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Autore: 6_9Carisma    26/05/2015    3 recensioni
Vi siete mai resi conto che usare un taxi vuol dire salire in auto con uno sconosciuto?
Genere: Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono le quattro del mattino, il tuo treno parte tra trenta minuti. Ricontrolli ancora una volta il cellulare, nella speranza di trovare la segnalazione di un pullman in arrivo, ma è troppo presto. Sbuffi e finalmente ti decidi a fare il numero dei taxi; quasi speri che non rispondano, e invece una voce nasale e poco chiara ti fa sobbalzare dopo appena due squilli.
«Vorrei un taxi»
«Sì, ma dove?»
Eccolo, l’impaccio mentale che ti fa dire buongiorno alle sette di sera e buonasera alle nove del mattino; che ti fa spingere le porte con su scritto tirare; che ti fa ragionare per cinque imbarazzantissimi secondi quando qualcuno ti chiede quanti anni hai.
«A casa» e poi, abbastanza velocemente da arginare la figuraccia, aggiungi l’indirizzo.
Getti un’ultima occhiata all’appartamento, fai mente locale per assicurati di aver gettato la pattumiera e di aver dato da mangiare al gatto (e non viceversa) e, trascinando fuori la tua valigia, chiudi casa. Quando raggiungi il marciapiede, c’è già un’auto bianca accostata che aspetta. Il cielo è ancora buio, ma intravedi alla luce dei lampioni una sagoma al volante, un uomo che guarda fisso la strada.
Odi i taxi; odi salire in auto con uno sconosciuto; uno sconosciuto che guida e che sa che hai dietro dei soldi, e magari dei valori nella valigia; odi il fatto che siano le quattro e cinque del mattino e che in giro non ci sia anima viva; odi il fatto che pesi sessanta chili e che l’autista, che nel frattempo è sceso per aiutarti a sistemare i bagagli, ne peserà almeno novanta; odi il fatto che ti abbia sorriso con troppa confidenza e odi sentirti cogliere dal panico quando ormai, preso posto sul sedile posteriore, vedi chiudersi inesorabilmente la portiera e pensi che non hai davvero altra scelta.
«Alla stazione per cortesia»
Mette in marcia. Almeno l’abitacolo sembra pulito, ma questo non basta a far rilassare la tua schiena, che rimane a tre centimetri dallo schienale. La testa non ci pensi nemmeno ad appoggiarla. La borsa in grembo. Allacci la cintura: è insolitamente rigida. Provi a slacciarla.
 
Clack.
 
Sembra bloccata. Riprovi. Bloccata. Riprovi ancora. Bloccata.
«Scusi, mi sono dimenticato di dirle che sul lato sinistro è rotto l’aggancio. Se ha voglia di aspettare, quando arriviamo le do una mano, facciamo prima. E poi sarebbe meglio che durante il tragitto la tenesse allacciata»
Incroci il suo sguardo nello specchietto, ti sta fissando.
«Sì» e con le mani cominci a forzare il più silenziosamente possibile il meccanismo, finché tra uno scatto nervoso e l’altro lo senti sganciarsi. Tieni lo stesso la cintura lungo il corpo con la mano.
Eviti con tutte le forze di guardare lo specchietto, per paura di incrociare nuovamente il suo sguardo: ti risolvi a fissare la strada fuori dal finestrino, concentrandoti sul percorso, cercando di mantenere la calma, ripetendoti che certe paranoie sono del tutto infondate.
 
Click.
 
«Scusi, cos’è stato?»
«Cosa?»
«Ho sentito un rumore»
«Ho solo chiuso le portiere, per sicurezza. È il regolamento»
Abbassi lo sguardo: la punta di chiusura della portiera è sprofondata del tutto nel suo involucro. Chiusura centralizzata, non puoi farci niente. È il regolamento, è il regolamento, è il regolamento. Vorresti chiedergli di riaprirle, ma non ti viene in mente una ragione valida. Non ti viene in mente nemmeno un motivo per farlo fermare, e poi un dubbio insidioso fa capolino: e se sospettasse che sospetti? Devi dissimulare, o peggiorerai la situazione. Mal che vada, tra qualche ora ci riderai su. Fai un bel respiro, sei a metà del tragitto. Cerchi di sembrare assorta nei tuoi pensieri, ad un certo punto riesci addirittura ad esserlo e allunghi le gambe.
Frush.
 
Con la punta dei piedi tocca qualcosa, la smuovi, cerchi di portarla alla luce dei lampioni che entra ad intermittenza nell’abitacolo: una corda. Aggrovigliata e stipata sotto al sedile del conducente. La tua mente compie un’inversione di rotta e invece di pensare al peggio cerchi freneticamente un motivo plausibile per il quale un tassista dovrebbe tenere una corda sotto un sedile, nascondere una corda sotto al sedile, nascondere una corda sotto il suo sedile. Ma non ti viene in mente niente.
Alzi lo sguardo, ti sta fissando.
«Se non riesce a stendere le gambe, le consiglio di spostarsi più a destra; guido male se porto avanti il sedile».
«Si» ti sposti lentamente e vedi passare sul finestrino di destra lo stadio.
 
Lo stadio.
 
Lo stadio non è sulla strada. La conosci la strada, lo stadio non è sulla strada, state allungando il tragitto, vuole spillarti più soldi; state allungando il tragitto, no, è un altro tragitto, per di qua non sai dove si va, no, non lo sai, non è alla stazione, non hai mai visto quel viale. Dove andate, dove andate.
«Mi scusi, ma che strada stiamo facendo?»
«Stanotte è scoppiato un incendio al sottopasso, hanno chiuso tutto; i vigili del fuoco hanno interdetto il passaggio per tutto il corso. Si fidi, di qua è l’alternativa più breve.»
Certo. Un incendio. Non hai sentito le sirene perché dormivi, certo. Sul canale delle notizie era troppo presto perché trasmettessero qualcosa, ha senso.
No, non ha senso.
 
- «Si fermi»
- «Come prego?»
- «Si fermi. Le pago la corsa fin qui. Si fermi e mi faccia scendere.»
Ti guarda dallo specchietto, inespressivo.
- «Se c’è qualcosa che non va, può dirmelo»
- «No, va tutto bene, mi faccia scendere»
- «D’accordo, ma non posso accostare qui»
- «Fermi la vettura, ora!» stai urlando.
 
Sei in manette. Le luci rosse e azzurre della volante si uniscono alla pila del paramedico, che accerta il tuo stato di shock. Metti a fuoco. Hai la nausea, ti fanno male le mani, ti fa male tutto quanto. Ad ogni respiro senti delle fitte al petto. È mattina. Un agente ti tiene d’occhio, ha l’aria perplessa; siete sul ciglio della strada, a dieci metri un’auto bianca si è schiantata contro il guard rail, il cofano è accartocciato. Dalla portiera anteriore, semi spalancata, si intravede la carcassa del conducente, mezza adagiata fuori dall’abitacolo. La testa è attaccata al sedile, una striscia nera lo tiene legato per il collo al poggiatesta: la cintura di sicurezza posteriore.
«Ok, sulla volante. Avrei preferito eseguire l’arresto due morti fa, ma almeno quest’incubo è finito: basta tassisti morti. Con quella faccia, l’avresti mai detto? E poi peserà si e no sessanta chili, ce ne ha messo d’impegno per strozzare quel poveraccio».
«Sicuro che sia la stessa persona?»
«Sì, l’identikit coincide, anche la voce registrata durante la chiamata all’agenzia di taxi. Sicuramente è la stessa persona che ha contattato anche il tassista del lago e quello trovato morto sulla vettura due mesi fa. Per il DNA c’è da aspettare, ma per quanto mi riguarda è abbastanza fuori di testa per convincere il giudice ad una detenzione nel frattempo.» L’agente ti spinge la testa in auto e sale con te sulla vettura; sta per chiudere la porta, ma il collega lo ferma.
«Ah, dimenticavo, fate il giro largo passando davanti allo stadio: stanotte qualche balordo ha fatto scoppiare un incendio nel sottopasso, la strada è bloccata».


NOTA DELL'AUTORE - Questo testo nasce come sperimentazione della narrazione in seconda persona singolare, una prospettiva solitamente poco sfruttata ma che, a mio avviso, ha da offrire molte potenzialità. Oltre alla critica dei contenuti, mi piacerebbe sapere se il lettore riesce ad assumere il punto di vista proposto in modo naturale o se, al contrario, trova la lettura ferraginosa. Let me know fanciulli.
 
  
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