Teatro e Musical > Altri
Ricorda la storia  |      
Autore: LammermoorLace    01/06/2015    2 recensioni
[Tosca]
Un momento perfetto in una notte stellata in cui Mario Cavaradossi ritorna col pensiero al suo incontro con Tosca e all'inizio della loro storia.
Ciò che accade dopo il finale, dopo che l'alba è sorta e Tosca si è abbandonata alle braccia del vuoto.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Tosca: Un Prologo e un Epilogo
 
 
                 “Amaro sol per te m’era il morire
                  Da te la vita prende ogni splendor”
 
 
 
Prologo
 
 
Le dita di Mario accarezzano vaghe la pelle di Floria addormentata. E’ reclinata sulla chaise logue, la testa abbandonata sul petto di lui, immobile, tranquilla come un angelo: sembra una rondine annidata nell’incavo del suo corpo, bisognosa di conforto e calore, il cui cuore batte regolare nel languore del sonno.
E mentre sulle palpebre di lei grava un sonno sereno e indisturbato, negli occhi di Mario s’agitano figure e ricordi lontani.
La notte, la notte amica che li avvolge, è vasta e densa di profumi.
Dalla terrazza della villa di Mario, uno spiazzo a cielo aperto in cui ci si trovava inermi alla veglia immortale delle stelle, lo sguardo umano è libero di spaziare in tutte le direzioni illimitate della volta celeste senza incontrare ostacoli, mentre dal basso s’innalzano i pinnacoli degli alti alberi del giardino.
E’ un istante perfetto: il calore della presenza di Floria sul cuore, i raggi delle stelle che ammiccano benigni dal cielo terso… e i pensieri, i dolci pensieri che la memoria schiude a Mario sognante, trascinato dai ricordi a quando era accaduto il miracolo, il primo di tutta quella concatenazione di fortune che avevano portato ad ora.
 
(Mario ricorda)
 
La chiesa era fiocamente illuminata dai ceri posti accanto al tabernacolo, i candelieri a muro e le piccole candele votive lasciate ai fedeli nelle nicchie dei santi.
Mario era sul suo soppalco semicelato dall’ombra, in alto nella navata sinistra della chiesa, intento a certi fregi che il sagrestano si era raccomandato fossero fatti con la massima perizia, come appunto un pittore dell’ordine di Cavaradossi “doveva ben saper fare”.
Era sera tarda di un giorno infrasettimanale; nella chiesa non c’era anima viva oltre che il pittore.
Ma Mario non stava lavorando al suo fregio: l’aveva già finito da un’ora buona, nascondendolo al sagrestano, che se ne era andato via lasciandogli le chiavi e borbottando qualcosa a mezza voce.
Appostato sul suo palco, attendeva.
Che cosa attendeva? Il suo sogno, la sua ossessione, la causa del ghiaccio bollente che gli correva nelle vene.
La sua musa.
Floria Tosca.
 
Ed ecco lo scalpiccio proveniente dalla porta. Eccola, era lei! Deschi aveva detto il vero, dunque.
Dio, era davvero venuta! Mario divenne un fascio di nervi. D’un tratto fu preso da un’urgenza di scappare, rintanarsi in un qualche vano polveroso e sparire. Ma no – voleva vederla. Voleva vederla, non visto, ammirarla come l’aveva ammirata la mattina del giorno precedente, al ricevimento del Guardeschi.
 
Eccola.
Passi rispettosi provenienti dal fondo della chiesa.
Mario si sporse a vedere, sempre stando ben attento a non risultare troppo visibile.
Com’era bella! Una vera sirena, tanto ammaliante quanto Mario la ricordava.
Il pittore si sporse un altro poco dal soppalco su cui era sdraiato ventre a terra, tanto quanto bastava a garantirgli una discreta visuale senza rischiare di essere scoperto.
Vestiva di rosso antico, come il giorno prima al ricevimento; il suo passo e il suo atteggiamento erano svelti e decisi, seppure si guardasse attorno guardinga e cauta come se temesse di essere spiata o sorpresa da qualcuno.
Poi, arrivò di fronte all’altare (ora Mario la vedeva molto distintamente, e ritrovava con piacere in lei ogni tratto della donna di cui si era infatuato: l’alta crocchia di riccioli scuri, la pelle d’una calda sfumatura d’avorio, l’abito di quel meraviglioso colore che tanto le donava, i pendenti a goccia alle orecchie che talvolta brillavano rispecchiando la luce, muovendosi in sincornia con i movimenti dell’agile collo della cantante) e si inginocchiò brevemente, facendosi il segno della croce.
Quando fu di nuovo in piedi, passò qualche secondo in raccoglimento, come temendo di infrangere il silenzio sacro che regnava sovrano.
Poi, schiuse le labbra, iniziò a cantare.
All’inizio furono solo gorgheggi: scale ascendenti e discendenti, passaggi veloci di note, trilli e picchiettati, che ipnotizzarono Mario più di quanto avesse fatto la canzone che aveva cantato la mattina del giorno prima.
Questo era un lato della sua voce che non esibiva, un componente segreto della sua arte che Mario si sentì privilegiato di poter ascoltare.
Finiti gli esercizi, Tosca rimase in silenzio per qualche secondo. Mario provò un irrazionale brivido di panico in quei brevi istanti. E se non avesse cantato più?
Ma poi ricominciò.
Mario riconobbe il brano.
Era una canzone popolare, cantata dalle contadine e le ragazze al mercato, che parlava di una ragazza impazzita che piange il sole che tramonta, credendo che non risorgerà mai più.
Ma la melodia che usciva dalle labbra di Floria sembrava mille volte lontana dalla prima: sulla sua bocca la canzone assumeva un che di solenne, elegiaco, e allo stesso tempo talmente passionale da arrossirne.
La sua voce… ah, la sua voce. Morbida come petali di peonia, splendida come la più pura rugiada, dolce come il profumo del caprifoglio, nelle note più basse venata di inflessioni scure, misteriose, ipnotizzanti.
Mario senza accorgerne si lasciò andare a un rotto sospiro.
 
Lei si interruppe.
I suoi occhi dardeggiarono sfavillanti intorno, in cerca della fonte del rumore.
Lo trovarono.
-Chi siete?- chiese lei, bianca in volto per la sorpresa, acuendo la vista per scrutare i suoi lineamenti in penombra.
Mario trattenne il respiro. Che avrebbe fatto adesso? Le avrebbe parlato e confessato ogni cosa? E se poi… No, no; meglio sfruttare il suo alibi.
-Il pittore – disse, scegliendo un pennello a caso fra quelli che aveva sparsi accanto e mostrandolo alla donna come prova. Lei s’accigliò, esaminandolo con attenzione.
-Cavalier… Cavaradossi? –  aveva indovinato, ancora più sorpresa.
Mario si sentì invadere da una forza calda, da capo a piedi. Si ricordava il suo nome! Ed era … rossore? Era rossore quello che le colorava le guance?
-Precisamente- e le sorrise, sperando di dare l’impressione dell’affascinante artista e non del povero idiota.
- Mi perdonerete se vi ho ascoltata cantare senza dichiarare la mia presenza. Ero così incantato, che mi avete lasciato senza parole.
Tosca sembrò avere un attimo di esitazione, ma poi il complimento di Mario, che riverberava sincerità, la convinse a sorridergli. Gli fece dunque un gesto con la mano, dicendogli:
“Scendete, scendete – “
 
E così era cominciata.
A ricordare quei momenti adesso, fra le braccia della notte con l’amante addormentata sul petto, a Mario sembra siano passati pochi giorni, o forse mille anni.
 
Mario non è ciò che si dice un vero romano; suo padre è stato francese di nascita, di Parigi.
Un artista, come lui. Un giacobino, come lui. Uno sprovveduto, pure, - Mario ne ride fra sé – come lui: Roma gli aveva rubato l’anima; l’eterna Roma, con le sue gloriose rovine e l’aria di ere passate ancora aleggiante fra i palazzi. Roma la vittoriosa, regina delle arti e del sapere -ma anche Roma la sconfitta, l’oppressa. La bella prigioniera in balìa del nemico.
Roma aveva trattenuto il Cavaradossi padre con la sua arte e la sua storia; e Roma ora ha in pugno Mario, ma per mezzo delle ciglia scure e della voce soave di una donna.
Tanto meglio, è il pensiero di Mario.
L’amore per Tosca è qualcosa a cui non potrebbe mai rinunciare, partendo. Sradicarla dalla sua terra, sembrerebbe a Mario qualcosa di impensabile. Tosca è tale a una rosa rara, che a deportarla in paese straniero appassirebbe, scolorendo sotto un cielo ignoto.
Tosca appartiene a Roma quanto Mario appartiene a lei.
A Roma Tosca ha il canto, l’arte, il suo Dio e i suoi fiori da portare all’altare.
A Roma Mario ha l’amore, ed è ciò che gli basta.
 
Epilogo
 
Dopo la tortura, il sangue, la morte e il vuoto, si ritrovano.
Ad alba sorta, il freddo Tevere sfavilla ai primi raggi del sole, e fra i flutti loro si ritrovano, riunendosi nell’estasi.
Ci sono baci e risa, e appena qualche invisibile lacrima salata che si confonde docile alla corrente del fiume.
L’alba aurora che incorona Roma è la più bella che sia mai sorta.
Fuggono con gioia, nell’abbraccio fresco del fiume che li guida fino al mare, quel mare che significa libertà, quel mare che si erano promessi.
Vi giungono, e la brezza salata arriva a baciare ruvidamente i loro volti e una vecchia, sconnessa tartana si accosta a riva, con la chiglia coperta d’alghe e le vele che sbattono al vento. Potrebbero salire, imbarcarsi e partire per chissà dove, finalmente.
Ma all’improvviso non vogliono.
Da cosa dovrebbero più scappare, ora? Non c’è ombra che l’aurora non abbia vinto.
Un’attrazione familiare li costringe a voltarsi indietro, a ciò che si sono lasciati alle spalle, e a ricordare.
Perché partire?
E’ lei la prima a scoppiare in riso. Sì, ride; ride con la sua voce argentea, e ride e lo bacia, e in uno sguardo si dicono ogni cosa. La nave può aspettare. Tutto può aspettare. Ormai potrebbero stare cent’anni solo a mirare i riflessi nelle onde sulla spiaggia, e volendo altri cento a seguire il volo dei gabbiani.
Tornano indietro, infine, tornano a Roma, che è stata e sarà sempre la loro casa, il loro nido. Tornano, ma stavolta senza paura, nei luoghi del loro amore; tornarono al posto in cui appartenevano, per non lasciarlo più.
Rimirano ogni giorno l’alba proprio dai bastioni di Castel Sant’Angelo, avvinti l’uno all’altra, investiti di bellezza.
E’ davvero uno spettacolo magnifico; in quei commenti Floria dice che non avrebbero avuto una vista simile nemmeno in paradiso.
Ormai, le ombre si sono dileguate; se ne stanno sul parapetto ritti, fieri, loro che sono risorti insieme col nascere del sole.
 
Le ombre non esistono più… O forse, forse ancora ce ne sono: ma stanno in agguato, nei meandri oscuri della torre, dove il sole non arriva.
Si dice che quella macchia rossa sul pavimento non sia più venuta via: e che lo spettro del vecchio Scarpia, fosco e solitario, inquieti le notti dei suoi sanguinari successori.
Ma neppure lui trova pace, la notte: perché ode grida orribili provenire dalla stanza delle torture, e per quanto urli “Sciarrone, sciogli, sciogli! Sciogli tutto, fermati! “, le grida non cessano.
E fra tutte le urla, sente anche Tosca, la fiera Tosca, colei che l’ha ucciso. “O Scarpia, Scarpia… avanti a Dio!” lo ammonisce, e il barone viene percosso da brividi crudeli.
Per lui non c’è una nave, ne è sicuro. Nessuna nave, se non quella che porta dritta in fondo agli abissi, fra le braccia della dannazione eterna.
Per questo si nasconde.
Per questo maledice ringhiando il nome di lei, per questo piange lacrime inutili nei momenti della più cupa disperazione.
Il suo piano sanguinoso, alla fine, ha vendicato le sue stesse vittime.
Tosca ha vinto. Mario è vendicato.
Scarpia è dannato, ombra fra le ombre.
 
 
 
 
 
 
 
Nota dell’Autore
 
Dato lo scarso numero di fan dell’opera lirica che mi aspetto di trovare su questo sito, non mi aspetto recensioni, ma sarei molto felice di riceverli.
 
Per chi avesse letto questa fic senza avere la minima idea cosa sia “Tosca”: Complimenti! Ti sei spoilerato un po’ tutto, ma tranquillo, l’opera di Giacomo Puccini è comunque mille volte degna di essere vista/ascoltata, quindi spero ti venga lo stimolo di provare ad allargare i tuoi orizzonti!
 
Ascolti consigliati: Recondita Armonia, Qual’Occhio al Mondo, il Te Deum, Vissi d’Arte, E Lucevan le stelle, Final Duet.
 
Buon ascolto :)
 
Lou
 
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Teatro e Musical > Altri / Vai alla pagina dell'autore: LammermoorLace