Libri > Hunger Games
Ricorda la storia  |      
Autore: Kary91    08/05/2015    6 recensioni
[Post-Mockingjay | Gale & Delly + i bambini nell'ospedale del Distretto 13]
“Hai paura di noi, vero?” esclamò in quel momento un altro ragazzino; uno dei più grandi, a giudicare dalla voce. “Tranquillo, ci siamo abituati.”
Quelle parole riuscirono a sbloccare qualcosa in Gale; il ragazzo tornò a voltarsi, ignorando il senso di nausea che aveva scatenato in lui il primo flash-back.
“Anche la mia mamma aveva un po’ paura, quando mi ha visto per la prima volta” spiegò con fare comprensivo una terza bambina, dai folti capelli ricci e le lentiggini; anche lei aveva il volto deformato dalle ustioni. “Ma poi le è passata. Adesso mi abbraccia sempre e mi dà un sacco di baci.”
“Non ho paura di voi” intervenne a quel punto Gale.
“Perché non glielo dimostri?” propose Delly, sorridendogli con fare incoraggiante. “Vieni qui con noi.”
Gale scosse la testa.
“Non mi piacciono i bambini.”
“Lo sai? Ci credo poco” lo contraddisse Delly con dolcezza, appoggiandogli una mano sulla spalla. Gale si scansò. “Ti ho visto con i tuoi fratellini.”
Genere: Fluff, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Delly, Dottor Aurelius, Gale Hawthorne, Mr. Hawthorne
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Figli del Giacimento - The Hawthorne Family.'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Questa storia è stata scritta per l’iniziativa “Ready, Set, Prompt!” indetta dal gruppo Facebook The Capitol”. Per scriverla ho utilizzato 3 prompt: il primo è la canzone “Esseri Umani” di Marco Mengoni. Il secondo è l’inserimento fra i personaggi di Delly e dei bimbi nell’ospedale del Distretto 13. Il terzo, infine, è la frase di dialogo “Tu ci credi in Dio?” .

 

 

«Credo negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani.»

Marco Mengoni. Esseri Umani

 

 

Credo negli esseri umani.

 

La luce bagnava leggera i punti scoperti della radura, formando pozzanghere di luce. Il vento la inseguiva, spettinando nel frattempo le chiome degli alberi e i capelli del bambino che sedeva a occhi chiusi, sullo sperone di roccia che dominava la valle.

Gale si sdraiò, sorridendo appena del brivido che s’insinuò sotto la sua felpa.

Adorava trascorrere il tempo così,  immerso in quel silenzio intervallato solo dal canto delle foglie incitate dal vento. Si sentiva avvolto da qualcosa di grande, simile a un secondo cielo dai colori diversi; un cielo situato più in basso ma che gli trasmetteva la stessa idea di libertà che avvertiva quando osservava le ghiandaie volare.

Era qualcosa più grande di lui, dei suoi dieci anni che gli calzavano a stento, per via del suo animo fiero e pratico, da persona adulta.

Più grande di suo padre, che seduto di fronte alla roccia con le dita incrociate dietro la nuca, si godeva un po’ di aria fresca dopo l’intera settimana trascorsa sotto terra a lavorare.

Più grande del Distretto 12 o della stessa Panem; semplicemente più grande.

Ogni tanto Gale aveva sentito parlare di un Dio; un essere incorporeo di una grandezza infinita, al di là della comprensione umana. Un Dio che guidava le strade degli uomini e le intersecava fra loro, le spianava o le riempiva di ostacoli. Talvolta le trasformava in un vicolo cieco, troncando il destino di chi le percorreva.

In quei momenti, circondato dal silenzio selvatico dei boschi e da quello altrettanto fiero, ma più meditabondo del padre, Gale  si trovava spesso a pensare a Dio. Si domandava se esistesse davvero qualcuno dai poteri così immensi da poter manovrare le vite degli altri; un po’ come faceva il suo fratellino Rory, quando giocava ai soldati utilizzando le pedine della sua scacchiera. Non gli piaceva per niente l’idea di qualcuno che avesse già scelto che strada fargli percorrere, da grande. Qualcuno che già sapeva come sarebbe diventato, che aspetto avrebbe avuto. Ero un pensiero che lo faceva sentire piccolo; una specie di burattino nelle mani di un gigante.

Stava pensando a Dio anche quel pomeriggio, adagiato a occhi chiusi sulla pietra.

“Papà?” domandò dopo qualche minuto, schiudendo le palpebre. “Tu ci credi in Dio?”

Il signor Hawthorne mugolò con fare meditabondo e si stropicciò i capelli, come faceva sempre quando cercava di riflettere.

“Nì” azzardò infine, tornando a intrecciare le dita dietro la nuca. “Credo che ci sia qualcosa da qualche parte, una sorta di forza invisibile che va al di là della nostra comprensione, ma non so bene cosa ci faccia là fuori. Magari è proprio questa forza che ha fatto sì che l’universo si creasse, ma non credo che si prenda la briga di controllare cosa ci succede dentro.”

Gale rifletté sulle parole del padre, mentre con la coda dell’occhio inseguiva gli spostamenti di un corvo poco distante. Gli piaceva la sua versione dei fatti; la trovava credibile e la preferiva all’idea di qualcuno che decideva come farlo diventare al posto suo.

“Vedi, ragazzo…” riprese a parlare Joel, alzandosi per poter guardare il figlio. “… Io preferisco credere negli esseri umani, piuttosto che in cose che non possiamo vedere e che fatichiamo perfino immaginare.”

“Negli esseri umani” ripeté Gale, aggrottando impensierito le sopracciglia. Non era sicuro di aver capito cosa intendesse suo padre.

Joel annuì. Tornò a sfregarsi il capo, il che indicava che stava nuovamente riflettendo.

“Ho fiducia negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani” pronunciò infine, con un sorrisetto soddisfatto. “Quelli che riescono a dimostrare di saper usare questa qui…” spiegò, toccando la fronte del figlio. “… E questo qui…” aggiunse, appoggiandogli una mano sul petto. “… E che non hanno bisogno di maschere per sentirsi a posto con se stessi.”

Gale sfiorò con due dita il punto del petto che gli aveva toccato il padre. Aggrottò le sopracciglia, rimuginando sulle sue parole; non riusciva a capire.

“Insomma, credi nelle persone come te?” chiese infine, alzandosi sui gomiti.

Il padre sorrise.

“Credo di essere un po’ troppo orgoglioso per poter far parte di questo gruppo speciale” ammise, arruffando i capelli del figlio. “E probabilmente un giorno lo sarai anche tu. Ma proprio per questo è importante che tu riesca a capire chi sono le persone fatte così; ricordatelo, ragazzo” concluse, dandogli un colpetto sulla spalla. “Ricorda di avere fiducia almeno in loro; perché è difficile tenere duro da queste parti, se non si crede più in niente o in nessuno.”

 

Nove anni dopo.

 

Se c’era qualcosa che Gale stava incominciando ad apprezzare del Distretto 13, era il suo aspetto spento e privo di vitalità. Gli abitanti non sembravano per nulla contagiati dal raptus di entusiasmo che nel corso dell’ultimo mese aveva riempito  vari Distretti, finalmente liberi dall’oppressione della Capitale.

Nel corso di quei cinque giorni di permesso che il ragazzo aveva ottenuto per poter salutare la famiglia prima di trasferirsi nel Distretto 2, quell’aria insapore l’aveva aiutato. Aveva trascorso la maggior parte del tempo da solo, immergendosi nell’unica cosa che gli permetteva di stare alla larga da scatti improvvisi e scoppi di collera ingiustificati: il silenzio.

Quel pomeriggio, tuttavia, si era dovuto presentare in ospedale per le visite mediche necessarie a giudicarlo idoneo per l’Accademia di Aeronautica[1]. L’odore di disinfettante e il pensiero dei feriti che si nascondevano dietro tendine e pareti di cartongesso gli diede la nausea per l’intera durata dell’incontro con i dottori.

Più tardi, fu costretto a sostenere anche una visita con il dottor Aurelius; Gale si rifiutò di rispondere alla maggior parte delle domande, sentenziando di non aver nulla da dire. Era seccato all’idea di essere costretto a restare lì con quel fantoccio che lo fissava  come se si aspettasse di potergli muovere le labbra con il pensiero. Era furioso, perché non poteva permettere che l’opinione di un idiota di quel calibro influisse sul suo certificato di idoneità per l’Accademia. E come se tutti quei dettagli non bastassero, le domande dell’uomo riuscivano solo a innervosirlo ulteriormente; in fin dei conti sembrava davvero che Aurelius gli leggesse nella mente.

Il dottore gli chiese se stesse avendo problemi di insonnia, e se gli capitasse spesso di fare sogni particolarmente angosciosi. Gli chiese anche se gli fosse capitato di avere incubi da sveglio. Gale scelse di non capire, dimostrandosi ancor meno collaborativo. Scacciò con facilità le domande più dolorose; le richieste di Aurelius che riguardavano i recenti combattimenti nel Distretto 2 e i bombardamenti del 12. Domande che avevano a che fare con Katniss, domande su Prim. Interrogativi che rimasero senza risposta, ma che permisero ugualmente al dottore di scribacchiare parecchio sul suo taccuino. Di tanto in tanto Aurelius fissava il ragazzo in tralice e annuiva, come coinvolto da qualche misteriosa conversazione con se stesso.

A fine incontro, Gale abbandonò incollerito la stanza e incominciò a vagare per i corridoi in cerca dell’uscita. Era rimasto in silenzio per la maggior parte del tempo, ma sapeva di non essere riuscito a nascondere l’iper-vigilanza con cui aveva incominciato a convivere da un paio di settimane a quella parte.

Cercò di scacciare quei pensieri, focalizzandosi sul corridoio che stava percorrendo; voleva mettere il maggior numero di metri di distanza fra se stesso e l’ospedale il prima possibile.

A un certo punto si bloccò, voltandosi con uno scatto nervoso. Il suo cuore incominciò a palpitare in maniera irregolare, mentre lui si irrigidiva e serrava la mascella: delle voci di bambino provenivano dall’estremità opposta del corridoio.

Gale arretrò, stringendo le mani a pugno. Un lampo giallo gli balenò di fronte agli occhi e l’odore di bruciato gli ostruì le narici.  Il boato di un esplosione gli riempì le orecchie e il ragazzo si trattenne a fatica dal coprirle con le mani per difendersi dal rumore assordante. Schiacciò la schiena contro il muro freddo, nella speranza che il contatto lo riportasse alla realtà.

Non era la prima volta che gli accadeva una cosa simile: nel corso dell’ultima settimana aveva rivissuto spesso il momento dell’esplosione, innescato da dettagli alle volte minuscoli. Un paracadute argentato intravisto in televisione; una bambina con la treccia in mensa; Rory che guardava fuori dalla finestra con sguardo vuoto.

Bastava poco per far scattare l’interruttore nella sua testa. A quel punto il meccanismo s’innescava e a Gale risultava difficile capire se ciò che vedeva fosse vero oppure solamente un’allucinazione. Sognava da sveglio. Proprio come aveva detto Aurelius.

Per questo si sforzava in tutti i modi di tenersi alla larga da ciò che rischiava di far riemergere certi ricordi. Evitava le armerie, i soldati rimasti al 13, ma soprattutto i bambini.  Fino a quel momento se l’era cavata piuttosto bene, complice la rarità di ragazzini nel Distretto. Tuttavia, in quel momento, le voci infantili continuavano a ridere e a cantare. L’allegria delle loro chiacchiere portò Gale a dubitare che si trattasse tutto di un flash-back, ma preferì controllare: era stanco di lasciarsi dominare da immagini e suoni che non esistevano.

Percorse il corridoio e s’introdusse nel reparto ustioni; gli schiamazzi provenivano dalla prima saletta sulla sinistra, che aveva la porta aperta. Fra le risate dei ragazzini, Gale riuscì a distinguere una voce femminile che stava intonando una canzone. Si avvicinò e sbirciò dentro, ignorando il bisogno quasi fisico di allontanarsi.

La stanza era piccola e la maggior parte dello spazio lo occupava un grosso tappeto bianco, su cui erano seduti in semi-cerchio cinque ragazzini, due maschi e tre femmine. In mezzo a loro, Delly percuoteva corde a caso su una chitarra molto piccola. Aveva addosso una strana tuta troppo larga e una parrucca ricciolina che aveva tutta l’aria di provenire dal guardaroba di qualche megera Capitolina. Con voce allegra ed espressioni entusiaste, Delly canticchiava canzoni in rima apparentemente inventate, ispirandosi agli oggetti che aveva intorno: libri per bambini dall’aspetto consunto, pupazzi, qualche macchinina. Di tanto in tanto s’interrompeva per interpellare i ragazzini o fargli ripetere qualche frammento di canzone. Solo in quel momento Gale fece caso all’aspetto dei piccoli pazienti. Una delle bambine aveva la testa ricoperta da un fazzoletto: il lato sinistro del suo volto era ricoperto da ustioni ormai in fase di guarigione, che sfregiavano in maniera irreversibile i suoi lineamenti. I due maschietti avevano rispettivamente un braccio ed entrambe le gambe fasciate e una ragazzina aveva persino una benda sugli occhi.

Gale arretrò d’istinto, tornando a irrigidirsi. Il disco rotto nella sua testa riprese a ronzare, riproducendo grida, boati e crepitii di fiamme. Non era difficile intuire che la maggior parte di bambini provenisse dal Distretto 12: i loro tratti fisici lo confermavano. Eppure, la sua mente incominciò a sovrapporre la loro immagine alla disgrazia di Capitol City. Ai paracadute che esplodevano fra i ragazzini e poi sulla squadra di soccorso, mutilando vite al suono di bombe. Le sue bombe.

Colpì la parete con un pugno, senza riuscire a trattenersi. Sei espressioni spaventate si voltarono di scatto verso di lui; nei loro occhi Gale intravide la stessa paura che leggeva in quelli di Posy e Vick dalla notte dei bombardamenti, le volte in cui sentivano un rumore troppo forte. La stessa espressione d’allarme che catturava il volto di Rory, e anche il suo, quando venivano svegliati da un fragore improvviso.

Fece un passo indietro, dando le spalle a Delly e ai piccoli ustionati. Era sul punto di andarsene, ma l’esclamazione di una delle bambine lo trattenne; aveva una vocetta tersa di innocenza, così simile a quella di Posy. Così simile a quella di Prim.

“Eccolo, è arrivato!” stava esclamando concitata la piccola. “È arrivato un Principe Azzurro proprio come mi avevi promesso tu, Delly!”

Qualcuno dei bambini si mise a ridere. Gale rimase immobile, le spalle ancora rivolte alla stanzetta.

Delly lo chiamò per nome e gli chiese di raggiungerli, ma il ragazzo non ne aveva voglia. Il bisogno di evitare quei ragazzini era tanto forte quanto il senso di colpa che l’attanagliava sin da quando aveva saputo di Prim.

“Hai paura di noi, vero?” esclamò in quel momento un altro ragazzino; uno dei più grandi, a giudicare dalla voce. “Tranquillo, ci siamo abituati.”

Quelle parole riuscirono a sbloccare qualcosa in Gale; il ragazzo tornò a voltarsi, ignorando il senso di nausea che aveva scatenato in lui il primo flash-back.

“Anche la mia mamma aveva un po’ paura, quando mi ha visto per la prima volta” spiegò con fare comprensivo una terza bambina, dai folti capelli ricci e le lentiggini; anche lei aveva il volto deformato dalle ustioni. “Ma poi le è passata. Adesso mi abbraccia sempre e mi dà un sacco di baci.”

“Non ho paura di voi” intervenne a quel punto Gale.

“Perché non glielo dimostri?” propose Delly, sorridendogli con fare incoraggiante. “Vieni qui con noi.”

Gale scosse la testa. I suoi lineamenti si contrassero in un’espressione distaccata.

“Non mi piacciono i bambini.”

Delly affidò la sua chitarra in miniatura a uno dei ragazzini e si alzò per raggiungerlo.

“Lo sai? Ci credo poco” lo contraddisse poi con dolcezza, appoggiandogli una mano sulla spalla. Gale si scansò. “Ti ho visto con i tuoi fratellini.”

Il ragazzo non rispose; il suo sguardo era rivolto a una delle bambine, quella con il volto ustionato e il fazzoletto sulla testa. Un po’ intimidita, la piccola venne loro incontro, scrutandolo con diffidenza.

“Sei davvero il Principe Azzurro?” chiese, allacciando le braccia alla vita di Delly. La ragazza le accarezzò intenerita i capelli.

Gale la fissò con distacco, prima di chinarsi per essere alla sua altezza; scosse la testa.

“Sono solo un soldato” ammise, stringendosi nelle spalle. “Ma sono certo che prima o poi troverai il tuo Principe Azzurro. Hai proprio l’aria da principessa.”

La bambina ridacchiò, affondando poi il volto nella tuta troppo grande di Delly. Un paio dei ragazzini si alzarono per raggiungerli.

“Come ti chiami?” chiese a quel punto la piccola, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.

“Mi chiamo Gale. E tu?”

“Christy” rispose la bambina, con voce timida. “E lui è mio fratello Omhar” aggiunse, indicando il ragazzino con un braccio fasciato. “Siamo del Distretto 12.”

Gale studiò i volti dei due piccoli, cercando qualcosa che l’aiutasse a riconoscerli. Non ci riuscì,  ma la loro carnagione scura e i capelli neri e lisci di Omhar suggerivano che fossero originari del Giacimento.

“Dai, vieni dentro” cercò ancora di incoraggiarlo Delly, posandogli una mano sull’avambraccio. Questa volta, il giovane non si scansò. “I ragazzi vanno pazzi per i visitatori. Conoscono tantissime barzellette e adorano raccontarle; vero?” chiese conferma, facendo l’occhiolino a Omhar.

“Verissimo!” confermò Christy, prendendo Gale per mano. Lo trascinò fino al centro del tappeto e quattro piccoli curiosi li circondarono. La bambina con le lentiggini, notò il ragazzo, faceva del suo meglio per nascondere la mano rovinata dalle fiamme. Il ragazzino al suo fianco, invece, era senza maglietta e sembrava ignorare completamente la fasciatura che gli copriva il busto.

 

“Come sei alto!” esclamò in quel momento Christy, guardandolo da sotto in su. Delly si mise a ridere.

“Perché non inventiamo una canzone nuova anche per il Principe Azzurro? Il nostro ukulele conosce un sacco di melodie” esclamò poi la giovane, riappropriandosi della chitarrina.

Omhar sbuffò.

“Basta cantare!” sbottò, appoggiandosi i gomiti sulle ginocchia. Aveva l’aria imbronciata di Rory e il naso un po’ a L, come quello di Vick. Aveva ‘Giacimento’ scritto sul volto almeno quanto Gale e i suoi fratelli. “Posso dirti una barzelletta?” chiese poi il ragazzino, fissando incerto.

Gale non seppe cosa rispondere; in quel momento, l’ultima cosa che aveva voglia di fare era fingere di divertirsi.

Venne salvato da una mano appoggiata sul suo ginocchio; guardò verso il basso. La bambina con la benda sugli occhi lo stava usando come appiglio per alzarsi.

“Voglio vedere anch’io il Principe Azzurro” sussurrò, senza lasciarlo andare. L’impaccio si fece strada in Gale, che tornò a serrare nervosamente i pugni. Delly, accorgendosi del suo disagio, accorse in suo aiuto.

“Dovresti chinarti” consigliò, accovacciandosi a sua volta. “Così anche Faith può riuscire a vederti.”

Il ragazzo eseguì, ancora confuso. Adesso era alla stessa altezza della ragazzina. La piccola tese le mani verso di lui; portò le dita sul volto di Gale e lo studiò con attenzione, premendo sulle sue guance e toccandogli la fronte.

Gli altri bambini si erano chiusi in un silenzio contemplativo, così come Delly, che osservava quella scena con un sorriso e un luccichio di commozione negli occhi. Christy e i due maschietti risero, quando la piccola passò le dita sul naso di Gale e poi sulle labbra, esaminandone la forma. Anche la ragazzina sorrise con fare vispo; aveva dei bellissimi capelli biondi che le arrivavano alle spalle e un visetto esile con lineamenti aguzzi, da folletto. Sotto la benda, Gale ne era certo, probabilmente brillavano due occhi azzurri. Come quelli delle bambine appartenenti al ceto dei Commercianti del 12.

La ragazzina infilò le mani fra i suoi capelli e poi si appoggiò alle sue spalle.

“Christy ha ragione” sussurrò infine, rivolgendogli un sorrisetto malandrino. “Forse sei davvero il Principe Azzurro: sei bellissimo.”

A quel punto l’abbracciò. Gale avvertì un nodo all’altezza del petto e il suo nervosismo salì d’intensità, mentre le braccia della piccola si agganciavano al suo collo. L’affetto spontaneo del suo gesto gli bruciò addosso, quasi il ragazzo non si sentisse meritevole di ricevere una simile attenzione.

Si separò dalla bambina e tornò ad alzarsi in piedi.

“Come ti chiami?” chiese a quel punto, arruffandole i capelli. La piccola sbuffò e se li sistemò alla meno peggio.

“Faith” rispose poi con vivacità, allacciandosi alla sua mano. “Significa fiducia che è una cosa bella, perché la mia mamma dice sempre che se io credo davvero in una cosa, quella prima o poi arriverà. E io vorrei tanto poter tornare a vedere” aggiunse, posandosi le dita libere sulla benda.

Gale ricambiò la stretta della bambina; il nodo all’altezza del petto si fece più aggrovigliato. In quel momento, sentì un singhiozzo; si voltò verso Delly, che sorrideva ma aveva le guance rigate dalle lacrime.

Subito, Christy e un altro bambino si alzarono per andare ad abbracciarla. Gale, al contrario, avvertì il bisogno improvviso di allontanarsi; in quel periodo, sentire le persone piangere lo rendeva ancor più nervoso di quanto non accadesse già di solito.

“Scusami” mormorò Delly, rivolta a Gale. Sorrise e si soffiò il naso in un fazzoletto variopinto annodato a tanti altri, provenienti dalla sua tasca. Quando incominciò a tirarne fuori una decina, i bambini scoppiarono a ridere. “Ogni tanto mi capita.”

Non appena la ragazza si fu ripresa, Christy e il suo amichetto tornarono nel semi-cerchio; Omhar aveva preso l’ukulele di Delly e stava strimpellando note a caso, canticchiando quello che aveva tutta l’aria di essere il testo di una barzelletta. Quando giunse alla fine gli altri bambini ridacchiarono e lo incitarono a recitarne un’altra.

Delly si sedette sul tavolo addossato alla parete e fece cenno a Gale di imitarla.

“Vengo qui tutti i giorni” mormorò poi, sorridendo in direzione dei ragazzini. Nel suo sguardo era presente una punta di tristezza che stonava in quel volto generalmente allegro. “Faith e i suoi famigliari erano i miei vicini di casa, nel Distretto 12. Ha perso il papà e una sorellina durante i bombardamenti… Così come io ho perso i miei genitori.”

La sua voce s’incrinò leggermente. Interruppe il racconto, passandosi il dorso di una mano sugli occhi. Gale si appoggiò al bordo del tavolo e incrociò le braccia sul petto, quasi a volersi difendere dal dolore che avvertiva nelle sue parole.

“Mi dispiace” mormorò, evitando di ricambiare lo sguardo della ragazza. Lo pensava veramente; ogni persona rimasta vittima nei bombardamenti era parte di quel fardello che gli gravava sulle spalle; i genitori di Delly non facevano eccezione.   

In quel momento la giovane lo fissò con una tenerezza insolita, che lo fece sentire a disagio. Non era poi così differente dal modo in cui guardava i piccoli pazienti del reparto ustioni.

“Non devi dispiacerti, non è stata colpa tua” replicò infine, posando una mano su quella del ragazzo. La strinse brevemente e poi lo lasciò andare, come se sapesse che osando di più avrebbe finito per l’innervosirlo.

“Io e mio fratello avremmo potuto fare la stessa fine di mamma e papà” proseguì ancora Delly, scuotendo lentamente la testa. “Nicky, il mio fratellino, potrebbe essere seduto qui, assieme a questi bambini, con il corpo e il viso pieno di ustioni. Invece sta benissimo; e se riesco a sorridere così spesso nonostante la perdita dei miei genitori faccia ancora così male, è soprattutto grazie a lui. Per questo, vengo qui ogni giorno” concluse, tornando a fissare Gale. “Per trovare altri motivi per sorridere. Mi basta guardare questi bambini mentre giocano o sentire le loro risate, per ritrovare un po’ di fiducia. In me, in loro e negli altri. E se ogni tanto ritorna il dolore o mi viene da piangere, beh, che importa? Siamo umani, no? I bambini questo lo capiscono.”

Gale, che fino a quel momento aveva ascoltato in maniera distratta, si voltò verso la ragazza. Quella parola, umani, incominciò a stuzzicarlo come aveva fatto poco prima una frase di Faith, quando la bambina gli aveva parlato del suo nome.

Ripensò alla sua infanzia, alle domeniche trascorse nei boschi in compagnia del padre. Ripensò a quanto avesse imparato in quei momenti solo osservando e ascoltando. E ricordò una conversazione in particolare avuta con il padre, grazie alle parole di Delly.

 

“Vedi, ragazzo… Io preferisco credere negli esseri umani, piuttosto che in cose che non possiamo vedere e che fatichiamo perfino immaginare. Ho fiducia negli esseri umani che hanno il coraggio di essere umani.”

 

Suo padre, un tempo, aveva riposto la sua fiducia in quelle persone che avevano il dono di sembrare forti anche quando si mostravano vulnerabili. Persone che non avevano paura di mettere a nudo la loro fragilità, le loro debolezze, pur di tendere una mano verso gli altri. Persone che davano e non erano interessate a prendere. Persone come Delly.

“Non tutti riescono a esserlo” osservò all’improvviso, parlando in tono di voce duro. “Umani” specificò poi, in risposta allo sguardo interrogativo della ragazza.

Delly scosse la testa.

“Io credo di sì, invece” rispose con un sorriso, prima di esitare. “Penso di sapere cosa stai vivendo in questo periodo” aggiunse in tono di voce ancora più basso, come se avesse paura di infastidirlo. “Molti bambini sono morti per errore e tu non riesci a darti pace. Ma ne hai salvati altrettanti. Loro…” si fermò, per indicargli i ragazzini, ancora intenti a parlottare tra loro. “… Li hai salvati tu. E  potrai aiutarne molti altri, se solo…”

“Non Prim” la interruppe con freddezza Gale guardando nel vuoto, la mascella serrata e le spalle irrigidite.  “Non ho salvato Prim.”

Una lacrima ritardataria rigò una guancia di Delly, mentre il ragazzo si scostava dal tavolo per raggiungere la porta.

“Lei non vorrebbe vederti così” mormorò a quel punto la giovane, allungando una mano per trattenerlo; non lo fece, limitandosi ad asciugarsi gli occhi umidi con una manica. 

Nel frattempo, anche i bambini si erano alzati per raggiungerli. Christy scoccò un’occhiata impensierita prima a Delly, poi a Gale, notando la tensione nel volto di entrambi.

“Prim crederebbe in te. E ci credo anch’io” concluse la ragazza, convincendosi a sfiorare una spalla di Gale.

“Anch’io!” esclamò in quel momento Christy, sorridendo intimidita al ragazzo.

“Anch’io!” la imitarono all’unisono Omhar e Faith, alzando una mano.

Quando anche gli ultimi due ragazzini ripeterono la stessa cosa, il nervosismo di Gale aumentò fino a farsi opprimente. Gli mancava l’aria e avvertiva il bisogno di sfuggire a quella situazione, all’affetto spontaneo di quelle persone  verso qualcuno che nemmeno conoscevano.

Perché quei ragazzini non sapevano niente di lui e lo stesso valeva per Delly; qualcuno come lui non si meritava un calore simile, non in quel momento. Non quando era lui stesso a non volerne. Non quando Prim Everdeen era morta per colpa sua.

Abbandonò la stanza, ignorando i richiami di Delly e dei bambini. Attraversò in fretta il corridoio e si chiuse le porte dell’ospedale alle spalle, prima di fermarsi per riprendere fiato. Appoggiò la schiena alla parete e si passò le mani sul volto, premendo con forza come se, così facendo, potesse schiacciare le immagini che stavano ricominciando a tormentarlo; i paracaduti che esplodevano, i cadaveri dei bambini, Katniss ricoperta di ustioni, la signora Everdeen che gridava, in lacrime,  il nome della sua secondogenita. Rory che piangeva fra le braccia di sua madre.

Strinse i pugni fino a quando le sue nocche non impallidirono; strinse fino a quando le immagini non si fecero sfuocate e il battito del suo cuore non recuperò regolarità. Cercò di calmarsi frugando fra i ricordi della sua infanzia, alla ricerca di qualche pomeriggio sereno trascorso in compagnia del padre. Ancora una volta, ripensò alla speranza che Joel Hawthorne aveva sempre riposto in lui, così come nelle persone che avevano il coraggio di mostrarsi umane e fragili pur di dar retta alla loro testa, al loro cuore. Se avesse saputo cos’era successo durante la rivolta, pensò, sarebbe senz’altro rimasto deluso da lui, che pur di lottare per liberare la sua gente aveva perso di vista la sua umanità.

Le lacrime gli appannarono gli occhi, ma il ragazzo le ricacciò indietro con rabbia. Tuttavia, quando ne  sentì ricadere una lungo lo zigomo, un sorriso amaro gli piegò le labbra: in fondo allora qualcosa di umano ce l’aveva ancora.

Eppure lui non lo sentiva.

“Gale!”

Una vocetta esitante lo raggiunse alle sue spalle. Gale sospirò e fece finta di niente, riprendendo a camminare; era deciso a ignorare quel richiamo, convinto che fosse Christy, ma quando si voltò riconobbe la corporatura minuta di Faith e i suoi capelli biondi. La bambina era a piedi scalzi e camminava lentamente, con le mani tese di fronte a sé.

“Guarda che lo so che sei qui” mormorò, azzardando un paio di passi in avanti.

Sbuffando, il ragazzo fece retro-front per raggiungerla. La afferrò per la vita giusto in tempo, per evitare che la piccola andasse a sbattere contro una colonna. Quando la bimba sentì la presa del ragazzo si mise a ridere.

“Trovato!” esclamò con un sorriso malandrino, portando l’indice verso di lui e posandoglielo sul collo.

“Non dovresti uscire dall’ospedale da sola” la rimproverò il ragazzo in tono di voce atono.

La bambina fece spallucce.

“Lo so, ma dovevo dirti una cosa importante” spiegò, portandosi le mani sulla benda. “Prima sei scappato via e non ci sono riuscita.”

A quel punto, si sfilò la fascia dagli occhi. Gale fece per impedirglielo, ma non fu sufficientemente veloce. Fu così che fece conoscenza con gli occhi della piccola Faith, che erano azzurri come aveva previsto, ma di una tinta chiarissima, chiaro indice della sua cecità. Le ustioni intorno agli occhi non lasciarono dubbi nemmeno sull’origine di quel suo problema.

“Adesso ti dico un segreto” sussurrò a quel punto la ragazzina, appoggiandosi a lui. Gli toccò il volto per cercare l’orecchio e quando lo trovò riprese a bisbigliare. “Il dottore non vuole che mi tolgo la fascia; forse ha paura che capisco che non ci vedo per davvero e non solo perché ho questa cosa sugli occhi. Ma sai che ho scoperto? Che è vero, sì, che sono cieca, ma non è che sia proprio tutto nero. Vedo come delle ombre” spiegò, agitando una mano per aiutarsi a descriverle. “Tipo quelle che ci sono sui muri quando i grandi accendono le candele. Hai capito? La mia mamma aveva ragione. Se io credo davvero in una cosa, quella prima o poi si avverrà.”

Gale non poté fare a meno di sorridere.

“Ne sono contento” ammise, mettendosi a braccia conserte. “Il tuo nome è proprio magico.”

La bambina ridacchiò.

“Vuoi sapere in che altro credo?” domandò a quel punto Faith, indirizzandogli un’occhiata furbetta. Il sorriso di Gale si estese; gli riusciva impossibile non pensare a Posy, guardandola sorridere così.

“Spara.”

“Io credo che tu sei per davvero un Principe Azzurro” dichiarò con convinzione la bambina. “E credo anche che sei buono. Buono come era il mio papà.”

Gale osservò a lungo la bambina, incapace di risponderle. Il nodo alla gola era ricomparso e le lacrime, che poco prima aveva cocciutamente tentato di ricacciare indietro, tornarono a stuzzicargli gli occhi.

Sorrise, prima di sfiorare con le labbra i capelli della bambina.

“Ed io credo in te” rispose infine, arrendendosi all’umanità che stava incominciando a sentire nuovamente sua.  “Come ci credeva mio padre.”

 

 

«Ma che splendore che sei,

nella tua fragilità.

E ti ricordo che non siamo soli

a combattere questa realtà.»

 

Esseri Umani. Marco Mengoni

 

 

 

Note Finali.

Questa è la prima volta che scrivo di Delly “da grande” (in Come un Pittore e I suoi occhi non dicono bugie era ancora una ragazzina) e sono contenta di essere finalmente riuscita a farla interagire con Gale, perché era da un sacco che sognavo di farlo. Questo perché nella mia testa Delly diventerà la maestra di Joel Jr. alle scuole elementari del Distretto 12 (ce la vedo troppo bene con i bambini!) e avrà spesso a che fare con Gale. Mi piace immaginarli piuttosto amici.

Gale in questa storia si comporta in maniera un po’ atipica, ha bruschi cambi di umore e pare mestruato, ma sta passando un periodo di crisi per via di ciò che è successo a Capitol City (le bombe utilizzare sui bambini e la morte di Prim). Come il Dottor Aurelius sicuramente avrà indovinato, soffre di Disturbo Post-Traumatico da Stress e da questo dipendono la sua irritabilità e gli scoppi di collera improvvisa, l’iper-vigilanza, il fatto che riviva di frequente l’evento traumatico in questione (negli incubi o tramite episodi “flash-back”) e il fatto che cerchi di evitare gli stimoli associati al trauma (come per esempio i bambini) [FONTE]. Il PTSD colpisce spesso i soldati e difatti viene talvolta chiamata anche “Nevrosi da guerra” [fonte: la nostra cara amica Wikipedia]. È un argomento molto delicato e spero di non averlo trattato erroneamente o banalmente, in tal caso vi chiedo scusa. Ah! Sia ben chiaro che la morte di Prim non dipende affatto da Gale secondo il mio punto di vista; è lui che si sente colpevole per via delle bombe che ha ideato (assieme a Beetee!), per questo nel testo viene menzionata questa cosa.  Che altro posso aggiungere? I bimbi del reparto ustioni provengono quasi tutti dal Distretto 12 e sono rimasti feriti durante i bombardamenti. Nicky, il fratellino di Delly, si chiama in realtà Nicholas e l’ho scelto perché nel mio head-canon lei ha un bimbo che si chiama allo stesso modo e ho pensato che potrebbe aver scelto di chiamarlo come il fratello. E per Faith ho preso un po’ ispirazione dalla piccola Flam di “Braccialetti Rossi” *\*


Grazie infinite a chiunque abbia letto questa storia!


 

 

 

 



[1] Nel mio head-canon, Gale si trasferisce nel Distretto 2 per frequentare un’Accademia di Aeronautica militare e diventare pilota. Prima di partire, torna nel Distretto 13 per salutare i suoi famigliari che sono ancora lì e fare le visite mediche necessarie per il certificato di idoneità.

   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: Kary91