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Autore: Amphitrite    13/04/2015    1 recensioni
“Ho portato un curriculum allo Smithsonian.”
“Cercano donne delle pulizie?”
[...]
“No, stronzo. Guide per la nuova ala.”

Fanfiction post The Winter Soldier, ispirata alla scena dopo i titoli di coda :D
Genere: Azione, Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James 'Bucky' Barnes, Natasha Romanoff, Nuovo personaggio, Steve Rogers, Un po' tutti
Note: AU, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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1.
 
Il giorno del colloquio è un ometto basso e panciuto dall’aria tremendamente simpatica, ad accoglierla.
Charlotte trema e traballa un poco, nei tacchi di rappresentanza che ha indossato per fingersi una persona seria, e si guarda attorno con due occhi enormi.
“Le piace proprio, il museo, eh?” L’uomo ridacchia e la scorta in un ufficio dove, assieme ad altri quaranta candidati, avrà modo di dare una pessima prima impressione. Perché sì, Charlotte sa che andrà male. Lo sente nell’ordine dell’universo, non ti presenti per un colloquio e vieni anche assunta. Non al Museo Nazionale di Storia Americana. Queste cose al massimo succedono se ti candidi come netturbina.
…No, nemmeno come netturbina. Ci ha già provato, ma i bastardi volevano gente con esperienza.
 
***
 
Claude attraversa la strada con il solito pacchetto tra le mani. Attento a non rovesciare niente, attento a non scottarsi, attento a tante di quelle cose da non accorgersi di stare per calpestare un senzatetto fino a che non è troppo tardi, e l’unica scelta è tra il buttare il baricentro troppo in avanti o troppo indietro.
Claude non è un cane, per quanto a Charlotte piaccia fingere che sia così, pertanto la scelta è ovvia: butta tutto il proprio peso sulla gamba sbagliata, quella ormai troppo debole per assorbire il contraccolpo e reggerlo, e si lascia cadere di sedere con un tonfo sorto.
“Merda.” Grugnisce, il pacchetto ancora in equilibrio per miracolo.
Marge sorride e si alza di corsa, affrettandosi a dargli una mano. “Claudio!” Lo saluta con la voce arrochita dal sonno. “Claudio, tesoro della zia, ma che ci fai a terra?” Claude indica con un cenno del capo Bob e si stringe nelle spalle, come se la risposta fosse ovvia. Marge – Margherita all’anagrafe, classe ’72, fieramente fuori di testa da ormai diversi anni – spernacchia all’indirizzo dell’altro barbone. “Lui? Potevi anche travolgerlo, mi facevi un favore. Tu sei troppo buono, Claudio. Imparala, un po’ di legge della giungla.”
Claude annuisce, promette solennemente che dalla prossima volta si lancerà di gomito addosso ai passanti urlando MORS TUA e si alza. “Madame…” Fa un mezzo inchino, scarta il pacchetto e porge alla donna una delle scatoline. “Cinese, oggi. La signora è contenta?”
Marge dà in un versetto sdegnato. “Oggi non è giornata di thailandese?”
“Era ieri, Marguerite.”
“Io sono abbastanza sicura che fosse anche oggi.”
“Il cinese lo vuoi o no?”
Marge allunga una mano e, con le movenze di una duchessa, prende una confezione per sé e una per il proprio consorte – Roberto, più pazzo di lei che non affetto da forme cliniche di sorta – e schiocca un bacio sulle proprie dita. Mormora qualcosa in italiano che Claude non capisce e gli sfiora la fronte con i polpastrelli.
“È bava, quella?”
“Amore condensato, Claudio. Si chiama amore condensato.”
“A me sembra bava.”
“Ti ho benedetto, ingrato bastardello. Tieniti la mia saliva e non fiatare.”
“Hai visto Kevin? Ho il pranzo anche per lui.”
Marge fa una smorfia dispiaciuta e si stringe nelle spalle. “Oh, il povero Kevin. Gli hanno rotto una gamba, sai? Stanotte. Ce n’era uno nuovo, a dormire nel vicolo. Kevin lo ha preso a calci e lui gli ha rotto una gamba. Stava ancora piagnucolando che lui non aveva fatto niente di male, mentre lo portavano via in ambulanza.”
“Povero Kevin.”
Bob, sotto di loro, grugnisce qualcosa di incomprensibile e rotola fino a poter guardare Claude negli occhi, stravaccato sul materasso di cartoni di cui si è ormai del tutto impossessato. “Povero Kevin le mie palle, se l’è cercata. Io l’ho detto che a quello nuovo non bisogna dare fastidio. Non sapessi in che anno siamo, lo darei per un reduce del Vietnam. Non gli devi rompere le palle, ai reduci del Vietnam.”
 
***
 
“Cinque.”
Charlotte fischia rumorosamente il proprio apprezzamento. “Addirittura cinque? Cavolo. Non fai confusione?”
Greg scuote la testa e i riccioli castani ondeggiano nella luce artificiale come se fossero bagnati di grazia divina. “Non è niente di complicato, in realtà. Con un po’ di pratica, chiunque potrebbe riuscirci. Anche tu.”
Charlotte si sforza di rivolgergli un sorriso amichevole. “Grazie.” Scandisce con tutto l’odio di cui è capace. E vorrebbe ribattere schiaffeggiandolo moralmente con qualche particolare abilità che lei e solo lei può vantare e che potrebbe arricchire lo staff dello Smithsonian, ma al momento le uniche cose che le vengono in mente riguardano doti mirabolanti che il suo ex attribuiva alla sua, di lingua. Non paga di risultare una candidata inferiore sotto ogni aspetto – Greg ha due lauree e sa cinque lingue, signore iddio – intreccia le dita sotto al mento e rivolge un sorriso affascinante a una lampada al neon sul soffitto. Se continuasse a fissare negli occhi verdi di Greg ci si perderebbe fino a dimenticarsi perfino cosa sta facendo là.
…Dio, lo assumeranno a scatola chiusa. È alto, bello, e parla cinque lingue. Al diavolo, lei lo assumerebbe come valletto personale, se solo avesse i soldi per permetterselo.
“Ehi, ma che belle mani.”
“Oh. Grazie.” Sorride e si osserva le dita con aria più attenta, ora, alla ricerca di eventuali difetti nello smalto. “Ci… ci lavoro.”
No, ma diciamolo qualcosa di orribilmente fraintendibile, ogni tanto, Charles.
Greg fa un’espressione di improvvisa realizzazione e Charlotte sa che è giunto alla conclusione più sbagliata di sempre. “Capisco.”
“La manista!” Esclama, le guance ormai due chiazze rubiconde. “Faccio la manista.”
Greg sorride come a volerle dire che non c’è niente di cui vergognarsi – c’è grossa crisi, chi meglio di un plurilaureato poliglotta può capirlo – e abbraccia lo schienale della sua seggiolina, sempre più sporto col busto verso di lei. “Che nome esotico. E lavori anche con i piedi, ogni tanto?”
 
***
 
La moto sfreccia tra i vicoli di Brooklyn, veloce e silenziosa come un serpente, macina chilometri e sorpassa i palazzi e le case in una nube di colore dai contorni indistinti. Il Capitano scuote velocemente la testa e si impone di non soffermarsi su niente. Niente, prima di raggiungere il suo obbiettivo. Gira a destra, un’ultima svolta prima di fermare la moto con una sgommata che solleva polvere e breccino in quantità tali da stroncare un asmatico con problemi di allergia.
L’insegna del bar si illumina a intermittenza, numerose lettere sono state rotte dal tempo o da qualche sassata, fino a scandire la parola QULO. Steve scuote la testa con un sospiro rassegnato ed entra.
Le finestre sono buie, rese opache dalla polvere. Un cliente particolarmente affezionato grugnisce un insulto quando una lama di luce gli brucia gli occhi indeboliti da tanto buio forzato e minaccia indicibili vendette per ripagare l’onta subita. Steve scuote di nuovo la testa e si avvia al bancone.
La barista è una bella donna. Alta, mora, ha quella bellezza senza tempo di chi ha ormai superato la soglia degli –anta ma si è dimenticato di notificarlo al proprio organismo. I capelli si ostinano a crescere del loro colore originario, un mogano che perfino in quella penombra brilla di riflessi che a Steve paiono tutt’altro che nuovi. Deve sbattere le palpebre un paio di volte più del dovuto per smettere di vedere tutt’altra persona in piedi, fiera e splendente come il sole. “Bella giornata oggi, vero?”
Annuisce con aria assente e nemmeno si disturba a ordinare da bere: prende posto, si guarda attorno, e inizia con le domande. “Da quanto esiste questo bar?”
La donna sorride e riprende a lucidare i bicchieri di birra. Oltre le labbra vermiglie, Steve può vedere una fila di denti bianchi, storti quanto basta a non farla sembrare finta. “Cinquant’anni almeno. Lo ha aperto mio padre. Io avrei voluto vendere, ma alla fine non ce l’ho fatta. Alla fine ti affezioni anche alle cose che credevi di odiare, se ci rivedi le persone a cui vuoi bene.”
Una fitta allo stomaco.
Perché sei rimasto, Steve? Perché continui a portarti dietro quello scudo con la vernice scrostata?
“Capisco.”
Peggy. È per Peggy.
“Come mai tanto interesse?”
No. Per Peggy sei rimasto nello SHIELD. Ora, Steve. Ora perché resti?
“Conoscevo una persona che abitava qua.”
 
***
 
“Come mai vorrebbe fare questo lavoro?”
“Mi piacciono i musei.”
Il responsabile delle risorse umane – Arthur, come ha tenuto a precisare più volte; devono chiamarlo Arthur – la guarda con aria interessata e annuisce. Charlotte capisce che attende una risposta più articolata dopo quarantasette secondi di silenzio e sa di essere fregata. Venti secondi sono sto pensando alla risposta migliore da dare a una domanda importante; quarantasette significano sono stupida.
E non se la sente nemmeno di andare troppo contro questo assioma inconfutabile dei colloqui di lavoro, ora come ora.
L’uomo davanti a lei sospira e scarabocchia qualcosa sulla cartelletta dove ha precedentemente pinzato il suo curriculum. Charlotte non lo vede, ma è sicura che sia una croce. Bella cicciotta. Sulla sua fototessera. Magari ci ha anche aggiunto ‘non assumere mai mai MAI’, se proprio è la sua giornata fortunata.
Sospira e si guarda attorno, mortificata. “Senta,” esordisce con tono accorato, “mi piace davvero questo posto e ho davvero bisogno di un lavoro.”
Arthur la squadra da sopra ai propri occhiali da vista e sospira. “Come se la cava con i bambini?”
“Beh, faccio saltuariamente la baby sitter da diversi anni, ormai.” Silenzio. Charlotte lo guarda. Ancora silenzio. Oh, dannazione, non di nuovo. “Ancora non ne ho ammazzato nessuno.” Aggiunge in un pigolio, nella vana speranza di risultare un po’ meno idiota.
L’uomo si aggiusta gli occhialetti fuggiaschi lungo il ponte del naso e annuisce. “Ammirevole. Temo che il nostro tempo sia esaurito, signorina. Le faremo sapere.”
Con un sospiro di sollievo, Charlotte si alza e si spolvera la gonna. “Ci credo tantissimo.” Mormora con un vigoroso cenno affermativo che le fa sobbalzare lo chignon sulla capoccetta. “Mi saluti tanto l’onanista poliglotta.” Aggiunge, vedendo che è Greg ad alzarsi per andare subito dopo di lei a coprirsi di splendore e gloria.
Cinque passi e sei fuori, continua a ripetersi. Cinque passi senza cadere dai tacchi. Puoi farcela.
“Ah!” Esclama alla fine, quando è ormai sulla porta. “Cercate personale per le pulizie? Un mio amico sarebbe interessato.”
 
***
 
“Tracce del soggetto?”
“Niente di certo. Un ricovero stanotte, al County General Hospital. Una gamba rotta durante una rissa tra barboni.”
La radio emette una scarica sinistra e la voce esce più gelida che mai. “Arriva al punto.”
“Il barbone ricoverato aveva l’osso sbriciolato. E continuava a ripetere che gli era strato stritolato a mani nude.”
Silenzio.
“Sai cosa fare.”
 
 
Note dell’autrice:
Salve salve! :3
Che dire? Spero che la storia possa risultare interessante, almeno un pochino :D
Grazie mille alle anime buone che hanno letto, messo la storia tra le seguite e hanno addirittura commentato, wo-hoooo! <3
   
 
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