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Autore: pierres    10/06/2015    3 recensioni
Vita e morte di un grande rivoluzionario. E la polvere che c'era nel mezzo.
Suo padre pure si chiamava Ernesto, e gli diceva che i calzini di Donna Nina non servivano a nessuno - erano pieni di buchi già appena fatti e duravano al massimo una settimana.
Sesta classificata al contest E storia sia! indetto sul forum di EFP.
Genere: Guerra, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Cuba/Che Guevara
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Note introduttive: La mia storia non ha alcuno scopo o opinione polita al suo interno, ma è a puro fine di divertimento. Ovviamente, visto la scelta del soggetto, potrete intuire che non sono fascista - XD - ma ciò non vuol dire che sia comunista. Cioè, non è lo scopo della storia.
I riferimenti sono in fondo, per il resto... buona lettura! :)





Polvo - 9 Ottobre 1967
 
seguiremos adelante
como junto a ti seguimos
y con Fidel te decimos:
hasta siempre, Comandante.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ernesto, della sua infanzia, ha qualche disegno sbiadito, qualche verso di Pablo Neruda1, e il respiro affannoso che gli lasciavano le giornate di luglio. Il cielo dell'Argentina era sempre azzurro, neanche un cirro a solcarlo trasversalmente - non gli importa se è idealizzato, l'unica cosa di cui può fidarsi è la sua memoria e lui ricorda di aver guardato sempre in alto, mai i suoi piedi, mai la polvere - ci sarebbe stato tempo dopo.
Intorno a lui, le persone avevano i volti sereni e pieni di rughe del sorriso - non vedeva le toppe sui vestiti, non vedeva le pieghe di preoccupazione sulla fronte quando si pensava al pranzo giornaliero, al cibo per i bambini, alle scarpe nuove che poi non arrivavano mai, meglio legare insieme i pezzi dei vecchi sandali.
Donna Nina tutti i giorni sedeva su una vecchia sedia di plastica bianca, con le gambe piegate all'esterno come i gambi di qualche fiore calpestato, e con un cesto di vimini in mano intrecciava calzini tra gomitolo e ferro. Li vendeva per pochi soldi al primo disgraziato che passava di lì.
Ernesto di lì ci passava, per andare a scuola o alle partite di calcio, ma non comprava niente - Donna Nina lo guardava passare e non sembrava giudicarlo. Si rimetteva a intrecciare calzini e berretti con i capelli bianchi, sudati, appiccicati alla fronte di cuoio screpolato. Suo padre pure si chiamava Ernesto, e gli diceva che i calzini di Donna Nina non servivano a nessuno - erano pieni di buchi già appena fatti e duravano al massimo una settimana.
Impegnato nelle partite a scacchi al secondo piano, sul tavolo della cucina, ogni tanto lanciava uno sguardo fuori dalla finestra - nell'afa che solo le estati argentine sanno stillare, sotto il sole che batteva come un martello sull'incudine, Donna Nina era seduta sulla sua vecchia sedia di plastica bianca, senza nemmeno un cappello perché per sé non ne aveva. Con la testolina appoggiata sulle sue ginocchia, le braccia troppo sottili, una bambina sonnecchiava intrecciando le dita nella sua grande gonna arancione. Ogni tanto l'anziana allungava una mano callosa e le spostava le rade ciocche di fini capelli dalle guance e dal collo - aveva negli occhi un tale amore che anche questi, pur essendo dello stesso colore del legno, prendevano il tono del cielo e si mescolavano nei colori caldi e vivi dei suoi ricordi argentini.
Ernesto li comprava, i calzini di Donna Nina. Poi, prima di andare a scuola o alle partite di calcio
2, li buttava nel cestino dietro l'angolo e li ritrovava mangiucchiati dai topi. Con i soldi che restavano si andava a comprare un gelato - Donna Nina, con le sue dita rallentate dall'artrosi, con gli occhi quasi ciechi, sorrideva e si spaccava le labbra.

-

Davanti ai suoi occhi stanchi, il fuoco guizza fin troppo allegro ma mai abbastanza caldo, e tutto intorno la notte è blu come l'inchiostro, densa - eppure se guarda in alto, verso quel cielo che è sempre lo stesso, vede le scintille ardenti salire e poi spegnersi, oppure soltanto diventare stelle.3
Due giovani, poveri ragazzi sono seduti vicino a loro con le mani di vetro soffiato rivolte al falò, gli occhi che sembrano fragili ma, lo sa, non si spezzano - sono come i cristalli, come le fiamme, come quelle stelle così alte e lontane che sembra  non li stiano nemmeno guardando, come il motore della Poderosa II - è vecchia e piena di acciacchi, ma non è la moto materiale che interessa ad Ernesto, è il suo rombo che sente nelle orecchie anche quando è spenta, e l'odore dell'olio per motori che per associazione è diventato quello della libertà.
Lui e Alberto gli hanno chiesto se volevano condividere la coperta. Loro - infreddoliti, tremanti, così giovani - hanno risposto di sì.
Mentre si stringono sotto quel panno tarlato, abbracciati, fingendo di dormire, le loro figure sembrano fatte di acqua aurea e risplendono di riflessi di scintille e luce di luna - mentre respirano flebili, ogni loro centimetro pare ricoperto dell'oro dell'Elisio, le loro teste incorniciate di raggi, e in quella sera fredda Ernesto capisce chi sono i veri santi. In quella sera senza luce, che invece sembra averne fin troppa, quei due giovani comunisti simboleggiano per lui i valori degni di essere salvati. I diritti che meriterebbero, e che non hanno - il rosso della bandiera sventola nei loro occhi chiusi, lo vede anche se son coperti dalle palpebre.
Un lenzuolo rattoppato e un falò pieno di scintille è tutto quello che gli serve per capirli - per capire. Quando il giorno dopo li salutano, gli regalano la trapunta - il dono che gli hanno fatto loro, per Ernesto, vale mille volte quel pezzo di stoffa che nelle loro mani è fatto della filigrana dorata del mantello dei beati.
-

Hilda4 ha i capelli neri come l'ossidiana, così neri che riflettono di blu, e un neo in alto sulla guancia destra - quando sorride, i denti bianchi sembrano panna sul caffè della sua carnagione. Ernesto non sa precisamente cosa lo spinga nella sua direzione - forse una folata di vento, forse l'odore del sigaro che le impregna i vesti - Hilda adora gli H. Upmann. Anch'io!, esclama lui stupidamente. Lei sorride e basta, e i suoi denti bianchi, grandi, le illuminano tutto il volto.
Ma come tutte le cose belle - come l'infanzia in Argentina, come i tempi senza crucci - anche il sorriso di Hilda appassisce. Ernesto è a El Salvador, quando Armas5 inizia il colpo di stato. Ha lasciato Arbenz6 ottimista, mentre aspettava i rifornimenti cecoslovacchi. E sono arrivati - la ciminiera della nave fumante e sbeccata di nero - ma non bastano, perché Armas ha gli aerei, non bastano perché stanno conquistando iarda dopo iarda e quando Ernesto torna, Arbenz non è più fiducioso.
Ha uno spruzzo di neve sulle tempie che prima non aveva mai notato così tanto, la bocca molle, piegata verso il basso, la barba a chiazze e la pelle ingiallita - sembra un cadavere di quello che era prima, lo spettro dell'amico di un tempo, l'ombra disciolta nell'acido del riformista che tanto ci aveva sperato, nel Guatemala.
«Resto come volontario» assicura.
Non c'è neanche da pensarci, in fondo - Ernesto sa per cosa bisogna lottare, sa quali sono i suoi principi e sa che coincidono con quelli di Arbenz. Sa cosa è giusto per il Guatemala - cosa è giusto per quella gente con la quale ha bevuto, ha mangiato, quelli a cui ha stretto le mani e che ha baciato sulla fronte come vecchi amici, tutte quelle persone che li guardavano con occhi fiduciosi.
Ma quando l'altro alza gli occhi e li punta nei suoi, nota subito le sue iridi pungenti come spilli non hanno avuto le stesse ripercussioni del suo corpo: non c'è traccia di decadenza o debolezza nello sguardo che gli lancia.
«Hai la cittadinanza estera. Torna a casa, Ernesto»
«Ma, che, Jacobo questo non è-»
«Torna a casa»
Non è più il consiglio di un amico - con le ultime tracce di fermezza a fargli tremare i polsi, ciò che Jacobo Arbenz esclama è l'ordine di un comandante.
Lui farfuglia qualcos'altro di non definito, protesta, batte una mano sul tavolo, ma l'altro non risponde. Sembra chiuso nel suo mutismo come un riccio su sé stesso, sfoglia delle carte sugli ultimi, tragici aggiornamenti - la luce che prima l'aveva animato per un istante è di nuovo solo un ricordo, mentre la sua ancora pelle ingiallisce ed aggrinzisce a vista d'occhio.
Hilda è stata arrestata.7 L'ha saputo il giorno dopo, quando ormai era troppo tardi un po' per tutto - anche per riconsolidare la propria volontà e incollarne insieme i cocci. E allora ha preso le sue poche cose e se n'è andato, non ha salutato nessuno - di Arbenz, povera icona di una rivoluzione riformista in cui avevano creduto tutti o forse solo lui, gli rimane l'immagine delle mani scarnite mentre afferrano disperate la cartina del suo amato Guatemala, aggrappato ai suoi bordi come un cane che affoga.

-

Fidel Alejandro Castro, si chiama - per gli amici Fidel, gli suggerisce, ma Ernesto rimane in silenzio. Sono seduti ad un tavolo,8 un vecchio tavolo di quelli ai quali non fai mai caso, e infatti nessuno dei due lo nota, mentre ci appoggiano i bicchieri, ci appoggiano le mani, ci lasciano le diffidenze.
Fidel ha la barba che pare incolta ma non lo è - Ernesto lo conosce da pochi minuti, gliel'ha presentato Raul, fratello dello stesso, ma capisce che non potrà mai essere disorganizzato - è fuori dalla sua natura. Ha il colletto della camicia senza nemmeno una grinza, e una spilla rossa appuntata sul petto con precisione chirurgica - mio fratello, ah, mio fratello! aveva esclamato Raul poco prima, abbracciandolo con una sonora pacca sulla spalla. Ernesto aveva sentito parlare di un processo, di un carcere e di un'amnistia, di un esilio forzato e uno strano discorso di difesa,9 ma sopratutto del leader che avrebbe portato Cuba fuori dalle unghie sanguinolente di Batista - fino alla vittoria, sempre, si era ripromesso. Abbracciando il fratello, Fidel aveva il busto rigido, un sorriso quasi forzato - in fondo in fondo ai suoi occhi scuri, più neri del nero e ancora di più, non c'era niente, niente di comprensibile o di associabile - a Ernesto non piacque.
Parlano per tutta la notte, lui e Fidel. Parlano di Cuba e della povertà, delle dittature, degli Stati Uniti, parlano della fuga di uno e dell'esilio dell'altro - in tutto questo, anche mentre ricorda il carcere, Fidel negli occhi ha il nero assoluto. Ernesto prova a tirarci fuori qualcosa - qualsiasi pensiero, qualsiasi emozione - ma un muro di onice lo respinge con brutalità - forse è anche per questo che Fidel non ha paura di fissarlo dritto nelle iridi, sempre: sa che Ernesto i suoi, di occhi, non riuscirà mai a vederli davvero. L'unica cosa che brilla - l'unica cosa che l'altro lascia uscire - è un fuoco di sovversione, onnipresente, che brucia qualsiasi cosa sfiori.
Parlano per tutta la notte, e quando arriva la mattina Ernesto è convinto - è lui il capo rivoluzionario che cerca, il comandante, il soldato, Fidel. Raul aveva ragione - potrà anche non aver scorto nulla dell'uomo che è realmente, ma quel fuoco l'ha visto ed era vero e gli basta e gli avanza. Una notte, una sola notte, un fiume di parole e un vecchio, anonimo tavolo - Fidel è il primo ad uscire dalla porta, senza aspettarlo perché sa di averlo dietro, e il suo incedere è già quello di un generale.
 
-

Nel frattempo, Hilda è tornata dal Guatemala.10 L'hanno liberata a condizione che si trasferisse in Messico - Ernesto non può dire di essersi abituato alla sua assenza, ma nemmeno di essersi strutto nella sua attesa, e quando torna ha ancora il neo sulla guancia destra e quel sorriso pieno di luce e baciarla come prima è normale come respirare.
Un giorno le offre un H. Upmann e lei lo guarda un po' divertita e un po' titubante - Ernesto abbassa la mano, lentamente, la porta sopra il ginocchio e rimane a guadare prima lei e poi il sigaro, prima lei e poi il sigaro, senza sapere il perché. Hilda scuote la testa, piano - Ernesto ha già capito, probabilmente, ma si toglie il basco di testa con il fare di un vecchio stanco e se lo rigira e accartoccia tra le mani, senza guardarla. Dobbiamo sposarci, dice - ma non a lei, a sé stesso. Hilda questo non può saperlo e gli getta le braccia al collo, col suo sorriso bianco. Ernesto resta fermo, col basco in mano - la cenere del sigaro acceso e mai fumato gli scotta il polpaccio, ma non riesce a spazzarla via.
 
-

«Ernesto!»11
Intorno a lui la gente scappa e si rincorre e ci sono un sacco di spari e il fumo e il sangue, Dio, il sangue - corre in avanti e scivola su qualcosa, si riprende, svolta a destra, inciampa sulla mano di qualcuno.
Nico Lopez12 gli passa accanto, mentre stringe in mano una pistola e spara colpi in aria che lo assordano, tutti quanti urlano e lo spingono - inizia a girargli la testa, un soldato di Batista sviene accanto a lui - quando lo guarda i suoi occhi si inceppano e si rifiutano di razionalizzare, perché al posto del suo braccio sinistro c'è un grumo rosso e sangue, sangue dappertutto - scivola di nuovo sul fango molle.
«Ernesto!»
Gira in tondo due volte, cercando l'origine della voce che lo chiama, ma tutti gridano come porci - le sue dita stringono la presa sull'arma così convulsamente che si è spezzato le unghie, non sa dove finisce il suo indice e dove inizia il grilletto.
Un batistiano gli viene incontro urlando, brandendo qualcosa a due mani - un fucile, forse, un martello, un'ascia, qualsiasi cosa. Ernesto ha i riflessi di una lucertola e la pelle gelida allo stesso modo - prima sente il colpo, un rombo di cannone, lo schianto di un'automobile, poi lo vede arrivare a destinazione. Lo prende in fronte, pieno in fronte - il soldato lascia capitombolare l'arma che aveva in mano e la testa gli scatta indietro, poi comincia a cadere. C'è una goccia di sangue che gli scende lungo tutta la linea del naso, lenta come la marea - Ernesto segue quella linea come si segue il filo di Arianna, nella vaga speranza che lo porti via, fuori di lì, ma è solo sangue e magari anche gli ultimi pensieri di un uomo morente, sudore e il vago ricordo di una lacrima vermiglia.
«Ernesto, dannazione!»
Fidel l'ha preso per le spalle, le sue mani stringono come tenaglie incandescenti - Ernesto sobbalza. Il suo volto ce l'ha davanti: i soliti occhi neri - ancora più neri -, un brutto taglio sopra il sopracciglio sinistro che stilla sangue che si mischia col sudore e scende fino alla barba, giù fino alla mascella, giù sul collo, giù sulla-
«Ernesto, ascoltami- ascoltami!» gli grida in faccia, affannato «Dobbiamo ritirarci! Sulle montagne, Ernesto - dobbiamo andare via!»
«Io non-»
«Ernesto, perdio!»
Qualcun'altro ruzzola  accanto a lui con un gemito sofferente. Si guarda intorno e c'è solo fumo, grida e rosso.
Via.
«Dove andiamo?»
Fidel annuisce - deve fare il capo, adesso, e il capo gli riesce bene. Corrono in mezzo alle sterpaglie, mentre dietro di loro si sbranano come lupi; davanti, invece, le vette della Sierra Maestra rilucono azzurre nel cielo del mattino - eppure per Ernesto, per i suoi occhi spenti, sono coperte di viscere e frattaglie.
 
-

L'Avana è una corona d'alloro, un cesto di fiori, è l'odore delle estati argentine che, non sa come, gli riempie di nuovo le narici, l'olio della Poderosa II, i chilometri a piedi, sotto il sole - i colpi sparati, il rinculo della pistola, il tuono nelle orecchie e la polvere negli occhi e sui piedi e sulle mani.
Non ce n'è più di polvere, adesso - Fidel entra trionfalmente nella cittadina ed Ernesto è subito dietro di lui, e la prima cosa che vede è il colletto immacolato del compagno, bianco come immerso nella varichina, sterile, un osso sbiancato dal sole. I suoi denti, quando sorride, sono dello stesso colore, e rilucono sulla barba tagliata con precisione millimetrica - non c'è più polvere, adesso, né sui vestiti né sulle mani né tantomeno negli occhi, e Fidel l'ha già dimenticata, ma Ernesto no.
L'Avana è la coppa d'oro dei vincitori - Ernesto la stringe tra le mani, la rimira con l'amore riservato ad una figlia, ma l'ha appena raggiunta e sa già che non è finita. Guarda in faccia i volti ridenti di tutti quei cubani, e non riesce a non pensare a quanti altri - stranieri e fratelli come loro - con quella polvere lasciata indietro ci si riempiono la bocca per soffocare i singhiozzi.

-

Il montone sa di stoppa e le patate sembrano fatte di carta13 - gli si stropicciano in bocca e gli asciugano la lingua, ma si obbliga a mangiarle. Le butta giù, una dopo l'altra, le mastica per troppo tempo finché non ne resta praticamente più nulla, e poi ingoia - è il metodico ripetersi di azioni di una mente di ovatta.
Gli chiedono se ha finito - Ernesto guarda il piatto e si rende conto che non c'è più niente, dentro, solo qualche osso di montone ripulito fino all'ultimo straccio di carne. Risponde di sì, che ha finito - lo prendono per le braccia e lo portano alla sua croce.
Quando vede il fucile, Ernesto non ha paura - «Non si preoccupi» dice al suo assassino, che ha le mani di foglie accartocciate e la bocca di brividi gelidi, «sta solo per uccidere un uomo».14
Ernesto ne ha visti troppi, di fucili, per aver paura, e ne ha visti troppi di assassini per non capire chi lo è e chi no: quel giovane ubriaco ha gli occhi lucidi, e non per l'alcool - non lo incolpa, non ci riesce.
Nella bocca sente ancora il sapore delle labbra di Aleida15, nelle orecchie il rombo della moto - tra le mani, invisibile e sdrucito, il calzino di Donna Nina gli solletica le dita. Si guarda intorno e non vede altro che polvere - tutti quegli occhi neri e quelle occhiaie gonfie che lo puntano, tutti quei capelli ricoperti di granelli grigi - ma lui è pulito. Lui non è polvere - lui è storia, come nessun'altro in quella stanza - lui è tutto quello che può pretendere di essere un uomo prima di morire.
Si guarda le vene dei polsi, azzurre come le vette gelide delle montagne - le mani tremano un po', giusto un po', ma non ha paura.
Fino alla vittoria, sempre. La patria...
Il ragazzo impugna l'arma, trema come uno scacciasogni sotto il vento di giugno - chiudi gli occhi, si dice, chiudi gli occhi e non contare.
Arriva fino a tre.
O la morte.






























Ernesto era un grande appassionato di poesie di Neruda, e anche di scacchi - e di fotografia.
Pur soffrendo d'asma, Ernesto era molto bravo a calcio e adorava giocare.
L'episodio è raccontato ne Diari della Motocicletta. Ho provato a ricercare la pagina precisa ma non l'ho - purtroppo - trovata.
Hilda Gadea, prima moglie di Ernesto, fu un'economista peruviana. Si conobbero in Guatemala sotto il governo di Arbenz e si separarono nel '59, così che Guevara potesse sposare Aleida March.
Rigido oppositore delle tendenze progressiste che connotavano il Guatemala a cavallo tra gli anni quaranta e cinquanta,
 organizzò un colpo di stato contro Jacobo Arbenz, sostenuto dagli Stati Uniti.
6 Fu un presidente riformista, democraticamente eletto, dal 1951 al 1954, quando fu sostituito, con un colpo di stato organizzato dalla CIA, dalla dittatua di Armas. Che Guevara combatté al suo fianco finché non gli fu ordinato di andarsene, sapendo che la guerra sarebbe stata persa. Fu quindi esiliato in Messico, dove successivamente conobbe Raul Castro e di conseguenza Fidel.
 Fu imprigionata per poche settimane, e poi liberata alla condizione di trasferirsi in Messico, dove si rincontrerà con Guevara.
Fidel e Ernesto parlarono per tutta la notte, e il mattino Ernesto si convinse che era il leader rivoluzionario che cercava e aderì al Movimento del 26 Luglio. L'interpretazione che ho dato a Fidel è, ovviamente, tutta personale.
Il fallito tentativo di Fidel contro il regime, la sua incarcerazione, il suo famoso discorso La storia mi assolverà, e l'amnistia grazie alla quale viene esiliato in Messico e conosce Ernesto. Tornerà a Cuba clandestinamente a bordo della Granma, con altri guerriglieri.
10 Anche questa è una personale interpretazione, ovviamente, ma considerato il vicino divorzio mi è sembrata piuttosto plausibile. Hilda e Ernesto avranno una figlia, comunque:  Hilda Beatriz Guevara Gadea.
11 Sbarco della Granma: un vero disastro. Morirono tutti, sorpresi dalle truppe di Batista, tranne dodici, tra cui Fidel ed Ernesto, che si rifugiarono sulla Sierra Maestra per riorganizzare la resistenza.
12 Nico Lopez, amico di Che Guevara dai tempi del Guatemala e colui che lo aveva presentato a Raul, morirà nel suddetto attacco.
13 L'ultimo pasto del Che fu montone con patate. Venne catturato mentre, lasciato il suo incarico politico a Cuba, era andato a diffondere la rivoluzione in Bolivia. 
14 Frase realmente pronunciata, secondo alcune fonti. 
15 Aleida March, seconda moglie di Ernesto, rivoluzionaria e politica cubana. I due ebbero quattro bambini.





 
  
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