Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: AlsoSprachVelociraptor    02/06/2015    2 recensioni
!!!*ATTENZIONE!* STORIA RISCRITTA E RIPUBBLICATA SU QUESTO PROFILO. NON LEGGETE QUESTA!! LEGGETE LA NUOVA VERSIONE!! (QUESTA VERSIONE è DATATA ED è QUI SOLO PER RICORDO)
Anno 2016. Shizuka Higashikata, la bambina invisibile, è cresciuta e vive una vita tranquilla con i suoi genitori Josuke e Okuyasu nella cittadina di Morioh, e nulla sembra poter andare storto nella sua monotona e quasi noiosa esistenza. Ma quattro anni dopo la sconfitta di Padre Pucci un nuovo, antico pericolo torna a disturbare la quiete della stirpe dei Joestar e dell'intero mondo, portandoli all'altro capo della Terra, nella sperduta cittadina italiana di La Bassa. Tra vecchie conoscenze e nuovi alleati, toccherà proprio a Shizuka debellare la minaccia che incombe sull'umanità. O almeno così crede.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: What if? | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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-Koichi mi ha detto che assieme a Jotaro verrà anche tutta la sua famiglia… sai, Rosanna e Jolyne e Emporio, quel ragazzino che hanno adottato quattro annetti fa… Vedrai che sarà una bella visita, non hanno mai visitato il Giappone! E anche la zia Holly, la sorella di Jojo! Te li ricordi?-
Okuyasu parlava a manetta, con un sorrisone teso e tutto tranne che sincero sul viso abbronzato, tenendo con forza la grossa scopa tra le mani mentre spazzava con foga il pavimento. Shizuka non rispose, come al solito. Non ne aveva alcuna voglia. Sbuffò e annuì, tenendo lo spolverino con una mano e sbattendolo svogliatamente sui soprammobili kitsch sul mobiletto specchio all’ingresso. Non voleva fare i mestieri domestici assieme a suo padre, ma l’aveva obbligata ad aiutarlo e ad imparare quello che lui faceva, come pulire e cucinare. Shizuka non era affatto tipa da casalinga, ma suo padre aveva insistito così tanto con il fatto di essere la “donnina di casa” che era stata costretta a cedere. Josuke l’aveva rimproverato ricordandogli che era lui in realtà la donna di casa, e avevano tutti riso. Forse tutti tranne lo stesso Okuyasu.
-Non mi ascolti mai!- fu il grido che trapanò i timpani di Shizuka e la riportavano alla realtà. –Sei davvero, davvero uguale a Ke..- e si interruppe.
Si voltò verso di lui, e notò che aveva gli occhi lucidi. –C’è qualche problema?- sussurrò la ragazza, spaventata dal comportamento del padre. Okuyasu negò, si asciugò gli occhi da sotto gli occhiali e riprese furiosamente a spazzolare il pavimento con la vecchia scopa, le sopracciglia accigliate e gli occhi scuri puntati sulle setole rovinate della scopa. –Polvere negli occhi- bofonchiò lui. Era una scusa bella e buona, ma Shizuka preferì non indagare troppo. Se Okuyasu non voleva dire qualcosa, è perché non andava detta.
-Sono felice che lo zio e la sua famiglia ci vengano a trovare.-
Shizuka riuscì a malapena a pronunciare quelle parole, ma aveva imparato a mentire, almeno per il suo bene. Suo padre alzò lo sguardo, le rivolse un sorriso, questa volta vero, e tornò a pulire i pavimenti, con più leggerezza, come se un peso gli fosse scivolato via dal petto.
Okuyasu voleva solo che sua figlia fosse felice. Non desiderava davvero altro da lei, né gloria né ricchezza. Voleva che studiasse, che trovasse un buon lavoro, una persona che la amasse e la rispettasse, e vivesse una vita felice. Non insisteva sul fatto che dovesse intraprendere una qualche sorta di carriera scolastica come invece premeva Josuke, e nemmeno voleva trovasse subito un lavoro e una casa propria come Tomoko. Semplicemente voleva fosse tranquilla, come Okuyasu non fu mai, e avrebbe tanto desiderato essere.
Si voltò ad osservarla e sorrise solo al pensiero che ormai sua figlia, quel fagottino che vide per la prima volta diciassette, quasi diciotto anni prima tra le braccia dell’allora suo fidanzato, fosse ormai una donna. E Shizuka lo trovò così, appoggiato con i gomiti alla scopa, immobile a fissarla con quegli occhi che lei non ha mai capito di che colore fossero. Alla luce artificiale sembravano quasi neri, al sole potevano variare da un comune castano a un ipnotico viola scuro. Era inquietante, qualsiasi colore fossero, ed era inquietante che rimanesse a fissarla. Aveva dei strani momenti in cui rimaneva immobile a fissare e pensare, e quei momenti Shizuka li odiava.
-Non vedo zio Jotaro da un po’- si affrettò a dire lei, voltandosi e passando inutilmente lo spolverino sotto la ringhiera delle scale.
-Quattro anni?- chiese Okuyasu.
-Quattro anni, quasi, sì.- rispose Shizuka. –A Miami, quando io e zia Yukako vi abbiamo raggiunti dopo che il tipo cattivo…-
-Pucci.-
-Sì, quello- ringhiò Shizuka. –Dopo che quello voleva ammazzarci tutti.-
Okuyasu si voltò a osservarla, quasi sentendosi in colpa. Lui, Josuke e Koichi erano stati urgentemente chiamati da Jotaro a Miami, e non poterono fare altro che lasciare la piccola Shizuka a casa della nonna, Tomoko. Al loro ritorno seppero dalla donna che Shizuka pianse tutti i giorni durante la loro assenza, sussurrando che non voleva rimanere ancora da sola. Il solo ricordo diede una forte fitta alle tempie a Okuyasu. No, questa volta era diverso. Questa volta nessuno si sarebbe separato, nessuno avrebbe sofferto. Magari erano solo venuti per festeggiare il diploma di fine scuola di Shizuka. Okuyasu ci sperava, ma sapeva che la realtà era ben lontana da ciò.
-Non succederà niente questa volta, te lo prometto.-
Shizuka alzò lo sguardo su di lui, non sorrise. Annuì e tornò a girovagare per la grossa sala degli ospiti, senza sapere bene cosa fare.
I ricordi di quell’anno, il 2012, le tornarono in mente. I suoi genitori e Koichi che partivano per Miami ad aiutare questo fantomatico “zio Jotaro”, di cui aveva tanto sentito parlare, e mai davvero visto. Almeno, non che ricordasse.
Partirono a metà marzo del 2012, e per giorni interi non ebbero più loro notizie. Shizuka era rimasta a casa di sua nonna Tomoko, che, benchè fosse raramente a casa, sopportava a malapena. Troppo giovane per essere una nonna e, a suo tempo, quasi trent’anni prima, troppo immatura per essere madre. Spesso Yukako veniva a trovarla, e cercava di rimanere discreta e sorridente benchè, dietro i suoi sorrisi freddi, si celasse la paura di perdere Koichi. Shizuka la vedeva, ma faceva finta di nulla, per il bene di tutti.
Tutto rimase bloccato in una coltre di ansia e terrore, fino al ventidue marzo. Shizuka aveva appena finito i compiti, dopo una veloce cena al McDonald offerta da sua nonna, quando una tremenda sensazione la fece rabbrividire. Tutto ad un tratto, la terra tremò sotto ai suoi piedi, e in un tempo non identificabile, tutto mutò. In quel lasso di tempo, si sentì tremare anche dentro. Il mondo sembrò capovolgersi un paio di volte, e Shizuka svenne. Quando si risvegliò, le sembrò di essere diversa. I colori del mondo le parevano diversi, i suoni, la stessa casa di nonna Tomoko le sembrò estranea. Scese a fatica le scale, appoggiandosi a fatica alla scalinata, e si diresse in cucina, trovando Tomoko nelle stesse condizioni. Confusa, spaesata, ma sana e salva.
Un terremoto di inaudita violenza, titolarono i giornali. Zolle che si muovono assieme, terremoti simultanei in diversi posti del mondo, dall’Italia al Giappone, da Miami all’Australia alla Russia. Un fenomeno straordinario, dissero i telegiornali. Semplicemente un movimento improvviso dei continenti, rassicurarono i geologi e i giornalisti. Ma Shizuka sapeva che non era quello, non era così semplice da spiegare. Era cambiato qualcosa, da allora. Cosa, di preciso, non le era ancora chiaro.
E, dallo sguardo abbattuto di Okuyasu, Shizuka non ebbe mai il coraggio di chiedere se lui sapesse di preciso cos’era successo. Suo padre Josuke parlò di accelerazione del tempo e universi paralleli mentre era ancora sotto morfina, nell’ospedale in Florida in cui era stato ricoverato dopo il combattimento contro padre Pucci. Shizuka, accompagnata da Yukako e i suoi due figli, aveva raggiunto Orlando qualche giorno dopo la fine del combattimento, e aveva trovato tutti in ospedale, intontiti e feriti.
Il fatto strano era che nemmeno Crazy Diamond era riuscito interamente a guarire le ferite inflitte da Pucci. “Perché il tempo andava veloce, e anche Crazy D è veloce, ma non così veloce, e poi tutto andava più veloce, ma solo le cose andavano veloce” le aveva spiegato Josuke, gesticolando con l’unico braccio sano, le sue parole strascicate e a malapena comprensibili per colpa di enormi dosi di morfina e antibiotici. Shizuka aveva deciso di non ascoltarlo. Un po’ come sempre, del resto.
Shizuka, annoiata dal pulire casa, rimase a fissare la televisione spenta e a pensare a quell’evento. Era stato sicuramente strano. Non ricordava nemmeno che giorno fosse successo, se il ventuno o il ventitré marzo del 2012. Era come se quei giorni fossero stati cancellati, strappati dal tempo, e…
-Shizu, hai sonno?- le gridò nell’orecchio Okuyasu, col suo solito tono troppo alto. Shizuka gridò spaventata e divenne invisibile, terrorizzata dall’improvvisa interruzione dei pensieri in cui era troppo presa. Okuyasu scoppiò a ridere mentre Shizuka tornava visibile, col viso rosso dall’imbarazzo. –Cosa vuoi?- sbottò lei, incrociando le braccia al petto, indispettita, mentre Okuyasu si alzava gli occhiali per pulirsi gli occhi dalle lacrime a forza di ridere.
-Scusa… volevo dirti di andare a letto. Domani hai scuola, ed è tardi.-
Lei alzò lo sguardo su suo padre, contrariata. –E tu?-
-Continuo io- le rispose, sorridendole. Shizuka odiava aiutare suo padre a pulire casa, ma odiava ancora di più che lui facesse da solo, in quella enorme villa. Okuyasu si piegò su di lei e le scostò la frangia dalla fronte, schioccandole un rumoroso bacio a stampo tra le sopracciglia. –Vai, testona. E non pensare troppo, che poi ti si consuma il cervello.-
Shizuka si staccò malamente da lui e sbuffò a voce alta, dandogli un veloce abbraccio e correndo su per le scale che conducevano al piano superiore, dove si trovavano le camere da letto.
Nel salire le scale, rimase a fissare la propria ombra, per qualche motivo. Era grande, scura e accogliente. Non sembrava nemmeno la sua, di ombra. Squadrata e larga, non si riconosceva per niente. Era strano. Rimase a fissarla finchè non arrivò alla fine della rampa delle scale, dandosi dell’idiota: possibile che dopo quasi diciotto anni di vita ancora non riconoscesse la propria ombra?
Fino ai cinque anni di vita non hai avuto un ombra, disse l’ombra. O almeno, a Shizuka sarebbe piaciuto se gliel’avesse detto. E aveva ragione. Era completamente invisibile, a casa del nonno, prima di essere adottata da Josuke. Era anche giusto che non la riconoscesse, probabilmente. Contenta di quella spiegazione arrivata da chissà dove, passò in punta di piedi davanti alla camera dei suoi genitori in cui dormiva Josuke. Aveva bevuto qualche birra prima di dormire, per cui era decisamente meglio non svegliarlo. Quasi corse nella propria camera, sempre accompagnata da quell’ombra non sua, ma così vicina a lei, si infilò svelta sotto le coperte e spense la luce, rimanendo a guardare il buio soffitto. –Hai qualcos’altro da dirmi, ombra?- sussurrò. –Sai perché zio Jotaro e la sua famiglia vogliono vederci?- continuò, ma stavolta non arrivò nessuna risposta. Andava bene così. Senza che nemmeno se ne accorgesse, persa nel suo flusso di pensieri continuo, chiuse gli occhi e si addormentò.
 
Okuyasu finì di pulire casa a notte inoltrata. Era stanco morto, ma non poteva demordere, non ora. Non voleva che Jotaro e la sua famiglia vedesse la casa in soqquadro, e pensasse male di lui o di Josuke, non peggio di quanto lo vedessero ora. Aveva deciso di rimanere a casa e non lavorare, e queste erano le conseguenze della sua decisione. Non è facile fare il casalingo, era faticoso e noioso, quasi stressante, ma qualcuno doveva pur farlo. E sicuramente non quei viziati di suo marito e sua figlia.
Soddisfatto del suo lavoro, decise che era il momento del meritato riposo. Con passo lento e stanco salì le scale scricchiolanti della casa in cui incontrò per la prima volta l’uomo che amava, diciassette anni fa. Sorrise, pensando che il loro primo incontro è stato uno scontro. È stato amore a quasi prima vista, per lui. Dopo che gli salvò la vita e ne diede un valore, Okuyasu cadde come un sacco di patate ai suoi piedi. Disse che la sua vita era importante. Che voleva che vivesse. Nessuno gli aveva mai detto una cosa così scontata ma così importante. Non poteva definire quel giorno un bel giorno, comunque: in quella stessa giornata conobbe il suo futuro marito e suo fratello, l’unico componente (almeno, l’unico senziente) di ciò che era rimasta della sua famiglia, morì. Scosse forte con la testa, cercando di allontanare quei pensieri. Gli mancava suo fratello, ma la sua vita era cambiata. Era un uomo adulto, un genitore responsabile, ed un marito fedele.  Non era più il ragazzino debole e dipendente del 1999.
Si sedette pesantemente sul letto matrimoniale, svegliando Josuke.
-Sono le tre.- borbottò lui, aprendo un occhio e guardando la sveglia sul comodino, col suo solito tono tutt’altro che gentile o comprensivo.
-Ho appena finito di pulire casa. Sai, è un po’ grandina. E l’ho fatto solo per i tuoi parenti!- mormorò l’altro, dandogli un pizzicotto sul braccio. Josuke scostò il braccio con uno scatto quasi violento e si rigirò nel letto, verso suo marito. Aprì a fatica gli occhi stanchi, solo per guardarlo coricarsi e poi fissarsi per qualche secondo.
-Ti amo- sussurrò Okuyasu, accarezzandogli una guancia e appoggiando le labbra alle sue. Adorava sentire la leggera barba di suo marito pizzicare sotto i suoi polpastrelli, e i suoi corti capelli castani tra le dita quando lo baciava.
Josuke si era tagliato i capelli nove anni prima, per il loro matrimonio. Era già iniziata la cerimonia e lui non si era ancora nemmeno lavato i capelli, acconciare il suo caratteristico pompadour sarebbe stato impossibile, ci avrebbe impiegato almeno qualche ora e il matrimonio sarebbe saltato. E non poteva permettersi di rinviare le nozze con l’uomo che amava. Chiese a Koichi, suo amico fidato, di tagliargli i capelli corti, più corti che poteva. E si presentò così all’altare: con i capelli rasati cortissimi e le lacrime agli occhi.
–I miei capelli sono molto importanti per me, lo sai- gli disse, prendendo le mani di Okuyasu tra le sue. -...rappresentavano il ragazzo che mi salvò la vita, vent’anni fa. Era il mio eroe. Ma ora non ne ho più bisogno. Tu sei il mio eroe, Okuyasu. Io ti amo, e voglio vivere tutta la mia vita con te.- gli disse. Erano passati ben nove anni da allora, tanti ma allo stesso tempo pochissimi.
Okuyasu sospirò sognante, ricordando quei bei momenti. Passò lo sguardo sulla schiena di Josuke, che nel frattempo si era già addormentato ed era tornato alla posizione originaria, ovvero coricato su un fianco, voltandogli la schiena.
Okuyasu gli cinse la vita in un abbraccio, appoggiandogli la fronte alla nuca e addormentandosi, con una strana sensazione nel petto.
 
 
 
 
My father said: "Don't you worry, don't you worry, child.
See, Heaven's got a plain for you.
Don't you worry, don't you worry now."
 
Don't You Worry Child, Swedish House Mafia (2012)
   
 
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