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Autore: KindOfMadness    26/05/2015    1 recensioni
Jack sentiva qualcosa bruciare nel petto: un misto di alcool che gli logorava il fegato sempre di più ad ogni sorso ed un dolore, quasi come un pugno, che gli squarciava l'addome. Non aveva idea di cosa si trattasse esattamente, ma sapeva che era lancinante e che di certo non aveva provato mai niente del genere in vita sua.
"Cazzo, smettila di comportarti come una sedicenne ed alzati" si ripeteva a bassa voce il chitarrista.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alex Gaskarth, Jack Barakat, Rian Dawson, Un po' tutti, Zack Merrick
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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"I miss you, I'm so sorry" 
 
Prologo: 
In pochi secondi buttò nel lavandino la padella con ancora l'uovo all'interno, afferrò con la mano sinistra la bottiglia di tequila ancora appoggiata sul piano bar della cucina completamente sporca e si sedette di fronte allo schermo del suo computer ancora aperto su quella pagina.  
Un unico tweet sullo schermo del suo nuovo computer regalatogli dal migliore amico. Quel migliore amico con cui era andato a letto poco prima.  
Jack Barakat si sentiva come se nell'arco di pochi secondi, tutto il suo mondo si fosse rivoltato contro di sé. 
Alex? Il suo Alex Gaskarth? Il ragazzo che ancora era ricoperto soltanto da qualche strato di lenzuolo nella camera a pochi metri da lui?  
Sentiva qualcosa bruciare nel petto: un misto di alcool che gli logorava il fegato sempre di più ad ogni sorso e un dolore, quasi come un pugno, che gli squarciava l'addome. Jack non aveva idea di cosa si trattasse, ma sapeva che era lancinante ed era certo di non aver provato mai niente del genere in vita sua.  
Le lacrime si facevano strada sul suo viso coperto da un sottilissimo strato di barba incolta. 
"Cazzo smettila di comportarti come una sedicenne e alzati" si ripeteva a bassa voce il chitarrista, continuando a sbattere i pugni sul tavolo quasi come un gesto di sollievo. 
Il rumore doveva aver svegliato il cantante, che ancora si grattava il capo quando vide la scena patetica del suo migliore amico con i gomiti conficcati sul piano del tavolo, la testa tra le mani e una bottiglia di tequila rovesciata accanto a lui. Il computer aperto a neanche un metro di distanza da lui. 
Alex si continuava a strofinare gli occhi cercando in tutti i modi di scacciare davanti a sé l'immagine dell'amico disperato. 
"Jack io..." non riusciva neanche a terminare la frase. In verità Alex Gaskarth non riusciva a fare un accidenti in quel preciso momento, o per lo meno niente che avrebbe avuto senso.  
Jack si svegliò di colpo da quello strano stato di trance in cui era sprofondato e da cui sembrava non riuscire a risalire a galla e non riusciva a distogliere i suoi grandi occhi da quelli di Alex: un paio di grandi occhi scurissimi e colmi di delusione che si scontravano con uno sguardo serrato, impaurito, colpevole.  
Quelle uova non sarebbero mai bastate per colmare quel senso di vuoto che si stava aprendo nella mente di Jack, ma d'altronde esisteva davvero qualcosa in grado di colmarlo? 
 


Fuori piove. 
L’acqua venne giù decisa, col suo rumore copriva ogni cosa, persino i suoni dell’esistenza quotidiana, le voci, le parole, lo sgusciare delle auto che procedevano lente come una processione stanca. 
L’acqua veniva giù fitta e picchiava sull’asfalto come tanti spilli che cadendo penetravano il manto stradale, alcune gocce invece scivolavano via sottili, timide, quasi impalpabili ma fastidiose fino a diventare  moleste 
Si infiltrava nei negozi, sotto le porte, sprigionando quell’odore di stantio e ammuffito che perforava le narici e le tormentava col suo olezzo, ma che Jack aveva sempre amato.  
Era incessante.  
Col suo scroscio regolare e costante sembrava quasi volesse scandire il tempo, ed esso si inchinava al suo suono dispotico. 
Questo tempo che sembrava infinito, non passava mai, i minuti scorrevano lenti. Le ore, i giorni, sembravano uno la replica dell’altro, lividi e deprimenti.  
Notava un angolo di cielo cercare con avidità qualche brandello di azzurro. 
Tutto era come una vecchia foto in bianco e nero.  
Il cuore si accomodava a riposare e l’anima pareva volesse andare in letargo durante queste giornate monotone e scolorite, persino la sua mente costantemente funzionante si assopiva. 
Il ragazzo si guar attorno, quando scorse gli occhi serrati di Alex, anche lui doveva essere stato sfinito da questo scandire infinito. 
Barakat aveva sempre amato la vita del tour, quella che tanto bramava da piccoloquella in cui riusciva persino a non sentirsi solo. Non che per il chitarrista fosse mai stato un problema, bensì gli piaceva essere attorniato da gente che amava e che lo facevano sentire amato e gli unici a rispondere a questi requisiti erano da sempre i suoi 3 compagni di band.  
Jack Barakat non poteva essere certo definito come un ragazzo triste e solitario qualunque, certo che nosoltanto un ragazzo che amava ridere, che amava stare bene e far stare bene, cresciuto per sbaglio in universo completamente sbagliato.  
L'unico mondo che poteva essere definito tale era quello costruito attorno alla sua band: colmo di quell'odoraccio di sudore misto all'alcool che emanava il loro bus, quelle pile di vestiti in giro per il pavimento, qualche amico che li andava a trovare, i litigi infiniti per le performance e certe volte le botte che ci si dava. Quella era casa, per Jack.  

Sentì farfugliare qualcosa proveniente dalla bocca dell'amico disteso accanto a lui. 
«Jack?» continuò egli come se volesse nascondere anche un briciolo di preoccupazione.  
L'uno aveva sempre fatto parte della vita dell'altro, e ad Alex capitava spesso di scorgere Jack in uno di quei suoi momenti di chiusura totale verso l'esterno, in cui la sua mente andava totalmente in stand-by. 
Jack si sentì sfiorare leggermente la mano dalle dita callose di Alex. 
«Gaskarth!» rispose ridacchiando il chitarrista, ricambiando immediatamente la stretta e intrecciando le sue dita talmente sottili che pareva avrebbero potuto spezzarsi al minimo aumento di forza.  
«Allora sei sveglio» ribatté l'altro, girandosi sul fianco in modo da riuscire a scorgere lo sguardo sfuggente di Jack.  
Il moro si tirò leggermente su in modo da arrivare alla stessa altezza dell'altro, decisamente più alto, e gli passò un braccio sulle spalle avvicinandolo ulteriormente a sé. 
«E' la pioggia a renderti pensieroso o c'è qualcosa che devi dirmi?» gli chiese ulteriormente Alex sicuro della risposta, ma l'altro, posando un attimo gli occhi in quelli leggermente allungati del compagno, scosse la testa come per scrollarsi di dosso ogni pensiero «assolutamente la pioggia, mi conosci». 

 

 

 

«Vinny, amico, sparisci!» così un miscuglio di grida e risate provenire dal bagno del bus, una volta sorpassati i letti.  
Era indubbiamente la voce di Zack quella, ma che cosa diamine stava succedendo? 
Jack si alzò di scatto «Dio, quanto amo quando le persone tormentano Zack!», l'amico lo seguì a ruota ridacchiando tra sé e sé mentre annuiva consapevole.  
I due si ritrovarono in piedi davanti ad una scena facente parte del quotidiano all'interno di quel loro universo privato: Vinny, l'assistente manager e il ragazzo del merchandise che ormai li seguiva ovunque, con una telecamera in mano, con accanto Rian disteso a pancia in giù sul pavimento che non riusciva a smettere di ridere. 
«Ma che cazzo sta succedendo ragazzi?» disse Alex, con gli occhi spalancati, cercando di parlare tra una risata e l'altra «perché state facendo uno scherzo a Zack ed io e questo qui non siamo stati invitati?» continuò l'altro.  
Nessuno dei due rispose, avevano ormai preso un colorito fuxia tendente al rosso, quando finalmente Vinny si decise a raccontare: «Appena Zack ha chiuso la porta del bagno, io e Rian ci siamo guardati e abbiamo optato per tormentarlo senza neanche parlare, solo con lo sguardo» continuò Vinny cercando di respirare per quanto gli fosse possibile « Così io ho imbracciato la telecamera, Rian si è letteralmente lanciato sulla porta del bagno in cui Zack era entrato da pochi minuti per farsi la doccia aprendola e io ho urlato "Saluta il mondo, sei la nostra scena d'apertura del DVD!"». 
Jack battè le mani e inarcò la schiena indietro, come era suo solito, non riuscendo più a smettere di ridere né tantomeno di respirare, mentre Alex si piegò letteralmente in due per lo stesso identico motivo «Finalmente tutti questi esercizi in palestra portano un po' di profitti Zacky!» aggiunse battendo un pugno contro la porta del bagno.  
Il povero ragazzo esordì mandando a fanculo l'intera crew tra una risata e l'altra.  
Era da sempre quello più schivo; anche se in realtà era davvero difficile definire un ragazzo come Zack. Non ha mai amato mettersi in mostra, ma allo stesso tempo detesta passare totalmente in osservato; è molto timido, ma allo stesso tempo si prende molta cura di sé e del suo modo di apparire, forse più degli altri membri.  
E' sempre stata una grande, enorme, adorabile contraddizione, e forse era proprio questo il motivo per cui non avrebbero mai potuto trovare un membro migliore per abitare il loro piccolo mondo costituito da anormalità. 

 

 

La durata dei live sembrava sempre così breve: un soffio, impercettibile come il millesimo di un centesimo di un secondo. Era strano quanto circa un'ora e tre quarti potesse convertirsi in neanche un minuto.  
Niente al mondo era in grado di ripagare quell'intro che mandava su di giri quei 4 giovani ragazzi un po' sfigati di Baltimora, sembrava incredibile che tutta quella carica potesse calzare in quei corpicini così striminziti, come quelli di Jack e Alex, eppure vivevano per quello.  
C'era un momento in particolare che Jack amava, nonostante dovesse uscire di scena e lui sembrava essere nato per stare sotto un riflettore: la session acustica di Alex, quando sul palco non c'era nient'altro se non una sedia leggermente decentrata, Alex che imbracciava la sua chitarra acustica, un unico riflettore, qualche sorriso incerto e un po' imbarazzato.  
Nient'altro. Tutto quello di cui Jack necessitava sullo stesso palco, nello stesso momento.  
 
Eppure un alone fastidioso di preoccupazione non svaniva mai completamente dal petto del chitarrista, che continuava a temere qualche crollo psicologico di Alex, ancora una volta, magari sul palco.  
Era abituato a stare accanto all'amico, a sedersi sul pavimento fresco della sua vecchia casa accanto a lui e farlo respirare, porgergli dell'acqua e dopo aver ristabilizzato la respirazione, distrarlo come aveva sempre fatto; Jack era bravo in questo tanto quanto era bravo a rifiutare quegli stessi aiuti per sé. Era qui che entrava in gioco l'amico.  
Erano sempre stati complementari, si erano sempre compresi nel loro piccolo universo definito problematico da chiunque altro provasse anche solo a venirne a contatto. 
Se si trattasse di amore? Se si prende in considerazione l'amore come un sentimento irrazionale che tende a unire fisicamente e mentalmente due persone, allora sì, quei 10 anni di vita insieme si sarebbero potuti definire tranquillamente una lunga storia d'amore.   
Certo, se non si considerava l'attuale relazione duratura di Alex.  

Le luci si spensero improvvisamente, i fan urlanti non la smettevano di scandire il nome della loro band, non ne avevano abbastanza nonostante fossero consapevoli della fine.  
Nel corridoio appena all'uscita del palco Zack, che stracolmo di eccitazione si strappò la maglia, Rian, Alex e Jack lanciarono un urlo infinito tutti insieme, in qualche modo avrebbero pur dovuto scaricare tutta quanta l'adrenalina che avevano accumulato in quell'ora e mezza. 
 «Sono fiero di voi cazzo!» esordì il cantante per primo, nel bel mezzo di un affettuosa pacca sulla schiena ad ogni membro.  
Improvvisamente il telefono del lead-singer squillò, in un primo momento era quasi tentato a non rispondere, ma poi sbatté violentemente il muso contro quella che era la vita reale e si ricordò della sua ragazza. 
 «Amore!» rispose con una faccia poco convinta: Alex non era così, non lo era mai stato. 
Jack non riusciva a distogliere lo sguardo dall'amico che si era allontanato dal caos del gruppo, completamente in visibilio a causa del concerto.  
Cercava di non farsi scoprire, i suoi occhi guizzavano da Alex al gruppo, poi ancora da Alex ad una parete per finire poi ancora una volta sulla figura esile del compagno.  
Barakat lo vedeva sorridente, quel magnifico sorriso che avrebbe incantato anche il più cinico degli esseri umani, contornato da un accenno di fossette che incorniciavano perfettamente l'opera. 
Ogni volta che il ragazzo pensava al bene di Alex e cercava di sforzarsi per lasciarlo vivere quella vita tranquilla con la sua ragazza che tanto si meritava, l'altro si avvicinava a lui, facendogli perdere ogni senso, ogni convinzione, ogni singolo pensiero razionale era in grado di sciogliersi assieme a quel briciolo di pudicizia che gli rimaneva. Lo si sarebbe potuto privare di qualsiasi più piccola cosa - del cibo, dell'aria, dell'alcol perfino - ma non di quel sorriso, una delle poche cose di cui davvero si nutriva.    
Dopo poco Alex ritornò a mischiarsi nel gruppo con ancora un accenno di sorriso sul volto,  «Dalla tua espressione piuttosto ridicola deduco fosse Lisa...» esordì Rian sorridendo, prendendo in giro il cantante come il suo solito, supportato alla grande dagli altri. 
Anche Jack si aprì in un sorriso, tirando un leggero pugno sulla spalla del compagno,  «che succede, eh?» gli chiese, con quanta più falsità gli era possibile, anche se non era mai stato molto bravo in questo. 
Gli occhi di Alex erano inquieti, si muovevano velocemente facendo capolino tra quelli di Jack, che si impegnava a tenere perennemente puntati verso il pavimento, e le espressioni degli altri membri: doveva capire cosa stesse succedendo in quel labirinto infinito che era la mente di Jack Bassam Barakat.  
 «Smettetela con quelle facce da coglioni!» rispose dopo un minuto scarso il cantante  «Viene soltanto a trovarci domani, cioè non ci sarò domani» aggiunse con una leggera risata alla fine della frase. 
 «Deduco che ti serva il bus deserto» disse Zack lanciandogli un'altra pacca sul braccio, che il cantante ricambiò immediatamente mentre continuava a fissare Jack negli occhi inutilmente, dato che l'esile ragazzo non ci pensava neanche ad alzare gli occhi dall'asfalto freddo del retro del locale 

 

 

Sentì la porta del furgone sbattere, una voce sonora chiamare il suo nome, spostare con poca delicatezza oggetti, allora Jack si convinse di essere fin troppo stanco per muovere anche solo un muscolo finché non sentì un rumore di un vetro frantumarsi in mille pezzi. 
«Alex?» spostò le tende e in meno di un secondo scattò fuori dal suo letto; trovò l'amico ad attenderlo, in piedi in mezzo alla stanza con una bottiglia di Heineken ormai in frantumi e l'avanzo del suo contenuto per terra poco più avanti dell'ingresso. 
«Che cazzo stai facendo Alex?» chiese Jack, fu una di quelle poche volte in cui il ragazzo mantenne la massima serietà. 
«Io non lo so... Non so dove voglio arrivare. Sono un ipocrita, sono un masochista. Non faccio altro che ripetermi quanto io debba impegnarmi per essere felice, e poi mento a me stesso, lasciando che le cose vad...» biasciò l'amico, che cercò di sedersi sul pavimento, ma Jack lo interruppe immediatamente salvandolo da quel lago di birra appiccicaticcio che avrebbe inzuppato i vestiti di Alex e da quel turbine di pensieri che ormai conosceva a memoria «Non importa, ora vieni qua!» gli disse trascinando il suo esile corpo assieme a quello di Alex sul suo letto. Non importava mai.  
«Perché ti sei ridotto così?» 
Jack era sicuro che, in un'altra situazione, non si sarebbe preoccupato della sbronza di Alex, ma quella volta fu diverso, Jack ricordava un Alex agitato, che si era scolato quasi otto bottiglie di Heineken in preda all'ansia, e Jack conosceva a menadito ogni più piccolo gesto del suo compagno: quel leggero tic alla gamba, il suo strofinare più volte le mani sulle ginocchia, il suo grattarsi il collo, le pupille leggermente dilatate.  
Appena il chitarrista si accorse che l'altro non aveva la più pallida intenzione di degnarlo di una risposta, si limitò a sdraiarsi e a tenere l'amico, immobile, tra le braccia. La testa di Alex appoggiata sulla spalla di Jack, non troppo distante dal suo battito  accelerato, la mano di Alex libera lungo il suo fianco, il cuscino che sembrò eccessivamente grande in quei momenti nonostante i pochi centimetri rimasti a separare il volto dei due.  
Il contatto della sua pelle contro quella di Alex riuscì ancora a ricordargli quel formicolio che si estese in tutto il corpo, accendendolo. La sua mano si mosse sicura tra i capelli castani dell'amico, attraendolo a lui ancora di più: la distanza diminuì drasticamente. 
Ecco quello sguardo languido che caratterizzava il cantante, i suoi occhi leggermente arrossati puntati in quelli di Jack lo imprigionarono facendogli perdere completamente il senso dell'orientamento e del tempo, entrando in una realtà diversa, la loro realtà in cui esistevano solo loro due. 
Spinto dal desiderio, Jack appoggiò le sue mani sul petto dell'amico, per poi farle salire sulle spalle e accarezzargli il collo con il tocco delicato dei suoi polpastrelli. 
Se era approfittarsi di un povero ragazzo in balia dell'ebrezza? Sì. 
Se ad Alex dispiacque e cercò di opporsi? Affatto. Questo il chitarrista lo ricordava bene. 
A quel punto lo baciò con tenerezza e trasporto, Jack non potè fare a meno di lasciarsi bruciare da quel desiderio rovente che aleggiava nell'aria, tanto da far cedere il suo corpo contro quello di Alex, che lo accolse stringendolo contro il suo petto, dove sentì battere il cuore alla stessa velocità del suo.  
«Barakat» esordì il cantante biascicando sempre di più, tanto che Jack non sarebbe mai riuscito a comprendere le sue parole se non si fosse trattato del suo cognome «mi dispiace non essere capace a renderti felice». 

 

 

 

Uscì dopo cena, o dopo quello che più le poteva assomigliare, iniziando il tour dei locali e in ognuno un whisky e una birra almeno. A dire il vero al primo poteva aggiungersi il secondo, magari il terzo e così via.  
Whisky scozzese e birra irlandese, le vene che si gonfiarono, strati d’atmosfera sulla pelle, i capelli che odorarono di vissuto.  
Quella sensazione che si avvicinava ad una percossa, quella che dava alla testa, che ormai era mossa dalla più pura delle confusioni.  
Ogni locale un padrone più o meno amico, in ogni posto una cameriera con cui Jack era stato a letto almeno una volta.  
Premura e carezze della notte per gente sensibile, che si è fermata alla stazione e il treno tarda a ripartire. Sulle braccia i brividi, i peli dritti, l’ardore.  
Il sudore delle notti primaverili sui pomi d’adamo e le gonne scure.  
Gli intrecci di smalti, rossetti, reggiseni.  
Jack non fece in tempo che risentì quell’abbraccio interno, caldo e morbido, che lo avvolse 
Il sole calò, la notte tornò a regnare sul mondo: suoni strani stridettero nell'oscurità, anche il mondo ormai assopito si rifiutò di rispondere al disperato richiamo di Jack Barakat.  

Jack era sempre stato un attivo sostenitore del pensiero secondo cui è impossibile imparare ad amare attraverso la carta, bensì l'unico mezzo efficacie attraverso cui si diventava degli esseri in grado ad amare era la pelle. Meglio se la pelle in questione non era né troppo chiara, né troppo scura, morbida, in alcuni punti coperta da un sottile strato di peli, perennemente calda ed accogliente, che odora di un odore rassicurante, di casa. Quella di Alex, magari.  
Ogni volta che i polpastrelli di Alex sfioravano anche solo un millimetro della sua pelle una scia di brividi si faceva strada lungo la sua spinga dorsale. Quando, in un momento vuoto, le dita di Gaskarth tracciavano una serie di linee immaginarie sul dorso della mano di Jack giocherellandoci appena, nella mente di quest'ultimo non c'era spazio per nient'altro se non per il suo amico. 

 

***  

 
C'era un ricordo, però, nella poca memoria che restava a Jack Barakat prevaleva sugli altri. Si faceva largo sgretolando ogni più piccola sensazione piacevole che la sua vita fino a quel momento era stata in grado di donargli, che Alex era stato in grado di donargli più che altro. 
Una bottiglia di tequila mezza vuota ben salda nella mano sinistra, la mano destra ancora immobile sul mouse del suo computer, senza fare nulla esattamente. Gli occhi vitrei fissi sullo schermo del computer, che si impegnavano per trovare qualche errore all'interno di quella frase, perché un errore doveva per forza esserci da qualche parte. Non era possibile che lui non sapesse nulla, che dovesse venirlo a scoprire così.  
"A huge congrats to @AlexAllTimeLow @lisaruocco !! So happy for you guys :)" 
 
Poche parole. Poche parole ben appuntite come lame che si erano appena fatte strada nel petto di Jack, squarciandolo completamente in due, affondando nella carne, spezzando lo sterno, macchiando il suo sangue di un dolore inspiegabile a parole.  

Il campanello squillare incessantemente dopo neanche un'oretta da quella parola digitata e inviata con tutta la fatica del mondo, quel campanello assordante che rimbombava nella sua testa ormai sciolta nell'alcool della bottiglia di tequila.  
La suoneria del cellulare squillare senza fine, il solito motivetto fastidiosissimo faceva da eco ai pensieri di Jack, che neanche lui riusciva più a riordinare, illudendosi per un attimo che ne fosse mai stato capace.  
Scosse la testa ridacchiando tra sé e sé. Patetico, si ripeteva.  
Fece così per muoversi verso la porta, inciampando nella gamba della sua stessa sedia, ma riuscì a sostenersi sulle sue gambe. Era come se il peso fosse quadruplicato, e quelle gambe secche non riuscivano a sopportarlo. Era come schiacciato a terra dalla gravità, come se le pareti si stessero restringendo sempre di più obbligandolo a rannicchiarsi. 
La suoneria si staccò per l'ennesima volta per poi ripartire, ancora e ancora e ancora, incessantemente.  
Dopo diversi minuti ritrovò quel briciolo di equilibrio che gli serviva per reggersi dalla sedia in legno del suo piccolo appartamento, tirandosi su e avvicinandosi al telefono. 
12 chiamate perse.  
Alex.  
Si scordò improvvisamente di tutto ciò che aveva da dirgli. Era completamente offuscato e non ricordava bene dove si trovasse in quel momento, così rispose alla quattordicesima chiamata.  
«Jack» sentì chiamare dal telefono il ragazzo, ancora seduto sul pavimento in marmo congelato, perfettamente in linea con la sua pelle della stessa temperatura del ghiaccio, «Jack ti prego dimmi qualcosa, qualsiasi cosa». 
«Coglione» biasciò, il suono di ciò che era uscito dalla bocca di Jack sembrava più un insieme di lettere buttate lì, sconnesse, senza alcun senso. 
«Cosa? Ripeti Jack!» disse Alex, lasciando passare qualche secondo, probabilmente stava cercando di comprendere quello strano suono.  
«Che sei un figlio di puttana Alex Gaskarth» si riprese Jack, parlando molto attentamente, cercando di articolare bene le parole in modo che il concetto fosse il più chiaro possibile. E fu assolutamente sicuro che quella volta fosse veramente chiaro, il concetto.  
Jack aveva deciso di affrontare la cosa nell'unico modo che gli era possibile: non affrontandola affatto. Bevendoci su, piuttosto.  
Chiuse la chiamata interrompendo quel silenzio e quei respiri devastati.  

Pugni alla porta, Jack sentiva come se il pavimento stesse tremando. Quella sequenza di colpi non doveva essere così tanto rumorosa, ma nella testa del chitarrista tutto si amplificava, era come sentire una scarica di tuoni infinita. 
«Vattene cazzo, vattene» urlò Jack, portandosi le mani alle orecchie, alzandosi e trascinandosi con chissà quale forza sulla sedia, «Lasciami in pace» quest'ultima parte della frase non gli era nuovamente uscita molto bene.  
«Credevo che fossi stato felice per me» esordì Alex: mai frase fu più sbagliata di quella.  
«Felice? Non lo sei tu, come cazzo credevi che lo sarei potuto essere io? Sei fottutamente ridicolo Alex, ora fa tutto schifo e l'unica persona che puoi incolpare sei tu» frasi sconnesse uscivano senza sosta dalla bocca di Jack, un groviglio di parole, anzi parolacce. La sofisticatezza non era mai stata il forte di Jack Barakat, tantomeno da ubriaco. Era convinto che per enfatizzare il concetto le parolacce erano indispensabili, e forse tutti i torti non aveva. 
Poi più niente. 
Il silenzio più puro, più inquietante, più cupo. 
 
«Credo che dovremmo parlare, fammi entrare» continuò Alex senza arrendersi. Era una lotta impari tra i due, erano testardi allo stesso modo. Ma Jack non degnò il compagno di nessuna risposta. 
«Ehi amico, sai che è difficile anche per me. Parliamo e basta.» non aveva intenzione di arrendersi, non così, non senza aver rivisto Jack prima, non senza aver sfiorato le sue labbra prima, non senza i suoi vestiti impregnati ancora del suo dopobarba. 
«Ok, se vuoi giocare giochiamo. Ci sto! Giuro che non ho intenzione di andarmene finchè non apri la tua fottuta bocca, Jack. Sono disposto a dormire per terra, ma non lascerò questo fottuto corridoio.» fece per sedersi a terra con la schiena contro la porta di casa del compagno di band, più determinato che mai.  
«Sai cos'è divertente Jack? Sono passato dall'essere felice come mai prima allo stare male come le mer...». 
«Ah beh scusami! E' colpa mia? Se sei un coglione?» rispose Jack, sorseggiando il suo caffè sorso dopo sorso. Era impossibile, almeno per quella giornata, farsi passare del tutto una sbronza del genere, ma conosceva qualche trucchetto per placarla.  
«Cristo santissimo mi hai spaventato a morte! Ma che cazzo... Okay, almeno so che sei vivo. Ad ogni modo, se mi avessi lasciato continuare, avrei detto che è tutta colpa mia, ma immagino che la tua delusione sia sempre la stessa, eh?» riprese Gaskarth, determinato a far parlare Jack il più possibile. Fargli sputare ogni più piccolo pensiero, non importa quanto potesse fargli male.  
«Vaffanculo Alex, vattene via per favore.» 
«Okay ci siamo, di nuovo, so di essere un idiota ma smettila di insultarmi, okay? Grazie.» 
«Fottiti!» 
«Deduco di dovermi accontentare, almeno stai parlando con me. Ma comunque, come dicevo prima che cominciassi ad urlarmi sopra, sono conscio che sia tutta colpa mia, e so che avrei dovuto dirtelo prima almeno e so anche quanto tu stia male, ma mettiti un attimo nei miei panni. Voglio dire, cos'altro avrei dovuto fare?» 
«Cos'altro avresti dovuto fare? Puoi andare a fanculo, ecco ciò che puoi fare! Voglio dire, sei fottutamente serio? Ti stai giustificando? Come? Come puoi pensare di farlo? Cazzo ti amavo, Alex. Dal giorno in cui ti ho incontrato, e purtroppo lo faccio ancora. Ma il problema è che se potessi smettere di provare tutto questo per te non lo farei ugualmente, perché ormai è diventato uno sport del cazzo, ma è l'unica cosa che mi faccia sentire vivo dopo tutto. E sono sicuro di non essere l'unico qui a provarlo. So che ti senti così anche tu. Ed è quello che mi fa incazzare di più. Perché cazzo non riesci ad ammetterlo una volta per tutte? Perché ti menti da solo? Non vedi che cosa mi stai facendo?» la voce di Jack si ruppe improvvisamente, era diventata cupa al massimo, dopo di che smise di parlare. Alex, nonostante non potesse vederlo a causa del muro che li separava, sapeva perfettamente che stava piangendo.  
«E' diverso, Jack. Mi importa di te, ma in un altro modo, lo sai. Lei è la mia ragazza, la mia fidanzata, e la amo...Amo anche te, ma non è la stessa cosa.» cercò di chiarirsi il più possibile le idee con poco risultato, «Ti prego Jack non piangere, lo sai quanto mi sento in colpa?!». 
«Oh, sì, giusto giusto, la tua fidanzata, ed io sono il pezzo di merda, vero? E perché non torni a casa dalla tua fottuta fidanzata? Sono solo l'idiota che ti scopi quando ti va dopo i concerti quando la tua fidanzata non c'è, non è vero? Non sono il tuo fottuto giocattolo, Alex. Solo perché provo questo per te non significa che lascerò che tu mi usi, non più. Sono stanco, non cadrò per questo un'altra volta». 
Jack scacciò dalle sue guance quel flusso salato infinito, consapevole che non sarebbe servito a molto. Sbattè i pugni sul piano del tavolo talmente forte che, appena si guardò le mani affusolate, notò degli arrossamenti sulle nocche. Faceva tremendamente male. Tutto quanto.  
«Sai perfettamente che non possiamo stare insieme, hai sempre detto che volevi qualcuno con cui vivere tranquillamente, urlarlo ai quattro venti, ecco, per noi non potrà mai essere così. Dovremmo nasconderci da tutti e affrontare troppi rischi, che non possiamo reggere.» Alex era così convinto di riuscire a rassicurare Jack. 
«Ne sarebbe valsa la pena per te, cazzo! Tu, sei tu quello con cui volevo vivere tranquillamente, che volevo urlare ai quattro venti senza che mi fottesse niente di cosa la gente avesse da dire. Mi sarei fatto carico di ogni rischio per questo, ma ovviamente tu non avresti fatto lo stesso. Ti prego Alex, vattene, non posso più farlo, voglio che tu te ne vada.» 
Le lacrime si moltiplicavano al suono di quelle sue stesse parole, era come se una fune si stringesse sempre di più intorno al suo collo, un nodo che non aveva la minima intenzione di sciogliersi. 
«Sono qui perché di te mi importa! E non me ne vado, sei il mio fottuto migliore amico e non ho intenzione di lasciarti andare.» 
«Certo, fottiti! Non te ne frega un cazzo di me, se ti importasse non sarei in questo stato a causa tua adesso. E il problema è esattamente questo: sono solo un fottuto amico per te, quando tu per me eri tutto. Questa è la differenza: io sono patetico e decisamente ridicolo, sto male, e tu sei felice. E non me lo merito, tu te lo meriti!» 
«Per favore Jack, non dire che io non...» 
«No, per favore tu. Stai zitto, Cristo. Lo apprezzerei. Per favore, non ho bisogno di altri casini adesso» disse cercando di mantenere la calma per quanto gli fu possibile «e adesso te ne puoi andare, se vuoi.» 
«Va bene, non lo farò comunque.» rispose fermamente l'altro. 

 

 

Jack Barakat ricordava ogni singolo secondo di quella giornata impossibile, ogni singola parola di Alex, ogni singola parola sua. Riusciva a sentire il sapore amaro della tequila, quella fiammata percorrergli l'esofago ad ogni sorso, il sapore salato delle lacrime, gli occhi bruciare, il freddissimo pavimento in marmo. 
Lo rattristava il fatto di non riuscire a sentire più niente. Che non avrebbe sentito più niente mai più.  

«Hai freddo?» intervenne Jack, dopo un'ora e mezza che l'amico era rimasto fuori ad aspettare. Temeva che se ne fosse andato, desiderava una risposta questa volta. 
«Oh, assolutamente no. In realtà è piuttosto comodo qua fuori, dovrei farlo più spesso, letto del cazzo.» ridacchiò Alex tra sé e sé, come fosse in preda alla disperazione.  
Esistevano diversi tipi di risata: quella che si fa quando si è di buon umore, lo scherzo, l'ansia, la paura, la risata isterica, la disperazione, per sdrammatizzare. E quella non era nulla di positivo, probabilmente.  
Jack prese un lungo respiro e si allungò, restando seduto sul suo divano, verso la porta e la aprì «vieni qua.»  
«C-cosa? Io?» chiese Alex sorpreso, alzandosi in piedi nella frazione di mezzo secondo, guardando Jack con gli occhi spalancati. 
«Vedi qualcun altro in questa stanza di merda? Sì, tu, tu idiota. Non farmici pensare un'altra volta, mi sto già pentendo.» disse ticchettando la mano sulla sua gamba nervosamente. 

Così Alex si accomodò silenziosamente sul divano, con il suo viso vicino a quello di Jack. Quel divano puzzava di alcool, così come lui. Nonostante tutto, Alex si sentiva a casa, nel posto giusto al momento giusto.  
Lentamente si avvicinò a lui secondo dopo secondo, sfiorando prima il suo collo con la sua guancia, dopo con le sue labbra, lasciandone una scia.  
Jack si irrigidì, poi rabbrividì.  
«Alex, non-» iniziò Jack, cercando di essere il più convincente possibile, risultando tutto men che convincente.  
Decise quindi di spegnere il suo cervello e di accendere per l'ultima volta il suo cuore. 
Ricordava quella strana sensazione che gli spense il cervello una volta per tutte, ancora non riusciva a decidersi se se ne stesse ancora pentendo, oppure se decise di fare la cosa giusta quel giorno.  

 

 

 

Jack non riusciva a percepire nulla. Neanche la più piccola sensazione, nemmeno quando provavano a punzecchiarlo con un ago per assicurarsi che non rispondesse agli stimoli. 
Lo sentiva, quell'ago. Forte e chiaro. Solo che non riusciva a muovere nemmeno un muscolo. 

«Alex» il modo in cui Jack mormorò il nome dell'amico era sporco, bisognoso, chiaro. Il ragazzo continuava a sussurrare all'orecchio del chitarrista una serie infinita di parole.   
«Ti amo così tanto Alex, è sempre stato così» biascicò, ma questa volta non fu per colpa dell'alcool.  
Perché era così difficile esternare emozioni? Jack volle provarci comunque.  

Il mattino seguente Alex tastò lo spazio del divano nero in pelle accanto a lui: vuoto.  
Si stropicciò quindi gli occhi: ancora vuoto. 
Si alzò quindi di scatto, avvicinandosi al bancone su cui trovò un foglio: 
 
"So che ti sei spaventato, ti conosco, ma stai calmo. Non sono un pazzo suicida. Sono andato a comprare qualcosa da mangiare. 
 
Jack" 

Gaskarth tirò un sospiro di sollievo. Si avviò verso il bagno, conosceva quella casa a memoria, forse più della sua stessa. 
Una volta svegliato completamente anche con l'aiuto dell'acqua gelata che scorreva dal rubinetto, afferrò il cellulare. 
Credette per un attimo che il suo cuore di era fermato. 
Ventuno chiamate.  
Ventuno. Zack.  
 
«Zack cosa succede?»  
«Stai calmo, ci vediamo sulla settima strada, davanti all'ingresso dell'ospedale.» 
«D-dove? Che cosa cazzo sta succedendo Zack? Non giocare a questo gioco con me, non voglio giocarci, non è il momento, pr-» 
«Cazzo stai calmo e muoviti!» 

Il cuore in gola, ancora una volta un nodo strettissimo che non aveva la minima intenzione di sciogliersi. Due mani che continuavano a impedirgli di respirare. Non sapeva neanche più che cosa fosse il respiro regolare. 
Sentiva le guance andargli a fuoco, ma decise che non gli interessava di nulla. 
Che cazzo era successo? 
Afferrò il cellulare per avvisare Jack che stava uscendo, ma era troppo agitato per comporre qualsiasi numero, anche solo per ricordare la combinazione che avrebbe sbloccato la tastiera del suo iPhone. Lo avrebbe chiamato lui quando si sarebbe accorto che non era più in casa. 

 

 
 

Le luci delle stanze di ricovero degli ospedali sono incredibilmente accecanti, Jack l'aveva sempre pensato. Odiava gli ospedali, era sempre stato così. 
Quella volta però non avvertiva lo stesso senso di malessere, quella volta non avvertiva assolutamente nessun senso, in realtà.  
Una serie di immagini scorse nel suo cervello, ricordava tutto, ogni singolo momento della sua breve vita con l'unica persona vera della sua vita. Ricordava anche la sua band, i suoi concerti. 
Vista da quella prospettiva, non era poi così male.  
Chissà se era possibile per le persone accanto a lui, sempre che ce ne fossero state - ma era quasi sicuro di sì - vedere cosa gli passava nella testa; chissà se quella dannatissima macchina che emetteva un rumore continuo e incessante, simile a quello della pioggia in quel giorno autunnale, fuori dal vetro del tourbus. Doveva essere il battito del suo cuore.  
Affascinante. 
 

Una voce familiare: Alex. Aveva già avuto modo di sentire tutti quanti: Zack era stato il primo.  

Chissà perché Zack, se il primo numero nella sua rubrica era quello di Alex. 
Era contento di avere avuto accanto il suo amico. 
Ricordava parte del suo breve discorso, o meglio, di quell'accozzaglia di insulti. 
"Sei un idiota, lo sai Jack? Sei sempre stato il più cazzone di tutti, la persona più stronza che abbia mai conosciuto. Eri lo stronzo che più di tutti quanti meritava una vita piena, felice. Vaffanculo, che cosa mi fai dire, te ne rendi conto? Ti odio.  
Eravamo più simili di quanto credi io e te. Mi fa così tanto incazzare vederti lì disteso, vuoi reagire cazzo? ti prego Barakat! Sbrigati! 
Cazzo di automobile, detesto quelle cose. Perché non ci si può spostare in bicicletta? non inquina. Le persone sono degli idioti, sono dei pigri del cazzo. Sono anche ciechi a quanto pare, come si fa a non notare quasi un metro e novanta di ragazzo?! Con quei capelli di merda poi". 
Lo sentiva soffocare una risata di tanto in tanto.  
Zack era una delle persone più dolci che aveva mai conosciuto.  
Ok, a modo suo, con dei termini tutti suoi.  
Ok, ancora meglio, diciamo che aveva un modo strano di esprimere il suo affetto, ma ognuno di loro era strano, alla fine.  
 
Jack era confinato in quella sala con gli occhi sbarrati da ormai ore, non vedeva nessuno, non sentiva nessuno, non parlava con nessuno da troppo tempo. 
Sentiva le dita di Alex sfiorargli il braccio, sfiorargli il collo, scompigliargli i capelli.  
Poi Jack si sentì cadere il mondo addosso. Era definitivamente crollato tutto su quel corpicino esile quando sentì una lacrima calda sul suo viso, provenire dall'alto, doveva sicuramente essere di Alex a giudicare dalla voce. 
«No». 
Era tutto ciò che continuava a sentire dalla bocca di Alex. Sentì afferrarsi le spalle, scuotersi, Jack detestava che chiunque potesse fargli qualsiasi cosa senza che fosse in grado di reagire. 
«No, no, no, cazzo no, non è possibile» sentì dire dall'amico, con il respiro che si affannava sempre di più. 
«Alex smettila! Alex lo stacchi dall'ossigeno, Alex! Fermati ho detto!» era la voce di Rian, non l'aveva ancora sentito. Era contento che ci fosse qualcuno a supportare il cantante, che non era abituato a sopravvivere senza di lui, senza nessuno non ce l'avrebbe fatta probabilmente, pensava Jack con un accenno di superbia.  
«Toglimi le mani di dosso Rian, cazzo lo vedi? Ti rendi conto? Ed io ieri gli ho anche dato il colpo di grazia, lui non lo meritava Rian, cazzo non lo meritava». 
 
Jack, nel frattempo, si sentiva soffocare, le pareti sempre più vicine, la stanza sempre più stretta.  
La vista si era oscurata del tutto, non riusciva più a distinguere nessuna immagine nella sua mente, sentiva solo uno strano bip proveniente dalla sua destra. Era cambiato, non era più quello di prima. 
Le pareti di quella stanza completamente buia lo schiacciarono, quell'ancora a cui era legato lo portò giù con sé, nel bel mezzo dell'oceano, senza lasciargli alcuna possibilità di risalire. 
Prese un ultimo respiro, sapeva che Alex sarebbe stato in buone mani. 
 
I guess I'll go home now.  

  
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