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Autore: GreedFan    15/06/2015    1 recensioni
"Finché, ad un tratto, non si era stancato. Era stata la pioggia dell'Autunno, forse, il venticello freddo che soffiava sulla banchina e obbligava i turisti a rintanarsi, scontrosi, nei baveri delle giacche. Le loro gambe affannate, veloci, migliaia di zampe d'insetti che si abbattevano a terra col suono di passi pesanti e rimbombavano e passavano e sparivano da qualche parte nella frenesia grigia. Si chiedeva dove avesse tanta fretta di andare, quella cosa palpitante e mostruosa.
A rincorrere il tempo, forse, o la scimmia ridicola di un'aspirazione."

Un inno un po' grigio alle stazioni del treno, all'inesorabilità del tempo che passa.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Torno dopo un anno in cui mi è successo praticamente di tutto - dai problemi di salute alla maturità, che affronterò fra un paio di giorni con lo stesso animo dei soldati italiani a Caporetto - per pubblicare una storia che sono certa non verrà cagata. Non lo dico per indurre recensioni, ma perché anni di esperienza su EFP mi hanno insegnato che un determinato tipo di one-shot attira veramente pochi lettori.

Ai quattro gatti che leggeranno - o che, addirittura, apprezzeranno - vanno tutti i miei ringraziamenti. Sto virando da qualche altra parte con il mio modo di scrivere, e non so dove sto andando.

La shot non ha una vera e propria trama, è più che altro un'espressione del mio mood nell'ultimo annetto e un inno alla bellezza decadente della stazione di Roma Termini (e di tutte le stazioni malandate d'Italia).

Efp mi era mancato, devo dire :)

Greed








The Dead Flag Blues


The sun has fallen down

And the billboards are all leering

And the flags are all dead at the top of their poles


Aveva membra sottili come origami di carne.

La sua pelle - linfatica, la consistenza debole delle illusioni - somigliava ad un petalo che si fosse dischiuso in un angolo buio per marcire lì, dimenticato, lontano dal sole e dalla vita. Pensava di poterla spezzare con un tocco soltanto, il contatto puerile di una mano sul viso stanco, afflosciato, vuoto. E lei non si sarebbe opposta a quel contatto - oh, ne avvertiva troppo il bisogno per farlo - e forse avrebbe soltanto piegato la testa da un lato com'era solita fare, quella testa di neonata troppo cresciuta sul collo corto e tozzo, accogliendo il suo gesto con un assenso privo di partecipazione.

«Ma tu chi sei?» le aveva chiesto, un giorno, quando il Sole batteva impietoso sulla banchina della stazione e lei era impegnata a buttare via ciò che delle sue poche scorte di cibo si era rovinato. S'era costruita una dispensa curiosa, nella nicchia sulla sommità di un pilastro scuro, mentre la panca di pietra poco più sotto era il suo letto e tutto ciò che restava della sua casa. L'Agosto romano, a stazione Termini, riempiva l'aria di vita febbrile.

Quella volta lei aveva sollevato un po' la testa dal suo lavorio, uno sguardo dubbioso negli occhi infossati, e: «Sveta» aveva detto, «Sveta e basta».

Da dove venisse o cosa avesse fatto prima di campare sulla banchina dei binari 17-19, lui non lo sapeva. Non gli interessava saperlo, in fondo.

Aveva immaginato per lei innumerevoli passati, il suo corpo bolso e sgraziato in abiti che probabilmente Sveta non aveva e non avrebbe mai indossato. Aveva pensato a lei come una madre di famiglia, un'ex operaia in qualche fabbrica dell'Est europeo, una criminale in fuga dal mondo. La speculazione sembrava possedere un gusto prezioso, inesauribile.

Finché, ad un tratto, non si era stancato. Era stata la pioggia dell'Autunno, forse, il venticello freddo che soffiava sulla banchina e obbligava i turisti a rintanarsi, scontrosi, nei baveri delle giacche. Le loro gambe affannate, veloci, migliaia di zampe d'insetti che si abbattevano a terra col suono di passi pesanti e rimbombavano e passavano e sparivano da qualche parte nella frenesia grigia. Si chiedeva dove avesse tanta fretta di andare, quella cosa palpitante e mostruosa.

A rincorrere il tempo, forse, o la scimmia ridicola di un'aspirazione.

«Tu ce l'hai mai avuto, un sogno?».

Sveta lo fissò, colpita da quella domanda fuori contesto, e per un attimo lui si chiese se non sarebbe stato più giusto un "ma tu ce l'hai mai avuta, una giovinezza?". I sogni erano appannaggio dei giovani, di ragazzini riempiti con i fantasmi delle speranze di una generazione che aveva smesso di credere; Sveta, con le spalle curve e la tuta di pile costellata di bruciature di sigaretta, non sembrava aver mai attraversato quella fase della vita.

«Un sogno?» ci pensò un po', dubbiosa «Volevo una bella casa, da piccola. Una casa grande dove poter vivere con la mia famiglia, in un posto pieno di verde». Accarezzò con lo sguardo il pavimento bigio della stazione, le rotaie che si perdevano nella lontananza - inghiottite, sembrava, dalla foschia grigiastra di quel preludio d'Autunno. Qualche filo di verde, quasi invisibile, spuntava di tanto in tanto tra le traversine.

«Immagino,» la voce di Sveta si fece più sommessa, monocorde «che uno sia destinato a vivere di rimpianti, oltre una certa età. Soprattutto quelli come noi».

«Rimpianti?» lui scrollò le spalle, l'ombra di un sorriso sarcastico «E che cosa sono, i rimpianti? Essere consapevole di quello che non hai fatto e avere paura di quello che puoi ancora fare? Una cosa del genere non dovrebbe nemmeno esistere, Sveta».

«Se non avessi dei rimpianti sarei una stupida» rispose, e nella sua voce vibrò una nota di pianto «Quand'ero giovane potevo fare tante cose, tante scelte, e ho preso tutte le strade sbagliate. Se potessi tornare indietro non lascerei niente così com'è stato».

A lui i discorsi di quel genere non erano mai piaciuti. Si accese una sigaretta e fumò in silenzio per un po', cercando di trovare una risposta che non fosse troppo caustica - fu comunque più brusco del dovuto, quando si decise a parlare.

«La maggior parte delle volte rimpiangiamo di aver fatto un uso sbagliato della nostra libertà. La verità, però, è che quella libertà non esiste. Te la vendono come una prerogativa del tuo essere un membro della società civile, una specie di diritto naturale, ma non è così» il mozzicone della sigaretta stava bruciando fin quasi al filtro, scottandogli un po' le dita «Pensaci, Sveta: potresti essere una rondine, capace di volare sui tetti di questa stazione e sparire da qualche parte nell'infinito, o un pesce nel mare senza fine, e anche allora non saresti libera. Potresti essere pioggia, e come pioggia cadere da altezze infinite e perderti qui, sulla terra, rigare le facciate grigie di questa stazione e morire tra l'asfalto e la miseria umana e i vicoli sporchi e il fango. Nemmeno la pioggia può scegliere se trasformarsi in fango o meno, Sveta. Figurati se possiamo noi».

Spense il mozzicone sulla panca, accanto a sé, e attese.

«Ma io potevo cambiare le cose» obiettò lei, un'espressione ostinata sul viso largo «Ricca, ricca non sarei stata mai. Ma felice, forse. Non...» descrisse con un gesto ampio della mano i suoi pochi averi, sparpagliati disordinatamente in poco più di un metro di spazio «... non così».

«E perché parli al passato? Perché dici che "potevi"? Tu non sei ad un passo dalla morte, Sveta, con una pallottola in corpo o stesa su un letto d'ospedale a lottare per qualche respiro in più. Sei sana, hai davanti a te decine di anni che aspettano soltanto di essere vissuti. E lo so,» non riusciva, nonostante tutta la sua pretesa indifferenza, a non accalorarsi «lo so che non hai più le energie di quando avevi diciotto anni e ogni scelta sbagliata sapevi di poterla risolvere. Lo so che fare un passo ora ti pesa più che farne cento a quell'età. Ma questa vita che hai non è e non sarai mai così orribile da non meritarsi un secondo, un terzo e un quarto tentativo».

Gli era capitato spesso di dormire per strada, sotto le stelle, e di fermarsi a pensare che quella sarebbe stata l'ultima volta, che il freddo e la fame gli avrebbero strappato via l'anima. Aveva visto il suo corpo vuoto, un sacco di carne gelida senza più calore né significato, e aveva pianto - perché poteva essere crudele, quella vita, crudele e matrigna e piena di dolore e scelte sbagliate, ma non riusciva a smettere di amarla. Di amare il suo tessuto complesso, ineffabile e palpitante, dove anche lo svegliarsi a pochi metri dai binari di una ferrovia poteva essere qualcosa di cui ritenersi felici.

Anche quando tutto il resto fosse divenuto amaro, avrebbe potuto alzare lo sguardo e guardare la luna, le profondità enormemente lontane del mondo siderale, guardare le nuvole. Non c'erano rimpianti così grandi da portargli via quell'intima gioia.

«E non parlarmi di fine, Sveta» aggiunse, come presentendo quale sarebbe stata l'argomentazione successiva della donna «Non puoi dirmi che esiste una cosa del genere, quando ti svegli qui dentro ogni giorno».

Pochi metri davanti a lui, il capolinea del binario diciassette si stava scurendo sotto la carezza di una pioggia gentile, silenziosa. Era un luogo misterioso, quello, una fine che era anche un inizio e un arrivo che era anche una partenza.

«Come fai a dire che non esiste la libertà e a chiedermi che devo impegnarmi per qualcosa? Che senso ha impegnarsi se non si può scegliere?»

«Pensa a Michelangelo» esclamò, confidando che Sveta conoscesse un nome tanto famoso «era un pittore incredibile, forse il più grande del mondo. Ha fatto quel dipinto grande, quel "giudizio", quello con lo sfondo blu che vendono sempre sulle cartoline. Be', delle sue più grandi opere gli veniva commissionato il soggetto... non poteva sceglierlo, non poteva decidere. L'unica cosa su cui aveva potere era l'impegno che avrebbe messo nella realizzazione del dipinto, se buttarci dentro tutta la sua anima o limitarsi ad una cosa mediocre, scontata».

Sveta annuì, gli occhi ancora freddi.

«E noi facciamo la stessa cosa, anche se non saremo mai capaci di dipingere il Giudizio. Possiamo scegliere se spendere tutte le nostre energie, tutta la nostra anima in un'esistenza che comunque saranno forze più grandi di noi a controllare. Oppure possiamo arrenderci...» sospirò, mentre la pioggia si faceva più fitta e il mondo sfumava in quella falsa lontananza «... e aspettare per tutta la vita un treno che non abbiamo il coraggio di prendere. Prima o poi dovremo scendere dalla banchina».

«Sai,» fece lei, dopo qualche istante trascorso a fissare la pioggia «i ragazzi sono sempre troppo precipitosi nel prendere decisioni, nel fare condanne. Quando sei giovane non hai mai tempo per fermarti ad apprezzare quello che hai, anche le cose più stupide, e vuoi solo di più. E quando non lo ottieni ti scoraggi subito, ti arrendi, ti butti sulla prima cosa che capita. Forse è per questo che non riesci ad impegnarti fino in fondo... perché non sai di poterlo fare».

Sorrise, una smorfia amara.

Lui annuì e si tirò in piedi lentamente, barcollando un po' per le giunture irrigidite dal freddo. Si chiese, percependo lo scricchiolio delle articolazioni arrugginite, fino a che punto potesse ricominciare ancora, combattere ancora. Fino a che punto sarebbe riuscito a non lasciarsi abbattere dal passato.

Lui, però, credeva di aver capito. Ce l'aveva stretta nel pugno ruvido, la risposta: non avrebbe mai messo un punto alla sua vita, mai scritto la parola "fine" in calce a quel racconto che sentiva ancora ai principi del suo divenire. Ogni passo che faceva, ogni sguardo, ogni odore, ogni voce, ogni cielo, ogni viso non erano che nuovi inizi, mille nuove possibili vite che si spalancavano davanti a lui. Non era mai troppo tardi.

Non era mai troppo presto per cedere al rimpianto.

Zoppicò lontano dal binario diciassette, lontano dalla sagoma triste di Sveta. Respirò la brezza fredda dell'autunno, il suo sospiro carico di pioggia.

Da qualche parte, l'altoparlante della stazione annunciò un treno in partenza per chissà dove.

Era lì che stava andando.


   
 
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