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Autore: _Pulse_    06/05/2015    1 recensioni
[Dal Capitolo 2]
«Come sta?», gli chiese Alex, rompendo quel silenzio che l’avrebbe fatta diventare matta se sommato all’innocente bellezza degli occhi di Merlino.
«Molto meglio. Ora dorme».
«Bene. Come hai detto che si chiama?».
«Artù».
«E tu e lui… vi conoscete da molto?».
«Da sempre».
Alex sollevò di scatto gli occhi e trovò i suoi luminosi, anche se velati di lacrime. Si chiese se fosse il caso di continuare con quell’interrogatorio o se fosse più opportuno aspettare che fosse Merlino a parlarle di lui. Dopotutto l’aveva soccorso – se non salvato – e l’aveva ospitato a casa sua: qualche informazione in più era un suo diritto, se la meritava.
Ma forse l’unica vera ricompensa che desiderava era proprio quella che Merlino le offrì, prendendole inaspettatamente una mano e stringendola forte tra le sue, facendo sì che i loro occhi si incatenassero.
«Ti sei tuffata nel lago per aiutarlo, vero?».
Genere: Fantasy, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Nuovo personaggio, Principe Artù
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Buonasera!
Okay, inizio ad anticiparvelo già ora, così almeno avete del tempo per metabolizzare e far sì che nessuno mi insegua coi forconi e le torce. 
Un paio di capitoli ancora e poi la storia andrà in pausa (sì, tipo come quelle che ogni tanto si prendono le serie TV) per permettermi di scrivere i prossimi capitoli e sistemare il tutto nel migliore dei modi. Lo faccio per voi, su! *sorride nervosamente pregando di non venir linciata pubblicamente*
No, seriamente, dato che il tempo che ho per scrivere è poco e il mio modus operandi è quello di pubblicare soltanto una volta certa del risultato – non mi perdonerei mai se dovessi scrivere qualcosa, cambiare idea e non poter modificare – questa è l’unica soluzione che ho trovato. Riprenderò a pubblicare il prima possibile, ve lo prometto.
Ma, come dicevo, abbiamo ancora tempo prima che questo accada: almeno altri due capitoli (escludendo questo qui sotto).
E con questa notizia bomba, mi dileguo lasciandovi alla lettura. Spero di non averla rovinata!
Un grazie enorme a chi mi supporta, leggendo, commentando e mettendo la storia tra le preferite/seguite/ricordate e a chi continuerà a farlo :)
Un bacione!

Vostra,

 

_Pulse_

 

 

 

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13. With all my heart

 

Era stata Alex a chiedere di potersi occupare personalmente della stanza di Steve. La dottoressa aveva acconsentito semplicemente con un cenno del capo, gettandole uno sguardo così apprensivo e compassionevole che Alex era riuscita a capire all’istante che cosa si stava domandando: “Perché vuole farsi del male?”. Anche Alex si era fatta la stessa domanda, più e più volte, senza venirne mai a capo.
Era entrata nella grande camerata da quattro posti letto e le era sembrata davvero enorme, ora che ad occuparla c’era solo un bambino, Gabriel, che le diede il benvenuto con gli occhi arrossati, i capelli spettinati sulla testa e il viso sciupato.
Da quando era circolata la voce che Steve non ce l’avrebbe fatta – subito dopo la sua investitura – si era rifiutato di mangiare e niente e nessuno era stato in grado di convincerlo, nemmeno sua madre che, saputo ciò che stava succedendo, aveva preso dei giorni di ferie e lo aveva raggiunto per stare accanto a lui come a Paige, di cui era diventata molto amica da quando i loro bambini erano diventati compagni di stanza. Alla fine erano stati costretti a nutrirlo via flebo, ma aveva comunque una brutta cera.
Alex sperava che l’avessero già trasferito in un’altra stanza, anche con dei ragazzi più grandi pur di non lasciarlo da solo, ma ancora una volta aveva fatto male i conti e lui era lì, seduto sul suo letto, che la fissava con astio, già consapevole che il suo lavoro sarebbe stato quello di portare via tutto ciò che Steve possedeva, cancellandone del tutto il ricordo per poter offrire quel letto al primo bambino bisognoso.
«Vedo che non hai ancora mangiato la tua colazione», esclamò, fissando il vassoio pieno ai piedi del suo letto.
«Non ho fame», rispose lui con un ruggito.
Alex sospirò e senza insistere oltre spostò il letto già rifatto, con le lenzuola pulite e stirate, per poter iniziare a staccare i disegni di Steve che lei stessa tempo prima aveva appeso. 
Un mare blu e un sole giallo gigantesco, una casetta immersa nel verde di un bosco, la sua famiglia che si teneva per mano, i suoi amici e le infermiere, due cavalieri che lottavano in un’arena con dei serpenti tra loro, un cavaliere a cavallo che puntava la lancia contro una specie di cavallo alato con il muso d’aquila – sicuramente un grifone – e poi un enorme drago marrone che chinava il capo di fronte ad un Merlino dai vestiti logori ma con gli inconfondibili tratti del loro Merlino.
«Posso tenerli io?», chiese Gabriel, tirando su col naso.
Alex allineò i fogli tra le mani e lo guardò dispiaciuta. «Prima dovrò chiedere ai suoi genitori: magari li vogliono loro per, sai… ricordo».
«Ma loro hanno già un sacco di cose sue a casa!», si lamentò, il volto già sfigurato dal pianto imminente.

E ogni cosa farà male come una pugnalata al cuore, pensò. Ciononostante, ci vorrà del tempo prima che le lascino andare. Mesi. Forse anni.
Prima che potesse dirgli che non poteva farci nulla, sua madre entrò nella stanza e la salutò cortesemente, rivolgendole un sorriso. Vedendo lo scatolone che Alex aveva posato sul letto, chiese al figlioletto se volesse fare un giro. L’infermiera espirò a lungo, sollevata, quando Gabriel uscì dalla camera sulla sua piccola sedia a rotelle. Al contempo però, da sola con il doloroso ricordo di Steve, sentì crescere il magone e a stento riuscì a trattenere le lacrime.
In qualche modo fu in grado di portare a termine il proprio dovere. Una volta svuotato anche l’ultimo cassetto del suo comodino si apprestò ad uscire dalla camera, ma sulla soglia rischiò di andare addosso a Paige.
«Oh, hai già finito», esclamò la donna, sforzandosi di sorridere.
Alex annuì e si fece da parte per permetterle di entrare in quella che era stata la stanza del figlio per più di cinque mesi. Lasciò lo scatolone sulla sedia accanto alla porta e la osservò in silenzio: la sua gracile figura era già stretta in un vestito nero, lungo fino alle ginocchia, e le sue spalle leggermente curve, come sotto un peso insostenibile, sarebbero state nude se non le avesse coperte con uno scialle di pizzo nero, dai ricami floreali. I capelli biondi erano semplicemente raccolti sulla nuca, il viso acqua e sapone mostrava ancora i postumi della stanchezza, tra cui delle evidenti borse sotto gli occhi, ma Paige restava sempre e comunque una donna bellissima, anche nella sofferenza più atroce.
«È tutto così… vuoto», disse con gli occhi lucidi di lacrime.
Alex capì ciò che intendeva, ma non del tutto: lei non aveva mai perso un figlio bello, dolce e di soli sei anni, con ancora tutta una vita davanti.
«Ci sarai alla messa?», le chiese, cambiando del tutto argomento.
L’infermiera annuì con un cenno del capo. «Certo».
«Bene. Grazie, Alexandra».
Avrebbe voluto chiederle per che cosa, ma lasciò perdere ed indicò lo scatolone. «Qui dentro ci sono tutti i suoi oggetti personali».
Paige si avvicinò e vi diede una sbirciatina. Sorrise, scorgendo i disegni di Steve, i suoi giochi, la sua lucina per la notte e i regali che gli altri bambini gli avevano fatto durante la sua permanenza in ospedale. Quando le sue dita sfiorarono l’action figure di Capitan America si lasciò andare addirittura ad una risata.
«Questo era il suo preferito in assoluto. Glielo hai regalato tu, vero? Al suo compleanno».
Alex si limitò ancora una volta ad annuire, a capo chino, ricordando la sua espressione di pura gioia quando aveva scartato il pacco e si era trovato tra le mani il suo eroe preferito. Quel giorno non l’aveva mai lasciato, nemmeno quando era stato il momento di andare a letto. L’aveva tenuto accanto a sé, stretto come un pupazzo, fino a quando una collega non l’aveva posato sul comodino, in piedi e rivolto verso di lui, in modo che potesse proteggerlo durante il sonno.
Paige unì le gambe del giocattolo ed attivò il meccanismo che permise al braccio destro, quello a cui era attaccato lo scudo blu e rosso, di allungarsi verso il nemico in un gancio micidiale.
«Vorrei che restasse tutto qui. Ne ho già parlato con mio marito e siamo d’accordo che nei prossimi giorni faremo qualche scatolone con gli altri suoi giochi e ve li spediremo. Sapere che saranno tra le mani di altri bambini ci farà piacere».
«È molto bello da parte vostra», commentò, senza sapere bene che cosa dire.
«Questo però vorrei che lo tenessi tu», aggiunse Paige, mettendole tra le mani l’action figure e sorridendole teneramente.
Alex deglutì, ma il nodo che le stringeva la gola non si allentò nemmeno un po’. «No, io… non posso».
«Quando sarò andata via potrai farne ciò che vuoi, potrai lasciarlo in sala comune o buttarlo, ma fino ad allora… Steve avrebbe voluto che tornasse a te».
Guidata da Paige, Alex strinse le dita intorno al piccolo Capitan America e con la voce incrinata dal pianto disse: «Grazie».
Allora la madre di Steve l’abbracciò e si vergognò come non mai: non era lei che doveva essere consolata, non era lei che doveva aver bisogno del sostegno di tutti quanti. Perché non poteva dimostrarsi forte, una volta tanto?
Si rivolsero un breve sorriso, poi Paige fece per uscire dalla camerata. Alex la raggiunse nel corridoio, ricordandosi della piccola chiavetta USB che avrebbe voluto consegnarle dopo la funzione.
«Anche io ho una cosa per te», esordì, mettendogliela tra le mani. «Contiene le copie di tutte le foto e i video in cui compare Steve. Non è molto, ma…».
«Oh, invece è tantissimo. Grazie davvero, Alexandra».
Alex sorrise e fu lei quella volta ad abbracciarla per prima, massaggiandole la schiena.
Le sussurrò che si sarebbero riviste più tardi e prima di tornare nella camera la guardò sparire dietro l’angolo. Prese lo scatolone tra le mani ed osservò ancora una volta i disegni posati in cima, sorridendo mentre un’idea iniziava a prendere forma nella sua mente.
Con la coda dell’occhio vide una collega passare di fronte alla porta e la fermò, chiedendole un favore: «Puoi dire a Gabriel che se non inizia a mangiare non potrà venire alla messa?».
Poco dopo la collega avrebbe riferito il messaggio e il piccolo si sarebbe sforzato di spazzolare il vassoio, sotto gli occhi increduli della madre. Il vuoto che aveva nel petto, però, non si sarebbe riempito così facilmente.

 

***

 

«Artù! Dovete preparavi, o faremo tardi! Ma dove siete?».
Il re sentì i passi di Merlino avvicinarsi alla porta e non poté nascondersi, solo posare sullo scaffalo uno dei tanti diari scritti dallo stregone nel corso degli anni.
Era stupido intestardirsi in quel modo, e soprattutto dopo la morte di Steve, ma non riusciva a togliersi dalla testa le parole di Alex a proposito della “spada nella roccia”: l’aveva chiamata Excalibur e l’aveva definita magica, una coincidenza a cui non aveva creduto nemmeno per un istante.
Aveva sequestrato il computer portatile di Merlino, facendolo borbottare che avrebbe dovuto comprarsene un’altro, e negli ultimi due giorni aveva dedicato ogni momento libero e persino qualche ora di sonno su Google e Wikipedia, a fare ricerche. Merlino una volta gli aveva detto che lui e i Cavalieri della Rotonda erano diventati delle vere e proprie leggende, così famose da essere conosciute in tutto il mondo, a cui erano state dedicate decine di film, libri e opere d’arte. Ciononostante era rimasto sconcertato di fronte a tutti i link che aveva trovato e a tutte le finestre che aveva aperto e che, alla fine, avevano sovraccaricato il PC, impallandolo.
Aveva perso ore ed ore per leggere tutto, fino a sentire gli occhi bruciargli per lo sforzo, ma erano state utili per capire che la maggior parte dei miti tramandati di generazione in generazione erano stati stravolti, arricchiti di dettagli e situazioni messe lì per attirare l’attenzione e il piacere del pubblico (lui e Morgana marito e moglie e Mordred il figlio nato dalla loro unione?!) e che tra questi pochi, pochissimi, raccontavano ciò che era realmente successo. A volte coglieva dei frammenti di verità, dei nomi e dei luoghi che aveva sentito e visto, ma nulla di più.
Ad un tratto aveva cercato anche suo figlio Graalmir, senza ottenere successo fino a quando non aveva provato con “Graal”, il diminutivo con cui Merlino aveva l’abitudine di chiamarlo. I risultati erano stati talmente tanti e talmente insoddisfacenti che non si era nemmeno soffermato a leggere.
E infine aveva digitato sulla tastiera “Excalibur”, ciò che aveva stuzzicato per prima la sua curiosità, fornendogli la vanga per iniziare quel folle scavo nel passato.
Aveva letto di opere che l’avevano resa la protagonista della storia, che l’avevano ritenuta anche più importante del suo possessore, tant’erano la sua potenza e misteriosità, e che Excalibur era spesso identificata come la Spada nella Roccia, ma che in numerosi racconti erano due spade distinte. Tutte informazioni di poco conto, inutili per soddisfare la sua curiosità. Un altro buco nell’acqua, aveva pensato. Poi aveva letto del leggendario mago Merlino, il quale aveva annunciato che solamente l’uomo in grado di estrarre la spada dalla roccia sarebbe diventato re di Britannia. E, ancora, aveva visto un’illustrazione in bianco e nero in cui si vedeva un uomo in armatura, molto probabilmente un cavaliere, che gettava la spada nelle acque di un lago, dove una mano l’afferrava al volo per l’impugnatura.
Di fronte a quell’immagine aveva tremato come un bambino, pensando subito a Freya, la custode di Avalon, e a Merlino, il quale le chiedeva di tenere al sicuro quella spada che, stranamente, era sempre apparsa nei momenti più difficili.
Nessun sito né enciclopedia virtuale che aveva visitato però era stato in grado di dargli qualche certezza sulla provenienza di quella spada e Artù, desideroso di andare fino in fondo, aveva aspettato che Merlino si chiudesse in bagno per lavarsi e poi era corso nella stanza in cui custodiva molti oggetti del passato, tra cui tutti i suoi diari. Aveva iniziato a leggere, sperando di trovare da qualche parte delle informazioni utili, ma era stato tutto uno spreco di tempo e diottrie. Doveva darsi una regolata con la lettura, o anche lui avrebbe dovuto iniziare a portare gli occhiali da vista.
Merlino aprì la porta avvolto in un morbido accappatoio bianco, con i capelli bagnati che gli si appiccicavano alla fronte e ai lati del viso. Lo guardò in silenzio e con occhi sospettosi per diversi secondi, fino a quando non sospirò e gli domandò: «Perché non chiedete semplicemente a me quello che volete sapere?».
«Stavo solo curiosando, in attesa che uscissi dal bagno. Sono certo che una donna impiegherebbe meno tempo di te a prepararsi».
Merlino roteò gli occhi e si appoggiò allo stipite della porta con una spalla, le braccia incrociate al petto. «Ci sono ancora tante cose che non sapete sulle tecnologie del mondo moderno, tra cui come utilizzare un PC. Questa mattina, prima che vi svegliaste, ho controllato la cronologia delle ricerche e non ho potuto fare a meno di notare che vi siete concentrato su un particolare ramo della mitologia».
Artù lo fissò quasi con orrore, realizzando ciò che aveva appena detto. Si chiese se avesse visto anche le sue sempre meno frequenti capatine in quei siti per adulti e già rosso d’imbarazzo preferì confessare tutto prima che l’argomento potesse saltar fuori.
«È vero, ero curioso e ho fatto delle ricerche».
«Mmh», annuì Merlino, guardandosi le unghie. «Soddisfatto?».
«Non proprio».
«Lo supponevo. Chiedete pure».
«La spada che ho tirato fuori dalla roccia».
Merlino tornò a prestargli la dovuta attenzione, alzando il capo di scatto e guardandolo stupito e un po’ confuso. Ad un tratto sorrise, mormorando: «La sala comune. Avrei dovuto arrivarci subito».
«Non è mai stato il tuo forte», lo prese in giro Artù, facendolo sorridere.
«Volete sapere se ha poteri magici, non è vero?».
Il re non si chiese come facesse a saperlo, ormai era consapevole di essere sempre stato un libro aperto per lui, ed annuì con un cenno del capo.
«La risposta è sì. Ma non del tipo che credete voi: a dispetto del nome, la sua lama non può rompere l’acciaio; né tantomeno è in grado di proteggere chi la impugna».
«Me ne sono accorto», rispose con un sorriso mesto, portandosi una mano sul fianco, dove la spada di Mordred l’aveva ferito mortalmente.
«Quella spada è stata forgiata con alito di drago, il quale le ha dato il potere di uccidere qualsiasi creatura, mortale e non. È stata forgiata per voi, solo per voi, per questo sono stato costretto a sbarazzarmene dopo che vostro padre Uther le aveva messo gli occhi addosso».
«Mio padre? Che c’entra mio padre?».
Merlino sospirò, spazientito. Avrebbero sicuramente fatto tardi, ma Artù aveva bisogno di sapere.
«Ricordate il Cavaliere Nero che voi eravate così deciso ad affrontare, nonostante fosse una follia? Si trattava dello spirito di Tristan De Bois, fratello di vostra madre Igraine, evocato da Nimueh con un incantesimo perché si vendicasse per quello che Uther aveva fatto alla sua gente. Nessuna spada comune avrebbe potuto sconfiggerlo, essendo già morto, perciò sono andato da Kilgharrah e l’ho pregato di aiutarmi. La spada però è finita nelle mani di vostro padre, che con l’aiuto di Gaius vi aveva messo fuori combattimento. Grazie alla spada Uther è riuscito a vincere su Tristan e non appena il Grande Drago è venuto a saperlo… beh, mi ha detto che sarebbero successe cose terribili se quella spada fosse finita nelle mani sbagliate. Così l’ho gettata nel lago, dove nessuno avrebbe potuto trovarla».
Artù con un enorme sforzo di memoria – il passato si allontanava da lui ogni giorno di più, annebbiandosi e dandogli solo frammenti che lo prendevano alla sprovvista sempre più spesso e nei momenti più disparati – ricordò che la sfida del Cavaliere Nero era avvenuta molto tempo prima del suo incontro con Freya, la ragazza-pantera. Allora non era ancora la custode del lago, perciò l’illustrazione che aveva trovato su Internet, se aveva qualcosa di vero, doveva risalire ad un episodio successivo.
«Ora siete soddisfatto?», domandò Merlino con una punta di irritazione.
Artù capì che il suo comportamento era dettato dal dolore e lasciò correre la sua insolenza. «Un’ultima domanda», disse. «Ora la spada dove si trova?».
Merlino sobbalzò leggermente, come colpito da un ricordo troppo doloroso. Abbassò gli occhi sul pavimento e dopo aver raccolto la voce, lottando perché non si incrinasse rispose: «È sempre stata con voi, sul fondo di Avalon. Ma temo che, se non è tornata insieme a voi, sia impossibile recuperarla».
«Perché?», chiese Artù, col cuore che gli batteva forte nel petto.
Merlino esitò, dondolandosi sui talloni per una manciata di lunghissimi, strazianti secondi. Quindi scrollò le spalle, abbozzando un sorriso. «Non si può, senza la magia. È sempre stato così».
Avrebbe voluto chiedergli che cosa intendeva, ma non ce ne fu bisogno: l’unico motivo per cui Merlino avrebbe potuto dire una cosa del genere era perché era convinto che oltre a lui non ci fosse più nessuno con poteri magici, Freya compresa.
La custode di Avalon gli aveva detto che la magia stava morendo e che mostrarsi a lui era stato un enorme sforzo… Possibile che anche Merlino ne fosse a conoscenza, che lo percepisse e che sapesse che lui, come ogni creatura dell’Antica Religione, aveva i giorni contati?
Aprì la bocca, ma stordito da quell’orribile segreto che forse Merlino gli stava nascondendo con l’intento di non farlo preoccupare, riuscì soltanto a rantolare un «Non può essere» che lo stregone non udì.
«Ora sarà meglio che vi prepariate, o davvero arriveremo in ritardo», disse, lanciandogli un’occhiata di rimprovero prima di dirigersi verso la propria camera da letto.

 

***

 

«Ma sei sicuro che questo sia l’abito adatto?».
Merlino annuì senza distogliere gli occhi dalla strada, sbattendo più volte le palpebre per spazzare via le lacrime che glieli appannavano.
Pochi giorni prima aveva detto ad Artù che raccontare le favole ai bambini era come riavere Graalmir al suo fianco, ma ora che aveva perso Steve sentiva di aver perso il piccolo principe per la seconda volta, ancora più dolorosa della prima.
Aveva da poco iniziato a piovere e guardando le grosse gocce di pioggia striare obliquamente i finestrini si chiese perché si sforzasse così tanto per non piangere, quando il cielo per primo non se ne preoccupava.
«Avrei dovuto mettere l’uniforme da cerimonia, con tanto di spada. È così che si va ad un funerale, non con un cappio al collo», si lamentò ancora Artù, tirando più giù il nodo alla cravatta.
Merlino lo guardò con la coda dell’occhio e strinse i denti per non inveirgli contro. Conosceva abbastanza bene Artù da sapere che quando era nervoso o emotivamente instabile per qualsiasi motivo lui era quello che ne subiva di più le conseguenze, capro espiatorio o distrazione perfetta nel cento percento dei casi.
«Le tradizioni sono cambiate», spiegò mantenendo un tono di voce pacato. «Anche la cerimonia a cui assisteremo… non sarà come i funerali che celebravamo a Camelot. Cercate solo di astenervi da ogni commento e/o domanda inopportuna, per favore».
Il re acconsentì di buon grado, anche fin troppo mestamente. Per una volta però Merlino non se ne preoccupò: dopotutto anche Artù aveva un cuore ed era abbastanza intelligente da saper intuire i momenti in cui la sensibilità e il rispetto erano tutto.
Il parcheggio di fronte all’ospedale era quasi pieno, tanto per la pioggia che per il piccolo funerale che i genitori di Steve avevano voluto organizzare nella cappella per tutti i medici, gli infermieri e i piccoli pazienti del reparto di oncologia che si erano affezionati a Steve tanto da considerarlo parte della famiglia. L’impresa di pompe funebri poi si sarebbe occupata del trasferimento della bara nella piccola cittadina in cui il bambino era nato e cresciuto, dove si sarebbe svolto il funerale ufficiale, per amici e parenti, e dove una zolla di terra del cimitero comunale era già stata prenotata.
Merlino parcheggiò la Pininfarina e seguito da Artù entrò nell’ospedale.
Quella mattina poche persone li salutarono e quelle poche che ogni tanto riuscivano a tornare alla realtà, scalfendo la bolla di dolore in cui tutti si erano ritrovati intrappolati, lo avevano fatto debolmente, senza sorridere.
I due percorsero il corridoio principale in silenzio e non parlarono nemmeno quando di fronte alla scelta tra ascensore e scale presero entrambi le scale per raggiungere il quarto piano. Ad attenderli trovarono Mark ed Abigail, seduti sulle loro sedie a rotelle ed eleganti come non mai, specialmente quest’ultima: indossava un cardigan nero con i bottoni bianchi, una gonna a balze blu scuro che le lasciava scoperte le ginocchia e un paio di ballerine; tra i capelli aveva fissato un fiocchetto nero e si era persino truccata gli occhi con un po’ di matita e del mascara.
In confronto a lei Mark sembrava molto meno curato, con i suoi blu jeans e la camicia nera che teneva slacciata fino al petto, sotto cui si intravedeva una catenina d’oro, probabilmente un crocifisso.
«Wow», mormorò Abigail non appena i suoi occhi si posarono sui loro completi pressoché identici: giacca e cravatta nere, camicia bianca e pantaloni neri appena stirati. Merlino doveva ammettere però che Artù stava decisamente meglio di lui, forse per le sue spalle larghe o forse perché la sua figura si adattava perfettamente agli abiti costosi e di pregio, mentre Merlino non riusciva a sentirsi mai totalmente a proprio agio con vestiti che uno come lui, nato e cresciuto in una famiglia povera, non si sarebbe mai potuto permettere.
«Anche tu sei bellissima», ricambiò Artù con naturalezza, chinandosi su di lei per baciarle le nocche di una mano.
Merlino notò Mark irrigidirsi sulla propria sedia a rotelle, con le dita strette intorno ai braccioli, e sorrise pensando che aveva sempre avuto ragione nel sospettare che avesse una cotta per la coetanea.
Abigail, rossa come un peperone, incrociò gli occhi di Merlino e disse: «Alex è passata poco fa, ha detto che possiamo avviarci e che ci raggiungerà nella cappella».
«Va bene. Gli altri bambini sono già lì?».
«No, li accompagneranno gli infermieri quando inizierà la funzione, quando la…».
«Quando la bara sarà chiusa», concluse per lei Merlino, sorridendo teneramente. Abigail annuì, senza riuscire però a ricambiare.
Artù guardò Merlino con un grosso punto interrogativo sul viso, ma non aprì bocca, come gli aveva chiesto di fare. Il mago scosse leggermente il capo e si portò dietro la carrozzina di Mark per spingerlo verso gli ascensori. Il re, vergognandosi tanto da non guardare nemmeno i ragazzini negli occhi, disse che si sarebbero incontrati giù. Quando le porte dell’ascensore si chiusero, Mark sollevò il capo verso Merlino e chiese: «Che problema ha?».
«Claustrofobia».
Mark arricciò le labbra in un sogghigno, ma non riuscì a trattenere la grassa risata che rimbombò tra le quattro pareti, smorzata però quasi subito dalla mano di Abigail che l’aveva colpito sull’addome.
Merlino, alle loro spalle, sorrise.
Trovarono Artù già di fronte alle porte quando l’ascensore si fermò al piano terra. Sorrideva nervosamente, come se avesse appena visto un wildeon gigante e non volesse allarmarli. Il re mosse impercettibilmente il capo verso la sua destra e Merlino uscì per primo dall’ascensore per poter vedere che cosa lo aveva quasi paralizzato sul posto con quell’espressione idiota sulla faccia.
«Cathleen», esclamò non appena la vide fuori dalle porte vetrate del pronto soccorso, sulla rampa per disabili, intenta a fumare frettolosamente una sigaretta, una boccata dopo l’altra.
Era vestita normalmente, nel senso che per Cathleen era perfettamente normale indossare anfibi, collant nere smagliate in più punti, shorts di jeans neri e un giubbotto di pelle sopra ad un maglione traforato a collo alto. Cathleen spesso e volentieri passava intere giornate libere all’ospedale – Merlino sapeva che non aveva nessuno con cui trascorrerle, proprio come lui – e poteva dire con certezza di averla vista con look molto più stravaganti, quasi al limite della decenza, perciò trovò sobrio e quasi elegante l’abbigliamento che aveva scelto per il funerale di Steve.
«Quella è strana forte», disse Mark, quasi simpatizzando con Artù. Non appena se ne accorse però gli rivolse un’occhiata truce e si voltò verso Abby, incitandola ad affiancarlo. Ma la ragazzina non lo calcolò nemmeno, con lo sguardo ancora rivolto verso le porte vetrate.
«Io penso che sia tutta una messinscena, invece», disse.
Merlino si accigliò. «La conosci?».
«Sì e no. Ogni tanto passa a trovarmi, quando l’ambulanza è ferma nel parcheggio. Ed è la ragazza più gentile e simpatica che ci sia. Secondo me è semplicemente sola e questo è l’unico modo che ha trovato per farsi guardare».
Tutti rimasero in silenzio per qualche secondo, lasciando che le parole di Abigail aleggiassero nell’aria, fino a quando Cathleen non spense la sigaretta nel posacenere ed entrò, incamminandosi proprio verso di loro. Un sorriso sbocciò sul suo viso punteggiato di efelidi e Merlino sobbalzò accorgendosi per la prima volta di quanto fosse delicato e fragile senza il trucco pesante sugli occhi e sulle labbra, con le vene bluastre che si intravedevano sulla sua fronte e due ciocche di capelli rossi che le sfioravano le guance ad ogni passo, mentre il resto della sua chioma era raccolta sulla nuca in uno chignon morbido.
«Ciao», li salutò senza fermarsi, facendo scomparire il sorriso subito dopo e chinando il capo.
Quel comportamento non era proprio da Cathleen. Merlino la guardò andare via in silenzio, fino a quando i suoi occhi non si posarono involontariamente su Artù. In volto aveva un’espressione che conosceva bene e che gli fece correre un brivido lungo la schiena: quando il solo ed unico re guardava qualcuno in quel modo, voleva dire che ne era rimasto colpito e voleva dare una mano, se possibile. Lo stregone non voleva mettergli i bastoni tra le ruote, sapeva che in quel modo si sarebbe dedicato con ancora più impegno alla causa, perciò cercò di ignorare il brutto presentimento che gli gravava sulle spalle.
«A quanto pare era molto affezionata a Steve», disse Abigail, sospirando.
Merlino scosse il capo e strinse le dita intorno ai manici della sedia a rotelle di Mark, rispondendo malinconico: «Chi non lo era?».

 
La cappella dell’ospedale si trovava nella parte più a nord del complesso e per raggiungerla bisognava passare sotto uno dei porticati che, proprio come nei chiostri dei monasteri, racchiudevano un piccolo giardinetto interno dall’erba curata e con, al centro, un albero d’ulivo alto come i due ragazzini, circondato da grosse pietre bianche e piccole aiuole dai fiori lilla.
Gran parte degli infermieri e dei dottori che avevano avuto modo di conoscere Steve erano già seduti sulle panche e guidati da una suora recitavano pacatamente il rosario nell’attesa che iniziasse la funzione. Ogni tanto qualcuno si alzava per raggiungere la piccola bara bianca di fronte all’altare di marmo, adagiata sopra una ghirlanda di fiori, anch’essi bianchi.
Un impiegato delle pompe funebri, più simile ad un bodyguard a causa delle spalle larghe strette nel completo gessato e del cranio perfettamente rasato, era a pochi metri di distanza, pronto a chiuderla non appena il parroco gli avesse dato il via libera.
Il padre e la madre di Steve, seduti in prima fila, si voltarono proprio quando Merlino e gli altri fecero il loro ingresso e l’uomo posò un bacio sulla fronte di sua moglie prima di uscire dalla panca per andare loro incontro. Strinse loro le mani e salutò i ragazzini con un sorriso già umido di lacrime.
«Per i bambini abbiamo tenuto un paio di panche libere davanti», disse, invitandoli a proseguire con un gesto del braccio.
Artù e Merlino accompagnarono Mark e Abigail in seconda fila, sistemando poi le loro sedie a rotelle contro la parete, ma prima che il mago potesse allontanarsi la ragazzina lo guardò implorante, dicendo: «Voglio salutare Steve».
Merlino si guardò per un attimo le scarpe. «Non sei obbligata a farlo».
«Me ne pentirò, se non lo farò. Ti prego, Merlino».
Lo stregone annuì e fece per prendere di nuovo la sedia a rotelle, ma Abigail lo fermò dicendo che voleva andare da lui sulle sue gambe. Quindi le porse il braccio e camminarono insieme fino a trovarsi di fronte al visetto di quel bambino troppo piccolo per morire. Aveva gli occhi chiusi e le sue labbra pallide sembravano stese in sorriso – forse a causa della formaldeide, forse perché i muscoli facciali si erano naturalmente irrigiditi in quel modo.
«Sembra che stia dormendo», disse Abigail con voce tremante, sforzandosi di sorridere a sua volta.
Merlino non voleva essere cinico, ma odiò la falsità del suo sorriso come quello sul volto di Steve, dato che era impossibile che se ne fosse andato felice. Tuttavia rimase in silenzio, impassibile, sorreggendo Abigail anche quando si piegò leggermente verso il bambino per accarezzargli i capelli biondi ora un po’ spenti pettinati ordinatamente su un lato.
«Ti voglio bene, Steve. Hai capito? Ti voglio bene, te ne vorrò sempre. Con tutto il mio cuore».
Si sporse ancora un po’ di più e Merlino per un attimo ebbe paura che stesse per perdere i sensi; invece gli posò un delicato bacio poco sopra l’attaccatura del naso, sussurrando ancora qualche parola che lui, anche volendo, non sarebbe riuscito a sentire.
Era vero che Abigail era una coraggiosa. Lui aveva visto molte, moltissime persone morire, alcune delle quali avevano esalato il loro ultimo respiro proprio tra le sue braccia, e nonostante fosse già adulto aveva sempre lasciato che le emozioni prendessero il sopravvento su di lui. Abigail invece si risollevò e come se nulla fosse lo ringraziò.
Mentre la stava accompagnando di nuovo al suo posto alzò il capo per guardarlo negli occhi e sussurrò: «Sai che non devi sentirti in colpa, vero? Hai fatto tutto il possibile per lui, più di tutti noi messi insieme».
Lo stregone la fissò incredulo e spaventato dal significato intrinseco di quelle parole, senza riuscire a formulare una qualsiasi frase di senso compiuto. Abby arricciò le labbra in un minuscolo sorriso e si sedette accanto a Mark, a cui, per sua immensa gioia e sorpresa, strinse forte una mano prima di posare il capo sulla sua spalla.
Merlino si sforzò di spegnere il cervello e non poté fare a meno di sorridere scorgendo quello speciale bagliore negli occhi del tredicenne: la luce che solo gli occhi innamorati sanno emanare. Poi raggiunse Artù, seduto qualche panca più indietro, con lo sguardo rivolto verso il lato opposto della cappella. Il mago lo imitò, sedendosi al suo fianco, e scorse anche lui la figura di Cathleen, inginocchiata e con le dita delle mani intrecciate di fronte al viso. Merlino si chiese se fosse religiosa o se semplicemente si stesse appellando a Dio o a qualsiasi altra forza superiore, inveendo come lui aveva fatto più e più volte nel corso dei secoli e chiedendo: «Perché?», fino a farsi venire il mal di testa.
«Ha avuto coraggio Abigail», disse ad un tratto Artù, riportandolo bruscamente alla realtà.
«È più forte di quello che sembra».
«Già. Mi chiedo dove sia Lady Alex».
«Arriverà», lo rassicurò, cercando al contempo di rassicurare anche se stesso.
Ricordava lo stato in cui era quando due notti prima lo aveva chiamato nel cuore della notte per dirgli che una collega le aveva appena mandato un SMS con scritto che Steve se n’era andato per sempre: piangeva a dirotto e non riusciva a parlare, talmente forti erano i singhiozzi. A fatica gli aveva chiesto se poteva raggiungerla a casa e Merlino era corso da lei senza nemmeno svegliare Artù, il quale al suo risveglio l’aveva trovato già seduto in cucina, con la seconda tazza di caffè tra le mani. Il re non aveva sospettato nulla e Merlino non gli aveva raccontato nulla della notte trascorsa a casa di Alex, delle ore passate a cullarla tra le braccia e ad accarezzarle i capelli in silenzio e nella semi-oscurità, stretti sullo striminzito divano arancione, prima che smettesse di giurare che lei non avrebbe mai avuto figli e si addormentasse sfinita.
Artù in effetti non sapeva molto riguardo a come si era sviluppato il loro rapporto, più sincero che mai sul piano affettivo ma del tutto innocente, come quello tra due bambini, e in attesa del domani. E per il momento Merlino non era intenzionato a parlargliene, indispettito forse da tutte le gaffes che negli ultimi giorni Artù si era lasciato scappare riguardo ad Alex o ancora da ciò che aveva visto quel pomeriggio in sala comune, quella specie di complicità e di rispetto reciproco che gli avevano fatto venire la pelle d’oca.
I giovani pazienti del reparto di oncologia, accompagnati dagli infermieri, iniziarono ad arrivare uno dopo l’altro. La bara era già stata chiusa e sopra di essa era stato sistemato un grande primo piano di Steve, i suoi occhi azzurri brillanti sotto i raggi del sole e il suo sorriso dolcissimo sulle labbra, accompagnato da due adorabili fossette sulle guance.
Tra loro, Merlino e Artù scorsero anche Alex, che spingeva la carrozzina di Danilo, il compagno di stanza di Mark, appena tornato dalla chemio. Non lo prese in braccio per farlo sedere sulla panchina – l’undicenne era troppo debole – ma si chinò di fronte a lui con sguardo apprensivo. Merlino riuscì a leggere le sue labbra: “Sei sicuro di farcela?”.
Danilo, di cui riusciva a vedere solo la schiena, scrollò le spalle. Alex aggiunse: “Se cambiassi idea, se dovessi sentirti male… avvisami subito. Non vorrai mica vomitare di fronte a tutti, uh?”. Probabilmente Danilo ridacchiò, visto come le sue spalle sobbalzarono a scatti, e Alex si sollevò facendogli un buffetto sulla guancia. Poi si gettò un rapido sguardo intorno e senza alcuno sforzo individuò Merlino e Artù, i quali avevano alzato una mano contemporaneamente.
Si infilò nella loro panca e lo stregone, che le aveva tenuto il posto accanto a sé, fu costretto a scalare per farla sedere in mezzo a loro. Ancora una volta sentì il cuore stretto nell’ardente morsa della gelosia – immotivata, folle ed autodistruttiva gelosia – e di nuovo si disse che non aveva prove concrete per credere che tra Alex e Artù ci fosse qualcosa. E poi, anche nel caso avesse avuto ragione, non avrebbe avuto nulla di cui preoccuparsi: Alex meritava tutta la felicità del mondo e se pensava che Artù fosse la persona giusta doveva essere contento e solidale con lei, conscio che lui se ne sarebbe preso cura come e meglio di lui.
La funzione iniziò e tutti si alzarono in piedi. Le parole del parroco divennero senza senso nella sua mente, sovrastate da quei pensieri futili che però non riusciva ad allontanare. Poi, come vento in grado di spazzare via le nubi temporalesche, Alex infilò la mano nella sua, stringendola delicatamente. Merlino si rilassò e non dovette nemmeno sporgersi per guardare in direzione della mano sinistra di Artù: sapeva che Alex aveva scelto lui.

 

***

 

Sulla porta della cappella avevano aspettato il loro turno per fare le condoglianze ai genitori di Steve, dopodiché erano usciti.
Artù aveva notato che Alex e Merlino si erano tenuti per mano per quasi l’intera durata della messa e nonostante potesse essere un gesto del tutto innocente e causato dall’emozione del momento, non aveva potuto fare a meno di pensare che quei due gli stavano nascondendo qualcosa. Ne ebbe piena conferma quando, passando accanto al giardino interno, sia Alex che Merlino si paralizzarono sul posto accorgendosi dell’agente Chandra, appoggiata ad una delle colonne e con il cellulare tra le mani. Artù aveva avuto ragione nel pensare che avesse delle forme perfette sotto l’uniforme: le gambe lunghe e longilinee erano fasciate da un paio di blu jeans aderenti, i fianchi sinuosi e il seno prosperoso assecondati dal maglione di lana intrecciato intorno alla sua vita piatta. I capelli neri e lucidi come seta non erano raccolti, bensì ricadevano in morbide onde sulla sua schiena e quelli che le incorniciavano il viso facevano brillare ancora di più i suoi occhi più grigi che verdi, simili a pietre preziose. Artù si chiese come fosse possibile che tutte le ragazze intorno a Merlino fossero così belle e come se avesse appena ricevuto una botta in testa si ricordò delle parole di Freya: «Abbiamo influenzato tutte le donne che entravano in contatto con lui». Fu quello il motivo per cui guardò Alex – la preoccupazione che il suo amore per Merlino fosse solo frutto della magia – e la trovò scioccata e quasi intimorita dalla presenza della poliziotta.
Alla fine fu la stessa Myra a rompere il silenzio, alzando il capo ed accorgendosi a sua volta del loro arrivo. Il suo sguardo scivolò subito su Merlino e Artù notò il luccichio di felicità nei suoi occhi, nonostante fosse durato solo una frazione di secondo.
«Ciao», li salutò con un piccolo sorriso. «Ho saputo di Steve e ho pensato di passare. Inoltre, speravo proprio di trovarvi».
«Deve portarmi in Centrale un’altra volta?», chiese stupidamente Artù, pentendosene non appena chiuse bocca.
L’agente lo scrutò con la fronte aggrottata e poi ridacchiò. «No, a meno che tu, andandotene in giro con quel completo, non sia intenzionato a fare una strage di cuori».
Prima che Artù potesse rispondere a quella specie di complimento, Alex fece un passo avanti, come a volerlo proteggere, e rivolgendole un’occhiata diffidente disse: «Di che si tratta, Myra? Io dovrei tornare al lavoro».
«Oh, non avevo alcuna intenzione di intrattenerti, Alex», rispose l’agente continuando a sorridere, ma nel suo tono c’era un che di beffardo. «E non devi nemmeno scusarti per essersi dimenticata di dire a Merlino che avevo bisogno di parlargli. Dev’essere stato un periodo difficile».
L’infermiera si ammutolì, impallidendo e diventando paonazza subito dopo. Artù si sarebbe aspettato come minimo che le urlasse contro, invece chinò il capo come se avesse già capito che era una battaglia persa e si allontanò dicendo: «Devo tornare dai bambini adesso».
Il re fu tentato di rispondere per conto suo, ma Alex lo afferrò all’improvviso per un braccio e se lo trascinò dietro.
«Vieni, vorranno sicuramente un po’ di privacy».
Merlino la sentì, la sentirono tutti, e Artù vide lo stregone aprire la bocca per dire qualcosa e poi richiuderla quando l’agente Chandra l’affiancò, iniziando ad incamminarsi nella direzione opposta alla loro. Il mago esitò, da solo in mezzo al corridoio, e Artù avrebbe voluto prenderlo a pugni, pensando che se si trattava di una scelta, non poteva che fare quella giusta. Alla fine lo vide stringere i pugni lungo i fianchi col viso accartocciato e voltargli le spalle per raggiungere Myra con lunghe falcate.

Idiota! pensò frustrato, lasciandosi trascinare da Alex.
Erano quasi arrivati nei pressi dell’ascensore quando l’infermiera gli lasciò bruscamente il braccio che aveva stritolato a tal punto da farglielo sentire indolenzito. Ora la rabbia le sfigurava il volto e le alterava la voce, rendendola più acuta di qualche ottava e allo stesso tempo simile ad un ruggito.
«Con che coraggio ha osato venire qui?», strepitò, attirando parecchia attenzione su di loro. Tra tutti quelli che si erano girati a fissarli, Artù riconobbe persino il medico che l’aveva visitato.
«Ma dico, l’hai sentita? Ha persino tirato in mezzo Steve, quando il suo unico obiettivo era Merlino! Io non la sopporto, non la sopporto!».
Se quella non era gelosia, Artù non aveva proprio idea di che cosa fosse.
«E per quale motivo voleva parlare con Merlino?», le chiese, sperando che non sbranasse anche lui.
«Per quale motivo? Ah! Sono certa che inizierà dicendo che vuole chiarire alcuni punti del tuo quasi-arresto e che lo ammonirà di tenerti d’occhio, perché la prossima volta non sarà così clemente, ma poi gli dirà che c’è un altro motivo per cui voleva parlargli e può essere solo quel motivo!».
Alex aveva premuto o, meglio, preso a pugni il pulsante di chiamata dell’ascensore e quando le porte si erano aperte di fronte a loro era entrata, mentre Artù si era come pietrificato sul posto.
«Che fai, non vieni?», gli chiese, irritata.
«Veramente, io…».
«Muoviti!». Lo prese per la cravatta e rischiando di strozzarlo lo trascinò dentro l’ascensore giusto un momento prima che le porte iniziassero a chiudersi.
Artù sentì il cuore fermarsi nella cassa toracica e lo stomaco schizzargli dritto in gola, ma lottò con tutte le proprie forze per fare respiri profondi e regolari e controllare la paura, come gli aveva detto di fare Merlino. In fondo era vero che nel corso della sua prima vita, a Camelot, aveva affrontato molto di peggio, riuscendo in qualche modo a cavarsela tutte le volte.

Perché avevi Merlino a vegliare su di te, gli ricordò la propria coscienza che, guarda caso, aveva la sua stessa vocina irritante di quando gli ricordava che aveva avuto ragione e avrebbe dovuto ascoltarlo.
Sentiva il sudore colargli lungo la schiena e faceva sempre più fatica a respirare, ma inaspettatamente fu Alex ad aiutarlo, distraendolo col suo racconto intriso di tristezza e rammarico.
«Merlino era lì, quando Myra è stata investita. Stava facendo jogging da sola perché io ero di turno in ospedale e fuori era già buio, quando un’auto con i fari spenti è sbucata fuori dal nulla, a folle velocità, e l’ha travolta sulle strisce pedonali. L’uomo al volante era ubriaco fradicio e non aveva idea di dove fosse né perché. Merlino era uscito un po’ prima dalla caffetteria della signora Begum – nel periodo natalizio qui è un vero mortorio, te l’assicuro – e ha visto tutta la scena, senza però poter fare nulla oltre a prestare subito soccorso a Myra, chiamando un’ambulanza. Aveva fatto un brutto volo e aveva picchiato forte la testa, tanto che per un periodo è rimasta in coma farmacologico, sotto osservazione ventiquattr’ore su ventiquattro. E poi si era rotta il femore della gamba destra, la peggior frattura che io abbia mai visto: l’osso era spaccato in molti punti. Ci sono volute diverse operazioni perché venisse riassemblato completamente, ma l’osso è risultato comunque più corto di un centimetro o giù di lì rispetto all’altro. È per questo che zoppica».
Le porte dell’ascensore si aprirono dopo l’avviso acustico e Artù uscì per primo, insistendo perché proseguisse.
«Merlino è rimasto con lei da quando l’ha soccorsa fino a quando non è stata ricoverata in terapia intensiva. Si sentiva in qualche modo responsabile». Alex si interruppe, come se avesse appena colto un dettaglio fondamentale, poi riprese: «Ogni giorno passava a trovarla e anche se, come ti dicevo, era tenuta in coma farmacologico, parlava con lei: le raccontava la sua giornata, le leggeva i giornali, qualche libro… Fino a quando non è stata svegliata. Ovviamente non avevano mai avuto modo di presentarsi, ma indovina qual è stata la sua prima parola quando ha riaperto gli occhi?».
«Merlino».
Alex annuì, stringendosi le braccia al petto. «Myra ha trascorso quasi un anno qui in ospedale, praticamente tutto tempo speso nella riabilitazione, e lei e Merlino sono diventati molto amici. C’era qualcosa nel loro rapporto… forse perché lui le era stato così vicino, ma era come se si conoscessero da sempre. Merlino sosteneva che tra loro non c’era niente oltre ad una forte amicizia, ma io ero convinta che Myra si fosse innamorata di lui. Lo si percepiva da come lo guardava, da come rideva alle sue battute… Insomma, si capiva».
«Ma non ne hai mai avute le prove», concluse Artù, ricevendo un’occhiata fulminante che gli fece capire di aver commesso un grosso errore.
«Lei deve averglielo confessato ad un certo punto, perché pochi mesi prima della fine della riabilitazione Merlino iniziò ad andarla a trovare sempre meno, fino a quando non smise del tutto. Ho provato tante e tante volte a chiedergli cosa fosse successo, ma non mi ha mai risposto. Questa non è una prova, secondo te?».
L’immagine della sua Ginevra tra le braccia di Lancillotto lo fece trasalire.
Quei flashback del suo passato lo coglievano di sorpresa sempre più spesso, lasciandolo disorientato e col cuore stretto in una morsa ghiacciata, e non riusciva a capirne il motivo. Che fosse Freya che, anche da lontano, gli volesse ricordare del destino che incombeva su di loro?
«Non li hai mai colti sul fatto», rispose, scrollando il capo come se farlo potesse aiutarlo a dimenticare quel ricordo doloroso.
Alex sogghignò. «Non so come avrei reagito, in quel caso».
Artù pensò che se davvero era sangue del suo sangue, avrebbe senza dubbio afferrato la prima arma a sua disposizione e avrebbe cercato di uccidere Myra.
«Soprattutto perché allora ero fidanzata», aggiunse, posandosi una mano sulla fronte mentre scoppiava in una risatina sconsolata.
Artù aveva staccato il cervello quando aveva capito che Alex, prima di innamorarsi di Merlino, era stata con un ragazzo, perciò non fece lo stesso ragionamento dell’infermiera, chiedendosi per quanto tempo avesse fatto finta di non provare nulla per il mago. Continuava a chiedersi chi, quando, dove, come e perché e per poco non fu quella la sequenza di parole che uscirono dalla sua bocca.
«Aspetta un momento», esclamò portandosi le dita alle tempie. «Tu eri fidanzata?».
«Non fidanzata nel vero senso del termine… avevo un ragazzo», rispose, schivando il suo sguardo per poi rivolgergliene uno tagliente: «Lo trovi così strano?».
«Sì!».
Alex assottigliò ancor di più gli occhi. «Sì?».
«Pensavo… pensavo fossi sempre stata innamorata di Merlino!», rispose sinceramente e senza darle il tempo di aprire bocca le chiese: «Lui chi era?».
L’infermiera alzò le mani come a voler dire: «Io ci rinuncio», riprendendo a camminare lungo il corridoio.
«Lady Alex!», la rimproverò Artù, scandalizzato dal suo comportamento scortese. A volte era tale e quale a Merlino e Artù si promise che, se tutto quello che aveva saputo da Freya avesse trovato conferma, le avrebbe fatto un ripasso intensivo su come essere un’impeccabile gentildonna.
La rincorse e come un padre ossessivamente protettivo nei confronti della figlia le ordinò di dirgli chi era il suo “ragazzo”, abbassandosi pian piano fino ad implorarla.
«E va bene!», urlò alla fine, esasperata. Quindi gli puntò un dito contro il viso, guardandolo con la stessa sete di sangue che aveva visto negli occhi della Bestia Errante quando l’aveva attaccato. «Te lo dico e tu mi lasci in pace, affare fatto?».
«Parola di Cavaliere», promise con una mano sul cuore.
Alex sospirò. «Il dottore che ti ha visitato quando ti ho colpito in testa con la padella. Si chiama Keith, Keith Ellis».
Artù, incredulo – con il suo fisico prestante e il suo sorriso affabile era l’opposto di Merlino! – aprì la bocca per chiedere un’ulteriore conferma, ma Alex gli tappò la bocca con l’intera mano.
«Hai promesso», gli ricordò. «Ci vediamo più tardi».
Gli diede ancora una volta le spalle e sparì in una delle tante camere che si affacciavano sul corridoio.

 

***

 

Seguendo il corridoio fino alla sua fine, raggiunsero una delle uscite d’emergenza che davano sul retro dell’ospedale e in particolare sulla zona in cui si fermavano i fornitori per le operazioni di carico e scarico. Il venerdì mattina era il giorno fissato dalla lavanderia per il ritiro della biancheria sporca, raccolta in decine di grossi cesti di metallo.
«Potevi avvisarmi», esclamò risentita Myra, osservando i dipendenti salire e scendere dal lungo camion sulla cui fiancata saltava subito all’occhio il nome della ditta: “Kings Laundry Service”, scritto a caratteri cubitali e sormontato da una gigantesca corona.
Merlino non poté fare a meno di trovarlo ironico.
«Avrei preferito qualcosa di più romantico per il nostro primo incontro dopo… quanto, cinque mesi? Come vola il tempo».
«È di questo che volevi parlarmi?», le chiese, irritato dal suo sorriso sardonico, da come poco prima aveva risposto ad Alex e da come lui stesso si era comportato, rimanendo in silenzio invece di prendere le sue difese.
«In verità avrei preferito parlare prima del tuo amico con la balestra, ma visto che siamo già sul pezzo tanto vale proseguire». Si voltò verso di lui, le mani nelle tasche posteriori dei jeans e gli occhi grigi fissi nei suoi, feroci come quelli di una tigre ferita. «Cinque mesi, Merlino. Non un SMS, non una telefonata. Com’è possibile vedere una persona ogni giorno per otto mesi e poi sparire del tutto?».
Merlino si appoggiò al muro alle sue spalle con un piede, facendo attenzione a non aderirvi con parti dell’abito, e ricambiò il suo sguardo. «Ti avevo spiegato la situazione, Myra».
«Avevi detto che ci saremmo visti di meno, perché sarebbe stato imbarazzante per entrambi, non che mi avresti cancellato dalla tua vita!», urlò, furibonda, ed avanzò di un passo.
Anche Merlino si avvicinò a lei. «Io non ti ho cancellato dalla mia vita! Ci ho provato, ma non ci sono mai riuscito!».
Occhi negli occhi, Myra e Merlino rimasero in ascolto dei loro respiri leggermente affannati, pensando alla prossima mossa. Lo stregone si rese conto di aver fatto un errore dicendo la verità, e che ormai era troppo tardi per tornare indietro.
«Allora avresti potuto…», ruppe timidamente il silenzio l’agente, sfuggendo per un attimo al suo sguardo.
«No», la interruppe Merlino, negando anche con il capo. «Pensavo di farcela, di poter essere tuo amico nonostante tu volessi di più, ma non riuscivo a pensare ad altro che standoti intorno ti avrei fatto più male che bene. Speravo che, scomparendo, mi avresti dimenticato. A quanto pare mi sbagliavo».
«Dovrebbero spararmi in fronte», disse, sorridendo debolmente. Myra chinò il capo e si guardò le scarpe basse, calciando qualche sassolino d’asfalto. «Nessuno a parte i membri della mia famiglia mi era mai stato tanto vicino. E tu non dovevi farlo per forza, non avevi alcun obbligo… Ogni giorno aspettavo le ore che avrei trascorso con te con impazienza, erano gli unici momenti in cui non odiavo il letto in cui ero bloccata, il cibo della mensa, le infermiere che mi cambiavano le medicazioni… E quando mi allenavo davo il massimo per raccontarti dei miei progressi e vederti veramente felice per me. Quanto ti ho detto che mi ero innamorata di te mi ha spezzato il cuore capire di non essere ricambiata, ma è stato molto peggio quando hai smesso di venire a trovarmi. Ero così arrabbiata… Penso che alcune infermiere là dentro mi lascerebbero soffrire se per caso dovessi essere ricoverata di nuovo». Sorrise, incrociando di nuovo il suo sguardo. «Avrei dovuto capirlo subito. Non ho mai avuto alcuna speranza, vero?».
Merlino si strinse nelle spalle, nonostante fosse profondamente toccato e dispiaciuto per tutto ciò che le aveva fatto passare.
«Col senno di poi, è chiarissimo che hai sempre avuto un debole per Alex». Myra si avvicinò ancora e ancora, fino a trovarsi ad un soffio dal suo viso. Il mago non si mosse di un solo millimetro, conscio che quella che aveva di fronte non era più la Myra che conosceva. «L’hai sempre desiderata. L’innocente ragazza della porta accanto che si mostra tanto forte ma che al primo soffio di vento cade a terra ed è incapace di rialzarsi…».
«Sei ancora arrabbiata, Kajri».
«Non mi chiamare così!», gridò, bloccandolo contro il muro col proprio corpo e sbattendo un pugno accanto al suo viso. 
L’agente di polizia era più che arrabbiata, era una specie di vaso di Pandora pronto ad esplodere in qualsiasi momento, scatenando caos e distruzione in ogni angolo del creato.
«Perché?», le chiese Merlino, sollevando le mani per posargliele sui lati della testa, sui capelli, sulle guance e poi sul collo.
«Perché lei non ha niente più di me», rispose, ma con la voce rotta dell’emozione. L’implacabile agente Chandra era stata sopraffatta, alla fine.
Un paio di giovani dipendenti della lavanderia si erano fermati ad osservarli, appoggiati alla fiancata del camion, ma Merlino non fece caso a loro e scosse il capo, accarezzandole una guancia con il pollice.
«No», mormorò, mortificato per tutta la sua rabbia e il suo dolore. «Ma dovrebbero spararmi al cuore per costringerlo a non battere più per lei».
Myra lo guardò negli occhi per un’infinità, quindi si scostò con lentezza e respirò profondamente, riprendendo la calma. La rabbia però non l’aveva abbandonata, era solamente stata messa da parte per una tregua che non sarebbe durata a lungo, il mago ne era certo.
«Suppongo che in questo caso l’argomento sia chiuso definitivamente», disse con fermezza. La poliziotta che era in lei era tornata.
«Sarebbe la cosa migliore».
«Bene».
Merlino annuì e si apprestò ad aprire la porta per tornare da Alex ed Artù, ovunque fossero. In tutta onestà avrebbe voluto restare un po’ da solo, non voleva voglia di rispondere alle loro domande e dare spiegazioni, ma aveva ormai capito che rimandare quasi mai era la soluzione migliore.
«Un’ultima cosa, Merlino».
Si voltò di tre quarti, guardandola con la sola coda dell’occhio.
«Domani mattina dovresti passare in Centrale per mostrarmi i documenti del tuo amico e ritirare i suoi oggetti personali, mostrando ovviamente tutte le carte necessarie per la detenzione di armi di quel genere, anche solo per collezionismo. E ti converrà tenerlo d’occhio, d’ora in poi: se dovesse ricapitare un episodio spiacevole come quello di lunedì sera potrei non essere così clemente. Intesi?».
«Intesi», rispose pacatamente, sentendo un grande dispiacere avvolgergli il cuore come piombo fuso.
Già cinque mesi prima sapeva che abbandonandola l’avrebbe persa, ma ora che avevano consensualmente e definitivamente firmato la fine della loro amicizia quel pensiero solo teorico era diventato realtà e Dio solo sapeva quanto faceva male.

 

***

 

Merlino si passò ancora una volta le mani sul viso, borbottando: «Ma come vi è venuto in mente?».
«Cosa hai detto?», gli chiese Artù, rigirandosi tra le mani il suo boccale di birra quasi vuoto e gettando una rapida occhiata attraverso la vetrata accanto a cui era sistemato il tavolino alto intorno a cui erano seduti.
«Niente. Non pensavo che Alex accettasse».
«State parlando di me?», chiese proprio lei, comparendo all’improvviso e posando entrambe le mani sulle sue spalle.
Merlino le sorrise, prendendole una mano e facendole fare una giravolta prima di farle prendere posto sullo sgabello accanto al suo. La sua gonna a pieghe si sollevò un poco, rincorrendosi all’infinito sopra le sue gambe affusolate avvolte in un paio di collant color carne, e Alex gettò il capo all’indietro, l’ombra di un sorriso sulle labbra.
«Stavo dicendo che non pensavo che avresti accettato di venire», le disse alla fine, quando l’infermiera smise di girare e si sistemò sulla vita il maglioncino bianco a pois neri a maniche corte.
«E come potevo rifiutarmi? Artù mi doveva due boccali di birra!», esclamò, facendogli l’occhiolino. Poi si voltò verso Merlino e lo guardò con le sopracciglia inarcate, girandosi la fine della treccia bionda tra le dita. «Credevo che steste discutendo su quanto sono bella questa sera».
«Ma non c’è nulla di cui discutere: è un dato di fatto».
Artù, rimasto fino ad allora in silenzio a guardarli mentre si scambiavano tutta quella serie di smancerie, drizzò la schiena all’improvviso quando scorse una moto parcheggiare dall’altra parte della strada.
«È lei, ne sono sicuro», disse, trepidante come un bambino.
Il motociclista si tolse il casco – da motocross, con il parasole appuntito e senza la visiera – e un’inconfondibile cascata di capelli rosso sangue venne subito scompigliata dal vento freddo che nel tardo pomeriggio si era sostituito alla pioggia. Cathleen.
Merlino non aveva ancora afferrato perché il sovrano fosse così interessato a lei e non aveva neppure il coraggio di chiederglielo apertamente, temendo di aprire vecchie ferite facendogli notare quanto fosse diversa da Ginevra. Quindi rimase in silenzio e la osservò mentre legava la moto – e che moto, ora che riusciva a vederla meglio – e poi attraversava la strada per entrare nell’unico pub della loro cittadina, ancora semi-vuoto e con un disco dei Led Zeppelin che usciva piano dalle casse disseminate qua e là nel piccolo locale.
Rispetto a quella mattina era tornata la solita Cathleen di sempre, col trucco nero intorno agli occhi, le labbra rosso fuoco e il suo scintillante sorriso a trentadue denti.
Indossava una canotta nera dei Bullet For My Valentine con stampato sopra un teschio invaso da rovi di rose rosse e un paio di leggings neri con decine e decine di lacci intrecciati sul davanti, che lasciavano del tutto scoperte le ginocchia ora arrossate dal freddo. Intorno al collo portava un foulard porpora con piccoli teschietti bianchi e ai piedi i suoi irrinunciabili anfibi.
Non appena incrociò i loro sguardi però il suo sorriso tentennò e lei esitò prima di avvicinarsi, tenendo il casco stretto al petto e le spalle contratte sotto la giacca di pelle.
«Ciao Cathleen, grazie per essere venuta», esclamò subito Artù, alzandosi in piedi in segno di rispetto.
Merlino scosse il capo, realizzando che non avrebbe mai perso le abitudini cavalleresche. Poi lo imitò e salutò la rossa, invitandola a sedersi con un cenno del capo.
«Artù non mi aveva detto che…», si interruppe, scossa da una risata nervosa. «L’ultima volta che sono stata ad un appuntamento a quattro…».
«Appuntamento a quattro?», ripeté scioccata Alex, arrossendo. «Oh no, non è affatto un appuntamento a quattro. Anzi, se volete un po’ di intimità io e Merlino possiamo spostarci in un altro tavolo».
«Intimità? Loro due?!», squittì il mago, ansiolitico, ma Alex non vi badò e sorridendo ad Artù e Cathleen lo prese per il braccio e lo trascinò al bancone, su cui si sporse per attirare l’attenzione del barista, un uomo che col suo aspetto austero e arcigno avrebbe potuto benissimo essere stato un professore, l’incubo di tutti i suoi studenti. Bastò un sorriso però per trasformare il suo viso in quello dell’uomo più gentile e disponibile sulla faccia della terra.
«Cosa ti do’, tesoro?».
«Il secondo giro. Metta ancora sul conto del mio amico qui», disse, dandogli una pesante pacca sulla schiena.
Merlino però non se ne accorse neppure, troppo impegnato ad osservare ogni movimento ed espressione facciale di Artù e Cathleen, seduti ora l’uno di fronte all’altra, sorridenti e rilassati. Nonostante tutto sembrasse andare per il meglio, lo stregone era certo che presto o tardi tutto sarebbe precipitato, e rovinosamente, rendendo quella serata la peggiore di tutti i tempi.
Alex gli prese il viso con una mano, premendo le dita sulle sue guance magre, e lo costrinse a guardarla negli occhi. «Perché sei così preoccupato? Cathleen è grande e vaccinata, se Artù la importunerà se la saprà cavare».
Merlino non riuscì a spalancare la bocca per lo stupore solo perché Alex non aveva ancora mollato la presa. Per un attimo pensò di poterle dire che aveva pensato esattamente il contrario e che Artù non sarebbe stato in grado di difendersi – di nuovo buone maniere cavalleresche – ma evitò per non complicarsi ulteriormente l’esistenza.
«Credo solo che non siano fatti l’uno per l’altra», rispose, voltandosi ed attaccandosi al suo nuovo boccale di birra.
«Come fai a dirlo?».
Merlino si passò il dorso della mano sulle labbra per levare ogni possibile traccia di schiuma. «Conosco Artù e so che Cathleen non è il suo tipo».
«Credi che ci si possa innamorare di un solo tipo di persone? Perché per me non è stato così».
«Ti riferisci a Keith?». Le rivolse un sorriso beffardo. «Da come è andata a finire, credo che questa sia la conferma della mia teoria. Non era il tuo tipo».
«Quindi nemmeno Myra era il tuo, giusto?».
Merlino sapeva che prima o poi ci sarebbe arrivata, stava aspettando quel momento da quel pomeriggio, quando era andato a cercarla e aveva visto Artù rientrare dalle porte vetrate del pronto soccorso con un sorriso soddisfatto sulle labbra. Aveva capito che il suo brutto presentimento si era avverato non appena aveva incrociato il suo sguardo e aveva capito che Alex avrebbe saputo quello che lui e Myra si erano detti quando il re gli aveva confessato che aveva l’aria di essere un po’ ostile nei confronti della poliziotta.
«Tra me e Myra non c’è mai stato niente», rispose sospirando, senza cercare un contatto visivo con Alex, evidentemente più interessata al fondo del suo boccale. «Ma sì, non sarebbe stata il mio tipo».
«Non vuoi proprio raccontarmi quello che è successo tra voi, eh?».
«Non c’è niente da raccontare, Alex. Pensavo di fare del bene, standole vicino, invece ho incasinato tutto, dandole false speranze. Lei era innamorata di me, è vero. Era questo che volevi sapere? Era innamorata di me, ma io la consideravo soltanto un’amica. Pensavo che sarebbe stato meglio per lei non farmi più vedere – lontano dagli occhi, lontano dal cuore – e invece, da quello che mi ha detto oggi, so di averla resa ancora più infelice. Va sempre a finire così. Sto cercando di dirtelo in ogni modo che anche tu presto o tardi…». 
Alex lo interruppe posandogli l’indice sulle labbra e dopo averlo guardato intensamente negli occhi per una dozzina di secondi sorrise smagliante, sussurrando: «Devo andare di nuovo a far pipì. La birra ha sempre questo effetto collaterale su di me, ma non ne farei mai a meno».
Merlino la guardò dirigersi sicura verso la toilette ed accennò un sorriso, capendo solo in quel momento la sua sottile metafora. E capì anche che per lui era lo stesso: se con Myra e ancora prima con Louise era riuscito ad allontanarsi in tempo, a rinunciare al loro amore, sapeva che non ne sarebbe mai stato in grado con Alex. Non avrebbe mai potuto fare a meno di lei.

 

***

 

Abbandonato da Alex, Artù si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e passeggiò lungo il corridoio ripensando a tutto ciò che gli aveva detto.
Si fermò accanto alle ampie finestre che davano sul parcheggio e sul parchetto di fronte, dove Merlino l’aveva trascinato per rivelargli che si trovava nel futuro.
Posò una mano sul vetro striato dalle gocce di pioggia e con l’altra si allentò il nodo di quell’odiosa ed insopportabile cravatta. Fu in quel momento che vide Cathleen, seduta su una vecchia altalena, con i capelli umidi e i piedi nel fango.
Non ci pensò su due volte e scese di corsa i quattro piani che lo separavano dall’uscita, dopodiché la raggiunse, incurante della pioggia sottile che presto avrebbe appiccicato anche i suoi capelli al volto e probabilmente avrebbe rovinato il vestito che Merlino, munito di ago e filo, aveva adattato per lui con tanto impegno.
Si dondolava pigramente sull’altalena cigolante e non si accorse della sua presenza fino a quando non le chiese: «Posso?», indicando il secondo seggiolino libero.
Cathleen lo guardò con occhi appannati, come se il suo corpo fosse lì e la sua anima no; sbatté le palpebre un paio di volte ed annuì, abbozzando un sorriso fulmineo tanto nell’apparire che nello scomparire.
Artù passò una mano sulla superficie bagnata del seggiolino nero e poi si sedette, guardando il cielo bianco grigiastro sopra di sé.
«Ti prenderai l’influenza», mormorò ad un tratto il paramedico, spezzando il silenzio.
«Anche tu».
«Già, ma se la prendo io nessuno se ne preoccuperà».
Artù la guardò e schioccò la lingua contro il palato. «Non ci credo».
Cathleen gli restituì l’occhiata, sorridendo ironicamente. «Non mi conosci, perciò posso anche capirti. Sai, io un terribile difetto: dico sempre la verità, nuda e cruda. Perciò se dico che nessuno si preoccuperà per me, vuol dire che è così».
«Nemmeno tu mi conosci. Per quanto mi riguarda, raramente ammetto di aver torto».
«Temo che questa sarà una delle rare volte, allora».
Artù sogghignò e si voltò verso Cathleen con tutta l’altalena, intrecciando le catene un po’ arrugginite di fronte al suo viso. «Ti sbagli. Io mi preoccuperei per te».
Cathleen rimase un po’ sbigottita dalle sue parole, per il tempo necessario perché le catene si districassero, facendo dondolare Artù da destra a sinistra e viceversa. Quindi scoppiò a ridere, sorprendendolo.
Soprattutto perché scorse sulla sua lingua, proprio nel mezzo, una piccola perla argentata.
«In questo caso», esordì, continuando a sorridere divertita, «o stai mentendo – e molto bene, davvero – oppure stai flirtando con me».
«Non sto mentendo», rispose sinceramente. E altrettanto sinceramente aggiunse: «Ma non so nemmeno che cosa voglia dire la seconda cosa che hai detto».
Il paramedico esitò, indecisa se stare al suo gioco o meno, e alla fine gli spiegò teneramente, inarcando le sopracciglia: «Non mi stai
corteggiando?».
«Oh. Beh, io non… Tu che cosa pensi? Perché sono sempre stato un disastro. Nel corteggiamento, intendo».
Artù sentiva il viso in fiamme e lo stomaco stretto in una morsa che non aveva ancora ben capito se fosse del tutto spiacevole. Non l’aveva raggiunta con lo scopo di
flirtare, piuttosto per tirarla su di morale, ma non gli dispiaceva nemmeno questo repentino ed inaspettato cambio di programma. Dopotutto Cathleen era una bella ragazza, una ragazza strana e diversa da qualsiasi altra, e gli sarebbe piaciuto molto conoscerla un po’ di più, approvazione di Merlino o meno. Ora che ci pensava aveva sempre avuto questo punto debole, il continuo cercare la sua approvazione, il suo sostegno… era ora che iniziasse a camminare da solo, visto che presto o tardi, con tutta probabilità, i ruoli si sarebbero invertiti: Merlino sarebbe stato quello da proteggere e lui avrebbe dovuto prendersi carico di quella responsabilità.
«Non mi sei sembrato così male», gli rispose, dopo aver riflettuto un poco, col naso arricciato e gli occhi castani fissi nei suoi. Erano così simili a quelli di Ginevra…
Artù scosse il capo per dimenticarsi del suo volto, presto sostituito da quello di Cathleen, e ridacchiò passandosi una mano tra i capelli ormai fradici di pioggia.
«Lo dici solo per essere gentile. Tutte le volte che mi sono cimentato nel corteggiamento le ragazze si rivelavano essere mostri o sotto l’effetto di una qualche droga».
«Per qualche tempo tra i bambini è girata la voce che io fossi un vampiro, ma come vuoi vedere tu stesso», aprì la bocca e si toccò il canino destro, indicandoglielo, «i miei denti sono solo frutto di una buona igiene orale. Per quanto riguarda le droghe… la mia ultima canna è stata all’ultimo anno del liceo». Scrollò le spalle, rivolgendogli un sorriso smagliante. «Sono pulita».
Era da tempo che Artù non si sentiva così spensierato e rilassato ed era tutto merito di Cathleen. E ne era spaventato, eccome se lo era, ma non voleva rovinare tutto.
Sorrise e nonostante un po’ di nervosismo disse: «Ne ero sicuro. Ad ogni modo, saresti stata il mostro più bello che avessi mai visto».
«Vedi, vai alla grande nel corteggiamento!», esclamò il paramedico, per poi scoppiare in una nuova risata cristallina, contagiandolo.

 
Artù non sapeva nemmeno che in quella minuscola cittadina ci fosse un pub – era così che venivano chiamate le taverne ora – ed era stata la stessa Cathleen a suggerirglielo, ma sua era stata l’iniziativa di portarla fuori. All’inizio aveva pensato ad una cena, poi la ragazza gli aveva fatto capire che non era il tipo di ragazza a cui piacevano i bei ristoranti e che, come primo appuntamento, sarebbe andata benissimo una birra.
Una volta a casa, con sua immensa vergogna, Artù aveva chiesto a Merlino che cosa fosse un ristorante e soprattutto che cosa intendesse con la parola “appuntamento”. Come aveva previsto il mago era andato su tutte le furie, ripetendogli fino alla nausea che quella storia non sarebbe andata a finire bene, ma era contento di non avergli dato retta. Cathleen era radiosa, nonostante l’inizio un po’ impacciato, e il suo sorriso gli trasmetteva la stessa calma e serenità che gli aveva trasmesso quel pomeriggio, su quell’altalena bagnata di pioggia.
«Scusami ancora per prima, solo che… mi ha colto alla sorpresa vedere Merlino e Alex. Pensavo saremmo stati soli», disse Cathleen dopo aver bevuto un sorso della sua birra.
«Non devi scusarti, è stata colpa mia», rispose cercando di rassicurarla, pensando in realtà che era tutta colpa di Merlino: era lui che aveva insistito perché lo accompagnasse e nemmeno la condizione che gli aveva proposto come deterrente era servita, dato che Merlino aveva davvero chiesto ad Alex di uscire con lui e lei aveva accettato.
Cathleen sorrise ed incrociando le braccia sul ripiano lucido del tavolino voltò il capo verso il bancone, da dove Merlino, rimasto solo, li stava spiando. Non appena si rese conto del suo sguardo si voltò, nascondendosi dentro il suo boccale di birra.
Cathleen ridacchiò e lo indicò col pollice, confessando: «Mi detesta, sai?».
«Perché dovrebbe?», le chiese Artù, la fronte corrugata.
«Abbiamo avuto un piccolo diverbio, qualche tempo fa».
Il re contrasse le mascelle. «Quanto piccolo?».
«Okay, non così piccolo. Voleva immischiarsi in questioni che non lo riguardavano e mi sono comportata da vera e propria stronza, ma penso che certi segreti debbano rimanere tali, soprattutto se riguardano qualcosa che fa paura e fa troppo male».
Quelle parole furono come una coltellata alla schiena. Non poteva immaginare quanto Merlino avesse sofferto in silenzio nascondendo a tutti il proprio segreto, ma attraverso gli occhi di Freya aveva visto quanto si era sentito sollevato quando aveva trovato qualcuno con cui condividerlo, qualcuno di cui fidarsi e che poteva capirlo. Per questo poteva benissimo immaginarsi anche come si doveva essere sentito quando aveva capito che Cathleen stava patendo la sua stessa sofferenza e perché aveva deciso di offrirle una mano a cui aggrapparsi. Una cosa che Artù non aveva mai potuto fare perché non aveva mai capito.
«Sono certo che Merlino volesse solo aiutare», disse schiarendosi la gola, gli occhi bassi.
«Beh, non poteva. Ma non si arrendeva, lui… continuava a dire che ce l’avrei fatta, ma… nessuno può o potrà mai aiutarmi, nessuno». Tirò su col naso, evidentemente scossa, ma invece di mostrare le proprie emozioni apertamente si nascose dietro un sorriso e tirò fuori dalla sua grande borsa borchiata un pacchettino da cui estrasse una di quelle sigarette che aveva visto in una serie TV.
«Ti dispiace se vado a fumare?».
Cathleen non aspettò la sua risposta né gli chiese di accompagnarla fuori: era chiaro che voleva stare da sola.
La guardò uscire dal pub, sedersi sul marciapiede, poco lontano dalla porta, e accendere la sua sigaretta proteggendo la fiamma dal vento con una mano. Poi Artù saltò giù dallo sgabello e raggiunse Merlino riservandogli l’espressione più minacciosa che avesse nel proprio repertorio.
Lo prese per il collo della maglia ed incatenò lo sguardo al suo, sibilando: «Ti sei per caso dimenticato di dirmi che tu e Cathleen vi conoscete piuttosto bene?».
«No», rispose calmissimo, per nulla intimorito dal suo sguardo furente. «Quello che so di lei è quello che mostra di sé, nient’altro».
Artù digrignò i denti. «Merlino…».
«Vi ha appena detto che abbiamo avuto una discussione, non è così? Questo mi lascia stupito, ma non importa. Non so cosa ci trovate in lei né che intenzioni avete, ma non spetta a me giudicare e non volevo fare il guastafeste, per questo non vi ho detto nulla».
Lo lasciò bruscamente e si sedette al suo fianco, senza smettere però di guardarlo in cagnesco. «Parla, avanti».
«Tempo fa ho scoperto che non è solo Cathleen che va in cerca di attenzioni, ma che molti, all’ospedale, vanno a cercare lei per qualche ora di… svago, chiamiamolo così. Cathleen viene sfruttata, si lascia sfruttare e io volevo solo capirne il motivo. Un pomeriggio l’ho vista mentre si rifiutava di andare ad uno di questi incontri e, insospettito, ho deciso di seguirla».
Artù aprì la bocca, sconvolto. «Non perderai mai questa abitudine, vero?».
«Ha sempre funzionato con voi», rispose sorridendo. «Comunque, Cathleen ha rinunciato all’offerta di quel dottore perché doveva andare al cimitero. L’ho raggiunta e l’ho vista piangere sulla tomba di quello che poi ho scoperto essere il suo fidanzato. È lì che abbiamo avuto quella discussione: io le ho chiesto perché continuava a farsi del male con le sue stesse mani, se per caso la morte del suo fidanzato c’entrasse qualcosa, e lei mi ha accusato di averla pedinata, di aver violato la sua privacy e che non ero nessuno per giudicarla ed intromettersi in quel modo nella sua vita, che non aveva bisogno del mio aiuto né di quello di nessun altro e alla fine… beh, mi ha mandato all’inferno».
Artù non rispose, addolorato com’era per ciò che aveva dovuto patire quella ragazza che, ora lo capiva, sorrideva solo per nascondere ciò che la stava dilaniando dentro, qualcosa che per un po’ era riuscito a prendere il sopravvento, al funerale di Steve. Ricordò inoltre le parole di Abigail, la sua teoria secondo la quale il suo abbigliamento, il suo trucco, tutta la sua esteriorità fossero soltanto una maschera in grado di celare la sua solitudine. Ora che sapeva quanto aveva perso gli sembrava ovvio, persino comprensibile e giustificabile, ma sapeva che in fondo non poteva esserlo. Cathleen non lo meritava, non meritava ciò che lei stessa si stava facendo.
«Con me è stata piuttosto chiara: non vuole aiuto. Perché voi dovreste essere diverso?».
Artù notò che gli occhi di Merlino si erano riempiti di amarezza e delusione, segno che aveva abbandonato quella battaglia già da molto tempo.
Gli colpì la schiena con una mano, lasciando che un sorriso affiorasse alle sue labbra. «Perché io non sono te».
«Ovviamente», mormorò il mago proprio quando Alex tornò dal bagno, accorgendosi subito della sua aria demoralizzata.
«Che è successo?», chiese e rivolse subito tutta la propria attenzione ad Artù, incrociando le braccia al petto e guardandolo con sguardo ammonitore. «Dov’è Cathleen? Che cosa le hai fatto?».
«Un bel niente», sbottò roteando gli occhi al cielo.
«Allora vai da lei», lo incoraggiò Merlino, anche se – Artù glielo leggeva in faccia – sapeva che presto se ne sarebbe pentito.
Il re annuì e afferrò il giubbotto per affrontare il vento gelato, ma prima che uscisse del tutto Merlino aggiunse: «Fai un complimento alla sua moto, le farà piacere».
Non avrebbe mai immaginato di poter accettare consigli del genere da lui, non a mente lucida almeno. Cercò di non pensare a quanto suonasse strano e lo ringraziò, chiudendosi la porta vetrata alle spalle.
Si avvicinò lentamente a Cathleen, intenta a fare dei cerchi di fumo muovendo le labbra come un pesce, e si sedette al suo fianco senza trovare nulla da dire. Non aveva altre carte da giocare, tanto valeva usare subito quella che gli aveva suggerito Merlino.
«Ti ho vista arrivare su quella moto, prima. È veramente bella».
«Te ne intendi?», gli chiese senza concedergli nemmeno uno sguardo.
«Assolutamente no. Ma mi piace e mi piacerebbe moltissimo farci un giro. Che ne dici?».
Sorrideva forzatamente, mangiato dall’ansia, ma veder affiorare uno spiraglio di buon umore sul volto di Cathleen fu un vero sollievo.
Rientrò nel pub solo per avvisare Merlino che Cathleen lo portava a fare un giro con la moto e salutare Alex, raccomandandole di non fare troppo tardi. Non ebbe il tempo di vedere le loro facce sconvolte, per un motivo o per l’altro. Quando entrambi uscirono dal pub, chiamandoli a gran voce, Cathleen era già schizzata via e non li sentirono sopra il rombo del motore.

 
Aveva urlato entusiasta, scosso dall’adrenalina, e il suo cuore batteva ancora forte quando Cathleen fermò la sua enduro – così l’aveva chiamata – e gli disse che ora poteva lasciarla andare. Artù si affrettò a sciogliere l’abbraccio che gli aveva impedito di volare via e realizzò, avvertendo un certo rossore farsi spazio sul suo viso, che probabilmente la vicinanza del corpo di Cathleen era stato uno dei motivi per cui il suo cuore non aveva ancora smesso di correre.
«Allora?», gli domandò sorridente, mentre lo aiutava a togliersi il casco – l’unico che avesse e che gli aveva fatto indossare prima con le buone e poi con le cattive maniere.
«È stato fantastico!», gridò, saltando giù dalla moto. «Ne voglio una anche io!».
Cathleen rise di gusto, passandosi le mani tra i capelli scompigliati dal vento, poi indicò la palazzina di fronte alla quale si erano fermati. «Ti va di salire per un caffè?».
Artù  sollevò il capo, osservando le piccole finestre illuminate oppure dalle persiane già abbassate. «Oh, tu abiti qui?».
«Già. L’ascensore è fuori uso, ma io sono al secondo piano, quindi…».
«Le scale vanno benissimo», la interruppe. «Andiamo».
Cathleen abitava in un piccolo appartamento, con una sala più grande che faceva contemporaneamente da cucina e da salotto, un bagno e un’altra stanza che non poteva che essere la sua camera da letto. Era ordinato e pulito, ma cosparso in ogni angolo di statuine di fate alate, spiriti della foresta e altri esseri chiazzati di muschio che davvero non riusciva nemmeno ad immaginare che cosa fossero.
«Benvenuto nel mio mondo», gli disse, invitandolo a darle il suo giubbotto e a fare come se fosse casa sua.
Artù si avvicinò ad una mensola su cui erano disposte piccole ragazze coi capelli e le ali di ogni colore, il seno prosperoso e le gambe nude sottili come fuscelli.
«Ti piacciono?», gli chiese, comparendo alle sue spalle all’improvviso con indosso la sola canotta col teschio e i capelli raccolti in una coda alta, il collo candido e sensuale in bella vista. «Tranquillo, non mi offendo. Non saresti il primo a dire che le trova inquietanti».

E quanti prima di me le hanno trovate inquietanti? si chiese il re di Camelot, ripensando alle parole di Merlino. Accennò un sorriso, deglutendo rumorosamente.
«Ho sempre avuto un rapporto complicato con gli esseri magici e via dicendo».
«E come mai?».
Artù scrollò le spalle. «Non sono… naturali?». Più che un’affermazione suonò come una domanda, perché davvero non aveva idea di cosa dire senza rivelarle che quasi tutta la magia che aveva visto nel corso della sua vita aveva provocato morti e sofferenze. E ne avrebbe provocate ancora.
«Chi ti dice che non sia il contrario? Io penso che non essere magici sia innaturale. Mi piace pensare che dentro ognuno di noi ci sia un pizzico di magia inespressa, pronta ad essere risvegliata…».
«Sciocchezze», la interruppe bruscamente, più bruscamente di quanto avrebbe voluto. Non appena si accorse della sua espressione corrucciata sospirò, maledicendosi. «Perdonami, non volevo essere scortese. È solo che… Se fosse come dici tu, se ognuno avesse un po’ di magia dentro di sé… Beh, non credo che tutti la utilizzerebbero per il bene».
La sua fronte si stese di nuovo, serena. «Su questo sono d’accordo con te».
«Questi che cosa sono?», chiese Artù, indicando delle piccole creature con pigne come cappelli e grossi funghi come ombrelli, tutti in fila su un ripiano della libreria accanto al televisore.
«Troll. Li adoro, sono birichini e anche molto vendicativi, se li si fa arrabbiare».
«Non lo metto in dubbio», mormorò, guardandoli più da vicino e sentendo un brivido corrergli lungo la spina dorsale al ricordo di Lady Catrina, il troll di cui suo padre si era follemente innamorato – nel vero senso del termine.
«Ma il pezzo forte della collezione è qui, vieni».
Cathleen lo prese per mano e Artù sentì un altro brivido, ben più forte e di tutt’altra natura. Si lasciò trascinare dall’altra parte del salotto, di fronte alla grande libreria bianca, formata da tanti quadrati accatastati gli uni sugli altri e senza fondo, che faceva da separé tra il salotto vero e proprio e l’angolo cottura. Dall’ingresso non li aveva notati, ma ora capiva perfettamente perché Cathleen li aveva definiti il pezzo forte della collezione. Erano quasi un centinaio, di ogni colore e dimensione e raffigurati in pose sempre diverse: draghi.
«Ho visto che sul tuo mantello ce n’era uno. Che ne pensi?».
Artù stirò un sorriso, rendendosi conto per la prima volta di quanto suonasse ironico il fatto che la casata dei Pendragon avesse un drago nel proprio stemma, la stessa casata che aveva quasi fatto estinguere quella specie affascinante e, diciamoci la verità, dannatamente pericolosa.
«Beh… sono impressionato», rispose senza dover ricorrere alle bugie. E in un certo senso non avrebbe mentito, omettendo che le mani di suo padre erano macchiate di sangue di drago e che lui stesso ne aveva ferito uno con l’intenzione di ucciderlo.
«Vorresti rimanere ancora più impressionato?», gli chiese a bassa voce.
Artù la guardò e non fece nemmeno in tempo ad accigliarsi che Cathleen si stava già sfilando la canotta, mettendo il bella mostra il suo reggiseno di pizzo nero che spiccava sulla sua pelle diafana. Gli gettò uno sguardo sensuale, un angolo della bocca sollevato in un sorriso soddisfatto, poi si voltò e posandosi la lunga coda sulla spalla sinistra si apprestò a slacciare i ganci che coprivano in parte il grande drago che aveva tatuato sulla schiena.
Aveva le zampe piegate come se la spina dorsale di Cathleen fosse un ripido pendio da scalare, la testa girata di profilo e le fauci spalancate a mostrare una fila di denti tanto aguzzi da far venire i brividi. L’intero corpo del drago era color rosso fuoco con sfumature verdi sulle scaglie del muso e sugli spuntoni che gli percorrevano tutto il dorso. Le ali gigantesche erano semi-aperte e ricoprivano praticamente tutta la pelle sopra la sua scapola destra, mentre la lunga coda, dopo alcuni giri su se stessa, si piegava poco sopra le fossette di venere alla fine della sua schiena.
Artù aveva la testa che gli girava, ma avvicinò comunque una mano alle ali della creatura, rapito dalla sua forza e, incredibilmente, dalla sua eleganza. Non appena le sfiorò però si ricordò che quella era la schiena nuda di Cathleen, bollente sotto le sue dita, e sobbalzò vedendola rabbrividire. Il paramedico si girò, del tutto incurante di essere nuda dalla vita in su, e lo guardò con occhi languidi e allo stesso tempo assenti. Gli posò una mano sulla nuca, all’attaccatura dei capelli, e lo baciò senza dargli il tempo di reagire, il petto bollente contro il suo.
Artù provò a rilassarsi, a dimenticare tutto quello che Merlino aveva detto e che forse lui era solo l’ultimo di una lunga lista e che il giorno dopo sarebbe stato dimenticato; provò a dimenticare anche il vuoto che aveva visto nel suo sguardo, un dolore profondo e inconsolabile. Per un attimo ci riuscì, il tempo necessario a posare delicatamente le mani ai lati del suo viso per approfondire il bacio. Poi l’ennesimo flashback lo fece trasalire.

«Io non voglio più perderti. Vuoi sposarmi?».
«Sì! Sì, con tutto il mio cuore».

Si scostò bruscamente e le lasciò il viso per guardare quella sbigottita non-Ginevra negli occhi, fino a quando non riuscì a trovare la forza per accennare un sorriso e dire: «È pronto il caffè?».
Cathleen boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, come se non avesse messo in conto che avrebbe dovuto prepararlo sul serio, poi si piegò per raccogliere la canotta che aveva lasciato cadere a terra assieme al reggiseno e corse in bagno senza guardarsi più indietro.
Artù si passò il dorso di una mano sulla bocca e poi si coprì il viso per sospirare amaramente, col cuore che gli batteva dolorosamente nel petto.

 

***

 

Merlino si era lamentato all’inverosimile, raggiungendo livelli di paranoia che Alex non aveva mai avuto il piacere di riscontrare nel suo carattere, ma alla fine era riuscita a convincerlo che era inutile continuare ad aspettarli lì. Così erano usciti dal pub ed erano saliti sull’auto di Merlino, il quale aveva annunciato mestamente che la riportava a casa. Alex però aveva dato un’occhiata al suo orologio e rischiando il tutto per tutto aveva detto: «È ancora presto. Perché non andiamo a casa tua?».
Come aveva previsto Merlino si era irrigidito, con le mani strette intorno al volante, ma poi senza dire una parola, scrollando solo le spalle, aveva fatto inversione ad U.
Parcheggiò l’auto di fronte al vecchio fienile e per la prima volta Alex si trovò nell’immenso giardino che aveva avuto modo di osservare solo dalla cucina. Era bellissimo, sotto la mezzaluna che brillava nel cielo sgombro di nuvole: decine di piccole lucciole saltavano da un fiore di campo all’altro, quasi a perdita d’occhio, e tutto era pace e silenzio, eccetto per il delicato stormire degli alberi, in particolare del grande salice piangente, e del lento gorgogliare del fiumiciattolo.
«Tè?», le domandò Merlino, riportandola alla realtà.
Alex abbozzò un sorriso ed annuì. «Volentieri».
In casa c’era un piacevole tepore, merito dei termosifoni ancora accesi, ma Merlino insistette nel voler accendere il camino mentre l’acqua per il tè si riscaldava sul fornello.
Alex si sedette in cucina e si stava chiedendo che cosa stessero facendo Artù e Cathleen, quando la borsa che aveva appoggiato allo schienale della sedia cadde a terra rovesciando tutto il proprio contenuto sul pavimento. Si inginocchiò per sistemare e rimase pietrificata quando le sue dita sfiorarono l’action figure di Capitan America di Steve. Le lacrime le affluirono agli occhi con velocità sorprendente e si ritrovò a tirare su col naso ancor prima di accorgersi della presenza di Merlino alle sue spalle.
«Ehi…».
Alex voltò il viso dall’altra parte e respirò profondamente, cercando di cacciare nell’angolo più profondo della sua anima la tristezza che le stava scavando l’ennesimo buco nel petto.
«Questo me lo ricordo», disse Merlino sorridendo, inginocchiandosi al suo fianco per prenderle il gioco dalle mani. «Ero così invidioso… Steve non ha più calcolato nessun altro regalo quando tu gli hai dato questo».
«Che ci vuoi fare», rispose ridacchiando. Poi ingoiò il nodo che le stringeva la gola e come se nulla fosse disse: «Oggi, durante la messa, ho sentito quello che ti ha chiesto Artù».
Merlino socchiuse gli occhi, lasciando cadere le spalle: evidentemente aveva sperato fino all’ultimo che non se ne fosse accorta. Ma Alex aveva sentito fin troppo bene e quel pomeriggio, a casa, aveva fatto delle ricerche sui funerali nell’epoca medioevale, al tempo di Re Artù. Non aveva trovato molto, solo una serie di dipinti che raffiguravano un’imbarcazione ornata di fiori guidata da un individuo avvolto in un pesante mantello nero, probabilmente la personificazione della morte stessa. Quell’immagine le aveva fatto venire alla mente il film Thor: The Dark World e in particolare la scena del funerale di Frigga, la madre del Dio del Tuono. Da lì era riuscita a risalire ai funerali vichinghi, nei quali c’erano proprio barche funerarie su cui venivano cremati i morti.
Artù aveva proprio accennato al fuoco, chiedendo a Merlino quando il corpo di Steve sarebbe stato bruciato, e Alex, di fronte al computer, aveva realizzato che probabilmente era così che al tempo dei Cavalieri della Tavola Rotonda venivano celebrati i riti funebri: alla vichinga. Si era domandata se anche Artù avesse ricevuto lo stesso trattamento e aveva sentito un brivido di freddo percorrerle la spina dorsale pensando al lago da cui l’aveva tirato fuori. Perché avrebbe dovuto trovarsi lì, altrimenti?
«Devi imparare ad ignorarlo, ogni tanto», esclamò Merlino, scuotendo il capo.
«Lo so, è che…». Abbassò gli occhi sull’action figure e poi con determinazione riprese: «Ho fatto delle ricerche e penso che Steve si meriti più di un funerale normale. E pensare che non avrò un posto dove poterlo piangere mi spezza il cuore».
Merlino la guardò intensamente, tanto intensamente che Alex ebbe paura che potesse leggerle l’anima. Si sollevò per spegnere il bollitore e poi le porse la mano perché si alzasse a sua volta.
Alex lo seguì in giardino e senza dire una parola lo guardò entrare nel vecchio fienile, ora utilizzato come garage e deposito per la legna. Merlino afferrò una lanterna a led e una vanga e gliele passò, poi levò un grande telo di plastica da una carriola colma di sassi e metà di ceppi di legno intagliati come piccole barchette spartane.
Il moro sollevò gli occhi per cogliere la sua reazione e Alex gli mostrò un sorriso. Non ci fu bisogno di spiegazioni: l’infermiera aveva già capito che Merlino nei giorni precedenti si era già organizzato per celebrare il suo funerale personale, con o senza di lei, e l’unica cosa che poteva pensare era che era fortunata ad averlo al suo fianco.
Accese la lanterna e gli fece luce fino alla sponda del fiumiciattolo, a qualche metro dal salice piangente. Lì Merlino lasciò la carrucola ed iniziò a scavare con la vanga, facendo un mucchietto di terra e sassolini accanto a sé. Alex avrebbe voluto aiutarlo, fare qualsiasi cosa le avesse chiesto di fare, ma Merlino agiva in silenzio, veloce e sicuro come se lo avesse fatto centinaia di volte, e Alex stringeva forte l’action figure di Steve tra le mani.
«Merlino…».
«Ci sono delle candele e un accendino in cucina, nel cassetto sotto al cordless».
Alex annuì, sollevata, e corse verso la veranda.
Aveva appena aperto il cassetto indicatole da Merlino quando sentì il rombo di una moto avvicinarsi. Si diresse verso uno dei bovindi nel salotto e guardò Artù mentre si toglieva il casco e lo passava a Cathleen. Non riusciva a vederli bene in viso a causa del buio, ma vide Artù chinarsi su di lei per posarle un bacio sulla fronte prima che si infilasse il casco. Quando la salutò ed iniziò a percorrere il vialetto Alex corse di nuovo in cucina e come se non avesse visto nulla riprese a cercare le candele.
«Alex?», esclamò Artù non appena aprì la porta, sorpreso di trovarla lì.
«Finalmente sei tornato. È stato molto scortese da parte tua andartene così, sai?».
Artù aprì la bocca per parlare, le sopracciglia aggrottate, ma Alex fu più veloce di lui e aggiunse: «Per questo più tardi mi dirai per filo e per segno che cosa è successo con Cathleen, intesi? Ora seguimi».
Il biondo si arrese e mestamente lasciò che gli facesse strada fino alla piccola fossa che Merlino aveva appena finito di scavare. Lui e il mago si scambiarono un’occhiata d’intesa.
«Tocca a te, Alex».
L’infermiera deglutì rumorosamente e si inginocchiò per posare il piccolo Capitan America nella terra nuda e fredda e trasferire un bacio dalle proprie dita al suo scudo. Artù si fece dare la pala da Merlino e lo ricoprì di terra, poi, insieme, iniziarono a posarvi sopra le pietre raccolte dentro la carriola, fino a formare una specie di piramide.
Merlino prese l’accendino dalle mani tremanti di Alex, sfiorandole i capelli con un bacio, ed iniziò ad accendere le piccole candele, bianche e rotonde, posizionandole poi nelle conche di quei ceppi tagliati. Quando furono tutti pronti, allineati sulla sponda del fiume, Artù chinò il capo e con la sua voce solenne, la stessa che aveva usato durante la cerimonia d’investitura, disse: «Rendiamo omaggio a Sir Steve, uno dei Cavalieri più nobili che io abbia mai conosciuto».
Alex, ora accanto a Merlino, con le mani strette intorno al suo braccio, lo sentì trattenere un singhiozzo a quelle parole, mentre una lacrima silenziosa faceva capolino sulla sua guancia.
«Non dimenticheremo mai il suo coraggio, la sua dolcezza, il suo cuore generoso. Che gli spiriti siano buoni con lui come lui lo è stato con noi».
Merlino tirò su col naso e seguì Artù sulla sponda del fiume, dove uno dopo l’altro fecero scivolare tutti i ceppi nell’acqua. Anche Alex ne spinse uno e guardò la fiamma della candela che trasportava allontanarsi velocemente seguendo la corrente, continuando a brillare anche nell’oscurità più profonda.
Sentì la mano di Artù stringerle una spalla e poi scostarsi, ritornando verso la veranda. Alex rimase lì ancora un po’, accanto a Merlino, sperando con tutto il cuore che quelle fossero le sue ultime lacrime di tristezza.

 

   
 
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