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Autore: LaraPink777    27/04/2015    6 recensioni
Dopo il ritorno al vecchio covo, qualcuno non riesce a dormire. 2k12, terza stagione.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Michelangelo Hamato, Splinter
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Bere una camomilla

 

N/A Ancora una sfida con la mia cara Cartoonpeeker, questa volta a suon di “momento Splinter/Mikey”.
Perché un po’ di tenerezza ogni tanto ci vuole, eh sì ;)
Buon fluff a tutti. Enjoi :*

 

Era ormai notte inoltrata ed il covo era buio e silenzioso.

Al massimo si sarebbe potuto notare solo il flebile riverbero della luce che entrava dalla griglia sull’albero del dojo, o dei led dei pochi vecchi elettrodomestici, o ancora la luminescenza fredda di qualche liquido misterioso imbottigliato nel laboratorio di Donatello. E, ad ascoltare bene, anche dalla fossa centrale, che si apriva come una sorta di zona giorno con i cuscini e la tv, sarebbe stato possibile sentire, con un udito fine e facendo molta attenzione, il russare di Raffaello dalla sua camera.

Ma per il resto, tutto era tranquillo. Di quella tranquillità buona delle case di notte, che sembrano dormire anche loro con le anime che vi abitano, per preparare le loro mura alla frenetica vita che il nuovo giorno avrebbe portato, quando i suoi abitanti, quattro adolescenti ed un adulto, tutti non umani, si sarebbero svegliati.

Nell’aria, ancora, aleggiava un delicato profumo, qualcosa di fiorito e fruttato, ma senza la deliziosa e aromatica asprezza naturale dei veri frutti, quanto solo la surrogata fragranza chimica presente nei detergenti per pavimenti.

Tutto adesso era pulito. I giovani mutanti ed il loro maestro avevano lavorato tutto il giorno, per rendere la loro tana nuovamente abitabile. Avevano cercato di salvare ciò che poteva essere salvato, e buttato, con dispiacere, ciò che la furia della battaglia aveva distrutto per sempre, ricordi accumulati di una vita e oggetti cari; avevano scopato via calcinacci e vetri infranti, lavato la polvere ed il grasso delle macchine rotte, che a loro volta ancora giacevano, in mucchi scomposti, in un angolo del laboratorio, con i loro arti artificiali aggrovigliati e rotti, e le orbite meccaniche ormai spente.

Nella sua stanza, Splinter dormiva con la schiena rivolta alla porta, sdraiato sul futon, che, conservato ben arrotolato dentro il suo armadio, non era stato toccato nell’attacco. Sotto il kimono rosso, il petto che una volta era stato umano, ma che da ormai più di tre lustri era ricoperto di morbida pelliccia, si alzava e si abbassava in un respiro lento e rilassato.

Ma Splinter era un maestro ninja, anche quando dormiva era sempre perfettamente consapevole dell’ambiente intorno a sé, e bastava il minimo, attutito suono, per riportarlo veloce dal sonno alla coscienza; quindi, se anche il rumore della porta di carta, dello shoji che si apriva, non sarebbe stato percepibile da orecchio umano, bastò a svegliare il mutante che una volta era Hamato Yoshi dal suo sonno leggero.

Il maturo mutante spalancò gli occhi. Trattenendo il respiro, rimase in ascolto per un paio di secondi, senza voltarsi, né dare a vedere di essersi svegliato. I sensi, appena allertati, si rilassarono però quasi subito.

Splinter riconosceva benissimo il respiro dei suoi figli. Era un respiro appena appena diverso da quello degli esseri umani, da quello della sua allieva, April O’Neil, e dell’altro ragazzo, Casey Jones, che ormai frequentavano da mesi la sua casa. Era un respiro inconfondibile, per lui e solo per lui, perché era il respiro dei ragazzi tartaruga che aveva visto crescere, che aveva curato ed istruito, che si era ritrovato ad amare.

Eppure, anche i suoi sensi mutati avevano dei limiti. Era sì uno dei suoi figli, che stava sbirciando dalla porta della sua stanza, senza entrare, ma Splinter non avrebbe saputo dire con esattezza quale. Probabilmente Raffaello o Michelangelo, i respiri dei quali erano più veloci e nervosi di quelli degli altri fratelli, ma neanche di questo poteva essere assolutamente sicuro. Un Leonardo agitato inalava l’aria con l’impeto di Raffaello, un Donatello turbato aveva il rapido soffio del più piccolo di casa.

Quando la porta si richiuse, anche Splinter richiuse gli occhi, e sorridendo, decise che avrebbe indagato al mattino, per scoprire chi fosse il misterioso spione notturno, e cercato di capire il perché, di questa strana e veloce visita. Cambiò posizione, girandosi verso la porta, deciso a continuare il suo sonno.

Un piccolo rumore dalla cucina, il cigolare lieve di un’anta, allontanò quest’idea.

Hamato Yoshi si rese conto che il sonno era sfumato, e si accorse all’improvviso di provare la necessità impellente, ed in un certo senso priva di ogni spiegazione, di alzarsi ed andare a vedere chi fosse il figlio che si era svegliato. Sicuramente, qualche mese prima avrebbe trovato il pensiero ridicolo. I suoi ragazzi erano ormai adulti, ed avevano tutto il diritto di alzarsi la notte senza che un vecchio padre impiccione si intrufolasse nelle loro faccende. Ma quello che era successo negli ultimi mesi era ancora troppo fresco, nelle sue paure. La distanza dai suoi figli, che lui non aveva neanche percepito, intrappolato com’era in uno stato mentale ferino e selvaggio a causa dello shock susseguito alla tremenda battaglia con il suo mortale nemico, gli tornava alla mente carica del peso nero del senso di colpa. E poi, questa era la prima notte che dormiva nella sua vecchia stanza dopo mesi, e dopo alcuni giorni in cui aveva condiviso, per il sonno, lo stesso spazio con le tartarughe in quella pizzeria abbandonata.

Quindi, sentiva che qualcosa non era ancora a posto, in lui se non nei suoi ragazzi.

Alzato in piedi, si sistemò il kimono, spianò le grinze accarezzando il tessuto con le mani ed uscì dalla stanza. Già dal dojo si notava la luce che giungeva dalla cucina, oltre la tenda che fungeva da divisore.

Scostata la tenda, un paio di assonnati occhi azzurri si voltarono a guardarlo.

 “Cosa ci fai alzato a quest’ora, Michelangelo?”

La giovane tartaruga mutante teneva in una mano una piccola teiera di ceramica bianca, nell’altra la sua tazza preferita; in piedi tra il tavolo ed il lavandino, sorrise.

“Ti ho svegliato, Sensei? Anche se ero nella mia fantastica modalità ‘furtività ninja’?” All’espressione impassibile di Splinter aggiunse, storcendo il viso imbarazzato: “Uh… Ok, ti ho svegliato.”

Posò la tazza sul tavolo e si girò a riempire di acqua la teiera, continuando a parlare.

“Il fatto è che avevo sete, così sono venuto a bere un bicchiere d’acqua, ma arrivato qui mi sono detto ‘Perché non farsi una bella camomilla e magari mangiare due biscotti…?’”

Si fermò dal versare l’acqua, ed accennando alla teiera aggiunse: “Ne faccio un po’ anche per te, Sensei?”, voltandosi nuovamente verso il suo maestro e sorridendogli ancora.

Ma Splinter notò subito che anche questo secondo sorriso del suo ragazzo non arrivava agli occhi.

“Sì, figlio mio, grazie.”

Il maturo mutante si sedette in uno degli sgabelli del tavolo, senza aggiungere altro. Senza chiedere. Uno strano silenzio scese nella cucina, mentre i due mutanti guardavano la teiera che l’adolescente aveva posizionato nel forno a microonde e che girava su sé stessa, illuminata di rosso, riscaldandosi.

Sempre in silenzio Michelangelo preparò tazze e filtri, zucchero e biscotti; infuse i filtri nell’acqua fumante, versò la camomilla nelle tazze partendo da quella di Splinter, attese che il padre toccasse la sua tazza prima di prendere la propria. Sebbene la camomilla e la situazione non richiedessero la cura formale nel servire il tè, il giovane adolescente, che in quell’arte era secondo solo a Leonardo, non avrebbe mai bevuto prima del suo maestro neanche in cucina.

L’aroma era buono, e si diffondeva caldo dalle tazze. Splinter chiuse gli occhi, e bevve a piccoli sorsi. In verità, non aveva mai amato la camomilla. Ma adesso, mentre scendeva calda in gola, non poteva dire che gli dispiacesse. Sbirciò, da sopra la tazza, il figlio, che col capo chino aveva riposto la sua bevanda sul tavolo dopo appena un sorso, e se la rigirava tra le mani. Non aveva toccato i biscotti.

“Cosa succede veramente, figlio mio? Perché ti sei svegliato?” domandò Splinter posando anche lui la tazza.

Michelangelo alzò gli occhi al padre. Brillanti apatiti azzurre vibranti come liquido, appena un po’ arrossate da minuscoli filamenti scarlatti. Strinse le spalle.

“Niente Sensei. Non avevo sonno. Mi dovevo fermare alla prima lattina di Coca Cola, ieri sera, o alla seconda, beh, alla terza di sicuro, ma le acciughe della pizza surfavano nel mio stomaco e…”

“Michelangelo…”

“Sul serio, Sensei. Scusa se ti ho svegliato.” Il giovane mutante ha sorriso ancora, si è alzato dal tavolo, lasciando lì la camomilla bevuta a metà. “Adesso torno a nanna, ché domani in pratica ho promesso a Raph di fargli vedere come combatte un vero ninja e… Beh, buonanotte!”

“Michelangelo.”

La tartaruga si fermò sulla porta, con la tenda in mano, alzata per metà. Girò piano la testa verso il padre.

Se c’era un merito che Splinter si riconosceva, come padre, era quello di saper leggere dentro i suoi ragazzi. Sapeva quando gli nascondevano qualcosa. Quando mentivano. Sapeva quando stavano male, nonostante dicessero di stare bene.

Quando volevano essere aiutati, e neppure loro lo ammettevano.

Nella luce della lampadina della cucina, il volto senza maschera di suo figlio, portava, appena visibili, due opaline striature di sale sulle guance.

Splinter sapeva pure che Michelangelo era uno spirito allegro, felice. Era un’anima luminosa che rischiarava anche le tenebre più scure. Un concentrato di energia che irradiava felicità come un faro. Un bambinone che non voleva crescere perché aveva deciso che la vita era un gioco troppo bello per non essere giocato secondo le sue regole.

Ma era anche e soprattutto un animo molto sensibile, il cui sorriso a volte serviva a scacciare i pensieri neri che lo assalivano con più crudeltà rispetto agli altri, proprio perché più nemico di essi.

“Perché hai aperto la porta della mia camera?”

Michelangelo lasciò cadere la tenda, e tornò al tavolo.

“Io, ehm…” Ridacchiò nervoso, guardando in basso, iniziando a tirare piccoli calci al piede dello sgabello. “Ecco io… volevo controllare.” La voce si spense in un sussurro imbarazzato.

“Controllare?” Splinter inarcò un sopracciglio.

Michelangelo sospirò. Alzò gli occhi al padre. Deglutì, e poi disse, triste: “Io… volevo controllare… che tu fossi lì.”

Gli occhi azzurri luccicarono, umidi, e poi fuggirono di nuovo verso il pavimento.

Splinter si alzò in piedi, e si avvicinò al figlio. Gli posò le mani sulle spalle; l’adolescente alzò piano il volto, ad incontrare lo sguardo del padre, che gli sorrise comprensivo.

Michelangelo restituì il sorriso, questa volta sincero, ma triste. Tirò su col naso, ed una lacrima scese sulla guancia.

“Ho avuto paura, papà” mormorò piano. Scacciò la lacrima col dorso della mano, quasi con rabbia. “In questi mesi, io… ho pensato che tu…”

Al singhiozzo del ragazzo, Splinter fece una cosa che non faceva da forse troppo tempo. Cinse le braccia intorno al guscio del giovane mutante e l’abbracciò. Strinse forte, piegandosi un po’ in avanti, per avvolgerlo col suo corpo.

Michelangelo rispose stringendolo ancor più forte, affondò il viso nel suo kimono, respirò veloce contro il tessuto.

Era caldo, e profumava di incenso.

“Ti va di stare un po’ con me, come quando eri piccolo?” chiese dolcemente Splinter quando si staccò dall’abbraccio.

Gli occhi di Michelangelo si illuminarono; poi, un rossore di vergogna colorì le guance.

“Solo un po’, poi tornerai a letto prima che i tuoi fratelli si alzino.”

Il giovane mutante annui, adesso felice. Splinter lo guidò nella zona centrale, lo fece sedere sui cuscini nei gradini, lo coprì con una coperta e si sedette accanto a lui, cingendolo con un braccio e coprendosi a sua volta. Michelangelo gli si rannicchiò contro. L’imbarazzo per la situazione svanì in pochi istanti nell’ondata di affetto che sentì verso questo suo ragazzo. Forse sarebbe stata una delle ultime volte che avrebbe potuto trattare il figlio in questo modo. Le sue giovani tartarughe erano ormai forti guerrieri. Ma in questo momento, sentiva accanto a sé solo un figlio che aveva bisogno di lui.

E sentì che anche lui aveva bisogno di suo figlio.

Quando Leonardo si alzò di buon ora, quella mattina, e si strofinò gli occhi, assonnato, avvicinandosi alla zona centrale, fu piacevolmente stupito dalla scena che gli si parava davanti.

Vide, sui gradini, nella luce morbida e arancione che filtrava dalle pareti di carta del dojo, due forme strette insieme sotto una vecchia coperta.

Padre e figlio ancora dormivano.

 

  
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