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Autore: hirondelle_    27/04/2015    2 recensioni
“Vado dove mi porta il cuore.” rispose, rivolgendomi un sorriso un po’ così, un po’ schietto, un po’ curioso. Sulle sue labbra quella frase non sembrava una banalità: andava davvero dove voleva andare, lo si vedeva dallo sguardo, e per un secondo mi parve di capire che in questo modo avesse visto un sacco di cose.
Si presentò. Mi disse che si chiamava Javier, e il suo cognome non se lo ricordava molto bene, forse perché era da troppo tempo che viaggiava e non trovava mai il tempo di stare lì a pensarci, non ci pensava al suo cognome. Però io potevo chiamarlo Esme, lo chiamavano così un po’ tutti –tutti chi, pensai tra me e me, stringendogli la mano, pensando che io un cognome non lo avevo mai avuto.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tell me a story'
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Vite di cenere

Il nostro viaggio, mio e di Esme, cominciò in una stazione di servizio di San Ignacio. 
I trasporti pubblici erano troppo affollati, troppo pieni di gente ignota, troppo pieni di sentimenti e colori. E, tra le altre cose, non avevo abbastanza denaro per permettermeli. Quindi avevo questa... cosa per i passaggi. Non saprei descrivere appieno di cosa si trattasse all’epoca, semplicemente trovavo ci fosse del fascino nel condividere uno spazio ristretto con un completo sconosciuto, a parlare di eventualità ed episodi poco interessanti, e studiarsi senza davvero accorgersene. C’era della chimica, del magico, capisci.
Quel giorno cercavo un passaggio. Uno semplice. Avevo avuto la fortuna di ritrovarmi nell’unica stazione di servizio senza bar, il che restringe di molto il campo di ricerca, e il mio buon samaritano stentava a presentarsi: c’erano solo camionisti che aspettavano pazienti che l’ora di punta passasse sotto la calura estiva, e a chiunque avessi chiesto la destinazione mi aveva risposto con qualche secco e poco amichevole indirizzo di cui non avevo mai sentito parlare.
Ma io sono del Messico, e sono abituato ad andare al fondo delle cose. Così andavo a sud, senza davvero avere una meta precisa: mi bastava disegnare, trovar fortuna nelle piccole cose, disporre la mia bancarella abusiva un po’ dove capitava e aspettare che la sorte facesse il suo corso. E all’epoca non avevo poi tutto questo bagaglio: mi bastava un pacchetto di sigarette, talvolta un pennello. Le mie dita erano bruciate e macchiate sempre di catrame.
“C’è una prostituta poco più avanti, se ti interessa.” mi rispose finalmente qualcuno, un tizio tarchiato, non chiesi il nome. “Dice che va dove le pare. Se fai il carino accetta di sicuro. A quella basta battere.”
Risero tutti. Non capii il motivo: non capisco mai niente, effettivamente, fin da piccolo ho sempre avuto dei problemi nel comprendere certe cose. Una risata, un gesto, uno sguardo. Sono messicano e vado al fondo delle cose solo quando mi piace farlo: io le persone non le ho mai studiate.
Questo sono io, e questo è il nostro viaggio. Mio e di Esme. E iniziò in una stazione di servizio di San Ignacio, tra file di camion in sosta, e col cielo che minacciava pioggia. Iniziò nel momento in cui la vidi, o per meglio dire, vidi le sue gambe che spuntavano snelle da sotto uno sgangherato camper a fiori. Erano gambe da ragazza, le sue, fasciate dai jeans stretti, belle da morire. Il resto di quel corpo era sotto il camper, e io mi sorpresi a smettere di respirare, smisi proprio, al solo pensiero di poterla vedere di lì a poco. In apnea, avvicinai la cassetta degli attrezzi e chiesi se volesse una mano.
Ci mise un po’ a rispondere. Prese a parlare e la sua voce era morbida, un po’ profonda, un po’ roca. “Ho quasi finito, in realtà. Ma se mi passassi quel cacciavite a stella mi faresti un favore”.
Studiai la serie di cacciavite e presi un po’ quello che capitava, quello con la punta che somigliava di più a una stella insomma, perché non ci sapevo fare con quel genere di cose. Non sapevo proprio niente del mondo, io. Glielo passai e a quanto pare avevo azzeccato cacciavite, perché non mi disse più nulla e continuò ad armeggiare ancora per un po’. Non sapevo cosa dire, non sapevo cosa pensare. Mi schiarii un poco la voce, tentennando un po’ sulle gambe malferme, e la mia voce tremò quando provai a parlare. Solo un po’. Esme aveva... quest’effetto su di me, e fin dal primo momento sembrò voler marchiarmi con la promessa che ogni volta che mi avrebbe parlato, ogni volta che l’avrei vista sorridere, sospirare, gemere, avrei tremato sotto il suo potere.
E tremai scosso da un tremendo brivido, quando la sua testa fece capolino da sotto il veicolo, sporca d’olio e contornata di riccioli rossi. Mi guardò con quegli occhi enormi e sorprendentemente verdi, sorridendomi gentile, come se mi aspettasse.
Esme era un ragazzo.
La scoperta mi colpì a tal punto che rimasti paralizzato da una serie di pugni sullo stomaco, il quale si arricciò violentemente nel mio ventre con un raccapricciante verso di dolore. Non l’aiutai ad alzarsi: rimasi solo a fissarlo, tentando di non mostrarmi eccessivamente traumatizzato o deluso da quell’amara visione. Me ne resi conto immediatamente: Esme era il ragazzo più bello che avessi mai incontrato e non poteva, in alcun modo, essere mio.
“Grazie!” esclamò, riponendo una serie di attrezzi sporchi nella cassetta e chiudendola poi, girando le chiavi del lucchetto con le dita lunghe e impreziosite dallo smalto. Erano mani un po’ rovinate, troppo sensibili, ma comunque belle: di quella bellezza che si trova nelle piccole cose, in un fiore un po’ appassito o in un cielo troppo spento. 
“Ogni tanto fa i capricci. Sai, è di seconda mano, non è molto a posto.” spiegò, senza che io avessi detto qualcosa. Poi appoggiò le nocche pulite della mano su un fiore più sgargiante degli altri e diede una sorta di carezza, facendo scivolare la pelle bianca sul metallo lucido. “L’ho appena portato a lavare. Non è un gioiello?” 
“Davvero...” commentai, sebbene nell’insieme non mi desse esattamente un senso di sicurezza. Ero indeciso se palesare il motivo del mio interesse nei suoi confronti o lasciare che la mia presenza sembrasse un semplice caso: quel ragazzo mi faceva paura, una paura tremenda. Non ce n’era motivo. Eppure quando lo vidi pulirsi alla buona le mani con uno straccio e gli chiesi se andasse a Sud, sperai che mi dicesse di no. 
“Vado dove mi porta il cuore.” rispose, rivolgendomi un sorriso un po’ così, un po’ schietto, un po’ curioso. Sulle sue labbra quella frase non sembrava una banalità: andava davvero dove voleva andare, lo si vedeva dallo sguardo, e per un secondo mi parve di capire che in questo modo avesse visto un sacco di cose.
Si presentò. Mi disse che si chiamava Javier, e il suo cognome non se lo ricordava molto bene, forse perché era da troppo tempo che viaggiava e non trovava mai il tempo di stare lì a pensarci, non ci pensava al suo cognome. Però io potevo chiamarlo Esme, lo chiamavano così un po’ tutti –tutti chi, pensai tra me e me, stringendogli la mano, pensando che io un cognome non lo avevo mai avuto. “Pablo.” dissi solo, e provai davvero a sorridere, ma forse ero troppo stanco. 
“Cerchi un passaggio?” mi chiese, discreto. “Vuoi andare a sud?”
“Sì, dovrei andare a sud, ma non c’è problema se vuoi andare da un’altra parte. Cerco un altro.”
“Sud mi va bene.” E piegò le labbra in un sorriso sconosciuto. Aveva una camicia a scacchi, aperta appena sul petto glabro, e mi sembrò assurdo che fosse davvero una prostituta –forse era un modello, o qualcosa del genere, e andava a fare servizi fotografici un po’ dappertutto. Ma no, pensai. I papaveri di campo non stanno in vetrina. 
“Se vuoi ho pure un letto in più. Puoi viaggiare con me per un po’.”
“Grazie.” annuii, sebbene nel mio cuore avessi già deciso che gli avrei chiesto di scendere alla prossima stazione di servizio. 
Non avevo dei pregiudizi verso di lui, non li ho mai avuti per nessuno. Ero solo terrorizzato. Perché Esme era bello e io avevo paura che questa mi avrebbe fatto male... come per i bambini attratti dal fuoco della candelina di compleanno: avvicinano le dita tozze e piccine e sembra quasi un miracolo quando non si scottano. 
Però lui sembrò capirla questa cosa: aprì la porta del camper e mi lasciò entrare, per studiare un po’ l’ambiente e lasciare lì le mie cose, e continuò a sorridermi con gentilezza —mi chiesi cosa pensassero di lui tutti quei camionisti, era quasi troppo cortese per essere una prostituta. Non capivo mai niente, io, e nemmeno quella volta capii. Non capii quanto intensamente mi stesse studiando. Forse per lui era persino un po’ strana come situazione: non ero un cliente, e chiedevo solo un passaggio. Me la confessò anche, questa cosa, un po’ più tardi.
Il camper era chiaramente in disordine, tuttavia non vi era alcun segno che palesasse la natura del suo mestiere: vi erano due finestre che illuminavano l’ambiente poco spazioso, ma accogliente. Si entrava sulla cucina, una piccola cucina montata sulla parete opposta alla porta, mentre di fianco si scorgeva un divanetto rosso che doveva fungere anche da letto, mentre in fondo al corridoio stava un piccolo bagno. Una scaletta portava ad un angusto spazio al di sopra del posto di guida, dove poche lenzuola scompigliate da un precedente risveglio sostavano appallottolate e pigre su un vecchio materasso. Non seppi mai esattamente perché, ma quell’immagine mi colpì come poche altre nella quotidianità di Esme, come un fotogramma. Rimasi fermo sullo stipite, appoggiando piano il mio bagaglio sul divano e guardandomi attorno abbastanza spaesato. 
“Perdono, perdono!” rise il mio ospite dietro di me. “So che è un poco in disordine ma in genere lo mantengo abbastanza pulito. Sono appena stata in California: sai, lì si perde la concezione della normalità.”
“Non è un problema...” mormorai, ed era la verità. Mi feci da parte quando mi fece segno di voler entrare, ed essendo lo spazio abbastanza scomodo per due persone mi sedetti a gambe incrociate sul divano, tentando di non essere di troppo. Esme si avvicinò alla cucina e mi sorpresi nel vederlo aprire il rubinetto e lavarsi le mani: l’acqua da quelle parti costava, e probabilmente non era nemmeno troppo semplice procurarsela. 
“Ti andrebbe di assaggiare qualche biscotto?” mi chiese, voltandosi verso di me di tanto in tanto. Armeggiava con le credenze e da un po’ e compresi che, volente o nolente, avrei dovuto mangiarli in ogni caso. Accettai volentieri, per cortesia e curiosità, continuando a guardarmi attorno. 
“Li ho fatti stamattina: sono ancora freschi.” spiegò avvicinandomisi con un vassoio di plastica, e mi sorrise amabile. Gli feci spazio sul divano e lui si sedette comodamente dopo aver appoggiato il vassoio sul poggiolo. Prese un biscotto e me lo allungò ridente, portandolo all’altezza delle mie labbra. Lo addentai senza un perché. “È molto buono.” mormorai in imbarazzo, sentendomi osservato da quegli occhi meravigliosi e carichi di aspettativa: era così vicino, così curioso e interessato alla mia presenza, che ogni singolo gesto mi costava una fatica immensa. 
Esme appoggiò la testa allo schienale e rise.

Non seppi perché non scesi immediatamente, come mi ero prefissato all’inizio. Alla prima stazione di servizio in cui ci fermammo e alla quale scesi provai una sensazione di smarrimento, come se il camper fosse diventato un’isola sicura da ogni male e il mondo esterno fosse talmente grande da risultare soffocante. Mi voltai verso di lui e dissi solo: “Hai un letto per me?” E lui annuì soltanto, studiando divertito il mio improvviso rossore.
Esme parlava molto, ed era curioso come ogni argomento tirasse fuori fosse sempre estremamente interessante alle mie orecchie che ascoltavano un po’ distratte, mentre tracciavo i tratti del suo viso su un foglio di block-notes.
Era un po’ un mio vizio, quello di tratteggiare i volti delle persone che incontravo, bozze di quadri che rimanevano semplicemente nella mia testa senza che uscissero. Stavo rannicchiato al posto del passeggero e tenevo distrattamente il blocco sulle ginocchia, inclinato in modo che lui non potesse vederlo. Era troppo concentrato sulla strada, in realtà, troppo preso dai tanti pensieri: il prezzo della benzina, il calo della clientela, o anche solo la mancanza di uova negli scaffali degli autogrill. “Ma ci pensi?” blaterava, di tanto in tanto alzando le mani dal volante e gesticolando. “E come dovrei fare le torte? Le frittate? Le colazioni all’inglese? Dovrei procurarmi direttamente una gallina? E dove dovrei metterla, nell’armadio?”
Il pensiero mi fece sorridere. Sbuffai pensando alla vecchia fattoria dei miei genitori, chiusi sotto ogni punto di vista: non avrebbero offerto uova a una prostituta neanche se li avesse pagati a peso d’oro. O si fosse spogliata. Come mi raccontò avesse fatto diverse volte. 
“Dovrebbero creare una legge apposita.” commentai distrattamente.
“Per cosa? Per gli spogliarelli?” chiese, voltandosi appena verso di me.
“No, intendo per le uova negli autogrill, o alimenti di questo genere.” mormorai tranquillo. 
Esme tornò a guardare la strada e fece schioccare la lingua, assorto. “Non ci avevo pensato. Ma anche una legge per gli spogliarelli non sarebbe male.”
“Ti divertiresti molto, immagino.”
Esme rise. Aveva una risata strana, senza spessore, ma non sgradevole. “Oddio Pablo, non immagini quanto.” 
Gli rivolsi un’occhiata allegra e non dissi niente, troppo preso a tratteggiare il contorno delle sue labbra, sbavando un po’ e indugiando sulla forma complessa. Rimasi assorto per qualche attimo, contemplando appena il loro colore roseo, la forma pronunciata da una leggera passata di rossetto chiaro. Incredibilmente mi accorsi solo in quel momento che era truccato: su un altro uomo quella passata leggera di matita o quell’ombretto pallido non sarebbero passati inosservati, eppure su Esme sembrava perfettamente normale, come se il viso fosse nato apposta per essere valorizzato.
Sussultai quando mi resi conto che mi stava fissando con la coda dell’occhio, studiandomi attentamente. Sorrise soltanto, tornando a guardare la strada come se niente fosse. Ma la domanda arrivò comunque, gentile e un po’ curiosa, che ebbe su di me un effetto di insano disagio. “Sei un artista?”
Portai lo sguardo all’immagine del block notes. “Non mi definirei così. I veri artisti sono altri.”
“Siamo tutti artisti. Solo che ognuno ha una propria arte, non siamo uguali.” commentò assorto, come se stesse parlando a se stesso, tanto sembrava perso in un mondo smarrito. Lo osservai per pochi attimi, giusto il tempo che si riprendesse e allungasse giocosamente una mano inanellata per soffiarmi il disegno da sotto il naso. All’inizio feci un po’ di resistenza, riluttante, poi pensai che in fondo mi importava poco della sua reazione e lasciai la presa. Non sembrò stupirsi di questa mia concessione: per un attimo mi chiesi se non fosse in realtà consapevole del suo potere su di me.
I suoi occhi si spostarono meravigliati dai sottili tratti di matita alla strada, fino a quando non decise di accostare e di fermarsi per studiarlo meglio. Ci trovavamo in una strada poco trafficata, che fiancheggiava campi assolati e boscaglie rade. Javier rimase chino ad ammirare il disegno per minuti che mi parvero interminabili, assorto, sorridendo silenziosamente nel riconoscersi. Tracciò il profilo del suo viso con le dita smaltate e mormorò appena: “Sei molto bravo”.
“Grazie...” sussurrai in imbarazzo, e tirai su con il naso. “Ma ho tanto da imparare.”
“La bocca? Hai spesso difficoltà?” chiese casualmente lui, notando le sbavature della matita troppo friabile. “Insomma, ti capita con tutti?”
“Poche volte per la verità.” risposi. “Di solito non sono in grado di fare gli occhi, li lascio per ultimi e mi ci vuole molto tempo. Vedi? Ho lasciato lo spazio bianco...”
Esme sorrise, scoccandomi una delle sue occhiate divertite e sbarazzine. “Hai mai pensato di...” si bloccò appena, scuotendo la testa.
“Di?” Sbattei le palpebre. 
“No niente. Mi chiedevo se non avessi mai pensato di... guardare le cose più da vicino.”
Rimasi spiazzato e per arrossii come un ragazzino. Lui invece sembrò prendere la cosa abbastanza tranquillamente, appoggiò la testa allo schienale e studiò la mia reazione con sguardo quasi felino. Poi chiuse gli occhi e se li stropicciò, fingendo noncuranza e scacciando l’atmosfera imbarazzante con un’altra risata. “Scusami, mi sto divertendo troppo. Difetto professionale.”
Non seppi se sentirmi sconvolto, mortalmente imbarazzato o arrabbiato. Esme mi restituì il block notes e da quell’episodio non lo aprì mai senza il mio consenso.

Non raggiungemmo la stazione di servizio e ci fermammo nei pressi di un centro abitato, senza avvicinarci ulteriormente. L’orologio affisso a una parete del camper segnava le sette di sera, e tanto bastò perché Esme si volgesse verso di me con fare affabile e mormorasse: “Sono un po’ stanca”.
“... Stanca?” risposi stupidamente. Viaggiavo con lui da una giornata buona e non avevo ancora capito. Non avevo capito proprio niente.
“Sì, un po’. Stasera poi pensavo di lavorare. Non ti dispiace vero?”
Continuai a fissarlo, senza parole, incapace di esprimere un pensiero coerente. Stavo iniziando a realizzare un po’ di cose, e ognuna mi sembrava più assurda dell’altra. Esme parlava di sé sia al femminile che al maschile e me ne ero reso conto solo in quegli istanti futili. 
Esme strinse le labbra in una linea sottile e si voltò completamente verso di me, accomodandosi su un fianco. “Sai che lavoro faccio, no?” mormorò paziente, come se stesse parlando a un bambino. “Insomma, ti chiedo solo se ti dà fastidio. Non porto nessuno qui dentro. Non preoccuparti se non torno, o se sto lontana troppe ore. Capito? Mi basta che tu sia sereno.”
Annuii serissimo, senza dire nulla. Fissai il mio sguardo sui suoi occhi smeraldini, che in quel momento mi sembrarono più esplicativi di mille parole. Quando scese dal posto di guida lo seguii con lo sguardo prima di raggiungerlo: entrammo dal retro e silenziosamente ci mettemmo a sistemare il divano letto. Tirò fuori dall’armadio delle lenzuola pulite e piegate, bloccandosi un attimo prima di passarmele. “Sei il mio primo non-cliente.” mormorò soprappensiero, e interiormente rabbrividii notando quello sguardo perso che non mi era nuovo: si bloccava spesso, come se stesse pensando a qualcosa di tremendo, e io non ho mai saputo cosa potesse passargli per la mente. 
“Ti infastidisce?” replicai stupidamente, prendendogli il fardello direttamente dalle mani con delicatezza. 
Esme sembrò uscire dalla trance e mi sorrise cordiale. “Oh no, affatto! Anzi, è una cosa buona. Mi fa sentire meglio.”
“In che senso?” chiesi incuriosito, e aprii i lembi del lenzuolo per stenderlo sul divano ammaccato. Non era esageratamente grande, ma abbastanza perché il passaggio venisse completamente bloccato e quasi sfiorava le panche a muro dall’altra parte. 
“Beh, fino ad ora tutte le persone che ho conosciuto volevano solo qualcosa da me. Del resto, è normale, essendo il mio lavoro. Non bisogna biasimarli.” Una pausa, una mano che infilava il lenzuolo sotto l’improvvisato materasso. “In qualche modo mi ricordi che non sono una macchina e che posso essere umano.”
Non replicai, sentendomi profondamente confuso. Non avevo intenzione di entrare in quel discorso e di trattarlo più approfonditamente, dato che mi era del tutto estraneo: mi tornò alla mente il mio obiettivo originale, ovvero avere un tetto sotto la testa e un passaggio verso Buenos Aires. L’indomani sarei partito da solo, lasciandolo alla sua realtà e cercando un altro passaggio che mi portasse solo un po’ più in là. Solo un po’ più in giù.
Perso in quei pensieri, non mi accorsi del suo richiamo. Alzai la testa imbarazzato, stendendo e lisciando il copriletto con insistenza. “Hai detto qualcosa?”
“Ti ho chiesto cosa vorresti mangiare stasera.”
“Oh, non mi faccio problemi.”
“Mi fa piacere: ho solo carne in scatola e un paio di birre.” mormorò in imbarazzo mostrando le credenze quasi vuote. A quell’affermazione non potei trattenermi dal sorridere. “Non importa: sono sopravvissuto con molto meno.”
Portammo fuori il tavolino di plastica pieghevole. Ricordo che Esme vi pose sopra una splendida tovaglia, bianca a fiori azzurri, e portò fuori persino una candela dall’aria vissuta. Ci sedemmo su sgabelli improvvisati lasciando la carne sul fornello da campo e stappando le bottiglie fresche. Esme si abbandonò contro la superficie del camper e osservò attento l’orizzonte, come se affilando lo sguardo avesse potuto scorgere qualcosa. Il sole si inabissava lento tra gli alberi. E rimanemmo così per un po’, ascoltando lo sfrigolare della carne e il leggero “toc” dell’alluminio. Esitai a sorseggiare dalla bottiglia, istupidito, come se stesse accadendo qualcosa di molto importante: osservai l’espressione serena e assonnata di Esme e un brivido mi corse lungo la schiena.  
A un certo punto sospirò, alzò aggraziato la bottiglia e l’allungò verso di me, gli occhi un po’ lucidi e illuminati dal rosso tramonto. “Un brindisi al nostro incontro.”
Il suono delle birre che cozzavano tra loro mi accompagnò anche nel sonno. E mi accompagna tutt’ora, come il frammento di una cantilena.

   
 
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