N/A Ancora una sfida con la mia cara Cartoonpeeker,
questa volta a suon di “momento Splinter/Mikey”.
Perché un po’ di tenerezza ogni tanto ci vuole, eh sì ;)
Buon fluff a tutti. Enjoi :*
Era ormai
notte inoltrata ed il covo era buio e silenzioso.
Al massimo
si sarebbe potuto notare solo il flebile riverbero della luce che entrava dalla
griglia sull’albero del dojo, o dei led dei pochi vecchi elettrodomestici, o ancora
la luminescenza fredda di qualche liquido misterioso imbottigliato nel
laboratorio di Donatello. E, ad ascoltare bene, anche dalla fossa centrale, che
si apriva come una sorta di zona giorno con i cuscini e la tv, sarebbe stato
possibile sentire, con un udito fine e facendo molta attenzione, il russare di
Raffaello dalla sua camera.
Ma per il
resto, tutto era tranquillo. Di quella tranquillità buona delle case di notte,
che sembrano dormire anche loro con le anime che vi abitano, per preparare le
loro mura alla frenetica vita che il nuovo giorno avrebbe portato, quando i
suoi abitanti, quattro adolescenti ed un adulto, tutti non umani, si sarebbero
svegliati.
Nell’aria,
ancora, aleggiava un delicato profumo, qualcosa di fiorito e fruttato, ma senza
la deliziosa e aromatica asprezza naturale dei veri frutti, quanto solo la
surrogata fragranza chimica presente nei detergenti per pavimenti.
Tutto adesso
era pulito. I giovani mutanti ed il loro maestro avevano lavorato tutto il
giorno, per rendere la loro tana nuovamente abitabile. Avevano cercato di
salvare ciò che poteva essere salvato, e buttato, con dispiacere, ciò che la
furia della battaglia aveva distrutto per sempre, ricordi accumulati di una
vita e oggetti cari; avevano scopato via calcinacci e vetri infranti, lavato la
polvere ed il grasso delle macchine rotte, che a loro volta ancora giacevano,
in mucchi scomposti, in un angolo del laboratorio, con i loro arti artificiali
aggrovigliati e rotti, e le orbite meccaniche ormai spente.
Nella sua
stanza, Splinter dormiva con la schiena rivolta alla porta, sdraiato sul futon,
che, conservato ben arrotolato dentro il suo armadio, non era stato toccato
nell’attacco. Sotto il kimono rosso, il petto che una volta era stato umano, ma
che da ormai più di tre lustri era ricoperto di morbida pelliccia, si alzava e
si abbassava in un respiro lento e rilassato.
Ma Splinter
era un maestro ninja, anche quando dormiva era sempre perfettamente consapevole
dell’ambiente intorno a sé, e bastava il minimo, attutito suono, per riportarlo
veloce dal sonno alla coscienza; quindi, se anche il rumore della porta di
carta, dello shoji che si apriva, non
sarebbe stato percepibile da orecchio umano, bastò a svegliare il mutante che
una volta era Hamato Yoshi dal suo sonno leggero.
Il maturo
mutante spalancò gli occhi. Trattenendo il respiro, rimase in ascolto per un
paio di secondi, senza voltarsi, né dare a vedere di essersi svegliato. I
sensi, appena allertati, si rilassarono però quasi subito.
Splinter
riconosceva benissimo il respiro dei suoi figli. Era un respiro appena appena diverso
da quello degli esseri umani, da quello della sua allieva, April O’Neil, e
dell’altro ragazzo, Casey Jones, che ormai frequentavano da mesi la sua casa.
Era un respiro inconfondibile, per lui e solo per lui, perché era il respiro
dei ragazzi tartaruga che aveva visto crescere, che aveva curato ed istruito,
che si era ritrovato ad amare.
Eppure,
anche i suoi sensi mutati avevano dei limiti. Era sì uno dei suoi figli, che
stava sbirciando dalla porta della sua stanza, senza entrare, ma Splinter non
avrebbe saputo dire con esattezza quale. Probabilmente Raffaello o
Michelangelo, i respiri dei quali erano più veloci e nervosi di quelli degli
altri fratelli, ma neanche di questo poteva essere assolutamente sicuro. Un
Leonardo agitato inalava l’aria con l’impeto di Raffaello, un Donatello turbato
aveva il rapido soffio del più piccolo di casa.
Quando la
porta si richiuse, anche Splinter richiuse gli occhi, e sorridendo, decise che
avrebbe indagato al mattino, per scoprire chi fosse il misterioso spione notturno,
e cercato di capire il perché, di questa strana e veloce visita. Cambiò
posizione, girandosi verso la porta, deciso a continuare il suo sonno.
Un piccolo
rumore dalla cucina, il cigolare lieve di un’anta, allontanò quest’idea.
Hamato Yoshi
si rese conto che il sonno era sfumato, e si accorse all’improvviso di provare
la necessità impellente, ed in un certo senso priva di ogni spiegazione, di
alzarsi ed andare a vedere chi fosse il figlio che si era svegliato.
Sicuramente, qualche mese prima avrebbe trovato il pensiero ridicolo. I suoi ragazzi
erano ormai adulti, ed avevano tutto il diritto di alzarsi la notte senza che
un vecchio padre impiccione si intrufolasse nelle loro faccende. Ma quello che
era successo negli ultimi mesi era ancora troppo fresco, nelle sue paure. La
distanza dai suoi figli, che lui non aveva neanche percepito, intrappolato
com’era in uno stato mentale ferino e selvaggio a causa dello shock susseguito
alla tremenda battaglia con il suo mortale nemico, gli tornava alla mente
carica del peso nero del senso di colpa. E poi, questa era la prima notte che
dormiva nella sua vecchia stanza dopo mesi, e dopo alcuni giorni in cui aveva
condiviso, per il sonno, lo stesso spazio con le tartarughe in quella pizzeria abbandonata.
Quindi,
sentiva che qualcosa non era ancora a posto, in lui se non nei suoi ragazzi.
Alzato in
piedi, si sistemò il kimono, spianò le grinze accarezzando il tessuto con le
mani ed uscì dalla stanza. Già dal dojo si notava la luce che giungeva dalla
cucina, oltre la tenda che fungeva da divisore.
Scostata la
tenda, un paio di assonnati occhi azzurri si voltarono a guardarlo.
“Cosa ci fai alzato a quest’ora,
Michelangelo?”
La giovane
tartaruga mutante teneva in una mano una piccola teiera di ceramica bianca,
nell’altra la sua tazza preferita; in piedi tra il tavolo ed il lavandino,
sorrise.
“Ti ho
svegliato, Sensei? Anche se ero nella mia fantastica modalità ‘furtività
ninja’?” All’espressione impassibile di Splinter aggiunse, storcendo il viso
imbarazzato: “Uh… Ok, ti ho svegliato.”
Posò la
tazza sul tavolo e si girò a riempire di acqua la teiera, continuando a
parlare.
“Il fatto è
che avevo sete, così sono venuto a bere un bicchiere d’acqua, ma arrivato qui
mi sono detto ‘Perché non farsi una bella camomilla e magari mangiare due
biscotti…?’”
Si fermò dal
versare l’acqua, ed accennando alla teiera aggiunse: “Ne faccio un po’ anche
per te, Sensei?”, voltandosi nuovamente verso il suo maestro e sorridendogli ancora.
Ma Splinter
notò subito che anche questo secondo sorriso del suo ragazzo non arrivava agli
occhi.
“Sì, figlio
mio, grazie.”
Il maturo
mutante si sedette in uno degli sgabelli del tavolo, senza aggiungere altro.
Senza chiedere. Uno strano silenzio scese nella cucina, mentre i due mutanti
guardavano la teiera che l’adolescente aveva posizionato nel forno a microonde
e che girava su sé stessa, illuminata di rosso, riscaldandosi.
Sempre in
silenzio Michelangelo preparò tazze e filtri, zucchero e biscotti; infuse i
filtri nell’acqua fumante, versò la camomilla nelle tazze partendo da quella di
Splinter, attese che il padre toccasse la sua tazza prima di prendere la
propria. Sebbene la camomilla e la situazione non richiedessero la cura formale
nel servire il tè, il giovane adolescente, che in quell’arte era secondo solo a
Leonardo, non avrebbe mai bevuto prima del suo maestro neanche in cucina.
L’aroma era
buono, e si diffondeva caldo dalle tazze. Splinter chiuse gli occhi, e bevve a
piccoli sorsi. In verità, non aveva mai amato la camomilla. Ma adesso, mentre
scendeva calda in gola, non poteva dire che gli dispiacesse. Sbirciò, da sopra
la tazza, il figlio, che col capo chino aveva riposto la sua bevanda sul tavolo
dopo appena un sorso, e se la rigirava tra le mani. Non aveva toccato i
biscotti.
“Cosa
succede veramente, figlio mio? Perché ti sei svegliato?” domandò Splinter
posando anche lui la tazza.
Michelangelo
alzò gli occhi al padre. Brillanti apatiti azzurre vibranti come liquido,
appena un po’ arrossate da minuscoli filamenti scarlatti. Strinse le spalle.
“Niente
Sensei. Non avevo sonno. Mi dovevo fermare alla prima lattina di Coca Cola,
ieri sera, o alla seconda, beh, alla terza di sicuro, ma le acciughe della
pizza surfavano nel mio stomaco e…”
“Michelangelo…”
“Sul serio, Sensei.
Scusa se ti ho svegliato.” Il giovane mutante ha sorriso ancora, si è alzato
dal tavolo, lasciando lì la camomilla bevuta a metà. “Adesso torno a nanna, ché
domani in pratica ho promesso a Raph di fargli vedere come combatte un vero
ninja e… Beh, buonanotte!”
“Michelangelo.”
La tartaruga
si fermò sulla porta, con la tenda in mano, alzata per metà. Girò piano la
testa verso il padre.
Se c’era un
merito che Splinter si riconosceva, come padre, era quello di saper leggere
dentro i suoi ragazzi. Sapeva quando gli nascondevano qualcosa. Quando mentivano.
Sapeva quando stavano male, nonostante dicessero di stare bene.
Quando
volevano essere aiutati, e neppure loro lo ammettevano.
Nella luce
della lampadina della cucina, il volto senza maschera di suo figlio, portava,
appena visibili, due opaline striature di sale sulle guance.
Splinter
sapeva pure che Michelangelo era uno spirito allegro, felice. Era un’anima
luminosa che rischiarava anche le tenebre più scure. Un concentrato di energia
che irradiava felicità come un faro. Un bambinone che non voleva crescere
perché aveva deciso che la vita era un gioco troppo bello per non essere
giocato secondo le sue regole.
Ma era anche
e soprattutto un animo molto sensibile, il cui sorriso a volte serviva a
scacciare i pensieri neri che lo assalivano con più crudeltà rispetto agli
altri, proprio perché più nemico di essi.
“Perché hai
aperto la porta della mia camera?”
Michelangelo
lasciò cadere la tenda, e tornò al tavolo.
“Io, ehm…”
Ridacchiò nervoso, guardando in basso, iniziando a tirare piccoli calci al
piede dello sgabello. “Ecco io… volevo controllare.” La voce si spense in un
sussurro imbarazzato.
“Controllare?”
Splinter inarcò un sopracciglio.
Michelangelo
sospirò. Alzò gli occhi al padre. Deglutì, e poi disse, triste: “Io… volevo
controllare… che tu fossi lì.”
Gli occhi
azzurri luccicarono, umidi, e poi fuggirono di nuovo verso il pavimento.
Splinter si
alzò in piedi, e si avvicinò al figlio. Gli posò le mani sulle spalle;
l’adolescente alzò piano il volto, ad incontrare lo sguardo del padre, che gli
sorrise comprensivo.
Michelangelo
restituì il sorriso, questa volta sincero, ma triste. Tirò su col naso, ed una
lacrima scese sulla guancia.
“Ho avuto
paura, papà” mormorò piano. Scacciò la lacrima col dorso della mano, quasi con
rabbia. “In questi mesi, io… ho pensato che tu…”
Al
singhiozzo del ragazzo, Splinter fece una cosa che non faceva da forse troppo
tempo. Cinse le braccia intorno al guscio del giovane mutante e l’abbracciò.
Strinse forte, piegandosi un po’ in avanti, per avvolgerlo col suo corpo.
Michelangelo
rispose stringendolo ancor più forte, affondò il viso nel suo kimono, respirò veloce
contro il tessuto.
Era caldo, e
profumava di incenso.
“Ti va di
stare un po’ con me, come quando eri piccolo?” chiese dolcemente Splinter quando
si staccò dall’abbraccio.
Gli occhi di
Michelangelo si illuminarono; poi, un rossore di vergogna colorì le guance.
“Solo un
po’, poi tornerai a letto prima che i tuoi fratelli si alzino.”
Il giovane
mutante annui, adesso felice. Splinter lo guidò nella zona centrale, lo fece sedere
sui cuscini nei gradini, lo coprì con una coperta e si sedette accanto a lui,
cingendolo con un braccio e coprendosi a sua volta. Michelangelo gli si
rannicchiò contro. L’imbarazzo per la situazione svanì in pochi istanti nell’ondata
di affetto che sentì verso questo suo ragazzo. Forse sarebbe stata una delle
ultime volte che avrebbe potuto trattare il figlio in questo modo. Le sue
giovani tartarughe erano ormai forti guerrieri. Ma in questo momento, sentiva
accanto a sé solo un figlio che aveva bisogno di lui.
E sentì che
anche lui aveva bisogno di suo figlio.
Quando
Leonardo si alzò di buon ora, quella mattina, e si strofinò gli occhi,
assonnato, avvicinandosi alla zona centrale, fu piacevolmente stupito dalla
scena che gli si parava davanti.
Vide, sui
gradini, nella luce morbida e arancione che filtrava dalle pareti di carta del
dojo, due forme strette insieme sotto una vecchia coperta.
Padre e
figlio ancora dormivano.