Buonasera!
Okay, inizio ad anticiparvelo già ora, così
almeno avete del tempo per metabolizzare e far sì che
nessuno mi insegua coi forconi e le torce.
Un paio di capitoli ancora e poi la storia andrà in pausa
(sì, tipo come quelle che ogni tanto si prendono le serie
TV) per permettermi di scrivere i prossimi capitoli e sistemare il
tutto nel migliore dei modi. Lo faccio per voi, su! *sorride
nervosamente pregando di non venir linciata pubblicamente*
No, seriamente, dato che il tempo che ho per scrivere è poco
e il mio modus operandi
è quello di pubblicare soltanto una volta certa del
risultato – non mi perdonerei mai se dovessi scrivere
qualcosa, cambiare idea e non poter modificare – questa
è l’unica soluzione che ho trovato.
Riprenderò a pubblicare il prima possibile, ve lo prometto.
Ma, come dicevo, abbiamo ancora tempo prima che questo accada: almeno
altri due capitoli (escludendo questo qui sotto).
E con questa notizia bomba, mi dileguo lasciandovi alla lettura. Spero
di non averla rovinata!
Un grazie enorme a chi mi supporta, leggendo, commentando e mettendo la
storia tra le preferite/seguite/ricordate e a chi continuerà
a farlo :)
Un bacione!
Vostra,
_Pulse_
____________________________________________________________________________________
13.
With all my heart
Era
stata Alex a chiedere di potersi occupare personalmente della stanza di
Steve. La dottoressa aveva acconsentito semplicemente con un cenno del
capo, gettandole uno sguardo così apprensivo e
compassionevole che Alex era riuscita a capire all’istante
che cosa si stava domandando: “Perché vuole farsi
del male?”. Anche Alex si era fatta la stessa domanda,
più e più volte, senza venirne mai a capo.
Era entrata nella grande camerata da quattro posti letto e le era
sembrata davvero enorme, ora che ad occuparla c’era solo un
bambino, Gabriel, che le diede il benvenuto con gli occhi arrossati, i
capelli spettinati sulla testa e il viso sciupato.
Da quando era circolata la voce che Steve non ce l’avrebbe
fatta – subito dopo la sua investitura – si era
rifiutato di mangiare e niente e nessuno era stato in grado di
convincerlo, nemmeno sua madre che, saputo ciò che stava
succedendo, aveva preso dei giorni di ferie e lo aveva raggiunto per
stare accanto a lui come a Paige, di cui era diventata molto amica da
quando i loro bambini erano diventati compagni di stanza. Alla fine
erano stati costretti a nutrirlo via flebo, ma aveva comunque una
brutta cera.
Alex sperava che l’avessero già trasferito in
un’altra stanza, anche con dei ragazzi più grandi
pur di non lasciarlo da solo, ma ancora una volta aveva fatto male i
conti e lui era lì, seduto sul suo letto, che la fissava con
astio, già consapevole che il suo lavoro sarebbe stato
quello di portare via tutto ciò che Steve possedeva,
cancellandone del tutto il ricordo per poter offrire quel letto al
primo bambino bisognoso.
«Vedo che non hai ancora mangiato la tua
colazione», esclamò, fissando il vassoio pieno ai
piedi del suo letto.
«Non ho fame», rispose lui con un ruggito.
Alex sospirò e senza insistere oltre spostò il
letto già rifatto, con le lenzuola pulite e stirate, per
poter iniziare a staccare i disegni di Steve che lei stessa tempo prima
aveva appeso.
Un mare blu e un sole giallo gigantesco, una casetta immersa nel verde
di un bosco, la sua famiglia che si teneva per mano, i suoi amici e le
infermiere, due cavalieri che lottavano in un’arena con dei
serpenti tra loro, un cavaliere a cavallo che puntava la lancia contro
una specie di cavallo alato con il muso d’aquila –
sicuramente un grifone – e poi un enorme drago marrone che
chinava il capo di fronte ad un Merlino dai vestiti logori ma con gli
inconfondibili tratti del loro Merlino.
«Posso tenerli io?», chiese Gabriel, tirando su col
naso.
Alex allineò i fogli tra le mani e lo guardò
dispiaciuta. «Prima dovrò chiedere ai suoi
genitori: magari li vogliono loro per, sai…
ricordo».
«Ma loro hanno già un sacco di cose sue a
casa!», si lamentò, il volto già
sfigurato dal pianto imminente.
E ogni cosa farà male come una
pugnalata al cuore,
pensò. Ciononostante, ci vorrà del
tempo prima che le lascino andare. Mesi. Forse anni.
Prima che potesse dirgli che non poteva farci nulla, sua madre
entrò nella stanza e la salutò cortesemente,
rivolgendole un sorriso. Vedendo lo scatolone che Alex aveva posato sul
letto, chiese al figlioletto se volesse fare un giro.
L’infermiera espirò a lungo, sollevata, quando
Gabriel uscì dalla camera sulla sua piccola sedia a rotelle.
Al contempo però, da sola con il doloroso ricordo di Steve,
sentì crescere il magone e a stento riuscì a
trattenere le lacrime.
In qualche modo fu in grado di portare a termine il proprio dovere. Una
volta svuotato anche l’ultimo cassetto del suo comodino si
apprestò ad uscire dalla camera, ma sulla soglia
rischiò di andare addosso a Paige.
«Oh, hai già finito», esclamò
la donna, sforzandosi di sorridere.
Alex annuì e si fece da parte per permetterle di entrare in
quella che era stata la stanza del figlio per più di cinque
mesi. Lasciò lo scatolone sulla sedia accanto alla porta e
la osservò in silenzio: la sua gracile figura era
già stretta in un vestito nero, lungo fino alle ginocchia, e
le sue spalle leggermente curve, come sotto un peso insostenibile,
sarebbero state nude se non le avesse coperte con uno scialle di pizzo
nero, dai ricami floreali. I capelli biondi erano semplicemente
raccolti sulla nuca, il viso acqua e sapone mostrava ancora i postumi
della stanchezza, tra cui delle evidenti borse sotto gli occhi, ma
Paige restava sempre e comunque una donna bellissima, anche nella
sofferenza più atroce.
«È tutto così… vuoto»,
disse con gli occhi lucidi di lacrime.
Alex capì ciò che intendeva, ma non del tutto:
lei non aveva mai perso un figlio bello, dolce e di soli sei anni, con
ancora tutta una vita davanti.
«Ci sarai alla messa?», le chiese, cambiando del
tutto argomento.
L’infermiera annuì con un cenno del capo.
«Certo».
«Bene. Grazie, Alexandra».
Avrebbe voluto chiederle per che cosa, ma lasciò perdere ed
indicò lo scatolone. «Qui dentro ci sono tutti i
suoi oggetti personali».
Paige si avvicinò e vi diede una sbirciatina. Sorrise,
scorgendo i disegni di Steve, i suoi giochi, la sua lucina per la notte
e i regali che gli altri bambini gli avevano fatto durante la sua
permanenza in ospedale. Quando le sue dita sfiorarono
l’action figure di Capitan America si lasciò
andare addirittura ad una risata.
«Questo era il suo preferito in assoluto. Glielo hai regalato
tu, vero? Al suo compleanno».
Alex si limitò ancora una volta ad annuire, a capo chino,
ricordando la sua espressione di pura gioia quando aveva scartato il
pacco e si era trovato tra le mani il suo eroe preferito. Quel giorno
non l’aveva mai lasciato, nemmeno quando era stato il momento
di andare a letto. L’aveva tenuto accanto a sé,
stretto come un pupazzo, fino a quando una collega non
l’aveva posato sul comodino, in piedi e rivolto verso di lui,
in modo che potesse proteggerlo durante il sonno.
Paige unì le gambe del giocattolo ed attivò il
meccanismo che permise al braccio destro, quello a cui era attaccato lo
scudo blu e rosso, di allungarsi verso il nemico in un gancio
micidiale.
«Vorrei che restasse tutto qui. Ne ho già parlato
con mio marito e siamo d’accordo che nei prossimi giorni
faremo qualche scatolone con gli altri suoi giochi e ve li spediremo.
Sapere che saranno tra le mani di altri bambini ci farà
piacere».
«È molto bello da parte vostra»,
commentò, senza sapere bene che cosa dire.
«Questo però vorrei che lo tenessi tu»,
aggiunse Paige, mettendole tra le mani l’action figure e
sorridendole teneramente.
Alex deglutì, ma il nodo che le stringeva la gola non si
allentò nemmeno un po’. «No,
io… non posso».
«Quando sarò andata via potrai farne
ciò che vuoi, potrai lasciarlo in sala comune o buttarlo, ma
fino ad allora… Steve avrebbe voluto che tornasse a
te».
Guidata da Paige, Alex strinse le dita intorno al piccolo Capitan
America e con la voce incrinata dal pianto disse:
«Grazie».
Allora la madre di Steve l’abbracciò e si
vergognò come non mai: non era lei che doveva essere
consolata, non era lei che doveva aver bisogno del sostegno di tutti
quanti. Perché non poteva dimostrarsi forte, una volta tanto?
Si rivolsero un breve sorriso, poi Paige fece per uscire dalla
camerata. Alex la raggiunse nel corridoio, ricordandosi della piccola
chiavetta USB che avrebbe voluto consegnarle dopo la funzione.
«Anche io ho una cosa per te», esordì,
mettendogliela tra le mani. «Contiene le copie di tutte le
foto e i video in cui compare Steve. Non è molto,
ma…».
«Oh, invece è tantissimo. Grazie davvero,
Alexandra».
Alex sorrise e fu lei quella volta ad abbracciarla per prima,
massaggiandole la schiena.
Le sussurrò che si sarebbero riviste più tardi e
prima di tornare nella camera la guardò sparire dietro
l’angolo. Prese lo scatolone tra le mani ed
osservò ancora una volta i disegni posati in cima,
sorridendo mentre un’idea iniziava a prendere forma nella sua
mente.
Con la coda dell’occhio vide una collega passare di fronte
alla porta e la fermò, chiedendole un favore:
«Puoi dire a Gabriel che se non inizia a mangiare non
potrà venire alla messa?».
Poco dopo la collega avrebbe riferito il messaggio e il piccolo si
sarebbe sforzato di spazzolare il vassoio, sotto gli occhi increduli
della madre. Il vuoto che aveva nel petto, però, non si
sarebbe riempito così facilmente.
***
«Artù!
Dovete preparavi, o faremo tardi! Ma dove siete?».
Il re sentì i passi di Merlino avvicinarsi alla porta e non
poté nascondersi, solo posare sullo scaffalo uno dei tanti
diari scritti dallo stregone nel corso degli anni.
Era stupido intestardirsi in quel modo, e soprattutto dopo la morte di
Steve, ma non riusciva a togliersi dalla testa le parole di Alex a
proposito della “spada nella roccia”:
l’aveva chiamata Excalibur e l’aveva definita magica,
una coincidenza a cui non aveva creduto nemmeno per un istante.
Aveva sequestrato il computer portatile di Merlino, facendolo
borbottare che avrebbe dovuto comprarsene un’altro, e negli
ultimi due giorni aveva dedicato ogni momento libero e persino qualche
ora di sonno su Google e Wikipedia, a fare ricerche. Merlino una volta
gli aveva detto che lui e i Cavalieri della Rotonda erano diventati
delle vere e proprie leggende, così famose da essere
conosciute in tutto il mondo, a cui erano state dedicate decine di
film, libri e opere d’arte. Ciononostante era rimasto
sconcertato di fronte a tutti i link che aveva trovato e a tutte le
finestre che aveva aperto e che, alla fine, avevano sovraccaricato il
PC, impallandolo.
Aveva perso ore ed ore per leggere tutto, fino a sentire gli occhi
bruciargli per lo sforzo, ma erano state utili per capire che la
maggior parte dei miti tramandati di generazione in generazione erano
stati stravolti, arricchiti di dettagli e situazioni messe
lì per attirare l’attenzione e il piacere del
pubblico (lui e Morgana marito e moglie e Mordred il figlio nato dalla
loro unione?!) e che tra questi pochi, pochissimi, raccontavano
ciò che era realmente successo. A volte coglieva dei
frammenti di verità, dei nomi e dei luoghi che aveva sentito
e visto, ma nulla di più.
Ad un tratto aveva cercato anche suo figlio Graalmir, senza ottenere
successo fino a quando non aveva provato con
“Graal”, il diminutivo con cui Merlino aveva
l’abitudine di chiamarlo. I risultati erano stati talmente
tanti e talmente insoddisfacenti che non si era nemmeno soffermato a
leggere.
E infine aveva digitato sulla tastiera “Excalibur”,
ciò che aveva stuzzicato per prima la sua
curiosità, fornendogli la vanga per iniziare quel folle
scavo nel passato.
Aveva letto di opere che l’avevano resa la protagonista della
storia, che l’avevano ritenuta anche più
importante del suo possessore, tant’erano la sua potenza e
misteriosità, e che Excalibur era spesso identificata come
la Spada nella Roccia, ma che in numerosi racconti erano due spade
distinte. Tutte informazioni di poco conto, inutili per soddisfare la
sua curiosità. Un altro buco nell’acqua, aveva
pensato. Poi aveva letto del leggendario mago Merlino, il quale aveva
annunciato che solamente l’uomo in grado di estrarre la spada
dalla roccia sarebbe diventato re di Britannia. E, ancora, aveva visto
un’illustrazione in bianco e nero in cui si vedeva un uomo in
armatura, molto probabilmente un cavaliere, che gettava la spada nelle
acque di un lago, dove una mano l’afferrava al volo per
l’impugnatura.
Di fronte a quell’immagine aveva tremato come un bambino,
pensando subito a Freya, la custode di Avalon, e a Merlino, il quale le
chiedeva di tenere al sicuro quella spada che, stranamente, era sempre
apparsa nei momenti più difficili.
Nessun sito né enciclopedia virtuale che aveva visitato
però era stato in grado di dargli qualche certezza sulla
provenienza di quella spada e Artù, desideroso di andare
fino in fondo, aveva aspettato che Merlino si chiudesse in bagno per
lavarsi e poi era corso nella stanza in cui custodiva molti oggetti del
passato, tra cui tutti i suoi diari. Aveva iniziato a leggere, sperando
di trovare da qualche parte delle informazioni utili, ma era stato
tutto uno spreco di tempo e diottrie. Doveva darsi una regolata con la
lettura, o anche lui avrebbe dovuto iniziare a portare gli occhiali da
vista.
Merlino aprì la porta avvolto in un morbido accappatoio
bianco, con i capelli bagnati che gli si appiccicavano alla fronte e ai
lati del viso. Lo guardò in silenzio e con occhi sospettosi
per diversi secondi, fino a quando non sospirò e gli
domandò: «Perché non chiedete
semplicemente a me quello che volete sapere?».
«Stavo solo curiosando, in attesa che uscissi dal bagno. Sono
certo che una donna impiegherebbe meno tempo di te a
prepararsi».
Merlino roteò gli occhi e si appoggiò allo
stipite della porta con una spalla, le braccia incrociate al petto.
«Ci sono ancora tante cose che non sapete sulle tecnologie
del mondo moderno, tra cui come utilizzare un PC. Questa mattina, prima
che vi svegliaste, ho controllato la cronologia delle ricerche e non ho
potuto fare a meno di notare che vi siete concentrato su un particolare
ramo della mitologia».
Artù lo fissò quasi con orrore, realizzando
ciò che aveva appena detto. Si chiese se avesse visto anche
le sue sempre meno frequenti capatine in quei siti per adulti e
già rosso d’imbarazzo preferì
confessare tutto prima che l’argomento potesse saltar fuori.
«È vero, ero curioso e ho fatto delle
ricerche».
«Mmh», annuì Merlino, guardandosi le
unghie. «Soddisfatto?».
«Non proprio».
«Lo supponevo. Chiedete pure».
«La spada che ho tirato fuori dalla roccia».
Merlino tornò a prestargli la dovuta attenzione, alzando il
capo di scatto e guardandolo stupito e un po’ confuso. Ad un
tratto sorrise, mormorando: «La sala comune. Avrei dovuto
arrivarci subito».
«Non è mai stato il tuo forte», lo prese
in giro Artù, facendolo sorridere.
«Volete sapere se ha poteri magici, non è
vero?».
Il re non si chiese come facesse a saperlo, ormai era consapevole di
essere sempre stato un libro aperto per lui, ed annuì con un
cenno del capo.
«La risposta è sì. Ma non del tipo che
credete voi: a dispetto del nome, la sua lama non può
rompere l’acciaio; né tantomeno è in
grado di proteggere chi la impugna».
«Me ne sono accorto», rispose con un sorriso mesto,
portandosi una mano sul fianco, dove la spada di Mordred
l’aveva ferito mortalmente.
«Quella spada è stata forgiata con alito di drago,
il quale le ha dato il potere di uccidere qualsiasi creatura, mortale e
non. È stata forgiata per voi, solo per
voi, per questo sono stato costretto a sbarazzarmene dopo che vostro
padre Uther le aveva messo gli occhi addosso».
«Mio padre? Che c’entra mio padre?».
Merlino sospirò, spazientito. Avrebbero sicuramente fatto
tardi, ma Artù aveva bisogno di sapere.
«Ricordate il Cavaliere Nero che voi eravate così
deciso ad affrontare, nonostante fosse una follia? Si trattava dello
spirito di Tristan De Bois, fratello di vostra madre Igraine, evocato
da Nimueh con un incantesimo perché si vendicasse per quello
che Uther aveva fatto alla sua gente. Nessuna spada comune avrebbe
potuto sconfiggerlo, essendo già morto, perciò
sono andato da Kilgharrah e l’ho pregato di aiutarmi. La
spada però è finita nelle mani di vostro padre,
che con l’aiuto di Gaius vi aveva messo fuori combattimento.
Grazie alla spada Uther è riuscito a vincere su Tristan e
non appena il Grande Drago è venuto a saperlo…
beh, mi ha detto che sarebbero successe cose terribili se quella spada
fosse finita nelle mani sbagliate. Così l’ho
gettata nel lago, dove nessuno avrebbe potuto trovarla».
Artù con un enorme sforzo di memoria – il passato
si allontanava da lui ogni giorno di più, annebbiandosi e
dandogli solo frammenti che lo prendevano alla sprovvista sempre
più spesso e nei momenti più disparati
– ricordò che la sfida del Cavaliere Nero era
avvenuta molto tempo prima del suo incontro con Freya, la
ragazza-pantera. Allora non era ancora la custode del lago,
perciò l’illustrazione che aveva trovato su
Internet, se aveva qualcosa di vero, doveva risalire ad un episodio
successivo.
«Ora siete soddisfatto?», domandò
Merlino con una punta di irritazione.
Artù capì che il suo comportamento era dettato
dal dolore e lasciò correre la sua insolenza.
«Un’ultima domanda», disse.
«Ora la spada dove si trova?».
Merlino sobbalzò leggermente, come colpito da un ricordo
troppo doloroso. Abbassò gli occhi sul pavimento e dopo aver
raccolto la voce, lottando perché non si incrinasse rispose:
«È sempre stata con voi, sul fondo di Avalon. Ma
temo che, se non è tornata insieme a voi, sia impossibile
recuperarla».
«Perché?», chiese Artù, col
cuore che gli batteva forte nel petto.
Merlino esitò, dondolandosi sui talloni per una manciata di
lunghissimi, strazianti secondi. Quindi scrollò le spalle,
abbozzando un sorriso. «Non si può, senza la
magia. È sempre stato così».
Avrebbe voluto chiedergli che cosa intendeva, ma non ce ne fu bisogno:
l’unico motivo per cui Merlino avrebbe potuto dire una cosa
del genere era perché era convinto che oltre a lui non ci
fosse più nessuno con poteri magici, Freya compresa.
La custode di Avalon gli aveva detto che la magia stava morendo e che
mostrarsi a lui era stato un enorme sforzo… Possibile che
anche Merlino ne fosse a conoscenza, che lo percepisse e che sapesse
che lui, come ogni creatura dell’Antica Religione, aveva i
giorni contati?
Aprì la bocca, ma stordito da quell’orribile
segreto che forse Merlino gli stava nascondendo con l’intento
di non farlo preoccupare, riuscì soltanto a rantolare un
«Non può essere» che lo stregone non
udì.
«Ora sarà meglio che vi prepariate, o davvero
arriveremo in ritardo», disse, lanciandogli
un’occhiata di rimprovero prima di dirigersi verso la propria
camera da letto.
***
«Ma
sei sicuro che questo sia l’abito adatto?».
Merlino annuì senza distogliere gli occhi dalla strada,
sbattendo più volte le palpebre per spazzare via le lacrime
che glieli appannavano.
Pochi giorni prima aveva detto ad Artù che raccontare le
favole ai bambini era come riavere Graalmir al suo fianco, ma ora che
aveva perso Steve sentiva di aver perso il piccolo principe per la
seconda volta, ancora più dolorosa della prima.
Aveva da poco iniziato a piovere e guardando le grosse gocce di pioggia
striare obliquamente i finestrini si chiese perché si
sforzasse così tanto per non piangere, quando il cielo per
primo non se ne preoccupava.
«Avrei dovuto mettere l’uniforme da cerimonia, con
tanto di spada. È così che si va ad un funerale,
non con un cappio al collo», si lamentò ancora
Artù, tirando più giù il nodo alla
cravatta.
Merlino lo guardò con la coda dell’occhio e
strinse i denti per non inveirgli contro. Conosceva abbastanza bene
Artù da sapere che quando era nervoso o emotivamente
instabile per qualsiasi motivo lui era quello che ne subiva di
più le conseguenze, capro espiatorio o distrazione perfetta
nel cento percento dei casi.
«Le tradizioni sono cambiate», spiegò
mantenendo un tono di voce pacato. «Anche la cerimonia a cui
assisteremo… non sarà come i funerali che
celebravamo a Camelot. Cercate solo di astenervi da ogni commento e/o
domanda inopportuna, per favore».
Il re acconsentì di buon grado, anche fin troppo mestamente.
Per una volta però Merlino non se ne preoccupò:
dopotutto anche Artù aveva un cuore ed era abbastanza
intelligente da saper intuire i momenti in cui la
sensibilità e il rispetto erano tutto.
Il parcheggio di fronte all’ospedale era quasi pieno, tanto
per la pioggia che per il piccolo funerale che i genitori di Steve
avevano voluto organizzare nella cappella per tutti i medici, gli
infermieri e i piccoli pazienti del reparto di oncologia che si erano
affezionati a Steve tanto da considerarlo parte della famiglia.
L’impresa di pompe funebri poi si sarebbe occupata del
trasferimento della bara nella piccola cittadina in cui il bambino era
nato e cresciuto, dove si sarebbe svolto il funerale ufficiale, per
amici e parenti, e dove una zolla di terra del cimitero comunale era
già stata prenotata.
Merlino parcheggiò la Pininfarina e seguito da
Artù entrò nell’ospedale.
Quella mattina poche persone li salutarono e quelle poche che ogni
tanto riuscivano a tornare alla realtà, scalfendo la bolla
di dolore in cui tutti si erano ritrovati intrappolati, lo avevano
fatto debolmente, senza sorridere.
I due percorsero il corridoio principale in silenzio e non parlarono
nemmeno quando di fronte alla scelta tra ascensore e scale presero
entrambi le scale per raggiungere il quarto piano. Ad attenderli
trovarono Mark ed Abigail, seduti sulle loro sedie a rotelle ed
eleganti come non mai, specialmente quest’ultima: indossava
un cardigan nero con i bottoni bianchi, una gonna a balze blu scuro che
le lasciava scoperte le ginocchia e un paio di ballerine; tra i capelli
aveva fissato un fiocchetto nero e si era persino truccata gli occhi
con un po’ di matita e del mascara.
In confronto a lei Mark sembrava molto meno curato, con i suoi blu
jeans e la camicia nera che teneva slacciata fino al petto, sotto cui
si intravedeva una catenina d’oro, probabilmente un
crocifisso.
«Wow», mormorò Abigail non appena i suoi
occhi si posarono sui loro completi pressoché identici:
giacca e cravatta nere, camicia bianca e pantaloni neri appena stirati.
Merlino doveva ammettere però che Artù stava
decisamente meglio di lui, forse per le sue spalle larghe o forse
perché la sua figura si adattava perfettamente agli abiti
costosi e di pregio, mentre Merlino non riusciva a sentirsi mai
totalmente a proprio agio con vestiti che uno come lui, nato e
cresciuto in una famiglia povera, non si sarebbe mai potuto permettere.
«Anche tu sei bellissima», ricambiò
Artù con naturalezza, chinandosi su di lei per baciarle le
nocche di una mano.
Merlino notò Mark irrigidirsi sulla propria sedia a rotelle,
con le dita strette intorno ai braccioli, e sorrise pensando che aveva
sempre avuto ragione nel sospettare che avesse una cotta per la
coetanea.
Abigail, rossa come un peperone, incrociò gli occhi di
Merlino e disse: «Alex è passata poco fa, ha detto
che possiamo avviarci e che ci raggiungerà nella
cappella».
«Va bene. Gli altri bambini sono già
lì?».
«No, li accompagneranno gli infermieri quando
inizierà la funzione, quando la…».
«Quando la bara sarà chiusa», concluse
per lei Merlino, sorridendo teneramente. Abigail annuì,
senza riuscire però a ricambiare.
Artù guardò Merlino con un grosso punto
interrogativo sul viso, ma non aprì bocca, come gli aveva
chiesto di fare. Il mago scosse leggermente il capo e si
portò dietro la carrozzina di Mark per spingerlo verso gli
ascensori. Il re, vergognandosi tanto da non guardare nemmeno i
ragazzini negli occhi, disse che si sarebbero incontrati
giù. Quando le porte dell’ascensore si chiusero,
Mark sollevò il capo verso Merlino e chiese: «Che
problema ha?».
«Claustrofobia».
Mark arricciò le labbra in un sogghigno, ma non
riuscì a trattenere la grassa risata che rimbombò
tra le quattro pareti, smorzata però quasi subito dalla mano
di Abigail che l’aveva colpito sull’addome.
Merlino, alle loro spalle, sorrise.
Trovarono Artù già di fronte alle porte quando
l’ascensore si fermò al piano terra. Sorrideva
nervosamente, come se avesse appena visto un wildeon gigante e non
volesse allarmarli. Il re mosse impercettibilmente il capo verso la sua
destra e Merlino uscì per primo dall’ascensore per
poter vedere che cosa lo aveva quasi paralizzato sul posto con
quell’espressione idiota sulla faccia.
«Cathleen», esclamò non appena la vide
fuori dalle porte vetrate del pronto soccorso, sulla rampa per
disabili, intenta a fumare frettolosamente una sigaretta, una boccata
dopo l’altra.
Era vestita normalmente, nel senso che per Cathleen era perfettamente
normale indossare anfibi, collant nere smagliate in più
punti, shorts di jeans neri e un giubbotto di pelle sopra ad un
maglione traforato a collo alto. Cathleen spesso e volentieri passava
intere giornate libere all’ospedale – Merlino
sapeva che non aveva nessuno con cui trascorrerle, proprio come lui
– e poteva dire con certezza di averla vista con look molto
più stravaganti, quasi al limite della decenza,
perciò trovò sobrio e quasi elegante
l’abbigliamento che aveva scelto per il funerale di Steve.
«Quella è strana forte», disse Mark,
quasi simpatizzando con Artù. Non appena se ne accorse
però gli rivolse un’occhiata truce e si
voltò verso Abby, incitandola ad affiancarlo. Ma la
ragazzina non lo calcolò nemmeno, con lo sguardo ancora
rivolto verso le porte vetrate.
«Io penso che sia tutta una messinscena, invece»,
disse.
Merlino si accigliò. «La conosci?».
«Sì e no. Ogni tanto passa a trovarmi, quando
l’ambulanza è ferma nel parcheggio. Ed
è la ragazza più gentile e simpatica che ci sia.
Secondo me è semplicemente sola e questo è
l’unico modo che ha trovato per farsi guardare».
Tutti rimasero in silenzio per qualche secondo, lasciando che le parole
di Abigail aleggiassero nell’aria, fino a quando Cathleen non
spense la sigaretta nel posacenere ed entrò, incamminandosi
proprio verso di loro. Un sorriso sbocciò sul suo viso
punteggiato di efelidi e Merlino sobbalzò accorgendosi per
la prima volta di quanto fosse delicato e fragile senza il trucco
pesante sugli occhi e sulle labbra, con le vene bluastre che si
intravedevano sulla sua fronte e due ciocche di capelli rossi che le
sfioravano le guance ad ogni passo, mentre il resto della sua chioma
era raccolta sulla nuca in uno chignon morbido.
«Ciao», li salutò senza fermarsi,
facendo scomparire il sorriso subito dopo e chinando il capo.
Quel comportamento non era proprio da Cathleen. Merlino la
guardò andare via in silenzio, fino a quando i suoi occhi
non si posarono involontariamente su Artù. In volto aveva
un’espressione che conosceva bene e che gli fece correre un
brivido lungo la schiena: quando il solo ed unico re guardava qualcuno
in quel modo, voleva dire che ne era rimasto colpito e voleva dare una
mano, se possibile. Lo stregone non voleva mettergli i bastoni tra le
ruote, sapeva che in quel modo si sarebbe dedicato con ancora
più impegno alla causa, perciò cercò
di ignorare il brutto presentimento che gli gravava sulle spalle.
«A quanto pare era molto affezionata a Steve»,
disse Abigail, sospirando.
Merlino scosse il capo e strinse le dita intorno ai manici della sedia
a rotelle di Mark, rispondendo malinconico: «Chi non lo
era?».
La cappella dell’ospedale si trovava nella parte
più a nord del complesso e per raggiungerla bisognava
passare sotto uno dei porticati che, proprio come nei chiostri dei
monasteri, racchiudevano un piccolo giardinetto interno
dall’erba curata e con, al centro, un albero
d’ulivo alto come i due ragazzini, circondato da grosse
pietre bianche e piccole aiuole dai fiori lilla.
Gran parte degli infermieri e dei dottori che avevano avuto modo di
conoscere Steve erano già seduti sulle panche e guidati da
una suora recitavano pacatamente il rosario nell’attesa che
iniziasse la funzione. Ogni tanto qualcuno si alzava per raggiungere la
piccola bara bianca di fronte all’altare di marmo, adagiata
sopra una ghirlanda di fiori, anch’essi bianchi.
Un impiegato delle pompe funebri, più simile ad un bodyguard
a causa delle spalle larghe strette nel completo gessato e del cranio
perfettamente rasato, era a pochi metri di distanza, pronto a chiuderla
non appena il parroco gli avesse dato il via libera.
Il padre e la madre di Steve, seduti in prima fila, si voltarono
proprio quando Merlino e gli altri fecero il loro ingresso e
l’uomo posò un bacio sulla fronte di sua moglie
prima di uscire dalla panca per andare loro incontro. Strinse loro le
mani e salutò i ragazzini con un sorriso già
umido di lacrime.
«Per i bambini abbiamo tenuto un paio di panche libere
davanti», disse, invitandoli a proseguire con un gesto del
braccio.
Artù e Merlino accompagnarono Mark e Abigail in seconda
fila, sistemando poi le loro sedie a rotelle contro la parete, ma prima
che il mago potesse allontanarsi la ragazzina lo guardò
implorante, dicendo: «Voglio salutare Steve».
Merlino si guardò per un attimo le scarpe. «Non
sei obbligata a farlo».
«Me ne pentirò, se non lo farò. Ti
prego, Merlino».
Lo stregone annuì e fece per prendere di nuovo la sedia a
rotelle, ma Abigail lo fermò dicendo che voleva andare da
lui sulle sue gambe. Quindi le porse il braccio e camminarono insieme
fino a trovarsi di fronte al visetto di quel bambino troppo piccolo per
morire. Aveva gli occhi chiusi e le sue labbra pallide sembravano stese
in sorriso – forse a causa della formaldeide, forse
perché i muscoli facciali si erano naturalmente irrigiditi
in quel modo.
«Sembra che stia dormendo», disse Abigail con voce
tremante, sforzandosi di sorridere a sua volta.
Merlino non voleva essere cinico, ma odiò la
falsità del suo sorriso come quello sul volto di Steve, dato
che era impossibile che se ne fosse andato felice. Tuttavia rimase in
silenzio, impassibile, sorreggendo Abigail anche quando si
piegò leggermente verso il bambino per accarezzargli i
capelli biondi ora un po’ spenti pettinati ordinatamente su
un lato.
«Ti voglio bene, Steve. Hai capito? Ti voglio bene, te ne
vorrò sempre. Con tutto il mio cuore».
Si sporse ancora un po’ di più e Merlino per un
attimo ebbe paura che stesse per perdere i sensi; invece gli
posò un delicato bacio poco sopra l’attaccatura
del naso, sussurrando ancora qualche parola che lui, anche volendo, non
sarebbe riuscito a sentire.
Era vero che Abigail era una coraggiosa. Lui aveva visto molte,
moltissime persone morire, alcune delle quali avevano esalato il loro
ultimo respiro proprio tra le sue braccia, e nonostante fosse
già adulto aveva sempre lasciato che le emozioni prendessero
il sopravvento su di lui. Abigail invece si risollevò e come
se nulla fosse lo ringraziò.
Mentre la stava accompagnando di nuovo al suo posto alzò il
capo per guardarlo negli occhi e sussurrò: «Sai
che non devi sentirti in colpa, vero? Hai fatto tutto il possibile per
lui, più di tutti noi messi insieme».
Lo stregone la fissò incredulo e spaventato dal significato
intrinseco di quelle parole, senza riuscire a formulare una qualsiasi
frase di senso compiuto. Abby arricciò le labbra in un
minuscolo sorriso e si sedette accanto a Mark, a cui, per sua immensa
gioia e sorpresa, strinse forte una mano prima di posare il capo sulla
sua spalla.
Merlino si sforzò di spegnere il cervello e non
poté fare a meno di sorridere scorgendo quello speciale
bagliore negli occhi del tredicenne: la luce che solo gli occhi
innamorati sanno emanare. Poi raggiunse Artù, seduto qualche
panca più indietro, con lo sguardo rivolto verso il lato
opposto della cappella. Il mago lo imitò, sedendosi al suo
fianco, e scorse anche lui la figura di Cathleen, inginocchiata e con
le dita delle mani intrecciate di fronte al viso. Merlino si chiese se
fosse religiosa o se semplicemente si stesse appellando a Dio o a
qualsiasi altra forza superiore, inveendo come lui aveva fatto
più e più volte nel corso dei secoli e chiedendo:
«Perché?», fino a farsi venire il mal di
testa.
«Ha avuto coraggio Abigail», disse ad un tratto
Artù, riportandolo bruscamente alla realtà.
«È più forte di quello che
sembra».
«Già. Mi chiedo dove sia Lady Alex».
«Arriverà», lo rassicurò,
cercando al contempo di rassicurare anche se stesso.
Ricordava lo stato in cui era quando due notti prima lo aveva chiamato
nel cuore della notte per dirgli che una collega le aveva appena
mandato un SMS con scritto che Steve se n’era andato per
sempre: piangeva a dirotto e non riusciva a parlare, talmente forti
erano i singhiozzi. A fatica gli aveva chiesto se poteva raggiungerla a
casa e Merlino era corso da lei senza nemmeno svegliare
Artù, il quale al suo risveglio l’aveva trovato
già seduto in cucina, con la seconda tazza di
caffè tra le mani. Il re non aveva sospettato nulla e
Merlino non gli aveva raccontato nulla della notte trascorsa a casa di
Alex, delle ore passate a cullarla tra le braccia e ad accarezzarle i
capelli in silenzio e nella semi-oscurità, stretti sullo
striminzito divano arancione, prima che smettesse di giurare che lei
non avrebbe mai avuto figli e si addormentasse sfinita.
Artù in effetti non sapeva molto riguardo a come si era
sviluppato il loro rapporto, più sincero che mai sul piano
affettivo ma del tutto innocente, come quello tra due bambini, e in
attesa del domani. E per il momento Merlino non era intenzionato a
parlargliene, indispettito forse da tutte le gaffes
che negli ultimi giorni Artù si era lasciato scappare
riguardo ad Alex o ancora da ciò che aveva visto quel
pomeriggio in sala comune, quella specie di complicità e di
rispetto reciproco che gli avevano fatto venire la pelle
d’oca.
I giovani pazienti del reparto di oncologia, accompagnati dagli
infermieri, iniziarono ad arrivare uno dopo l’altro. La bara
era già stata chiusa e sopra di essa era stato sistemato un
grande primo piano di Steve, i suoi occhi azzurri brillanti sotto i
raggi del sole e il suo sorriso dolcissimo sulle labbra, accompagnato
da due adorabili fossette sulle guance.
Tra loro, Merlino e Artù scorsero anche Alex, che spingeva
la carrozzina di Danilo, il compagno di stanza di Mark, appena tornato
dalla chemio. Non lo prese in braccio per farlo sedere sulla panchina
– l’undicenne era troppo debole – ma si
chinò di fronte a lui con sguardo apprensivo. Merlino
riuscì a leggere le sue labbra: “Sei sicuro di
farcela?”.
Danilo, di cui riusciva a vedere solo la schiena, scrollò le
spalle. Alex aggiunse: “Se cambiassi idea, se dovessi
sentirti male… avvisami subito. Non vorrai mica vomitare di
fronte a tutti, uh?”. Probabilmente Danilo
ridacchiò, visto come le sue spalle sobbalzarono a scatti, e
Alex si sollevò facendogli un buffetto sulla guancia. Poi si
gettò un rapido sguardo intorno e senza alcuno sforzo
individuò Merlino e Artù, i quali avevano alzato
una mano contemporaneamente.
Si infilò nella loro panca e lo stregone, che le aveva
tenuto il posto accanto a sé, fu costretto a scalare per
farla sedere in mezzo a loro. Ancora una volta sentì il
cuore stretto nell’ardente morsa della gelosia –
immotivata, folle ed autodistruttiva gelosia – e di nuovo si
disse che non aveva prove concrete per credere che tra Alex e
Artù ci fosse qualcosa. E poi, anche nel caso avesse avuto
ragione, non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi: Alex meritava
tutta la felicità del mondo e se pensava che Artù
fosse la persona giusta doveva essere contento e solidale con lei,
conscio che lui se ne sarebbe preso cura come e meglio di lui.
La funzione iniziò e tutti si alzarono in piedi. Le parole
del parroco divennero senza senso nella sua mente, sovrastate da quei
pensieri futili che però non riusciva ad allontanare. Poi,
come vento in grado di spazzare via le nubi temporalesche, Alex
infilò la mano nella sua, stringendola delicatamente.
Merlino si rilassò e non dovette nemmeno sporgersi per
guardare in direzione della mano sinistra di Artù: sapeva
che Alex aveva scelto lui.
***
Sulla
porta della cappella avevano aspettato il loro turno per fare le
condoglianze ai genitori di Steve, dopodiché erano usciti.
Artù aveva notato che Alex e Merlino si erano tenuti per
mano per quasi l’intera durata della messa e nonostante
potesse essere un gesto del tutto innocente e causato
dall’emozione del momento, non aveva potuto fare a meno di
pensare che quei due gli stavano nascondendo qualcosa. Ne ebbe piena
conferma quando, passando accanto al giardino interno, sia Alex che
Merlino si paralizzarono sul posto accorgendosi dell’agente
Chandra, appoggiata ad una delle colonne e con il cellulare tra le
mani. Artù aveva avuto ragione nel pensare che avesse delle
forme perfette sotto l’uniforme: le gambe lunghe e longilinee
erano fasciate da un paio di blu jeans aderenti, i fianchi sinuosi e il
seno prosperoso assecondati dal maglione di lana intrecciato intorno
alla sua vita piatta. I capelli neri e lucidi come seta non erano
raccolti, bensì ricadevano in morbide onde sulla sua schiena
e quelli che le incorniciavano il viso facevano brillare ancora di
più i suoi occhi più grigi che verdi, simili a
pietre preziose. Artù si chiese come fosse possibile che
tutte le ragazze intorno a Merlino fossero così belle e come
se avesse appena ricevuto una botta in testa si ricordò
delle parole di Freya: «Abbiamo influenzato tutte le
donne che entravano in contatto con lui». Fu quello
il motivo per cui guardò Alex – la preoccupazione
che il suo amore per Merlino fosse solo frutto della magia –
e la trovò scioccata e quasi intimorita dalla presenza della
poliziotta.
Alla fine fu la stessa Myra a rompere il silenzio, alzando il capo ed
accorgendosi a sua volta del loro arrivo. Il suo sguardo
scivolò subito su Merlino e Artù notò
il luccichio di felicità nei suoi occhi, nonostante fosse
durato solo una frazione di secondo.
«Ciao», li salutò con un piccolo
sorriso. «Ho saputo di Steve e ho pensato di passare.
Inoltre, speravo proprio di trovarvi».
«Deve portarmi in Centrale un’altra
volta?», chiese stupidamente Artù, pentendosene
non appena chiuse bocca.
L’agente lo scrutò con la fronte aggrottata e poi
ridacchiò. «No, a meno che tu, andandotene in giro
con quel completo, non sia intenzionato a fare una strage di
cuori».
Prima che Artù potesse rispondere a quella specie di
complimento, Alex fece un passo avanti, come a volerlo proteggere, e
rivolgendole un’occhiata diffidente disse: «Di che
si tratta, Myra? Io dovrei tornare al lavoro».
«Oh, non avevo alcuna intenzione di intrattenerti,
Alex», rispose l’agente continuando a sorridere, ma
nel suo tono c’era un che di beffardo. «E non devi
nemmeno scusarti per essersi dimenticata di dire a Merlino che avevo
bisogno di parlargli. Dev’essere stato un periodo
difficile».
L’infermiera si ammutolì, impallidendo e
diventando paonazza subito dopo. Artù si sarebbe aspettato
come minimo che le urlasse contro, invece chinò il capo come
se avesse già capito che era una battaglia persa e si
allontanò dicendo: «Devo tornare dai bambini
adesso».
Il re fu tentato di rispondere per conto suo, ma Alex lo
afferrò all’improvviso per un braccio e se lo
trascinò dietro.
«Vieni, vorranno sicuramente un po’ di
privacy».
Merlino la sentì, la sentirono tutti, e Artù vide
lo stregone aprire la bocca per dire qualcosa e poi richiuderla quando
l’agente Chandra l’affiancò, iniziando
ad incamminarsi nella direzione opposta alla loro. Il mago
esitò, da solo in mezzo al corridoio, e Artù
avrebbe voluto prenderlo a pugni, pensando che se si trattava di una
scelta, non poteva che fare quella giusta. Alla fine lo vide stringere
i pugni lungo i fianchi col viso accartocciato e voltargli le spalle
per raggiungere Myra con lunghe falcate.
Idiota!
pensò frustrato, lasciandosi trascinare da Alex.
Erano quasi arrivati nei pressi dell’ascensore quando
l’infermiera gli lasciò bruscamente il braccio che
aveva stritolato a tal punto da farglielo sentire indolenzito. Ora la
rabbia le sfigurava il volto e le alterava la voce, rendendola
più acuta di qualche ottava e allo stesso tempo simile ad un
ruggito.
«Con che coraggio ha osato venire qui?»,
strepitò, attirando parecchia attenzione su di loro. Tra
tutti quelli che si erano girati a fissarli, Artù riconobbe
persino il medico che l’aveva visitato.
«Ma dico, l’hai sentita? Ha persino tirato in mezzo
Steve, quando il suo unico obiettivo era Merlino! Io non la sopporto,
non la sopporto!».
Se quella non era gelosia, Artù non aveva proprio idea di
che cosa fosse.
«E per quale motivo voleva parlare con Merlino?»,
le chiese, sperando che non sbranasse anche lui.
«Per quale motivo? Ah! Sono certa che inizierà
dicendo che vuole chiarire alcuni punti del tuo quasi-arresto e che lo
ammonirà di tenerti d’occhio, perché la
prossima volta non sarà così clemente, ma poi gli
dirà che c’è un altro motivo per cui
voleva parlargli e può essere solo quel
motivo!».
Alex aveva premuto o, meglio, preso a pugni il pulsante di chiamata
dell’ascensore e quando le porte si erano aperte di fronte a
loro era entrata, mentre Artù si era come pietrificato sul
posto.
«Che fai, non vieni?», gli chiese, irritata.
«Veramente, io…».
«Muoviti!». Lo prese per la cravatta e rischiando
di strozzarlo lo trascinò dentro l’ascensore
giusto un momento prima che le porte iniziassero a chiudersi.
Artù sentì il cuore fermarsi nella cassa toracica
e lo stomaco schizzargli dritto in gola, ma lottò con tutte
le proprie forze per fare respiri profondi e regolari e controllare la
paura, come gli aveva detto di fare Merlino. In fondo era vero che nel
corso della sua prima vita, a Camelot, aveva affrontato molto di
peggio, riuscendo in qualche modo a cavarsela tutte le volte.
Perché avevi Merlino a vegliare su di te,
gli ricordò la propria coscienza che, guarda caso, aveva la
sua stessa vocina irritante di quando gli ricordava che aveva avuto
ragione e avrebbe dovuto ascoltarlo.
Sentiva il sudore colargli lungo la schiena e faceva sempre
più fatica a respirare, ma inaspettatamente fu Alex ad
aiutarlo, distraendolo col suo racconto intriso di tristezza e
rammarico.
«Merlino era lì, quando Myra è stata
investita. Stava facendo jogging da sola perché io ero di
turno in ospedale e fuori era già buio, quando
un’auto con i fari spenti è sbucata fuori dal
nulla, a folle velocità, e l’ha travolta sulle
strisce pedonali. L’uomo al volante era ubriaco fradicio e
non aveva idea di dove fosse né perché. Merlino
era uscito un po’ prima dalla caffetteria della signora Begum
– nel periodo natalizio qui è un vero mortorio, te
l’assicuro – e ha visto tutta la scena, senza
però poter fare nulla oltre a prestare subito soccorso a
Myra, chiamando un’ambulanza. Aveva fatto un brutto volo e
aveva picchiato forte la testa, tanto che per un periodo è
rimasta in coma farmacologico, sotto osservazione
ventiquattr’ore su ventiquattro. E poi si era rotta il femore
della gamba destra, la peggior frattura che io abbia mai visto:
l’osso era spaccato in molti punti. Ci sono volute diverse
operazioni perché venisse riassemblato completamente, ma
l’osso è risultato comunque più corto
di un centimetro o giù di lì rispetto
all’altro. È per questo che zoppica».
Le porte dell’ascensore si aprirono dopo l’avviso
acustico e Artù uscì per primo, insistendo
perché proseguisse.
«Merlino è rimasto con lei da quando
l’ha soccorsa fino a quando non è stata ricoverata
in terapia intensiva. Si sentiva in qualche modo
responsabile». Alex si interruppe, come se avesse appena
colto un dettaglio fondamentale, poi riprese: «Ogni giorno
passava a trovarla e anche se, come ti dicevo, era tenuta in coma
farmacologico, parlava con lei: le raccontava la sua giornata, le
leggeva i giornali, qualche libro… Fino a quando non
è stata svegliata. Ovviamente non avevano mai avuto modo di
presentarsi, ma indovina qual è stata la sua prima parola
quando ha riaperto gli occhi?».
«Merlino».
Alex annuì, stringendosi le braccia al petto.
«Myra ha trascorso quasi un anno qui in ospedale,
praticamente tutto tempo speso nella riabilitazione, e lei e Merlino
sono diventati molto amici. C’era qualcosa nel loro
rapporto… forse perché lui le era stato
così vicino, ma era come se si conoscessero da sempre.
Merlino sosteneva che tra loro non c’era niente oltre ad una
forte amicizia, ma io ero convinta che Myra si fosse innamorata di lui.
Lo si percepiva da come lo guardava, da come rideva alle sue
battute… Insomma, si capiva».
«Ma non ne hai mai avute le prove», concluse
Artù, ricevendo un’occhiata fulminante che gli
fece capire di aver commesso un grosso errore.
«Lei deve averglielo confessato ad un certo punto,
perché pochi mesi prima della fine della riabilitazione
Merlino iniziò ad andarla a trovare sempre meno, fino a
quando non smise del tutto. Ho provato tante e tante volte a chiedergli
cosa fosse successo, ma non mi ha mai risposto. Questa non è
una prova, secondo te?».
L’immagine della sua Ginevra tra le braccia di Lancillotto lo
fece trasalire.
Quei flashback del suo passato lo coglievano di sorpresa sempre
più spesso, lasciandolo disorientato e col cuore stretto in
una morsa ghiacciata, e non riusciva a capirne il motivo. Che fosse
Freya che, anche da lontano, gli volesse ricordare del destino che
incombeva su di loro?
«Non li hai mai colti sul fatto», rispose,
scrollando il capo come se farlo potesse aiutarlo a dimenticare quel
ricordo doloroso.
Alex sogghignò. «Non so come avrei reagito, in
quel caso».
Artù pensò che se davvero era sangue del suo
sangue, avrebbe senza dubbio afferrato la prima arma a sua disposizione
e avrebbe cercato di uccidere Myra.
«Soprattutto perché allora ero
fidanzata», aggiunse, posandosi una mano sulla fronte mentre
scoppiava in una risatina sconsolata.
Artù aveva staccato il cervello quando aveva capito che
Alex, prima di innamorarsi di Merlino, era stata con un ragazzo,
perciò non fece lo stesso ragionamento
dell’infermiera, chiedendosi per quanto tempo avesse fatto
finta di non provare nulla per il mago. Continuava a chiedersi chi,
quando, dove, come e perché e per poco non fu quella la
sequenza di parole che uscirono dalla sua bocca.
«Aspetta un momento», esclamò portandosi
le dita alle tempie. «Tu eri fidanzata?».
«Non fidanzata nel vero senso del
termine… avevo un ragazzo», rispose, schivando il
suo sguardo per poi rivolgergliene uno tagliente: «Lo trovi
così strano?».
«Sì!».
Alex assottigliò ancor di più gli occhi.
«Sì?».
«Pensavo… pensavo fossi sempre stata innamorata di
Merlino!», rispose sinceramente e senza darle il tempo di
aprire bocca le chiese: «Lui chi era?».
L’infermiera alzò le mani come a voler dire:
«Io ci rinuncio», riprendendo a camminare lungo il
corridoio.
«Lady Alex!», la rimproverò
Artù, scandalizzato dal suo comportamento scortese. A volte
era tale e quale a Merlino e Artù si promise che, se tutto
quello che aveva saputo da Freya avesse trovato conferma, le avrebbe
fatto un ripasso intensivo su come essere un’impeccabile
gentildonna.
La rincorse e come un padre ossessivamente protettivo nei confronti
della figlia le ordinò di dirgli chi era il suo
“ragazzo”, abbassandosi pian piano fino ad
implorarla.
«E va bene!», urlò alla fine,
esasperata. Quindi gli puntò un dito contro il viso,
guardandolo con la stessa sete di sangue che aveva visto negli occhi
della Bestia Errante quando l’aveva attaccato. «Te
lo dico e tu mi lasci in pace, affare fatto?».
«Parola di Cavaliere», promise con una mano sul
cuore.
Alex sospirò. «Il dottore che ti ha visitato
quando ti ho colpito in testa con la padella. Si chiama Keith, Keith
Ellis».
Artù, incredulo – con il suo fisico prestante e il
suo sorriso affabile era l’opposto di Merlino! –
aprì la bocca per chiedere un’ulteriore conferma,
ma Alex gli tappò la bocca con l’intera mano.
«Hai promesso», gli ricordò.
«Ci vediamo più tardi».
Gli diede ancora una volta le spalle e sparì in una delle
tante camere che si affacciavano sul corridoio.
***
Seguendo
il corridoio fino alla sua fine, raggiunsero una delle uscite
d’emergenza che davano sul retro dell’ospedale e in
particolare sulla zona in cui si fermavano i fornitori per le
operazioni di carico e scarico. Il venerdì mattina era il
giorno fissato dalla lavanderia per il ritiro della biancheria sporca,
raccolta in decine di grossi cesti di metallo.
«Potevi avvisarmi», esclamò risentita
Myra, osservando i dipendenti salire e scendere dal lungo camion sulla
cui fiancata saltava subito all’occhio il nome della ditta:
“Kings Laundry Service”, scritto a caratteri
cubitali e sormontato da una gigantesca corona.
Merlino non poté fare a meno di trovarlo ironico.
«Avrei preferito qualcosa di più romantico per il
nostro primo incontro dopo… quanto, cinque mesi? Come vola
il tempo».
«È di questo che volevi parlarmi?», le
chiese, irritato dal suo sorriso sardonico, da come poco prima aveva
risposto ad Alex e da come lui stesso si era comportato, rimanendo in
silenzio invece di prendere le sue difese.
«In verità avrei preferito parlare prima del tuo
amico con la balestra, ma visto che siamo già sul pezzo
tanto vale proseguire». Si voltò verso di lui, le
mani nelle tasche posteriori dei jeans e gli occhi grigi fissi nei
suoi, feroci come quelli di una tigre ferita. «Cinque
mesi, Merlino. Non un SMS, non una telefonata.
Com’è possibile vedere una persona ogni giorno per
otto mesi e poi sparire del tutto?».
Merlino si appoggiò al muro alle sue spalle con un piede,
facendo attenzione a non aderirvi con parti dell’abito, e
ricambiò il suo sguardo. «Ti avevo spiegato la
situazione, Myra».
«Avevi detto che ci saremmo visti di meno,
perché sarebbe stato imbarazzante per entrambi, non che mi
avresti cancellato dalla tua vita!», urlò,
furibonda, ed avanzò di un passo.
Anche Merlino si avvicinò a lei. «Io non ti ho
cancellato dalla mia vita! Ci ho provato, ma non ci
sono mai riuscito!».
Occhi negli occhi, Myra e Merlino rimasero in ascolto dei loro respiri
leggermente affannati, pensando alla prossima mossa. Lo stregone si
rese conto di aver fatto un errore dicendo la verità, e che
ormai era troppo tardi per tornare indietro.
«Allora avresti potuto…», ruppe
timidamente il silenzio l’agente, sfuggendo per un attimo al
suo sguardo.
«No», la interruppe Merlino, negando anche con il
capo. «Pensavo di farcela, di poter essere tuo amico
nonostante tu volessi di più, ma non riuscivo a pensare ad
altro che standoti intorno ti avrei fatto più male che bene.
Speravo che, scomparendo, mi avresti dimenticato. A quanto pare mi
sbagliavo».
«Dovrebbero spararmi in fronte», disse, sorridendo
debolmente. Myra chinò il capo e si guardò le
scarpe basse, calciando qualche sassolino d’asfalto.
«Nessuno a parte i membri della mia famiglia mi era mai stato
tanto vicino. E tu non dovevi farlo per forza, non avevi alcun
obbligo… Ogni giorno aspettavo le ore che avrei trascorso
con te con impazienza, erano gli unici momenti in cui non odiavo il
letto in cui ero bloccata, il cibo della mensa, le infermiere che mi
cambiavano le medicazioni… E quando mi allenavo davo il
massimo per raccontarti dei miei progressi e vederti veramente felice
per me. Quanto ti ho detto che mi ero innamorata di te mi ha spezzato
il cuore capire di non essere ricambiata, ma è stato molto
peggio quando hai smesso di venire a trovarmi. Ero così
arrabbiata… Penso che alcune infermiere là dentro
mi lascerebbero soffrire se per caso dovessi essere ricoverata di
nuovo». Sorrise, incrociando di nuovo il suo sguardo.
«Avrei dovuto capirlo subito. Non ho mai avuto alcuna
speranza, vero?».
Merlino si strinse nelle spalle, nonostante fosse profondamente toccato
e dispiaciuto per tutto ciò che le aveva fatto passare.
«Col senno di poi, è chiarissimo che hai sempre
avuto un debole per Alex». Myra si avvicinò ancora
e ancora, fino a trovarsi ad un soffio dal suo viso. Il mago non si
mosse di un solo millimetro, conscio che quella che aveva di fronte non
era più la Myra che conosceva. «L’hai
sempre desiderata. L’innocente ragazza della porta accanto
che si mostra tanto forte ma che al primo soffio di vento cade a terra
ed è incapace di rialzarsi…».
«Sei ancora arrabbiata, Kajri».
«Non mi chiamare così!»,
gridò, bloccandolo contro il muro col proprio corpo e
sbattendo un pugno accanto al suo viso.
L’agente di polizia era più che arrabbiata, era
una specie di vaso di Pandora pronto ad esplodere in qualsiasi momento,
scatenando caos e distruzione in ogni angolo del creato.
«Perché?», le chiese Merlino, sollevando
le mani per posargliele sui lati della testa, sui capelli, sulle guance
e poi sul collo.
«Perché lei non ha niente più di
me», rispose, ma con la voce rotta dell’emozione.
L’implacabile agente Chandra era stata sopraffatta, alla fine.
Un paio di giovani dipendenti della lavanderia si erano fermati ad
osservarli, appoggiati alla fiancata del camion, ma Merlino non fece
caso a loro e scosse il capo, accarezzandole una guancia con il pollice.
«No», mormorò, mortificato per tutta la
sua rabbia e il suo dolore. «Ma dovrebbero spararmi al cuore
per costringerlo a non battere più per lei».
Myra lo guardò negli occhi per
un’infinità, quindi si scostò con
lentezza e respirò profondamente, riprendendo la calma. La
rabbia però non l’aveva abbandonata, era solamente
stata messa da parte per una tregua che non sarebbe durata a lungo, il
mago ne era certo.
«Suppongo che in questo caso l’argomento sia chiuso
definitivamente», disse con fermezza. La poliziotta che era
in lei era tornata.
«Sarebbe la cosa migliore».
«Bene».
Merlino annuì e si apprestò ad aprire la porta
per tornare da Alex ed Artù, ovunque fossero. In tutta
onestà avrebbe voluto restare un po’ da solo, non
voleva voglia di rispondere alle loro domande e dare spiegazioni, ma
aveva ormai capito che rimandare quasi mai era la soluzione migliore.
«Un’ultima cosa, Merlino».
Si voltò di tre quarti, guardandola con la sola coda
dell’occhio.
«Domani mattina dovresti passare in Centrale per mostrarmi i
documenti del tuo amico e ritirare i suoi oggetti personali, mostrando
ovviamente tutte le carte necessarie per la detenzione di armi di quel
genere, anche solo per collezionismo. E ti converrà tenerlo
d’occhio, d’ora in poi: se dovesse ricapitare un
episodio spiacevole come quello di lunedì sera potrei non
essere così clemente. Intesi?».
«Intesi», rispose pacatamente, sentendo un grande
dispiacere avvolgergli il cuore come piombo fuso.
Già cinque mesi prima sapeva che abbandonandola
l’avrebbe persa, ma ora che avevano consensualmente e
definitivamente firmato la fine della loro amicizia quel pensiero solo
teorico era diventato realtà e Dio solo sapeva quanto faceva
male.
***
Merlino
si passò ancora una volta le mani sul viso, borbottando:
«Ma come vi è venuto in mente?».
«Cosa hai detto?», gli chiese Artù,
rigirandosi tra le mani il suo boccale di birra quasi vuoto e gettando
una rapida occhiata attraverso la vetrata accanto a cui era sistemato
il tavolino alto intorno a cui erano seduti.
«Niente. Non pensavo che Alex accettasse».
«State parlando di me?», chiese proprio lei,
comparendo all’improvviso e posando entrambe le mani sulle
sue spalle.
Merlino le sorrise, prendendole una mano e facendole fare una giravolta
prima di farle prendere posto sullo sgabello accanto al suo. La sua
gonna a pieghe si sollevò un poco, rincorrendosi
all’infinito sopra le sue gambe affusolate avvolte in un paio
di collant color carne, e Alex gettò il capo
all’indietro, l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«Stavo dicendo che non pensavo che avresti accettato di
venire», le disse alla fine, quando l’infermiera
smise di girare e si sistemò sulla vita il maglioncino
bianco a pois neri a maniche corte.
«E come potevo rifiutarmi? Artù mi doveva due
boccali di birra!», esclamò, facendogli
l’occhiolino. Poi si voltò verso Merlino e lo
guardò con le sopracciglia inarcate, girandosi la fine della
treccia bionda tra le dita. «Credevo che steste discutendo su
quanto sono bella questa sera».
«Ma non c’è nulla di cui discutere:
è un dato di fatto».
Artù, rimasto fino ad allora in silenzio a guardarli mentre
si scambiavano tutta quella serie di smancerie, drizzò la
schiena all’improvviso quando scorse una moto parcheggiare
dall’altra parte della strada.
«È lei, ne sono sicuro», disse,
trepidante come un bambino.
Il motociclista si tolse il casco – da motocross, con il
parasole appuntito e senza la visiera – e
un’inconfondibile cascata di capelli rosso sangue venne
subito scompigliata dal vento freddo che nel tardo pomeriggio si era
sostituito alla pioggia. Cathleen.
Merlino non aveva ancora afferrato perché il sovrano fosse
così interessato a lei e non aveva neppure il coraggio di
chiederglielo apertamente, temendo di aprire vecchie ferite facendogli
notare quanto fosse diversa da Ginevra. Quindi rimase in silenzio e la
osservò mentre legava la moto – e che moto, ora
che riusciva a vederla meglio – e poi attraversava la strada
per entrare nell’unico pub della loro cittadina, ancora
semi-vuoto e con un disco dei Led Zeppelin che usciva piano dalle casse
disseminate qua e là nel piccolo locale.
Rispetto a quella mattina era tornata la solita Cathleen di sempre, col
trucco nero intorno agli occhi, le labbra rosso fuoco e il suo
scintillante sorriso a trentadue denti.
Indossava una canotta nera dei Bullet For My Valentine
con stampato sopra un teschio invaso da rovi di rose rosse e un paio di
leggings neri con decine e decine di lacci intrecciati sul davanti, che
lasciavano del tutto scoperte le ginocchia ora arrossate dal freddo.
Intorno al collo portava un foulard porpora con piccoli teschietti
bianchi e ai piedi i suoi irrinunciabili anfibi.
Non appena incrociò i loro sguardi però il suo
sorriso tentennò e lei esitò prima di
avvicinarsi, tenendo il casco stretto al petto e le spalle contratte
sotto la giacca di pelle.
«Ciao Cathleen, grazie per essere venuta»,
esclamò subito Artù, alzandosi in piedi in segno
di rispetto.
Merlino scosse il capo, realizzando che non avrebbe mai perso le
abitudini cavalleresche. Poi lo imitò e salutò la
rossa, invitandola a sedersi con un cenno del capo.
«Artù non mi aveva detto
che…», si interruppe, scossa da una risata
nervosa. «L’ultima volta che sono stata ad un
appuntamento a quattro…».
«Appuntamento a quattro?»,
ripeté scioccata Alex, arrossendo. «Oh no, non
è affatto un appuntamento a quattro. Anzi, se volete un
po’ di intimità io e Merlino possiamo spostarci in
un altro tavolo».
«Intimità? Loro due?!»,
squittì il mago, ansiolitico, ma Alex non vi badò
e sorridendo ad Artù e Cathleen lo prese per il braccio e lo
trascinò al bancone, su cui si sporse per attirare
l’attenzione del barista, un uomo che col suo aspetto austero
e arcigno avrebbe potuto benissimo essere stato un professore,
l’incubo di tutti i suoi studenti. Bastò un
sorriso però per trasformare il suo viso in quello
dell’uomo più gentile e disponibile sulla faccia
della terra.
«Cosa ti do’, tesoro?».
«Il secondo giro. Metta ancora sul conto del mio amico
qui», disse, dandogli una pesante pacca sulla schiena.
Merlino però non se ne accorse neppure, troppo impegnato ad
osservare ogni movimento ed espressione facciale di Artù e
Cathleen, seduti ora l’uno di fronte all’altra,
sorridenti e rilassati. Nonostante tutto sembrasse andare per il
meglio, lo stregone era certo che presto o tardi tutto sarebbe
precipitato, e rovinosamente, rendendo quella serata la peggiore di
tutti i tempi.
Alex gli prese il viso con una mano, premendo le dita sulle sue guance
magre, e lo costrinse a guardarla negli occhi.
«Perché sei così preoccupato? Cathleen
è grande e vaccinata, se Artù la
importunerà se la saprà cavare».
Merlino non riuscì a spalancare la bocca per lo stupore solo
perché Alex non aveva ancora mollato la presa. Per un attimo
pensò di poterle dire che aveva pensato esattamente il
contrario e che Artù non sarebbe stato in grado di
difendersi – di nuovo buone maniere cavalleresche –
ma evitò per non complicarsi ulteriormente
l’esistenza.
«Credo solo che non siano fatti l’uno per
l’altra», rispose, voltandosi ed attaccandosi al
suo nuovo boccale di birra.
«Come fai a dirlo?».
Merlino si passò il dorso della mano sulle labbra per levare
ogni possibile traccia di schiuma. «Conosco Artù e
so che Cathleen non è il suo tipo».
«Credi che ci si possa innamorare di un solo tipo di persone?
Perché per me non è stato
così».
«Ti riferisci a Keith?». Le rivolse un sorriso
beffardo. «Da come è andata a finire, credo che
questa sia la conferma della mia teoria. Non era il tuo
tipo».
«Quindi nemmeno Myra era il tuo, giusto?».
Merlino sapeva che prima o poi ci sarebbe arrivata, stava aspettando
quel momento da quel pomeriggio, quando era andato a cercarla e aveva
visto Artù rientrare dalle porte vetrate del pronto soccorso
con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Aveva capito che il suo brutto
presentimento si era avverato non appena aveva incrociato il suo
sguardo e aveva capito che Alex avrebbe saputo quello che lui e Myra si
erano detti quando il re gli aveva confessato che aveva
l’aria di essere un po’ ostile
nei confronti della poliziotta.
«Tra me e Myra non c’è mai stato
niente», rispose sospirando, senza cercare un contatto visivo
con Alex, evidentemente più interessata al fondo del suo
boccale. «Ma sì, non sarebbe stata il mio
tipo».
«Non vuoi proprio raccontarmi quello che è
successo tra voi, eh?».
«Non c’è niente da raccontare, Alex.
Pensavo di fare del bene, standole vicino, invece ho incasinato tutto,
dandole false speranze. Lei era innamorata di me, è vero.
Era questo che volevi sapere? Era innamorata di me, ma io la
consideravo soltanto un’amica. Pensavo che sarebbe stato
meglio per lei non farmi più vedere – lontano
dagli occhi, lontano dal cuore – e invece, da quello che mi
ha detto oggi, so di averla resa ancora più infelice. Va
sempre a finire così. Sto cercando di dirtelo in ogni modo
che anche tu presto o tardi…».
Alex lo interruppe posandogli l’indice sulle labbra e dopo
averlo guardato intensamente negli occhi per una dozzina di secondi
sorrise smagliante, sussurrando: «Devo andare di nuovo a far
pipì. La birra ha sempre questo effetto collaterale su di
me, ma non ne farei mai a meno».
Merlino la guardò dirigersi sicura verso la toilette ed
accennò un sorriso, capendo solo in quel momento la sua
sottile metafora. E capì anche che per lui era lo stesso: se
con Myra e ancora prima con Louise era riuscito ad allontanarsi in
tempo, a rinunciare al loro amore, sapeva che non ne sarebbe mai stato
in grado con Alex. Non avrebbe mai potuto fare a meno di lei.
***
Abbandonato
da Alex, Artù si infilò le mani nelle tasche dei
pantaloni e passeggiò lungo il corridoio ripensando a tutto
ciò che gli aveva detto.
Si fermò accanto alle ampie finestre che davano sul
parcheggio e sul parchetto di fronte, dove Merlino l’aveva
trascinato per rivelargli che si trovava nel futuro.
Posò una mano sul vetro striato dalle gocce di pioggia e con
l’altra si allentò il nodo di
quell’odiosa ed insopportabile cravatta. Fu in quel momento
che vide Cathleen, seduta su una vecchia altalena, con i capelli umidi
e i piedi nel fango.
Non ci pensò su due volte e scese di corsa i quattro piani
che lo separavano dall’uscita, dopodiché la
raggiunse, incurante della pioggia sottile che presto avrebbe
appiccicato anche i suoi capelli al volto e probabilmente avrebbe
rovinato il vestito che Merlino, munito di ago e filo, aveva adattato
per lui con tanto impegno.
Si dondolava pigramente sull’altalena cigolante e non si
accorse della sua presenza fino a quando non le chiese:
«Posso?», indicando il secondo seggiolino libero.
Cathleen lo guardò con occhi appannati, come se il suo corpo
fosse lì e la sua anima no; sbatté le palpebre un
paio di volte ed annuì, abbozzando un sorriso fulmineo tanto
nell’apparire che nello scomparire.
Artù passò una mano sulla superficie bagnata del
seggiolino nero e poi si sedette, guardando il cielo bianco grigiastro
sopra di sé.
«Ti prenderai l’influenza»,
mormorò ad un tratto il paramedico, spezzando il silenzio.
«Anche tu».
«Già, ma se la prendo io nessuno se ne
preoccuperà».
Artù la guardò e schioccò la lingua
contro il palato. «Non ci credo».
Cathleen gli restituì l’occhiata, sorridendo
ironicamente. «Non mi conosci, perciò posso anche
capirti. Sai, io un terribile difetto: dico sempre la
verità, nuda e cruda. Perciò se dico che nessuno
si preoccuperà per me, vuol dire che è
così».
«Nemmeno tu mi conosci. Per quanto mi riguarda, raramente
ammetto di aver torto».
«Temo che questa sarà una delle rare volte,
allora».
Artù sogghignò e si voltò verso
Cathleen con tutta l’altalena, intrecciando le catene un
po’ arrugginite di fronte al suo viso. «Ti sbagli.
Io mi preoccuperei per te».
Cathleen rimase un po’ sbigottita dalle sue parole, per il
tempo necessario perché le catene si districassero, facendo
dondolare Artù da destra a sinistra e viceversa. Quindi
scoppiò a ridere, sorprendendolo.
Soprattutto perché scorse sulla sua lingua, proprio
nel mezzo, una piccola perla argentata.
«In questo caso»,
esordì, continuando a sorridere divertita, «o stai
mentendo – e molto bene, davvero – oppure stai
flirtando con me».
«Non sto mentendo», rispose sinceramente. E
altrettanto sinceramente aggiunse: «Ma non so nemmeno che
cosa voglia dire la seconda cosa che hai detto».
Il paramedico esitò, indecisa se stare al suo gioco o meno,
e alla fine gli spiegò teneramente, inarcando le
sopracciglia: «Non mi stai corteggiando?».
«Oh. Beh, io non… Tu che cosa
pensi? Perché sono sempre stato un disastro. Nel
corteggiamento, intendo».
Artù sentiva il viso in fiamme e lo stomaco stretto in una
morsa che non aveva ancora ben capito se fosse del tutto spiacevole.
Non l’aveva raggiunta con lo scopo di flirtare,
piuttosto per tirarla su di morale, ma non gli dispiaceva nemmeno
questo repentino ed inaspettato cambio di programma. Dopotutto Cathleen
era una bella ragazza, una ragazza strana e diversa
da qualsiasi altra, e gli sarebbe piaciuto molto conoscerla un
po’ di più, approvazione di Merlino o meno. Ora
che ci pensava aveva sempre avuto questo punto debole, il continuo
cercare la sua approvazione, il suo sostegno… era ora che
iniziasse a camminare da solo, visto che presto o tardi, con tutta
probabilità, i ruoli si sarebbero invertiti: Merlino sarebbe
stato quello da proteggere e lui avrebbe dovuto prendersi carico di
quella responsabilità.
«Non mi sei sembrato così
male», gli rispose, dopo aver riflettuto un poco, col naso
arricciato e gli occhi castani fissi nei suoi. Erano così
simili a quelli di Ginevra…
Artù scosse il capo per dimenticarsi del suo volto, presto
sostituito da quello di Cathleen, e ridacchiò passandosi una
mano tra i capelli ormai fradici di pioggia.
«Lo dici solo per essere gentile. Tutte le volte che mi sono
cimentato nel corteggiamento le ragazze si rivelavano essere mostri o
sotto l’effetto di una qualche droga».
«Per qualche tempo tra i bambini è girata la voce
che io fossi un vampiro, ma come vuoi vedere tu stesso»,
aprì la bocca e si toccò il canino destro,
indicandoglielo, «i miei denti sono solo frutto di una buona
igiene orale. Per quanto riguarda le droghe… la mia ultima
canna è stata all’ultimo anno del
liceo». Scrollò le spalle, rivolgendogli un
sorriso smagliante. «Sono pulita».
Era da tempo che Artù non si sentiva così
spensierato e rilassato ed era tutto merito di Cathleen. E ne era
spaventato, eccome se lo era, ma non voleva rovinare tutto.
Sorrise e nonostante un po’ di nervosismo disse:
«Ne ero sicuro. Ad ogni modo, saresti stata il mostro
più bello che avessi mai visto».
«Vedi, vai alla grande nel corteggiamento!»,
esclamò il paramedico, per poi scoppiare in una nuova risata
cristallina, contagiandolo.
Artù non sapeva nemmeno che in quella minuscola cittadina ci
fosse un pub – era così che venivano chiamate le
taverne ora – ed era stata la stessa Cathleen a
suggerirglielo, ma sua era stata l’iniziativa di portarla
fuori. All’inizio aveva pensato ad una cena, poi la ragazza
gli aveva fatto capire che non era il tipo di ragazza a cui piacevano i
bei ristoranti e che, come primo appuntamento, sarebbe andata benissimo
una birra.
Una volta a casa, con sua immensa vergogna, Artù aveva
chiesto a Merlino che cosa fosse un ristorante e soprattutto che cosa
intendesse con la parola “appuntamento”. Come aveva
previsto il mago era andato su tutte le furie, ripetendogli fino alla
nausea che quella storia non sarebbe andata a finire bene, ma era
contento di non avergli dato retta. Cathleen era radiosa, nonostante
l’inizio un po’ impacciato, e il suo sorriso gli
trasmetteva la stessa calma e serenità che gli aveva
trasmesso quel pomeriggio, su quell’altalena bagnata di
pioggia.
«Scusami ancora per prima, solo che… mi ha colto
alla sorpresa vedere Merlino e Alex. Pensavo saremmo stati
soli», disse Cathleen dopo aver bevuto un sorso della sua
birra.
«Non devi scusarti, è stata colpa mia»,
rispose cercando di rassicurarla, pensando in realtà che era
tutta colpa di Merlino: era lui che aveva insistito perché
lo accompagnasse e nemmeno la condizione che gli aveva proposto come
deterrente era servita, dato che Merlino aveva davvero chiesto ad Alex
di uscire con lui e lei aveva accettato.
Cathleen sorrise ed incrociando le braccia sul ripiano lucido del
tavolino voltò il capo verso il bancone, da dove Merlino,
rimasto solo, li stava spiando. Non appena si rese conto del suo
sguardo si voltò, nascondendosi dentro il suo boccale di
birra.
Cathleen ridacchiò e lo indicò col pollice,
confessando: «Mi detesta, sai?».
«Perché dovrebbe?», le chiese
Artù, la fronte corrugata.
«Abbiamo avuto un piccolo diverbio, qualche tempo
fa».
Il re contrasse le mascelle. «Quanto piccolo?».
«Okay, non così piccolo. Voleva immischiarsi in
questioni che non lo riguardavano e mi sono comportata da vera e
propria stronza, ma penso che certi segreti debbano rimanere tali,
soprattutto se riguardano qualcosa che fa paura e fa troppo
male».
Quelle parole furono come una coltellata alla schiena. Non poteva
immaginare quanto Merlino avesse sofferto in
silenzio nascondendo a tutti il proprio segreto, ma attraverso gli
occhi di Freya aveva visto quanto si era sentito sollevato quando aveva
trovato qualcuno con cui condividerlo, qualcuno di cui fidarsi e che
poteva capirlo. Per questo poteva benissimo immaginarsi anche come si
doveva essere sentito quando aveva capito che Cathleen stava patendo la
sua stessa sofferenza e perché aveva deciso di offrirle una
mano a cui aggrapparsi. Una cosa che Artù non aveva mai
potuto fare perché non aveva mai capito.
«Sono certo che Merlino volesse solo aiutare»,
disse schiarendosi la gola, gli occhi bassi.
«Beh, non poteva. Ma non si arrendeva, lui…
continuava a dire che ce l’avrei fatta, ma…
nessuno può o potrà mai aiutarmi,
nessuno». Tirò su col naso, evidentemente scossa,
ma invece di mostrare le proprie emozioni apertamente si nascose dietro
un sorriso e tirò fuori dalla sua grande borsa borchiata un
pacchettino da cui estrasse una di quelle sigarette che aveva visto in
una serie TV.
«Ti dispiace se vado a fumare?».
Cathleen non aspettò la sua risposta né gli
chiese di accompagnarla fuori: era chiaro che voleva stare da sola.
La guardò uscire dal pub, sedersi sul marciapiede, poco
lontano dalla porta, e accendere la sua sigaretta proteggendo la fiamma
dal vento con una mano. Poi Artù saltò
giù dallo sgabello e raggiunse Merlino riservandogli
l’espressione più minacciosa che avesse nel
proprio repertorio.
Lo prese per il collo della maglia ed incatenò lo sguardo al
suo, sibilando: «Ti sei per caso dimenticato di dirmi che tu
e Cathleen vi conoscete piuttosto bene?».
«No», rispose calmissimo, per nulla intimorito dal
suo sguardo furente. «Quello che so di lei è
quello che mostra di sé, nient’altro».
Artù digrignò i denti.
«Merlino…».
«Vi ha appena detto che abbiamo avuto una discussione, non
è così? Questo mi lascia stupito, ma non importa.
Non so cosa ci trovate in lei né che intenzioni avete, ma
non spetta a me giudicare e non volevo fare il guastafeste, per questo
non vi ho detto nulla».
Lo lasciò bruscamente e si sedette al suo fianco, senza
smettere però di guardarlo in cagnesco. «Parla,
avanti».
«Tempo fa ho scoperto che non è solo Cathleen che
va in cerca di attenzioni, ma che molti, all’ospedale, vanno
a cercare lei per qualche ora di… svago, chiamiamolo
così. Cathleen viene sfruttata, si lascia
sfruttare e io volevo solo capirne il motivo. Un pomeriggio
l’ho vista mentre si rifiutava di andare ad uno di questi
incontri e, insospettito, ho deciso di seguirla».
Artù aprì la bocca, sconvolto. «Non
perderai mai questa abitudine, vero?».
«Ha sempre funzionato con voi», rispose sorridendo.
«Comunque, Cathleen ha rinunciato all’offerta di
quel dottore perché doveva andare al cimitero.
L’ho raggiunta e l’ho vista piangere sulla tomba di
quello che poi ho scoperto essere il suo fidanzato. È
lì che abbiamo avuto quella discussione: io le ho chiesto
perché continuava a farsi del male con le sue stesse mani,
se per caso la morte del suo fidanzato c’entrasse qualcosa, e
lei mi ha accusato di averla pedinata, di aver violato la sua privacy e
che non ero nessuno per giudicarla ed intromettersi in quel modo nella
sua vita, che non aveva bisogno del mio aiuto né di quello
di nessun altro e alla fine… beh, mi ha mandato
all’inferno».
Artù non rispose, addolorato com’era per
ciò che aveva dovuto patire quella ragazza che, ora lo
capiva, sorrideva solo per nascondere ciò che la stava
dilaniando dentro, qualcosa che per un po’ era riuscito a
prendere il sopravvento, al funerale di Steve. Ricordò
inoltre le parole di Abigail, la sua teoria secondo la quale il suo
abbigliamento, il suo trucco, tutta la sua esteriorità
fossero soltanto una maschera in grado di celare la sua solitudine. Ora
che sapeva quanto aveva perso gli sembrava ovvio, persino comprensibile
e giustificabile, ma sapeva che in fondo non poteva esserlo. Cathleen
non lo meritava, non meritava ciò che lei stessa si stava
facendo.
«Con me è stata piuttosto chiara: non vuole aiuto.
Perché voi dovreste essere diverso?».
Artù notò che gli occhi di Merlino si erano
riempiti di amarezza e delusione, segno che aveva abbandonato quella
battaglia già da molto tempo.
Gli colpì la schiena con una mano, lasciando che un sorriso
affiorasse alle sue labbra. «Perché io non sono
te».
«Ovviamente», mormorò il mago proprio
quando Alex tornò dal bagno, accorgendosi subito della sua
aria demoralizzata.
«Che è successo?», chiese e rivolse
subito tutta la propria attenzione ad Artù, incrociando le
braccia al petto e guardandolo con sguardo ammonitore.
«Dov’è Cathleen? Che cosa le hai
fatto?».
«Un bel niente», sbottò roteando gli
occhi al cielo.
«Allora vai da lei», lo incoraggiò
Merlino, anche se – Artù glielo leggeva in faccia
– sapeva che presto se ne sarebbe pentito.
Il re annuì e afferrò il giubbotto per affrontare
il vento gelato, ma prima che uscisse del tutto Merlino aggiunse:
«Fai un complimento alla sua moto, le farà
piacere».
Non avrebbe mai immaginato di poter accettare consigli del genere da
lui, non a mente lucida almeno. Cercò di non pensare a
quanto suonasse strano e lo ringraziò, chiudendosi la porta
vetrata alle spalle.
Si avvicinò lentamente a Cathleen, intenta a fare dei cerchi
di fumo muovendo le labbra come un pesce, e si sedette al suo fianco
senza trovare nulla da dire. Non aveva altre carte da giocare, tanto
valeva usare subito quella che gli aveva suggerito Merlino.
«Ti ho vista arrivare su quella moto, prima. È
veramente bella».
«Te ne intendi?», gli chiese senza concedergli
nemmeno uno sguardo.
«Assolutamente no. Ma mi piace e mi piacerebbe moltissimo
farci un giro. Che ne dici?».
Sorrideva forzatamente, mangiato dall’ansia, ma veder
affiorare uno spiraglio di buon umore sul volto di Cathleen fu un vero
sollievo.
Rientrò nel pub solo per avvisare Merlino che Cathleen lo
portava a fare un giro con la moto e salutare Alex, raccomandandole di
non fare troppo tardi. Non ebbe il tempo di vedere le loro facce
sconvolte, per un motivo o per l’altro. Quando entrambi
uscirono dal pub, chiamandoli a gran voce, Cathleen era già
schizzata via e non li sentirono sopra il rombo del motore.
Aveva urlato entusiasta, scosso dall’adrenalina, e il suo
cuore batteva ancora forte quando Cathleen fermò la sua
enduro – così l’aveva chiamata
– e gli disse che ora poteva lasciarla andare.
Artù si affrettò a sciogliere
l’abbraccio che gli aveva impedito di volare via e
realizzò, avvertendo un certo rossore farsi spazio sul suo
viso, che probabilmente la vicinanza del corpo di Cathleen era stato
uno dei motivi per cui il suo cuore non aveva ancora smesso di correre.
«Allora?», gli domandò sorridente,
mentre lo aiutava a togliersi il casco – l’unico
che avesse e che gli aveva fatto indossare prima con le buone e poi con
le cattive maniere.
«È stato fantastico!», gridò,
saltando giù dalla moto. «Ne voglio una anche
io!».
Cathleen rise di gusto, passandosi le mani tra i capelli scompigliati
dal vento, poi indicò la palazzina di fronte alla quale si
erano fermati. «Ti va di salire per un
caffè?».
Artù sollevò
il capo, osservando le piccole finestre illuminate oppure dalle
persiane già abbassate. «Oh, tu abiti
qui?».
«Già. L’ascensore è fuori
uso, ma io sono al secondo piano, quindi…».
«Le scale vanno benissimo», la interruppe.
«Andiamo».
Cathleen abitava in un piccolo appartamento, con una sala
più grande che faceva contemporaneamente da cucina e da
salotto, un bagno e un’altra stanza che non poteva che essere
la sua camera da letto. Era ordinato e pulito, ma cosparso in ogni
angolo di statuine di fate alate, spiriti della foresta e altri esseri
chiazzati di muschio che davvero non riusciva nemmeno ad immaginare che
cosa fossero.
«Benvenuto nel mio mondo», gli disse, invitandolo a
darle il suo giubbotto e a fare come se fosse casa sua.
Artù si avvicinò ad una mensola su cui erano
disposte piccole ragazze coi capelli e le ali di ogni colore, il seno
prosperoso e le gambe nude sottili come fuscelli.
«Ti piacciono?», gli chiese, comparendo alle sue
spalle all’improvviso con indosso la sola canotta col teschio
e i capelli raccolti in una coda alta, il collo candido e sensuale in
bella vista. «Tranquillo, non mi offendo. Non saresti il
primo a dire che le trova inquietanti».
E quanti prima di me le hanno trovate inquietanti?
si chiese il re di Camelot, ripensando alle parole di Merlino.
Accennò un sorriso, deglutendo rumorosamente.
«Ho sempre avuto un rapporto complicato con gli esseri magici
e via dicendo».
«E come mai?».
Artù scrollò le spalle. «Non
sono… naturali?». Più che
un’affermazione suonò come una domanda,
perché davvero non aveva idea di cosa dire senza rivelarle
che quasi tutta la magia che aveva visto nel corso della sua vita aveva
provocato morti e sofferenze. E ne avrebbe provocate ancora.
«Chi ti dice che non sia il contrario? Io penso che non
essere magici sia innaturale. Mi piace pensare che dentro ognuno di noi
ci sia un pizzico di magia inespressa, pronta ad essere
risvegliata…».
«Sciocchezze», la interruppe bruscamente,
più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Non appena si
accorse della sua espressione corrucciata sospirò,
maledicendosi. «Perdonami, non volevo essere scortese.
È solo che… Se fosse come dici tu, se ognuno
avesse un po’ di magia dentro di sé…
Beh, non credo che tutti la utilizzerebbero per il bene».
La sua fronte si stese di nuovo, serena. «Su questo sono
d’accordo con te».
«Questi che cosa sono?», chiese Artù,
indicando delle piccole creature con pigne come cappelli e grossi
funghi come ombrelli, tutti in fila su un ripiano della libreria
accanto al televisore.
«Troll. Li adoro, sono birichini e anche molto vendicativi,
se li si fa arrabbiare».
«Non lo metto in dubbio», mormorò,
guardandoli più da vicino e sentendo un brivido corrergli
lungo la spina dorsale al ricordo di Lady Catrina, il troll di cui suo
padre si era follemente innamorato – nel vero senso del
termine.
«Ma il pezzo forte della collezione è qui,
vieni».
Cathleen lo prese per mano e Artù sentì un altro
brivido, ben più forte e di tutt’altra natura. Si
lasciò trascinare dall’altra parte del salotto, di
fronte alla grande libreria bianca, formata da tanti quadrati
accatastati gli uni sugli altri e senza fondo, che faceva da
separé tra il salotto vero e proprio e l’angolo
cottura. Dall’ingresso non li aveva notati, ma ora capiva
perfettamente perché Cathleen li aveva definiti il pezzo
forte della collezione. Erano quasi un centinaio, di ogni colore e
dimensione e raffigurati in pose sempre diverse: draghi.
«Ho visto che sul tuo mantello ce n’era uno. Che ne
pensi?».
Artù stirò un sorriso, rendendosi conto per la
prima volta di quanto suonasse ironico il fatto che la casata dei
Pendragon avesse un drago nel proprio stemma, la stessa casata che
aveva quasi fatto estinguere quella specie affascinante e, diciamoci la
verità, dannatamente pericolosa.
«Beh… sono impressionato», rispose senza
dover ricorrere alle bugie. E in un certo senso non avrebbe mentito,
omettendo che le mani di suo padre erano macchiate di sangue di drago e
che lui stesso ne aveva ferito uno con l’intenzione di
ucciderlo.
«Vorresti rimanere ancora più
impressionato?», gli chiese a bassa voce.
Artù la guardò e non fece nemmeno in tempo ad
accigliarsi che Cathleen si stava già sfilando la canotta,
mettendo il bella mostra il suo reggiseno di pizzo nero che spiccava
sulla sua pelle diafana. Gli gettò uno sguardo sensuale, un
angolo della bocca sollevato in un sorriso soddisfatto, poi si
voltò e posandosi la lunga coda sulla spalla sinistra si
apprestò a slacciare i ganci che coprivano in parte il
grande drago che aveva tatuato sulla schiena.
Aveva le zampe piegate come se la spina dorsale di Cathleen fosse un
ripido pendio da scalare, la testa girata di profilo e le fauci
spalancate a mostrare una fila di denti tanto aguzzi da far venire i
brividi. L’intero corpo del drago era color rosso fuoco con
sfumature verdi sulle scaglie del muso e sugli spuntoni che gli
percorrevano tutto il dorso. Le ali gigantesche erano semi-aperte e
ricoprivano praticamente tutta la pelle sopra la sua scapola destra,
mentre la lunga coda, dopo alcuni giri su se stessa, si piegava poco
sopra le fossette di venere alla fine della sua schiena.
Artù aveva la testa che gli girava, ma avvicinò
comunque una mano alle ali della creatura, rapito dalla sua forza e,
incredibilmente, dalla sua eleganza. Non appena le sfiorò
però si ricordò che quella era la schiena nuda di
Cathleen, bollente sotto le sue dita, e sobbalzò vedendola
rabbrividire. Il paramedico si girò, del tutto incurante di
essere nuda dalla vita in su, e lo guardò con occhi languidi
e allo stesso tempo assenti. Gli posò una mano sulla nuca,
all’attaccatura dei capelli, e lo baciò senza
dargli il tempo di reagire, il petto bollente contro il suo.
Artù provò a rilassarsi, a dimenticare tutto
quello che Merlino aveva detto e che forse lui era solo
l’ultimo di una lunga lista e che il giorno dopo sarebbe
stato dimenticato; provò a dimenticare anche il vuoto che
aveva visto nel suo sguardo, un dolore profondo e inconsolabile. Per un
attimo ci riuscì, il tempo necessario a posare delicatamente
le mani ai lati del suo viso per approfondire il bacio. Poi
l’ennesimo flashback lo fece trasalire.
«Io
non voglio più perderti. Vuoi sposarmi?».
«Sì! Sì, con tutto il mio
cuore».
Si
scostò bruscamente e le lasciò il viso per
guardare quella sbigottita non-Ginevra negli occhi, fino a quando non
riuscì a trovare la forza per accennare un sorriso e dire:
«È pronto il caffè?».
Cathleen boccheggiò come un pesce fuor d’acqua,
come se non avesse messo in conto che avrebbe dovuto prepararlo sul
serio, poi si piegò per raccogliere la canotta che aveva
lasciato cadere a terra assieme al reggiseno e corse in bagno senza
guardarsi più indietro.
Artù si passò il dorso di una mano sulla bocca e
poi si coprì il viso per sospirare amaramente, col cuore che
gli batteva dolorosamente nel petto.
***
Merlino
si era lamentato all’inverosimile, raggiungendo livelli di
paranoia che Alex non aveva mai avuto il piacere di riscontrare nel suo
carattere, ma alla fine era riuscita a convincerlo che era inutile
continuare ad aspettarli lì. Così erano usciti
dal pub ed erano saliti sull’auto di Merlino, il quale aveva
annunciato mestamente che la riportava a casa. Alex però
aveva dato un’occhiata al suo orologio e rischiando il tutto
per tutto aveva detto: «È ancora presto.
Perché non andiamo a casa tua?».
Come aveva previsto Merlino si era irrigidito, con le mani strette
intorno al volante, ma poi senza dire una parola, scrollando solo le
spalle, aveva fatto inversione ad U.
Parcheggiò l’auto di fronte al vecchio fienile e
per la prima volta Alex si trovò nell’immenso
giardino che aveva avuto modo di osservare solo dalla cucina. Era
bellissimo, sotto la mezzaluna che brillava nel cielo sgombro di
nuvole: decine di piccole lucciole saltavano da un fiore di campo
all’altro, quasi a perdita d’occhio, e tutto era
pace e silenzio, eccetto per il delicato stormire degli alberi, in
particolare del grande salice piangente, e del lento gorgogliare del
fiumiciattolo.
«Tè?», le domandò Merlino,
riportandola alla realtà.
Alex abbozzò un sorriso ed annuì.
«Volentieri».
In casa c’era un piacevole tepore, merito dei termosifoni
ancora accesi, ma Merlino insistette nel voler accendere il camino
mentre l’acqua per il tè si riscaldava sul
fornello.
Alex si sedette in cucina e si stava chiedendo che cosa stessero
facendo Artù e Cathleen, quando la borsa che aveva
appoggiato allo schienale della sedia cadde a terra rovesciando tutto
il proprio contenuto sul pavimento. Si inginocchiò per
sistemare e rimase pietrificata quando le sue dita sfiorarono
l’action figure di Capitan America di Steve. Le lacrime le
affluirono agli occhi con velocità sorprendente e si
ritrovò a tirare su col naso ancor prima di accorgersi della
presenza di Merlino alle sue spalle.
«Ehi…».
Alex voltò il viso dall’altra parte e
respirò profondamente, cercando di cacciare
nell’angolo più profondo della sua anima la
tristezza che le stava scavando l’ennesimo buco nel petto.
«Questo me lo ricordo», disse Merlino sorridendo,
inginocchiandosi al suo fianco per prenderle il gioco dalle mani.
«Ero così invidioso… Steve non ha
più calcolato nessun altro regalo quando tu gli hai dato
questo».
«Che ci vuoi fare», rispose ridacchiando. Poi
ingoiò il nodo che le stringeva la gola e come se nulla
fosse disse: «Oggi, durante la messa, ho sentito quello che
ti ha chiesto Artù».
Merlino socchiuse gli occhi, lasciando cadere le spalle: evidentemente
aveva sperato fino all’ultimo che non se ne fosse accorta. Ma
Alex aveva sentito fin troppo bene e quel pomeriggio, a casa, aveva
fatto delle ricerche sui funerali nell’epoca medioevale, al
tempo di Re Artù. Non aveva trovato molto, solo una serie di
dipinti che raffiguravano un’imbarcazione ornata di fiori
guidata da un individuo avvolto in un pesante mantello nero,
probabilmente la personificazione della morte stessa.
Quell’immagine le aveva fatto venire alla mente il film Thor:
The Dark World e in particolare la scena del funerale di
Frigga, la madre del Dio del Tuono. Da lì era riuscita a
risalire ai funerali vichinghi, nei quali c’erano proprio
barche funerarie su cui venivano cremati i morti.
Artù aveva proprio accennato al fuoco, chiedendo a Merlino
quando il corpo di Steve sarebbe stato bruciato, e Alex, di fronte al
computer, aveva realizzato che probabilmente era così che al
tempo dei Cavalieri della Tavola Rotonda venivano celebrati i riti
funebri: alla vichinga. Si era domandata se anche Artù
avesse ricevuto lo stesso trattamento e aveva sentito un brivido di
freddo percorrerle la spina dorsale pensando al lago da cui
l’aveva tirato fuori. Perché avrebbe dovuto
trovarsi lì, altrimenti?
«Devi imparare ad ignorarlo, ogni tanto»,
esclamò Merlino, scuotendo il capo.
«Lo so, è che…».
Abbassò gli occhi sull’action figure e poi con
determinazione riprese: «Ho fatto delle ricerche e penso che
Steve si meriti più di un funerale normale. E pensare che
non avrò un posto dove poterlo piangere mi spezza il
cuore».
Merlino la guardò intensamente, tanto intensamente che Alex
ebbe paura che potesse leggerle l’anima. Si
sollevò per spegnere il bollitore e poi le porse la mano
perché si alzasse a sua volta.
Alex lo seguì in giardino e senza dire una parola lo
guardò entrare nel vecchio fienile, ora utilizzato come
garage e deposito per la legna. Merlino afferrò una lanterna
a led e una vanga e gliele passò, poi levò un
grande telo di plastica da una carriola colma di sassi e
metà di ceppi di legno intagliati come piccole barchette
spartane.
Il moro sollevò gli occhi per cogliere la sua reazione e
Alex gli mostrò un sorriso. Non ci fu bisogno di
spiegazioni: l’infermiera aveva già capito che
Merlino nei giorni precedenti si era già organizzato per
celebrare il suo funerale personale, con o senza di lei, e
l’unica cosa che poteva pensare era che era fortunata ad
averlo al suo fianco.
Accese la lanterna e gli fece luce fino alla sponda del fiumiciattolo,
a qualche metro dal salice piangente. Lì Merlino
lasciò la carrucola ed iniziò a scavare con la
vanga, facendo un mucchietto di terra e sassolini accanto a
sé. Alex avrebbe voluto aiutarlo, fare qualsiasi cosa le
avesse chiesto di fare, ma Merlino agiva in silenzio, veloce e sicuro
come se lo avesse fatto centinaia di volte, e Alex stringeva forte
l’action figure di Steve tra le mani.
«Merlino…».
«Ci sono delle candele e un accendino in cucina, nel cassetto
sotto al cordless».
Alex annuì, sollevata, e corse verso la veranda.
Aveva appena aperto il cassetto indicatole da Merlino quando
sentì il rombo di una moto avvicinarsi. Si diresse verso uno
dei bovindi nel salotto e guardò Artù mentre si
toglieva il casco e lo passava a Cathleen. Non riusciva a vederli bene
in viso a causa del buio, ma vide Artù chinarsi su di lei
per posarle un bacio sulla fronte prima che si infilasse il casco.
Quando la salutò ed iniziò a percorrere il
vialetto Alex corse di nuovo in cucina e come se non avesse visto nulla
riprese a cercare le candele.
«Alex?», esclamò Artù non
appena aprì la porta, sorpreso di trovarla lì.
«Finalmente sei tornato. È stato molto scortese da
parte tua andartene così, sai?».
Artù aprì la bocca per parlare, le sopracciglia
aggrottate, ma Alex fu più veloce di lui e aggiunse:
«Per questo più tardi mi dirai per filo e per
segno che cosa è successo con Cathleen, intesi? Ora
seguimi».
Il biondo si arrese e mestamente lasciò che gli facesse
strada fino alla piccola fossa che Merlino aveva appena finito di
scavare. Lui e il mago si scambiarono un’occhiata
d’intesa.
«Tocca a te, Alex».
L’infermiera deglutì rumorosamente e si
inginocchiò per posare il piccolo Capitan America nella
terra nuda e fredda e trasferire un bacio dalle proprie dita al suo
scudo. Artù si fece dare la pala da Merlino e lo
ricoprì di terra, poi, insieme, iniziarono a posarvi sopra
le pietre raccolte dentro la carriola, fino a formare una specie di
piramide.
Merlino prese l’accendino dalle mani tremanti di Alex,
sfiorandole i capelli con un bacio, ed iniziò ad accendere
le piccole candele, bianche e rotonde, posizionandole poi nelle conche
di quei ceppi tagliati. Quando furono tutti pronti, allineati sulla
sponda del fiume, Artù chinò il capo e con la sua
voce solenne, la stessa che aveva usato durante la cerimonia
d’investitura, disse: «Rendiamo omaggio a Sir
Steve, uno dei Cavalieri più nobili che io abbia mai
conosciuto».
Alex, ora accanto a Merlino, con le mani strette intorno al suo
braccio, lo sentì trattenere un singhiozzo a quelle parole,
mentre una lacrima silenziosa faceva capolino sulla sua guancia.
«Non dimenticheremo mai il suo coraggio, la sua dolcezza, il
suo cuore generoso. Che gli spiriti siano buoni con lui come lui lo
è stato con noi».
Merlino tirò su col naso e seguì Artù
sulla sponda del fiume, dove uno dopo l’altro fecero
scivolare tutti i ceppi nell’acqua. Anche Alex ne spinse uno
e guardò la fiamma della candela che trasportava
allontanarsi velocemente seguendo la corrente, continuando a brillare
anche nell’oscurità più profonda.
Sentì la mano di Artù stringerle una spalla e poi
scostarsi, ritornando verso la veranda. Alex rimase lì
ancora un po’, accanto a Merlino, sperando con tutto il cuore
che quelle fossero le sue ultime lacrime di tristezza.