci fiondammo a scavare velocemente,
senza ma e
senza sé. Non ci fermammo finché non trovammo
quel maledetto sacchetto di iuta,
solo allora ci rilassammo. Tastai la stoffa senza aprirla, non ce
n’era
bisogno: i due pezzi erano ancora lì dentro. Passai il
sacchetto a Lorenzo che,
dopo averlo contemplato con un’aria ostile e piena di
incertezza, lo gettò di
nuovo nella fossa.
Lo fissai imperterrita
nell’attesa di una
sua mossa poiché avevo seriamente paura che facesse qualcosa
di avventato, ma
mi ricredetti quando vidi gettargli della terra sull’oggetto,
che giaceva sul
fondo della fossa, e ricoprirlo. Dovevo molto a Lorenzo
perché aveva aiutato me
e mio fratello a risollevarci dal baratro senza fine in cui eravamo
caduti,
offrendomi quel lavoro di cui a passi costanti riuscii a comprendere e
fare
mio. Eppure avevo sempre timore che potesse come altri tradirmi e
questo era
anche causato dal fatto che nel mio lavoro se non stai in allerta sei
morto, senza
avere il tempo necessario di accorgertene.
-Rientriamo.- mi
ordinò Lorenzo in tono
grave ma non ostile, finendo di ricoprire la buca.
Le cose erano
cambiate, ora mi piegavo agli
ordini, mio malgrado.
Mi abbassai ad
accarezzare Star e vidi che
era in grado di camminare autonomamente, come sempre Lorenzo aveva
fatto un
ottimo lavoro. Quando mi rialzai, trovai Lorenzo che mi avvolgeva in un
abbraccio protettivo per poi lasciarmi un bacio avido sulle labbra.
-Mia. Tesoro. Solo
mia, tutta mia!-
Ricominciò
a baciarmi con più foga,
lussurioso, mordendo e succhiando il mio labbro inferiore, ma
l’unica cosa che
riuscivo a pensare era: “Continua Ania, gli devi
troppo!”. Non l’amavo più…, i
sentimenti scemano quando viene a mancare ciò che
più importa.
-Avevo davvero paura
di perderti questa
volta. Perché non mi hai chiamata dopo la missione?-
Avevo paura di
deluderlo. Non potevo farlo.
-Mi credi se ti dico
che mi si è rotto il
cellulare nella missione?- dissi con un sorriso sornione.
-Sei capace.- sorrise
al pensiero -L’Organizzazione
te ne fornirà un altro.-
Questa
one shot è frutto di un sogno, che mi ha fatto passare
scomoda parte di una
notte per via dei continui giri e rigiri nel sonno, perciò
ho deciso di
condividere i miei umanamente insoliti sogni… Sarebbe stato
bello scriverlo in
un dialetto terrone, ma sono incompetente in materia.
Ringrazio
vivamente Zeta
per il banner. Sei grande!
Taira
Croft