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Autore: Alecraft Mounts    04/06/2015    3 recensioni
“Ogni tanto, la domenica, mi chiedo chi me lo faccia fare a recarmi su un circuito a correre come un imbecille senza sapere se poi alla sera tornerò a casa”;
“Nel campo della paura, se ne sperimenta di più in sette minuti sul Nurburgring di quanto accada alla maggior parte delle persone in tutta la vita”
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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.:NURBURGRING:.




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Il percorso più odiato da ogni pilota. Il più temuto, più difficoltoso, più inquietante. La paura che sperimenti in questo circuito è sette volte più grande di quelle che hai già subito in tutta la tua vita. Figuriamoci a correre sotto la pioggia; nebbia compresa.

All'inizio ero dell'idea che, certo, non si sarebbe trattato di una passeggiata affrontare questo percorso tedesco, ma credevo di poter tagliare la linea di traguardo.

Mi ero sbagliato.

Probabilmente, partecipare a quel torneo è stato l'errore più grande della mia vita.

L'ultimo della mia vita.


Eravamo sulla linea di partenza. Ero il numero sette dei sedici che partecipavano. Ricordo che osservavo il cielo tempestoso, dominato da nubi grosse e nere. Sembravano dei vulcani pronti ad eruttare milioni di milioni di gocce di pioggia. L'asfalto era già bagnato; era piovuto ininterrottamente per tutta la notte. Quel cielo sembrava rappresentare il mio stato d'animo.

Tempestoso e ansioso, agitato e teso.

Non avevo mai corso su quel tracciato tedesco. Era la mia primissima volta. Speravo in un bel tempo, dato che comunque ero consapevole della difficoltà e dei rischi in cui si correvano in quei circa trentaquattro chilometri di pista, formato per una grande percentuale da curve piccole e strette. Di rettilinei ve ne erano, sì, ma piuttosto brevi e frastagliati quasi; l'asfalto giaceva su di un terreno imperfetto e, in alcuni tratti, abbastanza ripido.

Ma, purtroppo, come sempre, la fortuna vuole che ci sia tempo burrascoso e bigio.

Spostavo lo sguardo dalla natura che mi circondava alla mia Lexus bianca e nera, con degli adesivi sui fianchi e sul cofano che, colpiti dai raggi del sole, ricreavano i colori dell'arcobaleno. Quel giorno erano grigi e spenti, come il cielo che dominava sul mio essere; su quello di tutti i piloti che avrebbero affrontato quell'incubo di circuito.

Ero tesissimo. Ricordavo di provare una strana sensazione allo stomaco, e una sensazione di vertigini talmente forte che non riuscivo a rimanere in equilibrio; mi appoggiavo con la schiena al fianco della mia vettura, concentrandomi sul suo alettone posteriore in carbonio.

Il perché di quello strano comportamento non ne avevo la più pallida idea. Cercavo di pensarne a qualche d'una, ma nulla. Nessuna spiegazione su quelle mie strane sensazioni.

Solo un collegamento riuscii a fare. Ogni volta che mi sentivo a quel modo era perché stava per accedere qualcosa brutto.

Ricordo di aver scosso il capo a quel pensiero. Già ero confuso e spaventato da quello che mi aspettava; mancava solo un qualche presentimento negativo per completare il quadro generale del mio stato d'animo.

Qualcuno mi batté una mano sulla spalla sinistra.

Mi voltai, incontrando gli occhi verde bosco di mio fratello minore Jonathan.

Era un amante della velocità e delle auto, in particolare preferiva la Ferrari. Ricordo ancora quando, da piccoli, lui incollava ai muri della nostra vecchia camera da letto numerosissimi poster di Ferrari. I miei unici segni che lasciavo sulle pareti erano costituiti da immagini di Abarth, Mercedes e Ford.

-Andrà tutto bene, fratellone.- mi disse, facendomi l'occhiolino.

Sorrisi in risposta. Cercai di farlo assomigliare ad un sorriso rassicurante e deciso. Ma dubito di esserci riuscito. La paura e l'ansia erano talmente forti che sarei potuto esplodere da un momento all'altro.

-Di cosa ti preoccupi?- mi chiese mio fratello. Mi osservava con sguardo quasi concentrato negli occhi, come se volesse scavare nella mia anima. Evidentemente era proprio ciò che aveva fatto.

Di cosa mi preoccupavo, io? Che cos'era che mi spaventava a tal punto da uccidermi dentro addirittura? Forse riguardava la complessità del percorso, forse il fatto che ci fosse brutto tempo; dopotutto io ho sempre avuto problemi a correre su piste umide e bagnate dalla pioggia.

-Penso sia una paura del Nurburgring.- risposi, pensieroso.

-Dai, su. Andrà tutto bene. Cosa dovrebbe accaderti, scusa?- mi chiese, scavando ancora nella mia anima irrequieta.

-Beh, qualunque cosa. Sai benissimo quanto me i rischi che si corrono per gareggiare sotto la pioggia, e per di più in tracciati come questo. Piloti migliori di me sono morti in incidenti su circuiti, per lo più con assenza di pioggia. Chi mi dice che non mi succederà la stessa cosa?- cominciai a parlare, sfogando tutti i miei pensieri e dubbi.

Era vero.

Piloti più esperti di me sono morti in circostanze davvero banali. Se la loro fine è avvenuta a quel modo, io potrei morire al novanta per cento in un tracciato come quello del Nurburgring.

Non sono pessimista, ma semplicemente realista.

Comunque, mio fratello mi prese per le spalle, osservandomi dritto dritto negli occhi. L'iride verde bosco di lui si rifletteva nella mia color nocciola.

-Ascolta, se continui a pensare questo ti ucciderai da solo, ok? Ma che dico?! Guai a te se ti ritrovo a dire cose del genere! In quanto tuo fratello ti ordino di pensare positivo, ok? Magari vinci anche il torneo, su!- cercò di rassicurarmi Jonathan.

La mia anima si alleggerì di poco, come se alcuni pesci fossero riusciti a scappare dalla pesante rete in cui erano intrappolati, diminuendone il peso.

Vincere quella gara sarebbe stato come eliminare da dosso tutte le paure che ti hanno sempre attanagliato l'anima.

Certo, vincere quella coppa d'oro sarebbe stato un sogno, un vero e proprio sogno che si realizza.

Non sono quel tipo di uomo che pensa solo ad accumulare soldi e premi. Si, tutti ci pensano, tutti vorrebbero, ma io, a differenza di molti, corro non principalmente per la vittoria, ma, appunto, proprio per correre, assaporare quei duecento chilometri orari che ti schiacciano contro il sedile dell'auto, poter sentire le vibrazioni della vettura, il rombo del motore, osservare il paesaggio scorrermi davanti agli occhi a velocità immensa. Questo era ciò che costituiva la mia vita, ma che alimentava anche la mia paura più grande: quella di un possibile incidente di percorso. Non mi riferisco a qualche danno all'automobile, bensì a quello che potrebbe succedermi se, per esempio, sbando e mi schianto contro un muro.

Questa è una cosa che, volendo, potrebbe accadere a chiunque. Basta che tutti noi pensiamo ad Ayrton Senna. Morto perché il volante non rispondeva ai comandi, si schiantò nel muro del Tamburello a circa 300 chilometri orari.

Se è morto lui, chi mi dice che non farò la sua stessa fine? Non per errore della mia squadra, ma per sbaglio mio, ne sono certo.

Scossi il capo. Non volevo pensarci. Non dovevo. Avevo una famiglia: una bella moglie e un figlio di quindici anni. Aveva la mia stessa passione: quella della velocità. A mia moglie, Heleonora, non è mai piaciuto ciò. Le corse automobilistiche la spaventavano. Chissà come aveva la patente! Spesso le ho proposto di guidare la mia Abarth, ma lei si è sempre rifiutata; preferisce la sua Smart dai colori del mare limpido, lucente, turchese.

Trascorsero altri cinque minuti, quando ci fu detto di prepararci sulla linea di partenza. Salutai un ultima volta Jonathan, e poi mi diressi in direzione della mia Lexus. Intanto, il battiti cardiaci aumentavano, l'ansia aumentava a mano a mano che il tempo passava, la paura assieme a quest'ultima.


Quasi un quarto d'ora dopo eravamo giù in pista. Effettuai le prime curve, e poi ecco che tutti ci inoltriamo nel percorso mortale e fatale, scavato all'interno della vegetazione. Pioveva tantissimo, riuscivo a scorgere a malapena le auto in movimento di fronte. La velocità massima che raggiungevo era quella di duecentoquaranta chilometri orari; sapevo di poter spingere la mia auto oltre, anche a superare i trecento chilometri orari, ma la paura me lo impediva. A stento schiacciavo l'acceleratore.

Avevo quasi raggiunto la curva seguente, quando comincio ad udire le prime sgommate sull'asfalto.

Uno, due, tre secondi.

Poi un tonfo sordo; qualcosa strusciava sull'asfalto, emettendo uno stridio fastidiosissimo.

Bandiera gialla.

Ci viene segnalato di rallentare.

Freno quel che basta per raggiungere i cinquanta chilometro orari; la prima marcia impostata.

L'auto che avevo di fronte svolta, percorrendo la curva.

Ed io riesco ad osservare l'auto schiantata contro una delle barriere di sicurezza.

Era una bella BMW, dalla livrea bianco panna, con strisce azzurre, blu e rosse sui fianchi e sul cofano.

Beh, era stata una bella BMW.

Adesso giaceva al di fuori della curva, sullo sterrato; parafanghi e paraurti anteriori spaccati e lesionati; questi ultimi si erano completamente staccati dalla carcassa della vettura, prima d'un bel bianco panna, adesso sporca di terriccio, ammaccata e graffiata.

Lo dicevo che con la pioggia non si dovrebbe gareggiare; un po' troppo pericoloso a mio parere.

Rallento ancora di più per osservare meglio la povera auto schiantata. Anche il vetro anteriore era lesionato. Pareva quasi sul punto di spaccarsi completamente.

Il pilota, intanto, cercava di uscire dalla vettura danneggiata; diversi uomini che indossavano divise arancioni e gialle fosforescenti intervennero, aiutando il ragazzo che, apparentemente, non sembrava aver subito gravi ferite. Anzi, fisicamente sembrava perfettamente in forma.

Quando uscì dall'auto, il pilota osservò, immagino con sguardo distrutto, la sua BMW danneggiata.

Purtroppo non vidi cosa fece dopo, perché fui costretto ad aumentare la velocità della mia vettura.

Certo: fisicamente sembrava stare bene. Ma emotivamente? Come poteva sentirsi?

Di certo non era allegro e spensierato; dopotutto, aveva rischiato seriamente di morire.


Metà tracciato, ed io scalo la classifica; dal settimo posto passo al secondo. Purtroppo quel pilota dovette ritirarsi; con l'auto così malridotta non poteva mica gareggiare. Mi chiedevo come si potesse sentire, se avesse superato lo shock del momento.

Speravo in un sì.

Fortunatamente non vi erano stati altri incidenti di percorso; beh, insomma, qualche auto aveva rischiato l'identica sorte che era toccata a quella povera auto tedesca, ma fortunatamente se n'erano usciti con solo qualche graffio alla vettura, oppure con quale piccola ammaccatura.

La mia, di auto, stranamente aggiungerei, era ancora intatta. Mi sarei aspettato un qualche errore da parte mia, e addio cara vettura. E invece no. Se non fosse per la pioggia che colpiva violentemente asfalto, terriccio e tetto dell'automobile, adesso sarebbe linda e pinta, ancora colorata di quei bianco e nero intensi, gli adesivi avrebbero riflesso la luce del sole, colorandosi di un bel motivetto arcobaleno.

Ero tranquillo; quel tracciato non era poi così male, dopotutto. Tutto stava nel concentrarsi.


Dopo qualche minuto raggiunsi il lungo rettilineo del percorso; la Peugeot che mi sovrastava, oramai, superava i trecentodieci chilometri orari; la mia raggiungeva, con enormi sforzi, al massimo i trecentoventi. Quella vettura era stupenda esteticamente, e di cavalli ne aveva un bel po', dato che, dai miei calcoli, pareva potesse raggiungere i cento chilometri orari in pochissimo più di un secondo.

Semplicemente straordinaria.

Ma di certo non era quello che mi impediva di vincere la gara; ero sicurissimo del fatto che la mia Lexus avrebbe potuto benissimo battere quel mostro di vettura. Così spinsi ancora di più il pedale dell'acceleratore.

Contemporaneamente alla sensazione di piacere e di gioia che la velocità mi donava, il mio animo era scosso da tremiti di paura.

Spesso, l'auto, ricorreva all'antipattinamento per evitare di scivolare sull'asfalto bagnato, ancora tempestato da scariche di pioggia sempre più violente e frequenti.

Il tachimetro ora segnava i trecentodiciotto chilometri orari, ora i trecentoventi, ora i trecentodieci. Intanto quella Peugeot mi sovrastava di numerosi secondi; superava i trecentoquaranta, poco ma sicuro: era un vero e proprio gioiello, una scheggia, una regina della velocità.

Ma io non mi abbattevo.

Sapevo di avere ancora qualche speranza contro quella vettura, che era un bolide a tutti gli effetti.

La Peugeot cominciò a rallentare, ma io non me ne accorsi; la pioggia era troppo forte, e l'acqua aizzata dalle ruote posteriori della vettura di fronte era troppa. Mi accorsi che decelerava solo quando fui troppo vicino per evitare l'impatto.

Andai nel panico.

Schiantarsi a più di trecento chilometri orari.. Era troppo.

Cercai di deviare, di derapare, di fare qualunque cosa per ridurre l'impatto.

Purtroppo, cozzai con il muso dell'auto contro il parafanghi posteriore sinistro dell'auto; quest'ultimo si ruppe, frantumandosi; la Peugeot perse il controllo a causa dell'urto improvviso, e non riuscendo a riacquistare il controllo, tagliò un intera curva, schiantandosi in pieno contro una delle barriere metalliche del tracciato, mandando a pezzi l'intero cofano. Poi fu colpita in pieno fianco dalla mia Lexus, la quale si era rovesciata addirittura a causa del potente urto.

Ricordo che sbattei violentemente la testa contro il volante dell'auto; gli airbag, per qualche strano motivo, non si attivarono, nonostante l'impatto devastante.

Svenni sul colpo.

O almeno, pensavo di essere svenuto.

Quando una luce bianca, qualche ora dopo, sostituì quella del buio pesto all'interno dei miei occhi, capii che ormai avevo perso.

Definitivamente.

Non si poteva più tornare indietro.

Avevo buttato via la mia vita; l'avevo sprecata.

Compresi che, oramai, non potevo più fare nulla, se non accettare l'idea di essere morto, e di aver, finalmente, raggiunto la pace eterna. Chissà se sarebbe stato così per il resto della mia eternità.


Qualche giorno dopo furono effettuati i funerali. Anche il proprietario della Peugeot non aveva resistito all'impatto, che gli fu fatale, come a me.

Intanto, dall'alto, osservavo la mia famiglia.

Heleonora era inginocchiata di fronte alla mia lapide. Numerose lacrime le solcavano le sue belle guance, sempre morbidi e calde. Indossava un completo nero, in netto contrasto con i suoi capelli, riccioluti, rossi come il fuoco. Gli occhi nocciola, che di solito emanavano dolcezza capace di contagiare chiunque, adesso sembravano spenti. E non si sarebbero riaccesi mai più. Dylan, mio figlio, poggiava una mano sulla spalla di Heleonora; il volto era nascosto dal suo abbondante ciuffo di capelli castani; nella mano sinistra reggeva il mio casco da competizione, quello che indossavo quando gareggiai sul Nurburgring: di colore giallo e blu, con su adesivi della Red Bull.

Osservavo la scena con malinconia, mentre mi pareva di sentire una lacrima bagnarmi la guancia. Certo che no... Come potevo piangere? Ero morto... Non potevo nemmeno provare dolore, era tecnicamente impossibile per me. Ho trovato la pace eterna... ma forse questo è solo ciò che penso? Probabilmente porto in me un grosso peccato.

Quello di aver abbandonato la mia famiglia; mia moglie, mio figlio, e anche mio fratello, che però non riuscii a scorgere al mio funerale. Forse non l'avevo notato, forse non voleva venire, forse si era addirittura rifiutato di partecipare.

Certo, le persone è sempre meglio ricordarle da vive che da morte.

O forse poteva essere arrabbiato.

Dopotutto, era stato lui ad incitarmi di partecipare a quella competizione.

No, non era colpa sua se io sono morto.

La colpa è sempre stata mia.

Dovevo sapere di non poter competere con quella Peugeot. E invece sono stato così stupido da provare a superarlo.

Non dovevo assolutamente commettere quell'errore. Ma oramai era fatta. Tentare è stato l'errore più grande. Partecipare è stato l'errore più grande.

Pre-angolo autrice:

Eccovi delle immagini che rappresentano rispettivamente Lexus, BMW e Peugeot, protagoniste e personaggi secondari della storia!


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Angolo autrice:

Buonasera a tutti voi che avete letto questo mio piccolo sclero!

Ebbene sì, solo così posso definirlo: piccolo sclero, o, per meglio dire, grandissimo sclero! Per lo più anche organizzato maluccio, lo devo ammettere. Ebbene, questa idea è nata da due frasi che ho letto su internet al riguardo, ovvero:

Ogni tanto, la domenica, mi chiedo chi me lo faccia fare a recarmi su un circuito a correre come un imbecille senza sapere se poi alla sera tornerò a casa” di Jody Scheckter;

Nel campo della paura, se ne sperimenta di più in sette minuti sul Nurburgring di quanto accada alla maggior parte delle persone in tutta la vita” di... non ricordo chi la dice, I'm sorry xD

Spero che abbiate apprezzato questa one-shot!

Un abbraccio da parte di Alecraft Mounts!

Ciao ciao a tutti voi! ;)

   
 
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