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Autore: Taira Croft    05/04/2015    2 recensioni
-Stronza, sfrontata, perspicace, stratega, intelligente, leader, bella da mozzare il fiato… dimentico qualcosa?- mi dice sfrontato avvicinandosi al mio orecchio e sfiorando poi il mio collo con il suo naso. Inaspettatamente e maledettamente trovo la cosa parecchio eccitante, ma non concepisco davvero come siamo arrivati a questo punto.
7324 parole
Genere: Avventura, Azione, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Ania'
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Rimembranze

 

Negligentemente schiacciai il pulsante e l’imponente cancello si aprì automaticamente, scorrendo sulle ruote sotto di esso e provocando un cigolio metallico. Riponendo poi il telecomando ed oltrepassando il cancello con la mia fedele Mini Cooper, mi accorsi che nel giro di quattro anni casa mia era completamente cambiata: da una semplice casa a due piani in campagna si era passati ad una maestosa villa di quattro piani con giardino annesso, la quale avrebbe fatto invidia a un senatore. La cosa mi fece sorridere a pensarci bene, perché se non fosse stata per la mia decisione di diventare ciò che ero diventata non avremmo mai avuto certe possibilità.

Scostando così i pensieri che mi tartassavano la mente, parcheggiai l’auto in garage e mi diressi verso l’entrata della casa per poi arrivare al terzo piano. Pensandoci bene, non tornavo a casa da qualche settimana poiché le missioni duravano sempre più spesso ed erano sempre più frequenti. Era piuttosto difficile riuscire a rilassarsi in casa propria per chi faceva il mio stesso lavoro ed ero cosciente che di lì a poco le cose sarebbero incrementate. Non era possibile! Ero tornata finalmente a casa da neanche un quarto d’ora per rilassarmi e l’unica cosa a cui ero capace di pensare era il lavoro. Stavo diventando matta! Mi diedi un paio di schiaffi sulle guance e mi accasciai sul divano, poi presi il mio Blackberry guardando le notifiche dei social network e le e-mail in arrivo sperando così di distrarmi un po’. E dopo tre ore buone, a scorrere velocemente con non curanza tra messaggi e avvisi, l’occhio mi cadde su un messaggio del mio capo che mi augurava buon rientro e mi obbligava a un riposo forzato. Probabilmente aveva in serbo per me una quantità esorbitante di missioni, oppure ne era prevista una che mi avrebbe assorbito tanto tempo prima di ritornare a casa.

Fatto ciò mi alzai e andai in cucina a preparare qualcosa per l’aperitivo pomeridiano. Quando, però, mi avvicinai alla grande isola al centro della stanza un brivido mi percorse la schiera e andai in preda al panico voltandomi verso la ciotola del mio pastore tedesco. Cosa era successo? Star, il mio cagnone, non era ancora venuto a salutarmi e, come al suo solito, non mi aveva ancora travolta dalla felicità di vedermi. Dove era? Andai in paranoia cercandolo in ogni stanza della casa non trovandolo, mi affannai e cominciai a preoccuparmi seriamente per il peggio. Allora cominciai a correre fino a raggiungere il centro del giardino sperando di trovarlo, ma niente. La testa mi pulsava, il sangue accelerò e cominciai ad ansimare, una sensazione di compressione s’impadronì di me e mi accasciai a terra. Ma che stavo facendo? Dovevo riprendermi!

In un lampo di lucidità presi coscienza di me e affinai i miei sensi che ormai avevo imparato a temperare per via del mio lavoro. Cominciai a respirare regolarmente, chiusi gli occhi e mi concentrai sull’udito. I suoni della campagna riecheggiavano vorticosi nel mio giardino e affollavano la mia mente, fino a quando non sentii un breve e flebile ma cadenzato mugolio. Aprii gli occhi e mi concentrai sulla direzione da dove proveniva il suono, mi alzai di scatto e corsi velocemente fino al confine della mia proprietà. Finalmente, lo vidi ad una ventina di metri oltre il recinto in pietra. Lieve sollievo.

Dovevo, però raggiungerlo. Così a tre metri circa di distanza dal muretto presi la rincorsa e saltai l’ostacolo cadendo oltre esso ed effettuando una capriola per attutire l’impatto con il terreno. Normale routine per me, anche se per una persona comune un muro di due metri non è così facile da scavalcare.

Mi rialzai, modestamente con molta eleganza, e andai verso Star che era bloccato in una trappola per conigli, di quelle con le tenaglie. Maledetti bastardi! Ma cosa gli costava cacciare in modo meno cruento e pericoloso per gli altri? Così mi mossi andando in contro al mio fedele cagnone che perdeva sangue da una zampa, ma mentre mi avvicinavo misi un piede in una zolla instabile e caddi avendo la sensazione che l’albero più vicino si muovesse a grande velocità contro di me.

 

*****

 

Sbuffo mentre percorro la via principale del piccolo e insignificante paese in cui vivo. Mia madre mi ha costretto a comprare delle spezie per i dolci di nonna da quel rintronato di Sor Tonio, che sarebbe bene rinchiuderlo in una casa di cure. È fuso ormai! Infatti quando mi consegna lo scontrino da riporre in busta, perché guai se lo perdessi (mia madre mi ucciderebbe), mi fa: -Cosa le serve oggi, mia cara signorina?- Impulsivamente mi batto una mano sulla fronte per poi passarmela sul viso. Ma mi domando io, cosa ho fatto di male per relazionarmi con esseri del genere? Eppure la risposta è semplice, perché sono io ad essere fuori posto.

Così trascinando i piedi a terra per la noia e avanzo lungo la strada che porta a casa di mia nonna, un’altra rintontita a causa della vecchiaia, con l’eccezione di possedere un cuore grande quanto una collina. Malgrado tutto, sono felice solo per il fatto di vederla ed un sorriso mi spunta salendo le scale di casa sua, ma sono costretta a fermarmi e a lasciare la borsa della spesa sulla panchina in ottone, dopo il cancelletto in ferro battuto stile ‘800, proprio davanti la porta. Qualcosa con un forte bagliore ha attirato la mia attenzione, così mi volto verso l’agglomerato informe di salici piangenti lì vicino, dove Giagià, Sasà, Mena, Nicolai, Peppe e Annina stanno parlando animatamente.

Scendo a rotta di collo dalla scalinata e li raggiungo oltrepassando il piccolo giardino comunale che li antecede. Non si accorgono subito che sono vicina a loro e solo quando Annina alza la testa le loro espressioni cambiano.

-Anniè!- esclamano in coro sorpresi -Scusaci, non ti avevamo visto.- continuano imbarazzati ed effettivamente dispiaciuti.

-Non c’è problema.- li rassicuro con voce calma e come sempre autoritaria, mettendo il braccio sulla spalla di Sasà, il più piazzato del gruppo. Loro si irrigidiscono un attimo, ciò mi fa capire che c’è qualcosa che non va, ed io gli rivolgo uno sguardo che lascia intendere ciò che voglio. Sono abituati ai miei modi e sanno che devono sputare al più presto il rospo. Così dopo un momento di esitazione Nicolai parla per tutti.

-Ania, aiutaci.- chiede supplichevole.

-Che avete combinato questa volta?- chiedo un po’ seccata e infastidita dalle loro continue azioni impulsive che inevitabilmente portano a qualcosa di tragico.

-Anniè, fu una cazzata!- dall’affermazione e dall’espressione di Giagià provo un leggero timore per ciò che possono aver fatto e mi sposto in una posizione più eretta che certamente risulta minacciosa per il gruppo.

Dopo che mi fanno perdere un battito al cuore mostrandomi la pistola che Mena porta nella tasca dell’ampia gonna turchese, li guardo infuriata e immediatamente gli faccio segno di sparire da là.

Ci dirigiamo velocemente verso il nostro rifugio segreto, la casa abbandonata dietro il vecchio forno, passando per i campi. Una volta arrivati lì mi assicuro che nessuno ci ha seguiti e poi furiosa tiro un ceffone alla nuca di Peppe, sapendo che è lui il casinaro del gruppo. Mi scosto e mi siedo sul grande ceppo, sistemato appositamente al centro del vecchio rudere, seguita dai miei coetanei che si siedono intorno a me sui ceppi più piccoli.

-Ora mi spiegate tutto!- dico ferma e decisa, forse un po’ troppo burbera rispetto al solito, incutendo timore a quei deficienti di amici che mi ritrovo.

-Eravamo nell’aranceto di Mastro Peppino e… beh…- per quanto Nicolai sia il migliore del gruppo sotto ogni aspetto, non riesce proprio a non biascicare le parole, e da ciò capisco che stavolta l’hanno combinata davvero grossa. Mi fa un po’ pena ma non lo do a vedere, anche per non imbarazzarlo, e gli lancio uno sguardo truce per fargli capire che deve andare avanti.

-Pepè voleva fare uno scherzo a quel despota così stava fingendo di rubagli una casetta di arance, purtroppo però Mastro Peppino non l’ha presa bene e siamo scappati.-

-E la pistola cosa c’entra?- domando indicando l’oggetto in questione poggiato su un ceppo al centro del cerchio formato da noi sette.

-L’ho rubata io …ad uno di quegli scagnozzi che il despota si porta sempre a presso, per minacciarli così non ci toccavano.- ammette poi Giagià deluso da sé stesso e impaurito dalla situazione. -Anniè, quelli ci stavano facendo davvero male… stavano menando Mena e Annina perché non reggevano il passo… ero nel panico… non sapevo cosa fare, Anniè!- continua tra il supplichevole e il terrorizzato.

Ho davvero degli amici scavezzacollo sempre in cerca di problemi e questa volta si sono messi in guai davvero grossi. Mi devo inventare qualcosa al più presto, altrimenti qui finisce con qualche testa al cappio. E che mi invento? Se mi beccano ci trucidano tutti. Sono preoccupata come non mai: Mastro Peppino… la pistola degli scagnozzi… Ma solo ora realizzo che li hanno visti in faccia, cavolo!

-Chi vi ha visto in faccia?- chiedo allarmata sgranando gli occhi mentre gli altri mi osservano guardinghi.

-Solo Geno.- risponde Annina ancora tremante ed io tiro un sospiro di sollievo mentalmente.

Bene, almeno quello è muto e non può accusarli. Comunque devo fare in modo tale che non possa far capire che sono stati loro gli artefici di tutto. Forse con le “buone” maniere riesco a convincerlo a non spifferare niente. Prima, però, devo pensare all’arma e a come sbarazzarcene così non avranno prove del reato. Che poi quello da mettere in galera sarebbe Mastro Peppino, insieme a tutti i suoi scagnozzi infami. Ha osato non solo toccare i miei amici bensì ha fatto del male ad Annina e Mena, se questo si sapesse in giro purtroppo le mie amiche non avrebbero scampo per la mentalità ritrosa e bigotta del paese in cui viviamo. Devo trovare una soluzione a tutto questo casino.

Guardo di nuovo l’arma e l’unica idea che mi viene in mente è quella di venderla in un negozio apposito per armi, così da sbarazzarcene. Sposto lo sguardo sugli altri: nessuno di noi è maggiorenne, non possiamo venderla. No, c’è Lorenzo! Lui può venderla tranquillamente, suo nonno è appassionato di rivoltelle e poi con l’auto potrebbe effettuare la vendita molto più lontano da qui. I sospetti così saranno sviati. In un moto fulmineo degli ingranaggi della mia mente, che si mettono in movimento per realizzare i dettagli del piano e l’inventario di scuse da propinare agli adulti in caso di necessità, comincio ad agire da leader come di mio consueto.

-Sasà, corri e va a chiamare Lorenzo, portalo qua. Non destare sospetti.- dico al più veloce del gruppo, ma lui si accorge della mia smorfia incerta sul mio viso e non si muove ancora.

Lorenzo è fidato? Ne dubito, ci devo pensare bene. Sì, lo è, lo è sempre stato. Su di lui si può contare, terrà il segreto. Alzo la testa e faccio un cenno di approvazione a Sasà e lui comincia a correre fuori dalla vecchia casa abbandonata.

Nel frattempo che il tempo passi finché Lorenzo arrivi, do una strigliata a Peppe e a Giagià per la cazzata appena commessa e gli faccio capire che hanno messo in pericolo tutti quanti. Cosa devo fare con questi scavezzacolli? Finalmente quei due testoni capiscono l’errore commesso, o almeno spero, e si siedono abbattuti in un angolo, in silenzio. Calmata, Annina, Mena e Nicolai mi raccontano nei dettagli cosa è successo e rivedo un po’ il mio piano, preoccupandomi soprattutto di come mascherare la cosa a occhi indiscreti che vogliono solo rovinare la nostra reputazione.

Cammino avanti e indietro per il rifugio segreto quando vado a sbattere contro Sasà poiché ero in sovrappensiero.

-Uhhm…- rimango un attimo rintontita dalla botta appena presa, ma rinsavisco subito vedendo il mio amico che mi mostra la figura sull’uscio.

Così mi avvicino ad Lorenzo e constato che è un po’ che non lo vedo, più o meno dalla riunione della ruga. Lo prendo sottobraccio e senza dire niente lo trascino fuori dalla casa. Gli altri lo sanno che devono stare a debita distanza quando tratto, così restano saggiamente all’interno. E, mentre ci avviamo verso l’unico albero rimasto della zona vecchia del paese, Lorenzo mi cinge il fianco con il braccio, dopo essersi liberato dalla mia presa, per poi stringermi delicatamente a sé. Mi irrigidisco e lo scosto da me in modo leggermente brusco.

-Finiscila, Lorenzo! Sempre là ti sbatte la testa!- lo rimprovero stufa e irritata dai suoi modi di fare ogni volta che mi vede. Per questo preferisco parlargli in privato, probabilmente mi avrebbe fatto fare chissà quale figuraccia. Lui si appoggia al tronco sbuffando e fissandosi le Converse nere.

-Lo sai che con te lo faccio scherzando. Sei ancora troppo piccola per…- si blocca imbarazzato dai suoi stessi pensieri che corrono, ma io non me la prendo per ciò che dice. So bene cosa intende e cosa vorrebbe fare, eppure ha il buon senso di ragionare e tenersi a debita distanza. D’altro canto neanch’io ci tengo… ora come ora ho troppe cose a cui pensare. E poi io ho solo 14 anni e lui 18… Ma a chi la do a bere? L’età non ferma nessuno! Semplicemente non c’è il tempo per pensare a quello in questo momento.

Leggo istantaneamente la frustrazione nei suoi occhi e decido così d’intervenire.

-Tranquillo, io non ci tengo proprio.-

Forse ho sbagliato, forse l’ho offeso, forse sono stata troppo aggressiva. Lui fa per andarsene, dopo avermi mostrato la sua espressione scioccata e risentita dal mio tono rude e freddo, ma lo blocco parandomi davanti.

-Ti ho fatto chiamare perché abbiamo un problema…- lui mi guarda con quegli occhi da “e ti pareva che gli servo solo per qualche tornaconto” -…e mi fido solo di te.-

Lui si gira di scatto, incredulo. I suoi occhi sono spalancati, tremanti e infinitamente affascinanti. Si riavvicina a me e mi abbraccia, come se gli avessi rivelato qualcosa che lo ha salvato dalla caduta in un precipizio.

-Che ti prende?-

-Ultimamente ho pensato che fossi insensibile a tutto, ma con questo mi hai confermato il contrario.- mi dice raggiante, creando in me una sensazione di confusione.

-Ok. Tornando a noi, ho bisogno che vendi una cosa il più lontano possibile da qui e in modo più anonimo che puoi.-

Lui mi rivolse lo sguardo di chi è disorientato e io comincio a raccontagli tutto in ogni minimo particolare. “Di lui posso fidarmi” continuo a ripetermi, cercando di reprimere la mia ostinata diffidenza verso gli altri, ma poi fisso i suoi occhi che passano dall’incredulo allo sbalordito, dall’incerto al consapevole, per finire poi sul determinato a compiere il proprio dovere e capisco che posso fidarmi di lui. Non mi ha mai tradito e porta sempre a termine le commissioni che gli affido.

-Va bene, va a prendere la pistola. Me ne occupo io.- mi dice accarezzandomi la guancia e io gli lancio uno sguardo di sottecchi facendogli capire che gli ordini a me non li da nessuno. Ho sempre odiato chi me li dava, anche se erano detti con dolcezza. Se una cosa la dovevo fare la facevo senza che qualcuno me la dicesse, agivo e basta.

Rimango comunque ammaliata dai suoi movimenti fluidi mentre si sposta dall’albero per lasciarmi lì e andare verso la casa abbandonata, io lo seguo appoggiandomi allo stipite della porta, o quel che ne rimane.

Lo vedo avvicinarsi ai ragazzi per prendere l’arma e loro mi guardano interdetti e guardinghi. Gli faccio cenno con la testa e loro lo liberano da quella presa non effettiva ma attuata solo con l’intenzione di intimorire l’avversario. Lorenzo prende la rivoltella e se la infila nel retro dei jeans blu scuro per poi uscire taciturno dalla casa, seguito dagli altri.

Attraversiamo fianco a fianco la strada vecchia di case e ruderi abbandonati del paese, lui ed io, mentre gli altri chiacchierano dietro con frasi che pregustano la libertà da quella situazione. Giriamo a destra e avanziamo per la discesa con l’intenzione di arrivare tutti in piazza dove ci divideremo, ognuno per la propria strada, una volta svoltati a sinistra. Ma proprio mentre svoltiamo oltre la curva ci imbattiamo nei due dei tirapiedi di mastro Peppino. Faccio un cenno quasi impercettibile, colto solo dai ragazzi, di continuare a camminare senza fiatare e loro eseguono. Spero che quei due non li riconoscano continuando a camminare indisturbati. Mi occuperò di quello che sanno uno volta venduta la pistola. Purtroppo, però, non siamo così fortunati da non essere riconosciuti.

-Sono quei bastardi!- esclama quello più tozzo dei due indicando i ragazzi dietro me e Lorenzo. Cavolo! Ed ora che cosa faccio?

-Dateci la pistola e non vi sarà fatto niente!- l’altro intimidisce i miei amici, che atterriti dalla situazione verosimile arretrano e si stringono tra di loro per proteggersi l’un l’altro.

Mentre Lorenzo e io ci giriamo di scatto annichiliti, uno dei due armadi di tizi afferra Mena, dal compatto gruppo venuto a formarsi contro il muro della strada, e la tira a sé imprigionandola tra le sue braccia pelose. La sfortunata ragazza comincia a urlare e a piangere impaurita. I ragazzi invece tentano di strapparla invano, perché l’altro tira fuori un coltello con cui minaccia Annina al collo, trascinando anche lei da parte.

I ragazzi rimangono immobili, non per mancanza di coraggio o d’iniziativa ma, perché sanno che muoversi significa procurare del male alle loro amiche.

-Vediamo se ce l’hai tu.- dice sghembo con voce perversa lo scagnozzo che palpa Annina alla ricerca della pistola mentre la ragazza, pudica e vergognosa ma anche impaurita di ciò che lui possa farle in pubblico, si dimena e tenta di scollarselo di dosso ma il coltello è troppo stretto alla gola per poter far molto.

Lorenzo si volta a guardarmi, istintivamente io faccio lo stesso, e mi fa cenno ricordandomi che la pistola ce l’ha lui nei pantaloni nascosta dalla giacca di jeans sulla schiena. Realizzo così che quei due non troveranno mai l’arma e le povere ragazze passeranno un brutto quarto d’ora. La mia mente pensa al peggio mentre è confusa sul da farsi. Tutti contano su di me ma non ho idea di come aiutarli, riesco solo a guardare impallidita la scena come un’ignava infame.

Non trovando niente addosso ad Annina, lo scagnozzo la scaraventa contro la recinzione che delimita la strada dal burrone sottostante. La vecchia rete dal violento impatto si rompe facendo sbilanciare all’indietro Annina, con il rischio di essere sbalzata nel precipizio. Fortunatamente Lorenzo ha i riflessi pronti e l’afferra prima che sia troppo tardi traendola in salvo sul bordo opposto alla strada, trovandoci così ancor più lontani dalla scena.

A questo punto sono certa che noi, Lorenzo ed io, non interessiamo ai due scagnozzi di Mastro Peppino perché non ci degnano di uno sguardo: è come se fossimo assenti. Allora sfrutto l’occasione per pianificare velocemente qualcosa di utile che ci faccia uscire da questo casino, ma mi blocco perché vedo un’altra scena lurida tanto quanto la prima.

L’altro scagnozzo sta infilando le sue viscide mani sotto la gonna di Mena che si dimena tirando pugni all’uomo, ma tutto ciò è inutile poiché l’uomo sembra essere immune ai suoi colpi, malgrado Mena faccia male quando colpisce. Si avvinghia di più contro la ragazza e la blocca contro il muro di pietra di una delle vecchie case, rinfoderando la mano e facendola urlare di dolore e orrore. Quando, però, vedo Mena piangere disperatamente non ce la faccio più e prendo la rincorsa per scaraventarmi contro il lurido viscido bastardo. Inaspettatamente Sasà e Nicolai mi precedono e lo staccano bruscamente da Mena, che barcollando sviene tra le mie braccia lanciandomi uno sguardo mortificato e pieno di vergogna mista a dolore. In questo momento, giurando di fargli pagare tutto a quei bastardi nella maniera più atroce possibile, adagio Mena a terra vicino ad Annina e Lorenzo così da toglierla da quel caos.

E solo quando mi avvicino ad Lorenzo per chiedergli di aiutarmi mi accorgo che l’assalitore di Annina mi sta soffocando a mani nude, solo perché gli abbiamo tolto il divertimento. Sento la pressione e la sensazione di gonfiore intorno agli occhi e quella delle vene, che mi pulsano più velocemente in modo lancinante e ostruito. L’aria mi manca, i polmoni mi dolgono, la vista è offuscata e le voci mi arrivano flebili e ovattate alle orecchie. Mi accascio a terra senza forze ormai, ma l’uomo non sembra di voler allentare la presa, anzi l’aumenta. La mia vita sta finendo così, senza dignità e onore, lo sento, …troppo breve ed effimera. Tento di ingoiare avidamente l’aria che mi circonda e vedo in un istante di lucidità Lorenzo che sgrana gli occhi afferrandomi e tirandomi a sé. Impulsiva, lo abbraccio e mi stringo a lui: so che è la mia salvezza.

Finalmente riprendo aria e mi volto di scatto verso lo scagnozzo che mi ha attaccato. Se ha mollato c’è un motivo, non può averlo fatto e basta. Infatti Giagià gli tiene le mani ferme dietro la schiena e gli occhi dell’uomo sembrano uscire ingrossati dalle orbite sotto la ferrea presa di Peppe, che lo stritola con rabbia e rancore. Esattamente come poco prima l’uomo ha fatto con me. A un paio di metri più in là, Nicolai e Sasà tentano di difendersi dall’altro scagnozzo che hanno tratto via dalla povera Mena, il quale sfodera a cadenza regolare una verga colpendo i miei amici.

La scena è assurda e non so che fare. Io non so che fare, io che ho sempre risolto tutto e grazie a ciò sono diventata il leader, per la mia forza, ingegnosità, tenacia, audacia e temerarietà. Non posso ritirarmi adesso, non posso stare immobile, non posso e basta!

Mi volto di scatto verso Lorenzo e le ragazze che si stanno riprendendo, in lui scorgo uno sguardo incerto pieno di terrore. Prendo coraggio e mi avvicino, poggiandomi su di lui che è semisdraiato a terra, infilo una mano nel retro dei suoi jeans e si allarma. Vedendo la sua espressione incredula e sbigottita, cerco di calmarlo dicendogli: -Sta calmo. Mi serve la pistola. Non è proprio il momento di pensare a certe cose.- Lui mi capisce al volo e si scosta leggermente permettendomi di afferrare furtivamente la pistola.

Mi volto di nuovo verso gli scagnozzi, che prendono a botte, ferendo a sangue, i miei amici e inizio a tremare incessantemente. La scena è a dir poco verosimile, credo che per loro sia la fine. Tre di loro presentano delle ferite all’addome e al viso, l’altro ha uno squarcio sulla gamba destra, e da tutte le coltellate sgorga sangue come linfa dal tronco di un albero.

Ho in mano sia la salvezza che la nostra distruzione, ho in mano qualcosa di potente che non so usare, ho in mano qualcosa che richiede un grande coraggio, ho in mano qualcosa che ho paura di usare, ma ho più paura che i miei amici rimangano gravemente feriti. Non ci penso oltre. Alzo l’arma, la punto contro uno dei due e premo tremante sul grilletto girando la testa di lato. Apro gli occhi dopo un interminabile istante e lui è a terra, stramazzato, inerte e la sua bocca libera troppo sangue. Mi viene da vomitare… Cosa ho fatto? Mi giro verso l’altro che mi guarda incredulo e attonito, ma subito dopo parte alla carica per abbattermi. Questa volta alzo la pistola senza esitazione e sparo tenendola con una sola mano. Che mi sta succedendo? L’uomo stramazza al terra sul colpo, esattamente come il primo. Io sono allibita.

Lascio la presa sulla pistola e la faccio cadere, inconsciamente. Mi accascio a terra e mi metto le mani sulla testa cominciando a dondolarmi avanti e indietro, come una bambina labile che presa dal panico si strappa i capelli. Non posso averlo fatto, io non posso… non posso.

Non ce bisogno che alzo lo sguardo per vedere i miei compagni fissarmi, lo so che lo stanno facendo già da svariati minuti. Sono confusi, increduli, annichiliti e impauriti proprio come lo sono io. Ma io sono peggio: faccio schifo… ho ucciso, maledizione ho ucciso! Io ho paura, ho paura di ciò che succederà. Mi tormento il cervello grattando nervosa ed epilettica la testa, quando sento delle mani caldi e forti che mi abbracciano e mi cullano dolcemente, come se fossi una neonata bisognosa di amorevoli cure. È Lorenzo, sono stupita. Poi delle voci cominciano a canticchiare la dolce ninna nanna del nostro paese. Sono gli altri che si sono seduti intorno a noi, sono basita. Mi vogliono realmente bene o gli faccio solo pena?

La nenia finisce e Lorenzo allenta la presa, mi fa scivolare dolcemente fuori dalle sue braccia e mi guarda dolce e meravigliato del mio volto. Mi porto istintivamente le mani in faccia per asciugarmi gli occhi. Ho pianto e non so neanche come io abbia fatto, solo ora me ne rendo conto. Finisco e alzo lo sguardo ancor più stupefatta perché tutti mi stanno sorridendo.

-Grazie.- mi dicono sinceri all’unisono con una voce alquanto dolce.

Grazie? A me? Con lo sguardo viaggio oltre di loro e scorgo i corpi dei due uomini a terra, un forte conato di vomito mi assale su per l’esofago, ma rigurgito tutto giù evitando una brutta scena ai miei amici che mi stanno ancora sorridendo calmi e dolci e… grati.

Mi riprendo, non so neanch’io come, e mi avvicino a uno dei due corpi afferrandolo per il colletto. È inutile piangersi addosso ora, oramai è fatta. Devo trovare il modo di andare avanti. Devo sbarazzarmi di loro, guadagnando così un po’ di tempo per fuggire via. Dove non so, ma lontano, più lontano possibile.

Non riesco a trascinarli poiché troppo pesanti, così riprendo la mia autorità.

-Mi date una mano, scansafatiche?- sgrido fingendo di essere stizzita ai miei coetanei, i quali sorridono benigni perché hanno capito che mi sono risollevata, raggiungendomi insieme a Lorenzo aiutandomi a scaraventare i due cadaveri giù dal burrone.

Li buttiamo giù dal punto in cui poco prima stava cadendo Annina e richiudiamo la rete alla meglio, sperando così che ci impieghino di più a ritrovarli.

-Ma ora che facciamo? Non posso più vendere l’arma.- ha ragione Lorenzo.

Devo trovare un’altra soluzione e alla svelta, perché vendendo l’arma risalirebbero a noi e quindi all’omicidio dei due scagnozzi. L’unica è nasconderla, dove nessuno può trovarla. Il posto è difficile da scegliere ma deve essere uno più vicino a me che agli altri, dopo tutto io ho premuto il grilletto, sono io l’assassina, riversare la colpa sui ragazzi non è giusto. Cerco un posto adatto, nella mia memoria, mappando l’intero paese mentalmente, e finalmente lo trovo vicinissimo a me ma lontano dagli altri, in caso sia ritrovato l’oggetto.

Alzo la testa e la punto su Giagià, lo scruto e mentalmente lo definisco troppo impulsivo, potrebbe mandare all’aria tutto quanto. Poi Peppe, il combina guai, che però ha sempre portato a termine le sue commissioni in modo esemplare. Sì, lo reputo adeguato.

Guardo tutti a giro e li faccio avvicinare a me, poi pronuncio: -Silenzio. Patto di sangue.- Era il nostro solito patto quando facevamo casini, ma stavolta lo dissi con più enfasi. Avevo ucciso, cazzo! E tutti sapevano che dovevano mantenerlo, altrimenti il traditore avrebbe affrontato le conseguenze. In ballo non c’era solo la mia vita e la mia reputazione, c’erano anche le loro vite e le loro reputazioni.

Poi mi rivolsi a Peppe, azionando il mio piano: -Peppe, vai a cercare una pala. Appuntamento dietro casa mia, in giardino.-

-Ce la possiamo fare!- dico dando speranza alla comitiva, subito prima che Peppe corra giù verso il paese a cercare ciò che gli ho chiesto.

-Noi invece prendiamo un’altra strada, non dobbiamo farci beccare.- spero che così i sospetti siano minori.

Cominciamo quindi anche noi a scendere verso il paese per raggiungere il luogo dell’appuntamento, casa mia si trova più o meno al centro del paese ma è situata nella parte bassa di esso. Oltrepassiamo il corso principale, passando di fronte casa di mia nonna, il campo da calcio e le scuole fino ad arrivare sulla strada che porta fuori il paese. Fiancheggiare la zona in cui vivevo anziché andarci direttamente mi sembra una buona idea, però, non ho preso in considerazione la possibilità che Mastro Peppino possa passare da questa stessa strada. Infatti il despota ci avvista a bordo del suo Pick Up, che sta venendo nella nostra direzione. Devo pensare alla svelta. Mi guardo intorno e l’unica cosa che mi viene in mente è quella di sederci al pub lì vicino.

Faccio un cenno alla mia comitiva che mi segue tenendo un passo adagio per non insospettire nessuno e ci avviamo ai tavolini. Una volta arrivati ci sediamo tutti tranne Lorenzo, che si avvicina ad alcuni dei suoi amici. Mossa premeditata poiché Lorenzo non fa parte della mia comitiva e già il fatto che sia arrivato con noi ha fatto in modo tale che tutti si girassero in modo sospettoso.

Ho ancora la pistola nel resto dei pantaloni e il veicolo sta avanzando nella nostra direzione. In un gesto stranamente istintivo, reso tale dalla tensione delle circostanze, smonto l’arma ricordando le mosse di mio nonno, ex ufficiale militare. Smontata l’arma sotto il tavolo, passo svelta i pezzi ai ragazzi, senza farmi vedere da nessuno. Al contatto col ferro freddo i miei amici sussultano, ma fedelmente afferrano il proprio pezzo e se lo infilano in tasca, proprio mentre Mastro Peppino passa davanti a noi e si ferma.

Il mio cuore sussulta perché, anche se di spalle, lo so che con la macchina si è fermato proprio dietro di me.

-Anniettè!- esulta con la sua voce roca e alta da baritono.

Mi giro sconvolta ma il mio viso non trapela nessuna emozione. Devo essere così se voglio sopravvivere. Lo guardo fisso negli occhi sfidandolo, come a voler dire “cosa vuoi da me”, e aspetto che continui.

-Poco fa mi hanno derubato di un oggetto a me caro… Tu ne sai qualcosa, scimmietta?- finisce con l’appellativo con cui sono conosciuta in paese per il mio modo di sfuggire ai guai ed entrarci. Il suo modo di fare mi irrita davvero tanto, ma mi trattengo dal replicare. Così mi volto verso la mia comitiva fingendo di chiedergli con lo sguardo se sanno qualcosa e poi mi rivolto verso Mastro Peppino.

-Non sappiamo niente. Prova da qualche altra parte.- cerco di liquidarlo un po’ sfrontatamente, ma lo vedo nei suoi occhi e nel modo di poggiare il braccio sul finestrino del Pick Up che non mi crede.

Deglutisco e sposto lo sguardo sugli altri sedili del veicolo e con un sussulto d’inquietudine avvisto Geno. Lui sa, ma non può parlare. Sorrido, tirando inconsciamente un solo angolo della mia bocca, al pensiero che assomiglia tanto ad una delle tre scimmiette “non vedo, non parlo, non sento”. Purtroppo Mastro Peppino non vede il mio gesto come quello che è e lo interpreta male.

-Tu sai, piccola bastarda!- si altera fuoriuscendo dal finestrino e afferrandomi per il collo della maglietta, facendomi barcollare sulla sedia.

Tutti balzano sull’attenti, anche chi non fa parte della mia comitiva. Tutti odiamo l’uomo che mi sta aggredendo e hanno un occhio di riguardo per me che li tiro sempre fuori dai guai. Io, invece, ho una paura folle che mi scopra per ciò che nascondo nel retro dei jeans, ma alzo una mano dietro la schiena per calmare le persone intente ad avventarsi contro Mastro Peppino. Devo restare calma, ma soprattutto sembrare di esserlo agli occhi degli altri.

-Ascolta Mastro Peppì, noi non sappiamo niente. E se tu ti fai fottere le cose sono solo affari tuoi, noi ci tiriamo da parte.- lo affronto senza pietà, con una tenacia che non mi appartiene neanche e che mi sorprendo da sola di avere. Lo fisso senza mai vacillare e solo dopo qualche istante lo vedo indietreggiare lasciandomi.

-Senti… se scopro che tu centri qualcosa, ti scavo la fossa.- mi minaccia e se ne va sconfitto, non prima di scoccarmi uno sguardo alquanto truce. Io mi risistemo più comodamente nella sedia cercando di rilassarmi, poi mi volto verso gli altri attoniti.

I ragazzi ai quali Lorenzo si è avvicinato, come del resto le altre persone presenti che non sono della mia comitiva, mi stanno guardando in un misto di incertezza e sbigottimento. Mastro Peppino è rinomato per i suoi misfatti e per aver messo letteralmente in croce dei pover uomini colpevoli solo si essere stati avvistati da lui, è il tipico despota che non si fa scrupoli ad ottenere ciò che vuole con la violenza e se è necessario uccide con le sue stesse mani senza troppe cerimonie.

Mi irrigidisco un attimo quando vedo la mia comitiva alzarsi dal tavolo. Io prontamente afferro il polso di Giagià, che è alla mia destra, e mi rivolgo agli altri piuttosto irritata, lanciandogli uno sguardo cupo.

-Dove cavolo andate?-

-Al luogo dell’appuntamento…- avanza timorosa Mena, ricordando bene di non menzionare il luogo per non essere scoperti. Resto in silenzio, stringendo gli occhi a fessure e mostrando alla mia comitiva un’espressione di cui aver davvero paura, facendoli così sedere all’istante.

-Siamo degli scemi!- dice Annina improvvisamente sorprendendo persino me.

-Perché?- chiede il povero Sasà, che come Nicolai è voltato verso la ragazza con un’espressione palesemente confusa, stampata sulla faccia.

-Mastro Peppino non cede mai. Sta già tornando indietro a controllare, vero Ania?- ha perfettamente capito su cosa li stavo mettendo in guardia. Ciò mi fa capire che quelli scavezzacolli stanno crescendo e che pian piano potranno cavarsela da soli. Ne sono fiera.

-Sì.- accompagno la risposta con un sorriso lieve ma veritiero e con un cenno del capo. I miei amici sembrano aver visto un fantasma a giudicare dai cenci bianchi che portano per faccia. Poveri, devo pur comprenderli …è raro vedermi sorridere in quel modo.

Proprio mentre loro riprendono colore, il Pick Up passa un’altra volta dietro la mia schiena sfrecciando e, come ha dedotto Annina, Mastro Peppino sguscia fuori dal finestrino con la testa per osservarci ancora palesemente lì ed ancora imperterriti nelle nostre frivole faccende quotidiane seduti al pub, o per lo meno così dobbiamo far sembrare al despota.

Non appena svolta l’angolo la gente presente al pub si dilegua, ognuno per i fatti propri, anche Sandro, il proprietario del locale, rientra dentro dalla chiacchierata con un suo amico per svolgere le sue mansioni quotidiane. Eppure devo ancora eliminare quel briciolo di dubbio che aleggia nella mente di Mastro Peppino per evitare di trovarci in guai seri. Per distogliere l’attenzione su di noi, l’unica soluzione che in quel istante mi viene in mente è di dividerci, così almeno faremo prima a raggiungere il luogo dell’appuntamento.

-Appuntamento a casa mia. Dividetevi, non fatevi beccare e tenete stretti i pezzi. Capito?- i ragazzi annuiscono e si avviano ognuno in una direzione diversa, mentre io mi avvicino a Lorenzo per dirgli che dobbiamo andare.

Non appena, però, entro nel raggio d’ascolto del suo gruppo sento la sua conversazione con i suoi amici e non mi sorprendo affatto dell’argomento, anzi mi fa ridere dentro: sta dicendo che deve scoparmi. Eppure sono un po’ delusa dal fatto che debba raccontare balle del genere per crearsi scuse e staccarsi dal gruppo di ragazzi.

Decido di stare al gioco e aspetto che mi raggiunga, mentre i suoi amici lo guardano avanzare con un sorriso sornione da ebete stampato in faccia. Arrivato da me fingo di ridere come una bionda oca ossigenata, anche se sono di un castano rame scuro che farebbe invidia a qualunque rossa.

-Stronza, sfrontata, perspicace, stratega, intelligente, leader, bella da mozzare il fiato… dimentico qualcosa?- mi dice sfrontato avvicinandosi al mio orecchio e sfiorando poi il mio collo con il suo naso. Inaspettatamente e maledettamente trovo la cosa parecchio eccitante, ma non concepisco davvero come siamo arrivati a questo punto.

Sperando di evitare di offrire uno spettacolo ai suoi amici poco distanti, mi scosto da lui e gli rispondo un po’ acida, il giusto per farlo stare sull’attenti e riportarlo al presente e a ciò che dobbiamo fare.

-Sì. Ti sei dimenticato che ti butto dal burrone là dietro se non la smetti.- e indico il burrone su cui affaccia il pub. Luogo alquanto insolito per collocare un locale pubblico, ma d’altronde siamo gente che vive in campagna e siamo abituati all’habitat che può mostrarsi impervio. Siamo gente coriacea!

-Perché non ci buttiamo per davvero? Così arriveremo prima a casa tua.- Scherzando Lorenzo mi dà davvero un’ottima idea.

-Allora non hai solo un bel faccino?- lo schernisco ironica e scherzosa mentre ci avviamo verso un albero nascondendoci alla vista di tutti. Sì, che eravamo coriacei ma due che si buttano da un pendio è pazzia. Eppure si dimentica sempre una cosa: siamo ragazzi e quindi scavezzacolli.

Non attendiamo neanche un secondo, dopo che siamo sicuri che nessuno ci ha visto nasconderci, ci buttiamo lungo il pendio afferrando ognuno il ramo di noce più vicino a noi e dondolandoci ci spostiamo di albero in albero, grazie alla forza di gravità e all’inclinazione del terreno che facilita l’azione. Lorenzo mi fissa divertito ed io gli scocco uno sguardo torvo. Ed io penso: “Che diamine vuole ora?”

-Pensavo…- comincia come se mi avesse letto nel pensiero -…che il soprannome “scimmietta” ti si addice molto.- Arrossisco violentemente, rossa come un peperone, e sto per avventarmi sul malcapitato come una belva, quando si salva per il rotto della cuffia. -Sei abile nell’arrampicata, hai movimenti invidiabili.- dice serio.

Io mi sorprendo della sua affermazione e lo guardo incuriosita distraendomi, con la conseguenza che per poco non vado a sbattere contro il tronco di un albero. Lui ride schernendomi, ma alla fine scende e mi soccorre poiché sono comunque caduta vicino l’albero in questione. Mi rialza e senza fiatare ricominciamo il nostro percorso, ma questa volta avanziamo a terra dal momento che la pendenza del terreno è nulla, d’ora in avanti. Per velocizzarci ci diamo spinte facendo leva su tronchi e radici fuoriusciti dal terreno.

Finalmente arriviamo in quello che è lo spiazzale che circonda casa mia e metto in atto la parte finale del piano, sperando che alla fine non succeda qualcosa che manda tutto all’aria. Sono un fascio di nervi.

Ancora nessuno degli altri è arrivato e penso a dove potrei nascondere definitivamente l’arma. Sotterrarla dovrebbe andare bene, ma è meglio se prima la ripongo in un contenitore. Così lascio Lorenzo fuori a giocare con Dedee, la mia gattina, ed entro in casa per cercare una busta o una scatola. Infine trovo nella stanza artistica di mamma, che poi si tratta di uno sgabuzzino, un sacchetto di iuta con un laccio lungo il bordo, il quale stringendolo chiude il tutto. Ritenendo che l’oggetto vada bene esco fuori casa e mi dirigo dove poco prima ho lasciato Lorenzo. Fortunatamente trovo ad aspettare insieme a lui anche tutti gli altri, compreso Peppe munito di una grande vanga.

-Bravo ragazzo!- incoraggio quest’ultimo che arrossisce.

Ci muoviamo svelti verso il giardino e io guardo furtiva in continuazione verso tutto e tutti. Ora ho seriamente paura, ma continuo ad avanzare verso la recinzione del mio terreno e lo scavalchiamo un po’ goffi, ad eccezione di me, Lorenzo e Sasà che siamo più atletici. Il terreno è abbandonato, quindi nessun proprietario lavorandoci potrebbe trovare l’arma.

-Di lì.- indico ai ragazzi la direzione da prendere ed avanziamo per qualche metro ancora. -Qui va bene.- dissi chiara e mi volto ancora intorno a me sospettosa. Gli altri se ne accorgono ed io leggo nei loro occhi la mia stessa preoccupazione. Scaccio via ogni pensiero, se non sono lucida e forte qui coliamo tutti a picco, lo so e lo comprendo bene.

Chiedo ad Lorenzo di scavare una fossa con la vanga mentre io ricompongo la pistola con attenzione, ma lascio staccato il caricatore: una precauzione insensata che però mi rassicura di più. Mi giro e vedo il mio amico ancora intento a creare una buca piuttosto profonda, così ripongo nel sacchetto i due pezzi della rivoltella che solo ora osservo meglio e più dettagliatamente; è leggermente arrugginita. Chissà perché il despota ci teneva tanto? Mi ricompongo di nuovo dai miei pensieri e chiudo il laccio con un doppio nodo, lanciando poi il sacchetto nella fossa.

Richiudiamo il tutto in fretta e furia, con la paura di avere alle calcagna qualcuno che sta per aggredirci, quando ci voltiamo tutti verso casa e… niente.

Via libera. Salvi.

 

*****

 

Sentivo una cosa alquanto viscida sulla mia faccia che continuava a percorrere il mio viso, così dopo qualche leccata di Star mi alzai di scatto a sedermi strofinandomi la manica contro il viso.

-Star! Che schifo! Non farlo più.- lo rimproverai ma il cagnone non fece nessun cenno dispiaciuto, sentiva che non ero realmente arrabbiata.

Improvvisamente, però, mi ricordai perché eravamo lì. Star era ferito ed io correvo verso di lui, poi la zolla…

-Cazzo, Star!- urlai disperata ricordando il sangue che usciva fuori dalla zampa del mio pastore tedesco. Il panico mi aveva offuscato leggermente la vista, pensando al sangue che doveva aver perso durante il mio svenimento.

Una mano si poggiò sulla mia spalla facendomi sussultare.

-Tranquilla, Ania.- il possessore della voce, colui che mi fece spaventare, come sempre sapeva in che modo rassicurarmi -Star, l’ho curato io, sta bene.- tirai un sospiro di sollievo nel constatare che le cose erano realmente così come il ragazzo mi disse.

Lo fissai dritto negli occhi e mi resi conto che il tempo passava ma alcune cose erano delle costanti fisse che non sarebbero mai cambiate. Lui era sempre ed inspiegabilmente lì a rialzarmi da terra. Potevo contare su di lui, dopo tutto era il mio capo e il nostro rapporto si basava sull’aiuto reciproco. Ma ciò mi fece ricordare come tutto ebbe inizio, la mia vita da allora era cambiata inesorabilmente e irreversibilmente. Non saprei dire se in bene o in male, ma non era più la stessa giornata afosa e frenetica di prima; ora era una corsa senza fine e non sapevo neanche il perché.

Ci voltammo entrambi all’unisono verso un punto ben preciso del terreno e ci fiondammo a scavare velocemente, senza ma e senza sé. Non ci fermammo finché non trovammo quel maledetto sacchetto di iuta, solo allora ci rilassammo. Tastai la stoffa senza aprirla, non ce n’era bisogno: i due pezzi erano ancora lì dentro. Passai il sacchetto a Lorenzo che, dopo averlo contemplato con un’aria ostile e piena di incertezza, lo gettò di nuovo nella fossa.

Lo fissai imperterrita nell’attesa di una sua mossa poiché avevo seriamente paura che facesse qualcosa di avventato, ma mi ricredetti quando vidi gettargli della terra sull’oggetto, che giaceva sul fondo della fossa, e ricoprirlo. Dovevo molto a Lorenzo perché aveva aiutato me e mio fratello a risollevarci dal baratro senza fine in cui eravamo caduti, offrendomi quel lavoro di cui a passi costanti riuscii a comprendere e fare mio. Eppure avevo sempre timore che potesse come altri tradirmi e questo era anche causato dal fatto che nel mio lavoro se non stai in allerta sei morto, senza avere il tempo necessario di accorgertene.

-Rientriamo.- mi ordinò Lorenzo in tono grave ma non ostile, finendo di ricoprire la buca.

Le cose erano cambiate, ora mi piegavo agli ordini, mio malgrado.

Mi abbassai ad accarezzare Star e vidi che era in grado di camminare autonomamente, come sempre Lorenzo aveva fatto un ottimo lavoro. Quando mi rialzai, trovai Lorenzo che mi avvolgeva in un abbraccio protettivo per poi lasciarmi un bacio avido sulle labbra.

-Mia. Tesoro. Solo mia, tutta mia!-

Ricominciò a baciarmi con più foga, lussurioso, mordendo e succhiando il mio labbro inferiore, ma l’unica cosa che riuscivo a pensare era: “Continua Ania, gli devi troppo!”. Non l’amavo più…, i sentimenti scemano quando viene a mancare ciò che più importa.

-Avevo davvero paura di perderti questa volta. Perché non mi hai chiamata dopo la missione?-

Avevo paura di deluderlo. Non potevo farlo.                                                 

-Mi credi se ti dico che mi si è rotto il cellulare nella missione?- dissi con un sorriso sornione.

-Sei capace.- sorrise al pensiero -L’Organizzazione te ne fornirà un altro.-

 

 

 

 

 

Questa one shot è frutto di un sogno, che mi ha fatto passare scomoda parte di una notte per via dei continui giri e rigiri nel sonno, perciò ho deciso di condividere i miei umanamente insoliti sogni… Sarebbe stato bello scriverlo in un dialetto terrone, ma sono incompetente in materia.

 

Ringrazio vivamente Zeta per il banner. Sei grande!

Taira Croft

   
 
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