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Autore: Adeia Di Elferas    05/05/2015    5 recensioni
Questa storia è stata scritta per il contest: "Una idea, più storie". La consegna era: storia ambientata in un orfanotrofio. Si deve spiegare come il bambino è arrivato lì, partendo da lui adolescente/adulto e risalendo fino al momento in cui è stato portato lì. La stessa consegna doveva essere sviluppata da altre due persone ( _aris_ e Chambertin in questo caso), in modo del tutto autonomo in modo da confrontare l'originalità e da vedere come le persone potessero scrivere storie diverse partendo dalla stessa idea. Come al solito, mi sono andata a complicare le cose mettendo una sovrastruttura un po' intricata, ma spero che vi piaccia il modo in cui ho affrontato l'argomento!
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 “Sì, sì, è utile come fuga di notizie, ma tanto hanno detto che gli aerei vanno verso Collinasecca, qui non ci toccano...” disse il Sergente Rigoloni, alzando un po' una spalla.
 Il Caporale Guarini si pulì gli occhiali con un lembo della giacca scucita, di un colore ormai  indistinguibile, qualcosa a metà strada tra il nero e il verde. Si sistemò le lenti sulla radice del naso e commentò, a bassa voce: “Meglio lì che in città.”
 “Comunque teniamo gli occhi aperti.” fece il Sergente: “Non vorrei che cambiassero idea.”
 “Cambiassero idea chi?” chiese Luciano, entrando nella stanza in cui l'odore del fumo di sigaretta e quello della stufa saturavano ogni centimetro.
 “Quelli che ci bombardano.” rispose Guarini, sbadigliando.
 “Sappiamo di un nuovo attacco?” chiese Luciano, mettendosi a sedere tra gli altri due.
 Tutti e tre indossavano uniformi rovinate, quasi irriconoscibili. Non sapevano più a chi rispondevano, era anche difficile capire se la guerra stava finendo o meno. Sapevano unicamente che in quel comando c'erano solo loro tre e che ogni tanto qualche ordine e qualche notizia arrivava ancora, per cui lì restavano.
 “Più o meno...” rispose Rigoloni, accigliandosi. La sua fronte era solcata da profonde rughe e sopra l'occhio destro si vedevano ancora i resti di una bruciatura che si era guadagnato in trincea, durante la Grande Guerra.
 “In che senso?” chiese Luciano, prendendo una sigaretta dalla tasca della giacca e cercando l'accendino.
 Il Sergente gli lanciò la sua scatola di fiammiferi e buttò lì: “Nel senso che ci hanno detto che entro sera bombarderanno, ma sappiamo anche che non bombarderanno qui, quindi ci interessa solo relativamente.”
 “Dove bombardano?” chiese Luciano, aspirando a fondo. Il primo tiro era sempre la cosa che apprezzava di più delle sigarette. Dopo quello, avrebbe anche potuto buttarle, per il gusto che ci provava a fumare.
 “Alla Collinasecca.” fece Guarini, sbadigliando di nuovo, mentre gli occhiali gli scivolavano fin sulla punta del naso.
 “Li avete avvisati?” domandò Luciano, smettendo di fumare un momento e facendosi teso.
 “E come? Non hanno più un telefono da mesi e la strada è mezza franata.” rispose Guarini: “E poi non è un posto che ci compete. Senza contare che l'unico rifugio vicino è poco più di una cantina...”
 “Ma c'è l'orfanotrofio a Collinasecca.” ribatté Luciano, spegnendo la sigaretta contro il muro scalcinato.
 “Ehi! Dalla a me, se tu non la finisci!” lo riprese Guarini, allungando una mano per requisire la sigaretta appena iniziata.
 Luciano gliela lasciò e mentre il Caporale la riaccendeva, il giovane chiese di nuovo: “Nessuno li ha avvisati?”
 “De', è quasi sera – gli fece notare Rigoloni – e io non mi sono fatto ammazzare in due guerre, credi davvero che mi farei ammazzare per una decina di figli di nessuno?”
 Luciano non restò ad ascoltare altro. Si alzò di scatto e chiese: “Dov'è la nostra bicicletta?”
 Guarini e Rigoloni si guardarono un attimo, mentre Luciano minacciava: “Ve', se non me lo dite, la cerco e la trovo, ci metto solo più tempo e allora sì che mi avrete sulla coscienza, se mi fanno saltare in aria mentre sono ancora per strada per colpa vostra!”
 “Sta sul retro. Dietro al muro sfatto.” disse Rigoloni, con una smorfia dipinta in volto.
 Luciano uscì di corsa e raggiunse quello che una volta era stato il muro della casa che stava accanto al comando militare.
 Partì immediatamente, pedalando come un matto, mentre le ruote affrontavano la strada, mezza distrutta e mezza coperta di detriti.
 Non seppe dire nemmeno lui come fece a non cadere.
 Non appena si lasciò il pugno di case che osavano chiamare 'città' alle sue spalle, il terreno si fece ancora più sconnesso. L'aria ormai serale gli si infrangeva in volto, e il sole che stava scendendo sempre più rapido lo accecava. Era assurdo quanto i raggi fossero ancora forti a quell'ora...
 Dopo almeno venti minuti di pedalata, il sentiero iniziò a salire, mentre la collina gli si faceva incontro. Gli alberi erano fitti e da lì l'orfanotrofio ancora non si vedeva. Era arrivato al punto in cui la strada era franata. Avrebbe dovuto fermarsi e condurre a mano la bicicletta, per non rischiare di volare giù dalla scarpata.
 Decise di non aver tempo per una sciocchezza simile, così si lanciò a tutta velocità sulla strisciolina di terra battuta che era rimasta addossata alla collina. Sul finale sentì qualcosa sgretolarsi, ma, non seppe mai come, arrivò dalla parte opposta sano e salvo.
 Questo gli diede la forza di pedalare ancora più veloce, malgrado la salita. Un tornante dopo l'altro, una curva dopo l'altra...
 Si ricordò improvvisamente, mentre stringeva nelle curve per fare più in fretta, di quando aveva fatto una corsa simile per raggiungere l'orfanotrofio nel momento in cui aveva ricevuto la prima licenza. Gli era sembrata la strada più bella del mondo, sotto il sole dell'estate, felice com'era di essere tornato a casa vivo dopo aver visto l'inferno.
 Finalmente, finita la salita. Arrivò allo spiazzo dell'orfanotrofio. Quella struttura antica si stagliava contro un cielo grigio che stava per portare pioggia e vento. Il sole, che fino a pochi minuti prima, continuava a battere sulla sua testa come fosse pieno pomeriggio, aveva lasciato il passo alla tempesta.
 Per Luciano quello era un segno infausto. Lo spronò a fare ancora più in fretta.
 Il ragazzo diede le ultime frenetiche pedalate, fino al cancello. La scritta dipinta sul muro dell'orfanotrofio, che recitava 'Opera Pia della Santa Madre', era sbiadita, ma lo attirava come una calamita. Una volta sul sagrato, gettò in terra la bicicletta e corse al portone.
 Batté con forza sul legno scuro, lo stesso che infestava a volte i suoi sogni, nelle notti in cui era agitato. Anche quando era stato in guerra, sì, anche allora se la ricordava, quella porta. Anche se gli dicevano che era impossibile, era certo che quella porta fosse il suo primo ricordo, di quando sua madre l'aveva appoggiato lì davanti, proprio sul primo gradino dell'orfanotrofio.
 “Apritemi!” gridò, continuando a percuotere il portone: “Suor Carmela! Apritemi!” si appellò alla madre superiora, a quella che già c'era, quando lui era bambino, a quella che gli aveva rattoppato i vestiti da ragazzino, a quella a cui scriveva mentre era al fronte...
 “Apritemi, vi prego! Sono il Luciano! Ve', se non aprite sfondo la porta!” fece, quasi minaccioso, ben conscio che non sarebbe mai riuscito ad abbattere un simile pezzo di legno.
 Dopo qualche secondo, mentre il cielo cominciava a tuonare, la serratura scattò. Luciano non aspettò di essere invitato ad entrare e gridò, pieno di fretta e paura improvvisa: “Sbrigatevi! Stanno venendo a bombardare! Forza! Andate a nascondervi!”
 La suora che gli aveva aperto era giovane. Luciano se ne accorse solo quando prese fiato e la guardò un momento negli occhi.
 Erano grigi, chiari, coperti da due spesse lenti, ma erano giovani, piani di vita e pieni di terrore.
 “Forza, sorella!” la incitò Luciano: “Troviamo gli altri e portiamoli nel rifugio!”
 La giovane suora non se lo fece più ripetere e partì dritta verso il refettorio. Luciano la seguì, senza bisogno di ricevere indicazioni sulla strada da fare. Conosceva quel posto più di ogni altro.
 Al tavolo della cena erano seduti una decina di bambini, di età varie, dai tre ai dieci, dodici anni e una suora. Tutti guardarono Luciano con gli occhi sgranati, ma quando lui esclamò: “Stanno per bombardare, dobbiamo scappare!” non si persero in chiacchiere o domande e scattarono in piedi, lasciando piatti e posate senza un ripensamento.
 “Dov'è suor Carmela?” chiese Luciano, febbrile.
 “Di sopra, nella sua cella.” spiegò la suora che era con i bambini: “Non può alzarsi...” sussurrò, quasi scoppiando a piangere.
 “Portateli al rifugio, io prendo suor Carmela.” fece Luciano, con decisione, alla suora giovane, che in un primo momento annuì, ma poi chiese: “Conoscete la strada?”
 Luciano non rispose nemmeno, cominciando a correre verso le scale. Salì i gradini due a due, ricordandosi fugacemente di quanto gli sembrassero alti, quando era bambino.
 Una volta al primo piano, attraversò il corridoio di volata, quasi inciampando nel tappeto stinto. Arrivò alla cella della madre superiora, spalancò la porta e si avventò su suor Carmela. La sollevò di peso, mentre lei chiedeva: “Luciano, piccolo mio... Ma che...?”
 La suora pareva essersi rimpicciolita, negli anni. Mentre Luciano la portava giù dalle scale tenendola in braccio, ne sentiva le ossa sotto la sottile camicia da notte.
 Quando era piccolo, suor Carmela, che ancora non era madre superiora, era ben in carne, energica e piena di voglia di fare. Adesso sembrava uno scricciolo, dal respiro affannoso e dalle mani nodose e storte.
 Nel momento in cui uscirono all'aperto, Luciano si rese conto che aveva cominciato a piovere e che si era alzato un forte vento.
 Per un folle istante si permise di sperare che il mal tempo avrebbe dirottato gli aerei.
 Arrivarono alla porta del rifugio – in realtà poco più di una cantina – bagnati fradici e stremati, il ragazzo per lo sforzo fisico, l'anziana per la paura.
 Non appena fu entrato, lasciò la madre superiora alle altre due suore, che l'adagiarono sulla sola brandina del rifugio, posta esattamente sotto l'unica lampadina che illuminava lo scantinato.
 Luciano stava ancora respirando affannosamente, quando la suora giovane spalancò gli occhi ed esclamò, atterrita: “Manca Pietro!”
 “Chi?” chiese Luciano, con la mente un po' annebbiata.
 “Pietro, è un bambino di quasi cinque anni...” sussurrò la suora di mezza età, mentre asciugava il volto della madre superiora: “Credevo mi avessero seguita tutti...” soggiunse, scuotendo la testa, come se ormai il piccolo fosse per certo perduto: “Deve aver avuto paura, povero piccolo...”
 “Dove può essere?” chiese Luciano, scattando subito verso la porta del rifugio.
 “Chi può dirlo?” sussurrò la suora di mezza età: “Nel dormitorio, o nelle cucine... Si sarà nascosto... Speriamo che sopravviva. Preghiamo, bambini...” concluse, tirando a sé gli altri orfani.
 Luciano avrebbe voluto prenderla a schiaffi, ma non ne aveva il tempo. Mentre si fiondava fuori dalla porta rinforzata di metallo, pensò con sconforto che se una cosa simile fosse accaduta quando lui era piccolo, Suor Carmela si sarebbe subito messa a cercarlo, e così altre delle suore che curavano lui e gli altri bambini.
 Adesso erano rimaste solo tre donne, una troppo vecchia per muoversi e capire cosa davvero stava accadendo, una troppo codarda per reagire, e una...
 “Aspettatemi!” esclamò la suora più giovane, correndo così forte da stargli dietro: “Vi devo aiutare!” urlò la suora, coprendo a mala pena i rumori della tempesta.
 Luciano non aveva fiato per intimarle di tornare subito indietro. Lasciò che lo seguisse sotto la pioggia battente, mentre il velo veniva schiaffeggiato dal vento.
 Entrò dal portone spalancato dell'orfanotrofio, guardandosi alle spalle un'ultima volta. Quello che vide gli fece raggelare il sangue nelle vene.
 Nel cielo quasi nero si intravedevano, ormai vicini, tremendamente vicini, due aerei. E poco più in là, a completare lo squadrone mortale, altri due, un poco più piccoli.
 La suora giovane gli passò accanto con la rapidità di un fortunale estivo e cominciò a chiamare: “Pietro! Pietro!”
 Luciano si riprese, mentre nella sua mente si formava sempre più precisa un'idea. Sarebbe morto lì. Gli aerei erano a meno di cinque minuti da loro... Non c'era scampo... Aveva agito seguendo l'istinto, senza ragionare...
 Lì, dove la sua vita era iniziata per la seconda volta, lì sarebbe finita.
 “Pietro!” chiamò Luciano, mettendo le mani a coppa accanto alla bocca per farsi sentire ancora meglio: “Esci, ve'!”
 La suora fece le scale tenendosi il gonnellone fradicio alle ginocchia. Luciano non la seguì, preferì controllare il piano terra.
 In realtà fece sì e no dieci passi, prima di accorgersi della cruda realtà: gli aerei erano quasi sopra di loro e già si sentiva il rombo dei loro motori.
 Anche la suora era giunta alla medesima conclusione, a quel che pareva. Infatti, praticamente subito, la sentì smettere di gridare il nome del bambino e poco dopo la vide scendere in fretta le scale.
 Non aveva senso cercare di tornare al rifugio. Potevano fare una cosa sola.
 Senza parlarsi, presero la strada più breve per raggiungere la dispensa. Non era una vera e propria cantina, e le sue pareti erano già mezze muffe quando Luciano era piccolo, però era l'unico posto che desse una parvenza di riparo.
 Luciano chiuse la porta alle loro spalle, mentre la suora premeva sull'interruttore della luce.
 La dispensa era fredda e umida, con poche cose da mangiare, un paio di sedie e un tavolo, qualche candela appoggiata sullo scaffale di legno chiaro...
 Luciano si mise a sedere, le gambe che non riuscivano a stare ferme, mosse da una sorta di tremolio irrefrenabile. Si mise la testa tra le mani, appoggiando i gomiti al tavolo e si preparò al peggio.
 La suora si sedette accanto a lui, sull'altra sedia. Se ne stava composta, le mani in grembo, un'aria distinta e pacata, malgrado il velo e le lenti degli occhialoni fossero così bagnati da farla sembrare appena uscita da una vasca da bagno.
 Luciano si sentì in colpa. L'aveva involontariamente trascinata lì con lui. Avrebbe dovuto fare il cuore duro e non uscire a cercare quel bambino che nemmeno conosceva. O, ancora meglio, avrebbe dovuto andare a cercarlo, ma impedendo – anche con le cattive, se necessario – alla suora di seguirlo.
 “Non mi sono ancora presentato...” disse, con un filo di voce: “Luciano Della Pia.” Dire il suo nome gli pareva il minimo, visto il destino che lui e quella suora si stavano trovando a condividere.
 “Della Pia?” chiese la suora, riconoscendo il cognome fittizio che veniva dato agli orfani che passavano la loro infanzia presso l'Opera Pia della Santa Madre.
 “Precisamente.” confermò Luciano: “Mi hanno detto che mia madre mi ha lasciato qui perchè non poteva tenermi con sé. E qui ci sono rimasto fino a che non sono uscito la prima volta, per andare a vedere il mare.”
 “Il mare?” chiese, un po' stupita, la giovane suora.
 “Per andare a imbarcarmi soldato.” precisò Luciano, con un sorriso stiracchiato. 
 “Comunque, piacere.” disse e allungò una mano e la suora tentennò un secondo, prima di allungare la propria, esile e pallida: “Suor Teresa.” disse, piano piano, mentre gli occhi grigi cercavano quelli di Luciano e le sue guance si coloravano un po': “Ma il mio vero nome è Carolina.”
 Mentre stavano ancora con le mani allacciate, qualcosa che ricordava una scossa di terremoto fece tremare il pavimento, ballare le pareti, rovesciare ciò che stava sulle mensole e ribaltare le sedie.
 Luciano tirò istintivamente a sé suor Teresa, nel cadere. Si trovarono in terra uno accanto all'altra, con il respiro mozzo, zuppi ancora di pioggia e tremanti come foglie.
 I muri avevano resistito, anche la luce era ancora accesa... Forse, se non ci fossero stati altri colpi...
 Un secondo scossone, più forte, più vicino. La luce saltò, suor Teresa trattenne il fiato, Luciano rivide davanti ai suoi occhi la madre superiora che lo salutava il giorno in cui era partito per la guerra...
 I muri avevano resistito, di nuovo.
 Luciano sentiva il proprio cuore battere veloce, irregolare, e avvertiva anche quello di Suor Teresa fare i medesimi capricci. Nel buio assoluto della dispensa, quel suono impercettibile era l'unica cosa che contava. Era come essere fuori dal mondo, come se tutto il resto non fosse davvero lì. E invece c'era.
 “Dovevamo restarcene nel rifugio, aveva ragione quella suora...” gracchiò Luciano, tossicchiando per via della polvere che si era staccata dal muro.
 “No.” rispose suor Teresa, con fermezza, stringendo le mani di Luciano tra le sue: “No. Suor Maria Benedetta aveva paura e basta. Abbiamo fatto bene. Non potevamo non provare.”
 Luciano dovette darle ragione. Apprezzò quella fermezza, in una suora tanto giovane. Le ricordò una suora che c'era quando lui aveva una decina d'anni. Era giovane e, poverina, era morta dopo pochi mesi dal suo arrivo, di una malattia che nessuno aveva saputo riconoscere. Dicevano fosse un'infezione ai polmoni, ma di certo c'era solo che nel giro di qualche settimane se n'era andata.
 Con lui era sempre stata buona, e, anche se l'aveva conosciuta per poco tempo, l'aveva sentita come qualcosa di simile ad una madre vera.
 “Avranno finito?” chiese improvvisamente suor Teresa, muovendosi appena tra le braccia di Luciano e distogliendolo dai suoi ricordi.
 “Erano quattro, gli aerei... O han deciso di lasciarci perdere, o tra qualche secondo...” cominciò a dire, quasi sperando nell'intelligenza dei piloti. Perchè lanciare più di un paio di bombe in mezzo alla campagna?
 “Non usciremo di qui, vero?” chiese la suora, deglutendo.
 “Ve', sorella, se non avete fede voi, io non so che...!” provò Luciano, nel tentativo di risvegliare qualcosa – non sapeva nemmeno lui cosa – nella giovane.
 In tutta risposta, Luciano sentì le labbra della suora premere contro le sue e, prima che se ne rendesse conto, l'inferno arrivò da loro.
 Un boato fortissimo, la sensazione del pavimento che sprofondava e calcinacci. No, con loro non avevano finito.
 Erano ancora vivi, ma stava di certo per crollare tutto. Suor Teresa si stringeva a Luciano, nel buio, ma non piangeva. Non tremava nemmeno più.
 Luciano fece del suo meglio per farle scudo, mentre un'ennesima esplosione faceva tremare il mondo attorno a loro.
 I rumori che seguirono furono terribili, come quelli che deve fare una nave quando si inabissa, o come quelli che di certo fa un tronco di quercia che, infine, si spezza alla forza del vento.
 Luciano pregò, non sapeva chi o cosa o come, ma pregò. Qualcosa lo colpì in testa e svenne.
 
 Luciano sentiva tutto il corpo dolorante, come se fosse stato calpestato da un gigante. Quando provò a respirare un po' più a fondo, il costato gli diede una fitta così forte da farlo gemere.
 C'era polvere e troppo caldo, come se ci fosse un fuoco poco lontano. Quando riuscì a ritrovare un contatto con il mondo attorno a sé, sentì piangere e sentì qualcosa che si muoveva tra le sue braccia.
 A fatica, aprì gli occhi. Illuminata dalle fiamme che si stavano spargendo tutt'attorno, un donna si stava alzando. E qualche metro più in là, un bambino piccolo piangeva.
 La donna indossava un vestono nero, strappato... Era la suora, ora Luciano ricordava. Il bambino, lui doveva essere Pietro...
 E il fuoco... Erano state le bombe.
 Facendosi male, ma senza tergiversare, Luciano si alzò, spostando i calcinacci e i pezzi di muro. Solo la parete divisoria era caduta, il muro portante era ancora su. Ma tutto quel fuoco...
 Afferrò la suora, che aveva perso il velo chissà quando, con una mano e il bambino con l'altra e cominciò a correre, guidandoli lontano dal fuoco.
 Passando in mezzo alle macerie, trovarono un varco per raggiungere l'esterno e la pioggia diede loro il benvenuto nella vita che si erano riguadagnati. Era come essere battezzati di nuovo.
 Corsero lontani dall'orfanotrofio, verso il rifugio. Luciano disse, con la voce irriconoscibile per il dolore e lo sforzo: “Andate dagli altri...” e prima di accorgersene, crollò in terra. 
 Il cielo era nero, adesso, senza più lampi né altro. A pochi metri da lui c'era un cumulo di macerie, quella che era stata la sua casa per così tanti anni non esisteva più.
 Sentì in lontananza suor Teresa riunirsi agli altri, sentì la voce spiritata di suor Maria Benedetta meravigliarsi del fatto che fossero ancora tutti e tre vivi e poi sentì qualcuno afferrarlo per le braccia e trascinarlo via.
 
 L'orfanotrofio era perduto. Era crollato come un castello di carte – gli avevano detto – dopo nemmeno dieci minuti che lui, suor Teresa e Pietro erano usciti.
 Adesso, con l'aria fresca del mattino e il sole a baciargli gli occhi, Luciano se ne rendeva conto. Stare lì, davanti ai calcinacci e alla cenere, gli faceva capire che davvero la sua casa non c'era più.
 Aveva un braccio fasciato, un occhio gonfio e – a detta del farmacista del paese, che era anche un po' medico – aveva due o tre coste rotte. Però era vivo. Come tutti gli altri.
 “Luciano, stai bene?” la voce di suor Teresa gli arrivò alle spalle. Anche lei aveva voluto vedere le macerie con la luce del sole.
 Le sue due consorelle erano ospiti del prete del paese, così come i bambini. La madre superiora aveva incassato bene il duro colpo, malgrado la tarda età, e nessuno si era fatto male.
 Luciano si voltò verso suor Teresa. Non indossava più il vestito da monaca. I suoi capelli erano chiarissimi e corti. Aveva una fasciatura a un gomito, un cerotto in fronte e stava aspettando di poter rifare gli occhiali, che erano andati persi in mezzo al disastro, ma per il resto se l'era cavata egregiamente.
 “Sì.” asserì Luciano, sorridendole: “Tu?”
 Suor Teresa, o meglio, Carolina, gli si avvicinò: “Sto bene. Adesso sto bene.”
 Lui le mise il braccio sano attorno alle spalle ed entrambi si misero a guardare gli sbuffi di fumo che ancora s'alzavano da quel che restava dell'Opera Pia della Santa Madre.
 Lì, pensò Luciano, la sua vita era cominciata per la seconda volta, nel momento in cui sua madre ce l'aveva lasciato in fasce. Non importava molto perchè, arrivati a quel punto. Lo aveva lasciato lì e basta, forse nella certezza che altre donne lo avrebbero accudito al suo posto. Le suore lo avevano allevato, nel bene e nel male, come un figlio loro.
 Carolina ricambiò la sua stretta mettendogli un braccio attorno alla vita.
 Luciano sorrise, malgrado il male al costato, malgrado il dolore al braccio e malgrado la paura che ancora non lo aveva abbandonato.
 Ed ora, dopo quella notte in cui era stato certo di essere prossimo alla fine, proprio lì, la notte in cui bombardarono l'Opera Pia della Santa Madre, incredibilmente, la sua vita era ricominciata per la terza volta.
 
   
 
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