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Autore: _sonder    20/04/2015    2 recensioni
La perdita di un marito e il dono di una figlia.
Elmyra fra i giorni dell'abbandono e la compagnia di una piccola Aerith.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aeris Gainsborough, Altro Personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII, Contesto generale/vago
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Elmyra, il tronco curvo in avanti, siede in cucina: usa a mo' di fazzoletto il comunicato della Shinra. Lo solcano rughe più profonde di quelle che parlano sul suo viso.
La carta trema, raggrinzita tra le mani. Le dita, segnate dai calli, incespicano nello scorrere le righe.
Il mobilio assiste, raccolto nel silenzio. Sembra sbirciare il contenuto della lettera, oltre le spalle nervose.

Fuori, gli schiamazzi dei bambini tingono la discarica di detriti in un fortino di pirati. Le risate stridono sulle guance slavate di lei. Invidia la loro spensieratezza e ha il desiderio di ritrarsi dal tocco di una felicità che non la riguarda, come punta sul vivo.

La collera le impone di scacciare il gruppo di marmocchi. Era suo marito a portare biscotti ai monelli, a carezzarne i capelli, umidi di sudore, e a domandarle quando ne avrebbero avuto uno loro.
Crede di estirpare i gesti di Marlon, di potare la memoria del suo profilo massiccio, negando ai mocciosi di proseguire i giochi; Elmyra pretende quiete e riservatezza. Rifiuta il boato di grida festanti e il coro di voci immerse nella farsa piratesca. E l’angoscia di cancellare il ricordo dell’idolo dei piccini, si traduce in un nodo del grembiule più stretto sulla vita.
Squadra incerta la soglia di casa e strappa un ciuffo di erbacce sul gradino dirimpetto la porta. Rientra e lascia Midgar sull’uscio.

Elmyra maltratta la stampa quasi fino a lacerarla. Gli angoli rovinati la additano in pieghe molli. Il canovaccio di carta, sotto il suo pugno da casalinga, sentenzia a lettere uniformi la parola vedova. Lo spazio bianco non fa posto alle speranze e l'inchiostro concretizza quelli che ieri erano i timori colpiti da un battipanni, fra l'ora della colazione e quella del bucato, le domande insistenti rivolte ad altre mogli.
"Forse la licenza è stata revocata", le avevano detto, con lo sguardo cauto di chi sospetta, ma non parla apertamente. E lei si era ritirata dalle premure. Offesa per il tentativo di compatirla, quando la fine della guerra era diventata una notizia sulla bocca di tutti. Aveva ribattuto, a testa alta, che il suo Marlon doveva essersi fermato a raccoglierle fiori di campo o a comprare dei prodotti tipici, con l’intento di obbligarla a cucinare uno dei suoi piatti preferiti. Lo avrebbe sicuramente rimproverato con uno scappellotto di contorno; odiava impestare la cucina di fritti maleodoranti e restare in bilico senza notizie.
La foga di raccontare dava voce agli aneddoti. Per darsi un piglio, si era attaccata alla volta in cui si era perso dopo essere salito sulla corriera sbagliata. Lo puntualizzava per proteggersi dall'epidemia delle preoccupazioni. Il senso di orientamento di quell’uomo era insopportabile, quanto l’odore di cacio dei calzini che indossava in casa. L’uno e l’altro erano utili a snellire i grammi di pazienza di Elmyra.
Eppure lo amava, persino nei difetti che la istigavano ai rimbrotti e a togliergli la parola per l’intera giornata.

Alla sera, il vento l’aveva indotta a cambiare pensiero. Si era adagiata sulle parole delle conoscenti. Sì, la licenza era stata annullata, perché Marlon non rincasava ancora…
Tutte le mattine scivolava nella via diretta alla stazione. Trovava scuse con i passanti e i vicini. Distoglieva gli occhi dai volti sereni delle coppie, chiedendosi se la completezza altrui dovesse sottolineare la propria solitudine.
Si accovacciava sulle scalinate del marciapiede, le spalle rivolte al treno. Marlon doveva vederla e cingerla, vergognarsi dell’attesa a cui l’aveva sottoposta.
Non tornava. Che battesse pioggia o sole sul lastricato, che fischiasse la locomotiva o il vento. I glutei le dolevano. Forse aveva lasciato la zuppa sul fornello acceso. Scrollava le spalle, circondandosi di odori e di suoni che rendevano Marlon più presente. Ma era lei ad allungarsi verso un’ombra, verso una sedia vuota, a correre al minimo scampanellio della porta.

"Domani non sarà diverso dagli altri giorni", si diceva. Eppure la palpitazione di primo mattino era la medesima. Tirava i capelli nello stesso crocchio, indossava l’abito verde e si avviava alla fermata nella solita processione di buongiorno e facce note.
Al suo posto, sulle scale, dinanzi i vagoni, giaceva il corpo ferito di una donna. Le onde dei capelli seguivano i fianchi; un caldo tappeto su cui era stesa, gli occhi chiusi e il petto appena in movimento. 
Elmyra rabbrividì. Si precipitò in ginocchio da lei e le prese una mano. Cercò di scrollarla con la voce. Era così innocua che temette di scalfirla.
La pelle si ghiacciò al contatto. Andò con le iridi dapprima alla donna e poi alla bambina che correva attorno alla moribonda. Era il ritratto in miniatura della sconosciuta. Piangeva.
Poi era giunto un rantolo.
— Aerith… 
Erano immagini a cui Elmyra non sapeva abituarsi, nonostante la guerra la obbligasse ad esserne spettatrice.
Tese un orecchio.
— Sì?
— Porta Aerith in un posto sicuro, per favore… 
Le parole si staccarono sottilmente dalle labbra. Il fiato spezzò il suo filo di vita e con esso si portò via la donna, alla quale teneva la mano stretta nelle proprie.

Elmyra incontrò lo sguardo della bimba. Vide i suoi occhi per la prima volta. Uno smeraldo intenso, bagnato dalle lacrime.
Passò un braccio sotto le gambe e l’altro attorno alla schiena. Divenne una culla calda, nonostante l’avesse colta la paura della morte.
Il terrore di non muoversi più l’aveva sfiorata da vicino e i pensieri si erano diretti a Marlon, ovattati dai singhiozzi di Aerith.
Erano entrambe sole.

Le diede perciò spazio nella casa, aprendo a qualcun altro la sacralità della vita intima con Marlon. Sentiva il proprio angolo invaso, ma era necessario che si adattasse. Contrarre una promessa con un morto imponeva di rispettare il giuramento; la bambina le era stata affidata. Non aveva cuore di lasciarla da sola, per quanto fosse gelosa dell’immobilità della sua dimora.
Voleva conservare tutto, negare i cambiamenti… almeno finché Marlon non fosse tornato.
— Mamma. Per favore, non piangere.
— Che dici?
Aerith si era avvicinata. Non era vispa come al solito. Elmyra poteva cogliere la tristezza nelle sue occhiate, che indugiavano a sostare su di lei. Puntava i piedi, dopo la osservava. Tornava giù, a fissare le punte degli stivaletti, le mani appuntate al vestitino. Infine, abbassò il capo.
— Cosa c’è, Aerith?
Era bastato un invito. Per farla parlare, non serviva alcuna spinta normalmente.
— Qualcuno a cui vuoi bene è morto.
Elmyra non le aveva creduto. Il tarlo però aveva cominciato a rosicchiare le travi della certezza. Non riusciva ad arrendersi al pensiero che Marlon fosse deceduto lontano da casa… non quando le aveva annunciato di essere in procinto di rientrare.
E quando Aerith lo aveva ripetuto, in un’incrollabile e oscura sicurezza, il primo pensiero di Elmyra era stato quello di ricomporre il silenzio.
Il rovescio sulla guancia della bambina, fulmineo, aveva pizzicato la pelle e prodotto l’effetto desiderato. Neanche un sussurro.
— Va’ in camera tua.
Aveva trovato rifugio in cucina, la schiena tesa contro il muro. Il capo crollò sulle mani e il corpo si squassò nella frustrazione. Crepa su crepa, veniva a galla la debolezza dietro cui si era nascosta. L’ipocrisia di far compagnia a una bambina non sua, che le riempiva le giornate.
Si accasciò a terra, molle ed esausta, cominciando a temere che l’agonia non si sarebbe conclusa.

Pochi giorni dopo arrivò un involucro della Shinra Inc. Le confermava ciò per cui Aerith l'aveva preparata.


Le ciocche dello chignon cadono sulle tempie. È scapigliata. Lontana dall'ordine cui si attiene tutti i giorni; le onde vaporose dei ciuffi la umiliano.
Tira il naso e scuote il viso, la fronte premuta sul foglietto. Un lembo di carta sottile, che potrebbe stracciare per ribattere a una realtà senza traccia di evidenza… Se è morto dov'è il corpo robusto? Dov'è la barba ispida attorno al viso squadrato? Il sorriso molesto e le battute grezze?
Nessuno le ha mandato i suoi resti. Nessuno le ha raccontato i suoi ultimi giorni. Anche se lo conosce, quanto le cuciture dei propri abiti. Potrebbe sperare in un errore. Tenta di ripetersi che si lascia desiderare, che vuole punirla in qualche modo. Lui che non alzava mai la voce.
Ed è tardi quando comincia a capire di pensare al suo uomo al passato.  
È solo quel foglio a ricordarle che Marlon è stato, è vissuto.
E non è più.

Gli occhi tentennano ancora sull'immagine che a passo pesante solcava la banchina. Sul sorriso da un orecchio all'altro e sulle parole piene di sicurezza.
– Hai promesso uno di quei deliziosi stufati dei tuoi al ritorno di questo gran soldato.
— Prima porta le tue vecchie ossa a casa, Marlon… Se non vuoi che ti conci per le feste, è chiaro.
Mani sui fianchi, Elmyra aveva riso.
— O potrei usarti per un buon brodo di gallina.
Anche lui si era chinato a ridere, nonostante il cuore si stringesse a vederla lottare per ricacciare le lacrime. Non amava una donna di ferro, ma una piccola tiranna. Le aveva allungato un fiore dal finestrino aperto.
—  Che dovrei farmene?
— Avanti, mettilo fra i capelli.
— Stai esagerando con le smancerie.
Lo accontentò ugualmente. Le palpebre di Marlon si erano allargate. Poggiò il mento sui gomiti e stette a guardarla mentre arrossiva. Elmyra si toccava con insistenza le ciocche, pronta a togliere lo stelo e a nasconderlo nella tasca del grembiule. La coda dell’occhio saettava verso il nugolo di viaggiatori, di arruolati e congiunti.
Marlon ruppe il silenzio, traendola via dal labirinto di imbarazzo.
— Ora ho una bella immagine a cui pensare, mentre sarò via.
— Attento, potrei scegliere un bell’uomo in tua assenza.
Non voleva parlargli così, ma la teneva sulle spine. Con cautela portò una mano a coprire il fiore, quando le persone presero a sfilarle accanto.


Passa le dita sulla bocca al ricordo ed è allora che scosta lo sguardo dalla tavola all'ingresso. Sobbalza.
Un paio di occhi verdi vigilano su di lei. Senza tempo, come i prati verdi di cui ancora sogna. La disarmano e la intimidiscono quegli occhi; eppure, non può fare a meno di incrociarli e di annegare nella pace dei fili d’erba alta. E torna a respirare, le mani abbandonate sul grembo.
La tazza di latte inciampa sul piattino e la bambina dondola, cammina a passi più piccoli per consegnargliela integra.
La donna aggrotta le sopracciglia. Riconosce il gesto. È il rimedio che usa per placare Aerith quando gli incubi spezzano il suo sonno.
Preme in fretta due dita sulle palpebre umide. Gli angoli della bocca esitano e poi si curvano all’insù.
Aerith la fissa, le mani intrecciate dietro la schiena. Le punte dei piedi si piegano verso l’interno, in attesa che la cura faccia effetto.   
Complice del gioco, Elmyra assaggia il latte caldo. Una smorfia le fa arricciare le labbra.
— È bruciato. Dovrò insegnarti come farlo a puntino.
Le iridi verdi rispondono senza battere ciglio, grandi e birichine. Sorride a mezza bocca e struscia il mento su una spalla. Sa di non essere una cuoca provetta come la nuova mamma; ma le ha rivolto finalmente la parola e in più non è arrabbiata. Lo sente. Una voce dal Pianeta la rassicura.

Elmyra poggia la fronte su quella della bambina. È calda e odora di pastafrolla. Probabilmente ha sgraffignato dolci con la scusa di preparare il vassoio. Le pulisce il vestito rosa, un campo minato di briciole e gocce di cioccolato.
— Pensavi di cavartela, signorinella? Non più di tre biscotti a merenda.
La voce si ammorbidisce, mentre avvolge la figlia fra le braccia.
— Mamma.
—  Sì?
— Non piangere.
Elmyra rimane in silenzio. Adagia il respiro sui battiti del cuore di Aerith.
— La persona che voleva venirti a trovare… è tornata al Pianeta.  
—  …
Adesso le crede. Non sa perché si ostini a parlare del pianeta, anziché del cielo.
È una bambina misteriosa, la sua Aerith. Spesso non capisce cosa intenda quando apre bocca.
Le sue labbra sono il greto di un torrente. Hanno da raccontare e accarezzano tanto le piccolezze e le scoperte. Nel suo istinto di donna Elmyra sa che si sente sola. Dell’identica sostanza di cui è fatta lei, con un peso simile sulle spalle.
E intende farsene carico. Vuole proteggerla.
— Adesso, da brava, sciacquati le mani e aiutami con la cena.

La vede correre verso il bagno, poi solleva una delle fotografie di Marlon. Con il polsino della manica pulisce il vetro.
— È una pasticciona. Come te.
La bocca si contrae per il dolore.
— Mi manchi.
Una molletta ferma un fiore essiccato sul legno della cornice. Lo ha assicurato svelta, proprio come lo aveva portato al naso, il giorno in cui il treno era partito. Pudica e vergognosa. 

L'angolo di Son: il Potpourri del titolo fa riferimento al fiore essiccato nel testo, ma anche alla mistura di memorie compressa nella nostra mente, talvolta rilasciate in emozioni repentine, che esplodono letteralmente. 
Il rapporto di Aertih ed Elmyra è costruito sulla complicità e sul dialogo, ma presenta qualche zona grigia. Inoltre, Elmyra ha sì un buon cuore, ma non è soltanto la donna di sentimenti nobili. Di sicuro è una madre molto affezionata e devota, ma questa caratteristica è lontana dal buonismo o dalla perfezione.
Affrontare una perdita è doloroso e non comporta la "santità".

La narrazione è frammentaria e passa dal presente al passato in più punti. Spesso si finisce col correre in circolo inseguendo un ricordo o l'inizio di una storia, soprattutto se costretti in un luogo diviso con la persona assente.  

Aerith ed Elmyra non mi appartengono. Sono proprietà della Square Enix.
  
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