Disclaimer:
I personaggi di Lady
Oscar non mi appartengono e sono proprietà esclusiva di
Ryoko Ikeda.
III
– 8 Aprile 1775
«Oscar,
fa un caldo insopportabile, se
proprio vuoi che ci alleniamo con la spada, prima io andrei a
rinfrescarmi un
po’ al fiume. Tu vieni?
Distesa
sullo spiazzo erboso nella
frescura dell’ombra pomeridiana proiettata da un imponente
salice, i gomiti
puntati a terra a mantenersi appena sollevata, i piedi scalzi e i
pantaloni
arrotolati fino al ginocchio, gli rivolge uno sguardo di finto
disappunto.
«Se
proprio devi … vedi di non metterci
tutto il pomeriggio, o dovrò concludere che temi il
confronto!»
Lui,
in piedi davanti a lei, le braccia
conserte, si esibisce nella migliore espressione offesa che gli riesca.
«Oscar,
abbiamo appena finito di mangiare,
mi pare più che normale, soprattutto con questo caldo
opprimente, che uno si
senta appesantito e un duello alla spada non sia in cima alla lista dei
desideri, non ti pare?»
Gli
fa eco la risata divertita di lei.
«Appesantito?
Mi pare un eufemismo.
Diciamo pure che con quello che hai ingollato si sarebbe potuto sfamare
un
intero reggimento!»
«Non
mi risulta che godere di ottimo
appetito sia diventato un delitto. Di contro qualcuno - non io, ben
inteso -
troverebbe piuttosto disdicevole una donna che lasciasse scoperte le
gambe nude
fino al ginocchio in presenza di un uomo!»
La
guarda serio lui, poi fa scivolare lo
sguardo verso il basso e volutamente indugia sulle lunghe gambe snelle,
quasi
ad accarezzarle. Infine risale al viso per godersi la reazione
imbarazzata di
lei, che le colora le guance in un modo che trova irresistibile e le fa
sgranare appena gli occhi in un moto di stupore.
Pago
dell’efficacia della sua vendetta, si
gira incamminandosi verso il fiume e ormai al riparo dalla sua vista,
non
riesce a trattenere un sorriso sornione.
Appare
disorientata Oscar, ancora sorpresa
dalla sua stessa reazione, così poco da lei, così
femminile quando ha percepito
lo sguardo intento di lui su di sé. Le è capitato
spesso ultimamente che la
vicinanza del suo amico di sempre provocasse in lei emozioni
sconosciute quanto
inequivocabili. Si è anche ritrovata spesso a guardarlo non
vista, a studiarne
le fattezze, a trovarlo decisamente bello, a chiedersi che effetto
farebbe la
consistenza dei suoi muscoli al tatto. Come adesso. Adesso che lo
osserva a una
ventina di passi da lei, di spalle, l’acqua a lambirgli le
cosce fasciate nel
calzoni, e lui chino a tuffare appena la testa per poi rialzarla di
scatto,
disegnando nell’aria un arco quasi perfetto di gocce sospese.
Le ciocche
bagnate e lisce, aiutate dalle mani di lui a scompigliarle
vigorosamente per
privarle dell’eccesso di acqua, tornano a formare riccioli
scomposti.
Da
quella distanza non può vederlo, ma
immagina l’acqua residua che si raccoglie
sull’estremità delle ciocche formando
gocce che si gonfiano e si appesantiscono con estenuante lentezza fino
a
quando, non potendosi più opporre al richiamo della
gravità, finiscono per
cadere ricongiungendosi in rigagnoli che corrono sulla schiena nuda.
Pensa che
in quel momento desidererebbe poterne seguire il percorso sinuoso con
un dito,
osservarle mentre acquistano velocità nella loro inesorabile
discesa verso il
basso, fino a scomparire, assorbite dalla stoffa del bordo dei calzoni,
linea
di demarcazione oltre la quale non possono spingersi, dove lei invece
involontariamente si avventura, ritrovandosi a disegnare nella mente la
simmetria delle natiche e la muscolatura armoniosa delle gambe.
Quando
lui si gira per riguadagnare la
riva e recuperare la camicia che ondeggia dalla fronda bassa di un
albero lì
vicino, lei distoglie lo sguardo repentinamente, troppo in
verità, tanto da
farle temere che lui l’abbia colta sul fatto. Il solo
pensiero le provoca
istantaneo fastidio, nonché imbarazzo.
Per
la durata dei pochi passi che ancora
li separano, lei cerca di nascondere dietro a un’espressione
neutra e
noncurante tutti i pensieri indicibili che ha avuto su di lui fino a
poco
prima.
Ma
lui ha fatto in tempo a intercettarlo
il suo sguardo, appena prima che deviasse altrove, e ora si sta
chiedendo da
quanto tempo lei lo stesse osservando e se le fosse piaciuto farlo.
Gongola
nell'eventualità. Si dirige a passi decisi verso di lei
senza però dare l'idea
di affrettarsi, vuole vedere se sul suo viso ci siano i segni di
emozioni che
ultimamente intuisce, senza darle il tempo di cancellarle. E’
da un po’ che va
avanti questo gioco al gatto e al topo, fatto di sguardi rubati
pensando che
l’altro non se ne accorga e di contatti casuali, che di
casuale hanno poco, almeno
per quanto lo riguarda.
Le
si para davanti fingendo indifferenza,
non gli sfugge che lei elude il contatto visivo, poi si accorge che in
realtà
il suo sguardo è fisso sulla sua camicia che ha indossato
sul corpo ancora
umido aderendo all'ampio torace senza lasciare molto all'immaginazione.
«C'è
qualcosa che non va nella mia camicia
forse ?».
Un
modo come un altro per farle intendere
che ha capito dove fosse rivolta la sua attenzione. Le gote di lei
s'infiammano
e lui se ne compiace.
«E'
bagnata fradicia. Hai forse fatto il
bagno vestito?».
«Mi
sono solo dato una rinfrescata. I
vestiti umidi addosso mi daranno sollievo per un po', almeno il tempo
sufficiente a batterti spero!».
Lei
si alza con un movimento agile e
fluido e recupera le spade di entrambi appoggiate al tronco del salice
poco
dietro, gli rende la sua e si mettono finalmente in posizione.
«Allora
cominciamo. In guardia!».
«Come
vuoi tu! Comunque, se davvero avessi
voluto farmi un bagno non avrei potuto evitare di farlo vestito, non
trovi?
L'alternativa sarebbe stata denudarmi davan...».
Lo
zittisce con un primo fendente che lui
intercetta appena in tempo e capisce che lei è piccata e
farà sul serio. Lo
vuole punire per la sua impertinenza, gli toccherà
impegnarsi. E la raduna si
riempie e risuona dello sferragliare delle spade che si oppongono,
dello
stridere del ferro contro ferro nei respingimenti, delle grida
liberatorie con
cui ciascuno accompagna i colpi portati all'avversario. Nella dinamica
del
duello si allontanano e si avvicinano come in una sorta di strana danza
che ha
un che di sensuale nei corpi che si sfiorano, nei respiri che
accelerano e si
mischiano. Agilità ed eleganza contro forza e potenza. Lui
è chiaramente in
svantaggio e tenta il tutto per tutto con una serie di affondi veloci
che la
costringono ad indietreggiare. Lei mantiene comunque un buon controllo,
poi è
un attimo e perde contatto col terreno. Il piede d'appoggio
è finito in un
avvallamento più profondo che la fa sbilanciare
all'indietro, è un lampo capire
che la caduta è inevitabile. Molla la presa sull'arma per
avere le mani libere
e cercare di attutire l'impatto, incredula guarda il suo avversario,
l'angolo
della bocca piegato all'insù nell'accenno di un sorriso
irriverente di chi ha
capito di aver ormai guadagnato la vittoria. Allora cambia idea e
protende le
braccia in avanti, fino a raggiungere un appiglio, un lembo della
camicia di
lui che tira a sé con tutta la sua forza destabilizzandolo e
costringendolo a
seguirla nella rovinosa discesa al suolo. Per non dargliela vinta. Lui
sgrana
gli occhi per la sorpresa di una mossa che non si aspettava per poi
chiuderli
forte in attesa dell'impatto, avendo cura all'ultimo momento di portare
il
braccio dietro la testa di lei nel riflesso incondizionato, quasi
ancestrale,
di proteggerla.
«Oscar,
stai bene? Sei ferita?».
Glielo
ha chiesto tenendo gli occhi ancora
chiusi, ma l'assenza di una risposta che non arriva lo costringe ad
aprirli.
Trova quelli di lei che lo guardano con un'intensità che non
le aveva mai visto
prima. La chiama di nuovo, piano, e le rifà la stessa
domanda, quasi sottovoce.
Non vede sangue né ferite, ma vuole sentirselo dire da lei.
Lei
che continua a guardarlo senza
rispondere. E lui che sente crescere la paura e che adesso la implora.
«Dio
Oscar, ti prego, dimmi che va tutto
bene».
E
lei finalmente glielo dice. A modo suo.
Accostando le labbra alle sue, in un bacio appena sfiorato. Lui rimane
immobile, incredulo. E lei lo fa di nuovo, e ancora, e ancora.
Finché lui non
ha più dubbi sul desiderio che le legge negli occhi, e
allora è lui a catturare
le sue labbra in un contatto più profondo, ad inviarla a
offrirgli il sapore
della sua bocca. E lei lo segue e lo assaggia allo stesso modo.
Finché il
respiro accelera e la passione li rende consapevoli della vicinanza del
corpo
dell'altro, del petto di lui appoggiato al suo, della
virilità di lui che le
preme contro. Ed è ancora lei, senza mai abbandonare le sue
labbra, ad
afferrare la camicia di lui all'altezza della vita e a strattonarla per
liberarla dai calzoni e lasciar scorrere le mani al di sotto, risalendo
la
schiena lentamente, a palmi aperti, ascoltando il tremito dei muscoli e
la
pelle bollente e i suoi sospiri di piacere che le danno un senso di
potenza mai
provato prima.
«Oscar,
io ti voglio. Ti voglio adesso».
Il
suono della voce resa roca dal
desiderio, il verde dei suoi occhi divenuto cupo come le onde del mare
in
tempesta, sarebbe così facile lasciarsi travolgere e portare
via. Invece
all'improvviso le mani di lei premono sul suo petto a spingerlo via,
gli occhi
a implorarlo di fermarsi. Lui per tutta risposta le ruba un ultimo
interminabile bacio, pregno di tutta la passione che non si
è mai potuto
permettere di mostrarle, prima di arrendersi a un messaggio di rifiuto
inequivocabile.
Si
solleva lentamente dal suo corpo, quasi
a voler ritardare il momento del distacco e aspetta che lei si
ricomponga prima
di tornare a guardarla con occhi feriti che parlano di un dolore
più grande di
quanto si può dire, presagendo l'amara conclusione di una
caduta che non ha
lasciato segni sulla pelle ma che ha inciso ferite profonde in ciascuno
di
loro, impossibili da rimarginare.
«Tutto
questo non è mai successo. E non
succederà mai più».
Lo
sguardo che accompagna le parole è
altrettanto eloquente, poi si gira incamminandosi verso Caesar, monta
in sella
e parte al galoppo senza aspettarlo.