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Autore: northernlight    18/06/2015    2 recensioni
Avrebbe dovuto prevederlo, anche lui aveva cambiato umore con lo scorrere della giornata. Ripensò a quella volta in cui una ragazza con cui usciva l’aveva paragonato al meteo londinese: imprevedibile, fastidioso e stronzo.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alex Turner, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The girl in the dirty
shirt.
 



Era uscito di casa da poco, la solita pioggerellina londinese iniziava ad allagargli lentamente la schiena, infilandosi rapidamente tra il maglioncino bordeaux e la pelle calda e nuda. Iniziava a sentire il freddo nelle ossa nonostante la giacca nera impermeabile. Si strinse nelle spalle, si sistemò la chitarra fortunatamente riposta nella custodia di plastica rigida. Alex scosse la testa appesantita dall’acqua, le minuscole goccioline di pioggia imbrigliate nei capelli si sparsero ovunque attorno a lui e si persero assieme alle altre. Sbuffò infastidito, pensando al fatto che quella mattina c’era un sole terribile e che aveva deciso che sarebbe andato al parco a suonare un po’ dopo pranzo ma, ovviamente, il tempo non era d’accordo con lui. Avrebbe dovuto prevederlo, anche lui aveva cambiato umore con lo scorrere della giornata. Ripensò a quella volta in cui una ragazza con cui usciva l’aveva paragonato al meteo londinese: imprevedibile, fastidioso e stronzo. Avevano quindici anni. Sorrise pensando che forse era davvero così; anche Matt gli diceva spesso che col tempo di Londra cambiava anche lui, quando erano in patria. Pensare a Matt gli ricordò che voleva provare delle nuove canzoni ma non poteva andare al parco e non aveva voglia di tornare a casa. Camminando sotto quei pochi ripari che trovava, tra balconate e tendoni di locali aperti da poco, diede un’occhiata all’orologio. Erano le 17:40 di un martedì primaverile, troppo tardi per una bella tazza di tè fumante e troppo presto per una birra ghiacciata. Si guardò attorno: un ristorante ancora chiuso, un negozio di elettronica, un parrucchiere con le luci spente. Niente di interessante, in una zona variopinta e multietnica come poteva essere Shoreditch. Pigramente si spostò ancora di qualche metro, rifugiandosi sotto la pensilina di una fermata di autobus; il suo sguardo cadde verso una luminosa e traballante insegna al neon azzurrino pallido che recitava ‘The Owl’ ed era un pub. La luce all’interno era accesa, non c’era nessun cartellino che indicasse se fosse aperto o meno quindi decise di fare un tentativo.

Gli inglesi non negherebbero una tazza di tè a nessuno’ pensò Alex speranzoso più che fermamente convinto. Guardando diligentemente la direzione da cui provenivano le macchine e facendo attenzione a non farsi investire da qualcuno, attraversò la strada per scoprire – con sua enorme gioia – che il locale era aperto. L’interno era buio dovuto al legno scuro del rivestimento delle pareti, un po’ polveroso forse ma asciutto e caldo e ad Alex bastava quello per il momento. L’unica fonte di luce era una fila di lampade pendenti dal soffitto che illuminavano un bancone stracolmo di bicchieri e una ragazza minuta che li puliva e li riponeva su uno scaffale alle sue spalle. La ragazza sembrava non averlo visto minimamente.

“Hey?” esordì Alex con voce titubante “ehm, ciao. Siete aperti? Perché i-io avrei bisogno…”
La voce gli morì in gola quando si accorse che la ragazza continuava a ignorarlo. Si avvicinò ancora un po’, ma lei teneva la testa bassa quindi ancora non l’aveva visto. Si avvicinò ancora, notò che indossava una maglia bianca sporca e sopra un grembiule verde col nome del locale e la targhetta col suo nome ma era ancora lontano per poterlo leggere chiaramente.

“Hey” ripeté Alex ancora, questa volta muovendo una mano davanti al viso della ragazza.

“Cristo!” sbraitò lei lasciando cadere il bicchiere che stava pulendo. Alex, terrorizzato più dal fatto che lei potesse spaccargli un bicchiere in testa, indietreggiò fino ad urtare alcuni tavolini dietro di sé. La ragazza scostò i capelli per togliersi gli auricolari che, evidentemente, le pompavano nelle orecchie della musica a volume altissimo.
“Sei impazzito?!” chiese lei poggiandosi una mano sul petto, il respiro accelerato a causa dello spavento.

“Ah, io? Non sono io che sono solo ascoltando musica a tutto volume alla mercé del primo psicopatico che entra in questo postaccio, ehm… Lyla” disse strizzando gli occhi per leggere il nome sulla targhetta al petto della ragazza, impettito più che mai.
“N-non che io sia uno psicopatico però, ecco” proseguì lui poco dopo.

“Ah beh, grazie per la rassicurazione… e comunque, siamo chiusi.”

“Il cartello lì davanti dice il contrario” la contrariò lui indicando l’ingresso.

“Ma che bravo ragazzo. Mi sembri uno di quei tipi che hai la fortuna di trovarti davanti in macchina il lunedì mattina quando sei in ritardo, uno di quelli che si beccano orde di clacson perché ci sono i cartelli che dicono di andare a 50km/h e lui rispetta la legge” sbottò la ragazza incrociando le braccia. Alex scosse la testa, i capelli ancora bagnati per metà.

“Non ho la macchina. Non ho nemmeno la patente se è per questo” disse Alex, fissandosi i piedi. Per lui era quasi motivo di vergogna visto che tra tutti i suoi amici era l’unico rimasto a piedi. Ma che poteva farci se preferiva le moto o le sue stesse gambe?

“E vedo che non sei abituato nemmeno ai mezzi pubblici” precisò lei “comunque, cosa vuoi? ”

“Oh” mormorò Alex deluso “niente, piove.”

“Quindi?”

“Quindi poco fa non pioveva. Sono qui da poco e sono uscito perché volevo andare a suonare al parco ma adesso non mi sembra più il caso e cercavo un posto dove prendere una tazza di tè e sono finito qui.”
Lyla lo guardò mentre continua a sproloquiare sul perché era a Londra dopo un sacco di tempo in giro per il mondo, riguardava un qualcosa con qualche band che aveva con qualche suo amico di infanzia. La ragazza smise di ascoltare, chinandosi per raccogliere i pezzi di vetro sul pavimento, concentrata più sul non tagliarsi le mani che sulla persona che le parlava. Quando si rialzò, inaspettatamente trovò quello strambo ragazzo in silenzio che la fissava senza dire una parola. Trasalì e per poco i cocci del bicchiere non le caddero nuovamente: aveva lo sguardo triste, gli occhi lucidi e Lyla si chiese se stesse per mettersi a piangere da un momento all’altro; si ritrovò a chiedersi se lui fosse consapevole dell’enormità dei suoi occhi in quel momento. Ripose rapidamente i resti del bicchiere rotto e sospirò.

Dopotutto non mi sembra così feroce’ pensò la ragazza squadrandolo da testa a piedi ‘se mi aggredisse, calcolando l’angolo giusto potrei spacca-…

“Okay, scusa per l’infarto. Io vado.”
Alex interruppe i pensieri della ragazza e fece dietro front verso la porta. Lyla scosse la testa, sbuffando.

“Dai, siediti, almeno la smetti di allagarmi il pavimento.”

“Davvero?”

“Se me lo chiedi di nuovo per te il locale sarà chiuso per sempre” gli urlò dietro la ragazza andando nel retrobottega.

“Okay, sediamoci” sussurrò Alex voltandosi a scegliere un tavolo. Data la vasta gamma di opzioni, scelse l’unico posto illuminato debolmente da un lampadario pendente dal soffitto, accanto alla vetrina del bar. Si tolse la giacca fradicia, passò la mano tra i capelli cercando di strizzarli un po’ e tirò fuori la chitarra dalla custodia. Aveva una canzone in mente ma non sapeva precisamente gli accordi perciò cercò di ricostruirli ad orecchio, come faceva quand’era piccolo. Ridacchiò soddisfatto tra sé e sé perché sembrava essere sulla strada giusta. Passarono una decina di minuti prima che Alex si accorgesse che Lyla, a braccia conserte, era poggiata al tavolo davanti al suo e lo guardava. Dopo averle sorriso tornò ad occuparsi di ciò che aveva tra le mani.

“Sono andata ad accendere il calorifero, così ti asciughi” lo informò Lyla “comunque, sul serio? Grazie per il tributo, ma non mi chiamo così per quella, sennò dovrei avere quanti? Due anni?”

“Tre” precisò Alex senza distogliere gli occhi e le mani dalle corde della sua chitarra.

“Ho questo nome perché a mio padre piaceva Superman e c’è un personaggio che si chiama così” spiegò Lyla dopo qualche attimo di silenzio.

“Beh, se fossi nata nel periodo giusto, poteva andarti peggio. Potevi chiamarti Sally come mille altre bambine.”
Alex si tastò le tasche in cerca del plettro, i polpastrelli ancora umidicci non gli permettevano di suonare come voleva.

“Mia sorella dodicenne si chiama Sally” rispose Lyla glaciale. Alex smise di rovistare nelle sue tasche, fece un rapido calcolo e alzò lo sguardo, mortificato.

“Oh, io… io…” provò a giustificarsi il ragazzo ma Lyla scoppiò a ridere così forte da farlo sobbalzare dallo spavento. Alex la guardò incerto sul da farsi, aspettando che lei aprisse bocca.

“Scherzavo, non ho nessuna sorella. Ti sembro tipo da averne una? Probabilmente la ucciderei mentre dorme” spiegò asciugandosi le lacrime “però ne è valsa la pena, la tua faccia era impagabile.”
Alex rimase un attimo in silenzio, finalmente recuperò il plettro che gli serviva e la guardò serio.

“Io ho quattro sorelle, sono molto importanti per me” affermò. Lyla ridacchiò, poi notò la serietà sul volto di Alex e capì che probabilmente non la stava prendendo in giro.

“N-non ci credo.”

“Lucy, Eleanor, Michelle, Julia, e me, Alex… ” elencò il ragazzo.

“Ah beh…” mormorò Lyla in evidente imbarazzo per la prontezza con cui aveva sciorinato i nomi delle sue sorelle.

“… e anche l’unico ad avere un non inventatissimo nome preso a caso da delle canzoni dei Beatles” continuò lui poco dopo, sorridendo alla ragazza mentre provava l’intro della canzone che stava ricostruendo nella sua testa. Lyla annaspò, fregata dalla sua stessa trappola. L’allievo che supera il maestro. La ragazza si alzò dal tavolo dov’era poggiata, impettita, e si voltò per tornare dietro al bancone.

“Ah, cosa ti porto?” chiese lei stizzita.

“Uhm, un tè caldo va più che bene” decise Alex “qualsiasi gusto, purché sia nero.”
Lyla si allontanò lasciando Alex da solo. In pieno cliché inglese, il ragazzo sospirò guardando la pioggia battente sull’unica vetrina del negozio: il via vai della City non sembrava minimamente intaccato dall’acqua scrosciante, mentre lui sì e, come un banale turista, era stato costretto a rifugiarsi al chiuso. Non era più abituato a quella che era casa sua. Era la solita solfa: non vedeva l’ora di tornare a casa sua – se non poteva tornare a Sheffield almeno poteva definire casa il suo primo appartamento a Londra – ma quando poi era lì non riusciva a dormire, si girava e rigirava tra lenzuola che sapevano di lavanda e non di detersivi chimici di chissà quale albergo in chissà quale parte del mondo o di erba, come i letti del loro tour bus. Sospirò triste, distolse lo sguardo dal rosso sfocato di un autobus fermo proprio lì davanti e riprese a suonare. Lyla tornò poco dopo, tra le mani un vassoio con sopra una tazza nera da caffè e una teiera bianca.

“Ho preso una tazza del personale, spero non ci siano problemi per te”  disse la ragazza posando tutto sul tavolo “non abbiamo tazze per i clienti.”

“Va benissimo, non c’è problema.”

“Latte o limone?”

“Dipende dal tipo di tè. Cosa mi hai portato?”

“Un breakfast” lo informò Lyla “a meno che tu non voglia un infuso al mandarino.”

“No, per carità” rispose Alex rabbrividendo, lui che riteneva il tè quotidiano – più di uno al giorno, a dire il vero – uno dei rituali più sacri del mondo “né latte e né limone allora, grazie!”

“Quanto zucchero?”

“Lyla, posso farlo da solo, pare che io le mani le abbia ancora. Perché non ti unisci a me?” le chiese Alex togliendole la zuccheriera dalle mani prima che si offrisse anche di tenergli il mento per farglielo bere. Lyla non rispose, andò nuovamente nel retro del locale probabilmente a recuperare una tazza anche per sé. Tenendo la chitarra in grembo, Alex zuccherò il suo tè e attese che si raffreddasse un po’; sorrise alla ragazza quando quest’ultima ricomparve e si trascinò di fronte a lui spostando rumorosamente una sedia per accomodarsi. Rimasero in silenzio per un po’, i pensieri accompagnati solo dal lento tintinnare del cucchiaio nella tazza della ragazza.

“Dunque, prima mi parlavi di una band quando cercavi di giustificare il tuo essere un potenziale serial killer” chiese Lyla pacata, le mani intrecciate davanti al viso. La ragazza era estremamente irritata dal fatto che lui continuava a fissare le sue stesse mani arpeggiare sulle corde della chitarra e che, da quando aveva fatto irruzione nel suo locale, l’aveva guardata direttamente due volte al massimo.

“Ah, sì…”
Alex si sentiva osservato perciò dedusse che una risposta monosillabica ed evasiva non era sufficiente per 

“Ah, sì…” ripeté lui “in realtà suono in più di una band m-ma sì, niente di che insomma.”

“Dai, fammi sentire qualcosa di vostro.”
Alex alzò finalmente lo sguardo sulla ragazza, le sorrise debolmente; bevve un sorso di tè, si schiarì la voce e iniziò coi primi accordi.

Well now then mardy bum, I’ve seen your frown…”
Si interruppe un attimo, nel punto in cui sbagliava sempre su quella canzone, e immediatamente si pentì di averla scelta ma era l’unica che gli era venuta in mente da poter fare in acustica su due piedi. In più si sentiva ancora osservato e sotto pressione, lo sguardo indagatore della ragazza puntato addosso.

“Ehm… non la suono da un po’” si giustificò Alex imbarazzato.

“Mmmh, se ricordo bene è un fa minore, poi un mi minore e…”

“Lyla” la interruppe Alex a metà tra l’essere stupito e terrorizzato “Lyla, tu come fai a saperlo?”
La ragazza fece spallucce però ad Alex importava saperlo, perché…

“Mi aspetto, a giudicare dal tuo sguardo terrorizzato, un repentino cambio di atteggiamento se esplicitassi il perché conosco degli accordi di una tua canzone perciò, non ti interessa” spiegò Lyla “puoi continuare a suonare se vuoi, stavi andando bene.”
Lei gli sorrise incoraggiante, ma Alex era abbastanza nervoso adesso e continuava a sbagliare tutto. Si fermò, boccheggiò un paio di volte nel tentativo di chiederle qualcosa; si rese conto di come potesse sembrare agli occhi di lei, e cioè un totale imbecille. Strinse gli occhi, guardandola, come a volerle leggere nella mente, come a voler capire cosa nascondeva davvero quello sguardo incoraggiante.

“Quindi sai chi sono?”

“Sì, Alex, un ragazzo entrato in questo posto dimenticato da Dio solo per farmi spazientire.”

“N-non intendo quello…” balbettò lui.

“Paura, Alex? Chi ti dice che io non abbia chiuso a chiave tutti gli accessi e non potessi più uscire?” rispose lei osservandosi le unghie con nonchalance.

“Non ho paura, cioè, di alcune ragazze ultimamente ho paura” rispose prontamente Alex “ma più che altro è per la figura di merda dell’aver sbagliato una mia canzone davanti ad una persona che sembra conoscerla meglio di me.”
Lyla non sapeva cosa rispondere, non voleva risultare saccente prima, quando gli ha suggerito gli accordi della canzone. Ma era la forza dell’abitudine, era una canzone che aveva provato spesso quando aveva iniziato a suonare l’acustica di suo padre da sola, chiusa in camera finché i polpastrelli perdevano di sensibilità. Lyla non sapeva cosa rispondere, non voleva risultare saccente e nemmeno spaventarlo, a dirla tutta, e non era molto brava a rassicurare le persone. La ragazza notò nuovamente lo sguardo da cane bastonato che aveva usato all’inizio di quella strana conoscenza.

“Non mollerai, vero?” sospirò rassegnata “e va bene! Sono anni che rubo la chitarra di mio padre per suonare, ho imparato da sola. Mi piace farlo, mi rilassa ma al momento non ho abbastanza soldi per comprarne una tutta mia. Contento? Comunque, se ti può consolare, quando sei entrato stavo per chiamare davvero la polizia perciò no, quando sei entrato non sapevo chi fossi.”
Alex non la guardava più, stava riponendo la chitarra nella custodia pensando al fatto che non gli aveva propriamente spiegato perché conosceva quella canzone, ma si rese conto di essere petulante persino per se stesso e quindi lasciò perdere.

“Spiacente, comunque” proseguì lei poco dopo “spero che questo non offenda il tuo ego.”

“Il mio ego sta benissimo, grazie tante” rispose Alex burbero. Odiava quando la gente parlava di lui in quei termini, odiava essere associato alla figura che si era creato con la band.

“In realtà” proseguì il cantante “è stato meglio così, tranquilla. Oggi sono uscito apposta per provare a recuperare quel po’ di me che ancora non è andato perso su palchi, in interviste e cose varie.”
Lyla si alzò per riporre la sua tazza vuota sul vassoio, poi la teiera, e la zuccheriera.

“Hai finito il tè?” chiese. Alex annuì. Si alzò anche lui per infilarsi la giacca, si stava facendo tardi.

“E ha funzionato?” continuò dopo aver seguito “il recuperare te stesso, intendo.”
Alex non rispose, si mise la chitarra in spalla e si avviò dietro di lei abbottonandosi la giacca.

“Può darsi, almeno ho imparato a suonare una bella canzone.”
Lyla scosse la testa, si rese conto in quel momento che comunque non era riuscita a cavare un ragno dal buco: le risposte evasive di quel tizio meritavano un Pulitzer per com’erano scritte. Si chiese se le pensava in anticipo, ma decise che non le importava molto. Lei, poi, lei che non parlava nemmeno con i suoi amici…

“Felice di essere stata utile allora.”
A quell’affermazione, Alex si rese conto di voler essere anche lui utile per lei, in qualche modo. In fondo si era anche seduta con lui a parlare e a fargli compagnia, esistevano ancora persone del genere? Si avviò per pagare il suo tè.

“Quanto ti devo per il tè?” chiese aprendo la tasca interna della giacca.

“Sai, prima mentre mi fissavi terrorizzato mi chiedevo se fossi scemo e sì, sei proprio scemo” rispose picchiettandosi un dito sul mento, fissandolo divertita. Alex scoppiò genuinamente a ridere.

“Poi sono io il tipo strano” mormorò tra sé e sé. Finì di chiudere la giacca e si avviò verso l’uscita.

“Bene, è stato un piacere, Lyla” disse “sei stata gentilissima, ti ringrazio.”

“Di nulla, Alex.”
Pochi secondi di silenzio.

“Hey, Alex?”
Il ragazzo si voltò verso il bancone per trovarci una Lyla con la mano così melodrammaticamente poggiata sulla fronte, in una posa teatrale degna di Broadway.

“Dimmi” chiese esasperato, ridendo già a quella visione.

“Ti rivedrò ancora, Alex?” squittì eccitata guardandolo in quella che Alex ritenne la migliore imitazione della reazione di una qualsiasi ragazzina davanti a lui.

“Buon dio, spero di no!” rispose ridendo. Sulla risatina acuta di lei uscì dal locale. Fece qualche passo nella stessa direzione da cui era arrivato prima quel pomeriggio e, nel passarsi la chitarra da una spalla all’altra, si rese conto che poteva sdebitarsi con quella curiosa ragazza. Tornò sui suoi passi, rientrando nel locale.

“Hey, Lyla?” chiamò dall’uscio, per fortuna la ragazza era ancora lì. Si voltò al suono del suo nome.

“Martedì prossimo siamo al The Square, uno studio di registrazione non molto lontano da qui. È ad Hoxton, non ricordo l’indirizzo preciso ma se lo cerchi da qualche parte lo trovi. Mi piacerebbe sdebitarmi e suonare quella canzone come si deve” comunicò tutto d’un fiato. Alex non notò la mano di Lyla perdere per poco, ancora una volta, la presa sul bicchiere che stava pulendo. Il ragazzo non aspettò risposta, le sorrise ed uscì rapidamente. Lyla rimase col bicchiere in mano a fissare il punto dove prima c’era Alex. Tornò alla realtà quando il telefono del locale squillò, pensando amaramente che il martedì successivo quell’impegno non avrebbe mai potuto rimandarlo.
  
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